Che cosa chiediamo a un Papa



Che cosa chiediamo a un Papa

La Civiltà cattolica ha di recente pubblicato un articolo di alto elogio dell’«eloquenza» del Papa, giustificandosi col dire che il Pontefice ama, nelle interviste e nei dialoghi, i discorsi «incompleti», che possano essere completati dall’interlocutore e che rifugge da «astrazioni incontrovertibili». Sembra dunque che il Papa, al dire dell’articolista, metta in second’ordine i discorsi «completi» contenuti nei suoi documenti scritti ed ufficiali, che non potrebbero essere completati. 

Viceversa, la più alta e specifica eloquenza di un Papa non si misura dai viaggi in aereo o dalle interviste con personaggi equivoci o malfamati, ma dal suo magistero ufficiale, nel quale svolge il ruolo di Pietro. E su questo punto non saremmo così entusiasti come l’ingenuo o furbo articolista. 

Francesco, al dire dell’articolista, tasta le posizioni dell’altro per poter poi sviluppare il suo discorso o per lasciare che lo sviluppi l’interlocutore. Per questo egli ricorda con simpatia i colloqui del Papa con Scalfari, che pure ha slealmente messo in giro la falsa notizia che il Papa nega l’esistenza dell’inferno e la divinità di Cristo. Ma l’articolista, pur riconoscendo le eresie di Scalfari, non sembra essere preoccupato più di tanto di quei fatti, perché essi testimonierebbero di questo gusto del Papa di avviare nell’interlocutore una libera reazione ed un «completamento». Ci si domanda in che cosa Scalfari completa i discorsi del Papa.

Ora, bisogna dire che noi cattolici e tutti coloro che s’interrogano e cercano verità, chiarezza e certezza circa i maggiori problemi e valori dell’esistenza, della vita e del destino dell’uomo, consapevoli della missione che Cristo ha dato a Pietro, non chiediamo affatto a Papa Francesco questo tipo di eloquenza, più adatto alle discussioni sulle piazze o nei bar, dove l’uno completa, contesta o modifica l’opinione dell’altro. 

Dialoghi di questo tipo sono certamente utili e simpatici, ma di condurre dialoghi di questo tipo siamo capacissimi da soli senza bisogno che il Papa si scomodi a stimolarli; invece, conoscendo qual è il suo compito affidatogli da Cristo, noi non chiediamo affatto a Papa Francesco questo tipo di eloquenza, dove l’incerto dà luogo all’incerto e il discutibile al discutibile, ma gli chiediamo di imitare la stessa eloquenza di Cristo, vanamente e falsamente citata dall’articolista, giacché essa non consisteva affatto nella richiesta di completare quello che diceva Lui, quasi si trattasse di discorsi imperfetti, bisognosi di un’integrazione o perfezionamento umani. 

Al contrario, noi chiediamo al Papa, in questo momento di confusione e contrasti radicali all’interno della Chiesa, un’eloquenza che ci aiuti a scoprire la verità e ad instaurare la pace fra le fazioni in lotta; gli chiediamo più che mai  di  illustrarci la parola di Cristo e di confermarci nella fede in essa con parole limpide, chiare, inequivocabili e coerenti. 

Le parole di un Papa devono spiegare le parole di Cristo, senza aver bisogno a loro volta di ulteriori spiegazioni. Invece purtroppo spesso le parole di Francesco si prestano, per la loro ambiguità, a interpretazioni opposte, senza che appaia chiaramente la verità, segno di mancanza di univocità. Se anche il chiarimento dev’essere chiarito, a che serve il chiarimento? Questa non è eloquenza, ma è principio di conflitti e di confusione. 

Un Papa deve risolvere i problemi di fede, teologici e morali e non crearne dei nuovi. Se no, è meglio che taccia. Questa è la migliore eloquenza: un bel tacer non fu mai scritto. Perchè i Papi santi del passato parlavano così poco pubblicamente? Proprio perché erano consapevoli della loro fragilità umana e sapevano bene che nel troppo parlare non manca il peccato (Gc 1,19). Allora i loro interventi possedevano autorevolezza, perché si trattava di argomenti veramente importanti. Ma il mescolare i temi più diversi e discutibili con quelli importanti, come fa questo Papa, fa sì che quando tratta di temi veramente importanti, quello che dice non sia considerato.

La comunicazione umana veramente fruttuosa è favorita non dalla quantità, ma dalla qualità delle parole. Come mai i Padri del deserto fanno ancora scuola? Perché sapevano che la parola di sapienza nasce e si esprime più nella sobrietà che nella loquacità. 

