Da che cosa nasce la guerra

 Da che cosa nasce la guerra

                                                    Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino

Gen 4,3

                                                    I desideri della carne fanno guerra all’anima

I Pt 2,11

 

Che cosa in generale è la guerra

 

La guerra, nel senso più ampio, è un conflitto tra due forze vitali collettive contrarie.  Non si tratta di uno scontro qualunque. Non diciamo che uno scontro tra due corpi celesti sia una guerra. Occorrono forze viventi, per cui possa verificarsi la morte di uno dei due contendenti, oppure l’assoggettamento del vincitore al vinto. Tuttavia non si può ancora parlare di guerra nel mondo animale: non diciamo che propriamente si fanno guerra due leoni maschi per il possesso della femmina. Non fanno altro che applicare una legge di natura.

La guerra è propriamente un conflitto sul piano umano, è un conflitto che mette in gioco la volontà, soprattutto la coalizione di un insieme di volontà contro una altra, ovvero lo scontro volontario tra due formazioni umane; o nel significato più stretto e preciso la guerra è il conflitto armato fra gli eserciti di due Stati.

Bisogna dire con franchezza, anche se forse scandalizziamo qualcuno, che la guerra, di per sé, intendendo il termine nel senso tradizionale, come si trova nel vocabolario[1], è una complessa opera della ragion pratica, che impegna nell’autorità statale, che sola ha il diritto di indirla, tutte le virtù cardinali: la prudenza, che l’organizza la direzione, la strategia, la tattica e la logistica; la giustizia, che fissa l’obiettivo e gli scopi; la fortezza, necessaria per vincere il nemico; la temperanza, necessaria per disciplinare l’azione e per dominare la passione dell’ira, onde evitare gli eccessi come la crudeltà, la violenza, l’odio, le stragi, le sevizie, le rappresaglie, gli ordini ingiusti, le vigliaccherie, le ruberie, i danni ai civili, i maltrattamenti ai prigionieri, l’uso di armi proibite, le distruzioni inutili.

Nel muover guerra ad un altro Stato, uno Stato si prefigge di raggiungere un certo obbiettivo o fine da lui ritenuto giusto e vitale per la sua esistenza o difesa. La guerra ha termine quando l’obbiettivo è raggiunto. E per ottenere ciò lo Stato deve poter disporre di forze armate sufficienti per sconfiggere l’avversario. L’obbiettivo viene raggiunto se l’avversario è sconfitto. Ma non è detto che la vittoria vada all’aggressore: la difesa dell’aggredito può essere tanto forte da avere la meglio sull’aggressore, sicchè il conflitto può aver termine con la sconfitta dell’aggressore.

Occorre altresì notare che l’aggressione può essere moralmente lecita se si riconduce a una difesa. L’aggressione, per esempio, che le forze alleate nella seconda guerra mondiale fecero alle truppe tedesche in Europa, si può ricondurre alla difesa e liberazione di essa dall’invasione tedesca. La conquista di Trento e Trieste che fu fatta dagli Italiani nella prima guerra mondiale si può considerare la liberazione delle due città dal dominio austriaco.

La guerra, così, è ad un tempo una prova di forza e realizzazione di un dato fine, che motiva la guerra. Può capitare che uno Stato muova guerra per un fine giusto, ma che per l’inferiorità delle sue forze, perda la guerra. Per esempio, la Polonia o la Francia durante la seconda guerra mondiale, mossero guerra contro l’invasione tedesca, ma sul primo momento restarono sconfitte e sarebbero rimaste soggette alla Germania, se non fossero giunte le truppe alleate a liberarle.

Per questo, bisogna dire che il vincitore non ha con ciò stesso ragione per il fatto di aver vinto la guerra, ma merita di vincere la guerra chi sta dalla parte della ragione, come fecero gl Alleati nella seconda guerra mondiale. Viceversa, merita di perdere la guerra quello Stato che l’ha provocata per un ingiusto motivo, come fu il caso della Germania nazista nella seconda guerra mondiale. La vittoria spetta alla forza del diritto, non al diritto della forza. La vittoria del diritto è giustizia; la vittoria della forza è omicidio e violenza.

Capita che nel corso di una guerra qualche alta autorità morale esorti i guerreggianti a deporre le armi. Ma facilmente l’aggredito risponderà che lo farà se fa altrettanto l’aggressore. Quanto a questi, facilmente risponde che ha ormai in mano la vittoria e sta per raggiungere l’obiettivo che si è prefissato. A quel punto deporrà le armi. Capita anche, come adesso sta capitando in Ucraina, che i due belligeranti ricevano rinforzi. Ma ciò non risolve il problema e invece di avvicinare la pace, la allontana. È meglio vedere chi vince, e poi si potrà trattare di pace. Nel frattempo, non è sbagliato avviare trattative.