Inoltre, i santi Papi del passato sapevano che il loro compito specifico ed insostituibile non era quello di intervenire ad ogni pie’ sospinto, opportune et importune, in questioni di ordinaria pastorale, risolvibili da laici, politici, scienziati, moralisti, teologi o vescovi, col rischio di interferire in ambiti non di loro competenza, ma quello di indicare una risposta chiara, sicura e definitiva sulle questioni di morale o di dogmatica più difficili, diffuse, controverse e tormentose, così da indicare chiaramente e con certezza la via da seguire o la verità da tenere, escludendo gli errori contrari.

Se d’altra parte in Cristo troviamo la fragilità della parola umana, immersa nello spazio e nel tempo, ciò non toglie che Egli sia la Parola immutabile, eterna ed inviolabile del Padre. Altrimenti svanisce il mistero dell’Incarnazione e Cristo si riduce ad essere un povero essere umano come tutti gli altri, sballottato dai flutti della storia e smarrito nei meandri dell’ignoranza umana.

Certamente le parole di Cristo non sono discorsi «completi», nel senso che siano semplici cose, che, una volta capite e messe in pratica, tutto è finito e non c’è altro da fare o da capire, come l’indicazione di un indirizzo postale o la cosa da fare per accendere il motore di un’auto. 

Ma la parola di Cristo ha questa caratteristica divina di essere ad un tempo completissima, verissima e saldissima, roccia immutabile e sicura, sulla quale costruire la propria casa, perché è Parola di Dio, parola di vita eterna, che non passa, e ad un tempo Parola dal significato inesauribile, non soggetta a privata spiegazione (II Pt 1,20), ma appunto affidata da Cristo al magistero del Papa con l’incarico di custodirla intatta e di esplicitarne i significati per tutto il corso della storia fino alla fine del mondo. Se la Parola è colta dal pensiero astratto, non vuol dire che l’astrazione la falsifica, anche se ovviamente la Parola, in quanto occorre metterla in pratica, non può restare nel cielo dell’astrazione, ma deve incarnarsi nel concreto dell’esistenza, così come concretissimo è il mistero dell’Incarnazione.

Inoltre la vera eloquenza dell’apostolo annuncia il Vangelo nella sua interezza, senza diminuzioni o decurtazioni. Invece, mentre a Papa Francesco dobbiamo dare atto di una indefessa proclamazione del Vangelo e del mistero di Cristo, quello che onesti, informati ed acuti osservatori notano da tempo, è che Francesco insegna il Vangelo in modo incompleto e unilaterale. Infatti nel Vangelo ci sono coppie di valori che devono stare assieme, perché è impossibile capire l’uno se non si capisce l’altro. Sembra che Papa Francesco abbia questa reticenza per rispetto umano o per non contrariare i nemici della Chiesa.

Egli, infatti, a proposito di queste dualità, insiste molto su di una polarità trascurando quella opposta, come se vi fosse esclusione reciproca e invece esse si richiamano a vicenda, sicché l’una non si può capire senza l’altra. Per esempio, Francesco parla spesso della misericordia divina e tralascia i castighi, parla della salvezza, ma non dell’inferno, della confidenza in Dio, ma non del timor di Dio, della fede, ma non della ragione, della carità, ma non della legge naturale, della grazia ma non del merito, del popolo di Dio, ma non della gerarchia, della sinodalità, ma non dei compiti del Papa, della figliolanza divina, ma non della natura umana, delle qualità di Lutero, ma non delle sue eresie, delle diverse religioni, ma non del primato del cristianesimo. È questa vera eloquenza o è opportunismo? 

Un Papa è certamente libero di parlare come dottore privato su questioni teologiche o di morale o di costume, è libero di esprimere sue opinioni sui fatti del giorno o della Chiesa e della società o sulle idee e i comportamenti che girano circa tendenze politiche, culturali o ecclesiali, ma deve esprimersi in modo da far capire di non impegnare la sua autorità pastorale o magisteriale. 

Se non mette in chiaro queste cose, molti facilmente crederanno che egli voglia impegnare la sua autorità apostolica, con la conseguenza di irrigidire in certezze delle semplici opinioni discutibili per non dire errate. Oppure c’è il rischio contrario che quando parla seriamente, non sia preso in considerazione. E anche questo non è eloquenza, ma disordine.

La Civiltà Cattolica, forse per una forma di campanilismo gesuita, dà al Papa il voto di 10 e lode. Io penso al contrario, forse essendo anche troppo buono, che basti la sufficienza, non per gelosia domenicana, ma per amore della verità.

P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 19 novembre 2019

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