Il termine «guerra» ha tre significati.

Esistono più tipi di guerra

Riguardo poi al termine «guerra» occorre fare una triplice distinzione terminologica salvando una importante distinzione concettuale. Terminologicamente sembra conveniente distinguere «guerra» intesa come fenomeno di violenza distruttiva moralmente biasimevole, quella che un tempo si chiamava guerra ingiusta; da «legittima difesa armata», quella che si chiamava «guerra giusta»; da «operazione militare», intesa come uso delle forze armate per autorità dello Stato, quella che un tempo si chiamava semplicemente «guerra». In base a questa terminologia, se quest’uso serve alla giustizia e alla pace, abbiamo la giusta operazione militare o legittima difesa; se l’uso è ingiusto, violento e crudele, abbiamo semplicemente la guerra.

Tuttavia in un senso lato e più profondo, guerra è anche conflitto sul piano delle idee, del pensiero, della parola e dell’azione o a livello interpersonale o all’interno della stessa persona, fra due forze contrarie, lo spirito e la carne: la guerra spirituale. Esistono anche conflitti interiori, che non portano ad un risultato positivo, come per esempio il dominio delle passioni, ma creano personalità dissociate o schizofreniche, perché il soggetto non è capace, magari non per colpa sua, di trovare i mezzi per una conciliazione od unificazione interiore della personalità.

In tal senso può esistere anche una guerra contro Dio, come l’empietà, il sacrilegio, la bestemmia, l’ateismo o il panteismo. La Bibbia parla di una guerra contro il peccato, contro il vizio, contro il mondo, contro Satana.

Cristo è in guerra contro il demonio e sua sarà la vittoria. È la guerra spirituale. In tal senso, per la Bibbia, il guerreggiare non è di per sé peccato. Bisogna vedere contro chi, perché, come, con quali mezzi e a qual fine si muove guerra e si combatte.  Per la Bibbia, chi non fa guerra al peccato, al mondo, alla carne e al demonio non può piacere a Dio. Chi si rifiuta di combattere su questo piano, resta sconfitto ed è perduto. Chi non si schiera per Cristo è vinto dal demonio. Questa, per la Bibbia, è una guerra giusta e doverosa, una guerra voluta da Dio.

Diverso è il discorso della guerra fra singoli uomini e fra eserciti. Per la Bibbia, essa è una triste ed inevitabile conseguenza del peccato originale, per la quale l’uomo, anziché volere la pace, l’accordo e la comunione con l’altro, sordo alla voce di Dio e della coscienza, per egoismo, per superbia, invidia,  avarizia o per sete di potere e di dominio, favorito dall’ira e dalla lussuria, è portato all’odio, alla violenza, all’aggressione e all’omicidio.

Evidentemente, la guerra in questo senso, è nettamente deplorata e condannata dalla Bibbia; è però inevitabile quaggiù, data la permanenza dell’inclinazione a peccare, propria della natura umana ferita dal peccato originale. La guerra in tal senso costituisce un peccato mortale collettivo contro il V Comandamento. Va distinta dalla strage e dal genocidio, che è uccisione di un popolo inerme, perché la guerra in senso negativo è l’uccisione ingiusta del nemico armato.

Dico ingiusta, perché, affinchè vi sia il peccato di omicidio, la condizione è che l’uccisione venga commessa dall’ingiusto aggressore o anche dall’aggredito per eccesso di difesa. Il guerreggiare non può essere lasciato alla spontaneità dei guerreggianti, come può avvenire in uno scontro fra due mandrie di bisonti per il possesso del territorio.

Il guerreggiare è un atto umano che ha rapporto con la legge morale

Il guerreggiare è un atto umano, che è effetto della volontà ed è dettato dalla ragion pratica, per cui può essere buono o cattivo. Nel primo caso possiamo parlare di giusta operazione militare, quella che tradizionalmente si chiama «guerra giusta». Più precisamente l’operazione militare o in genere la guerra è ordinata ed organizzata da uno Stato contro un altro Stato e direttamente diretta dall’autorità militare.

Essa è regolata e disciplinata da due princìpi pratici: uno di carattere tecnico ed uno di carattere morale. Il primo, che forma l’arte militare, detta le regole di combattimento, la strategia e la tattica; il secondo è improntato a norme di umanità e di diritto naturale, che devono assicurare un moderato uso della forza strettamente finalizzato alla sconfitta del nemico evitando ogni forma di odio, efferata violenza, crudeltà ed ira incontrollata, mentre le autorità militari, a conflitto terminato e col ritorno della pace, a norma del codice dell’onore militare, hanno il compito di premiare i valorosi e punire traditori, disertori, codardi, e criminali di guerra.

La giusta operazione militare o la guerra in genere, mettendo da parte il fatto che nella guerra è in gioco la vita, si può paragonare ad un agone sportivo, alla lotta o al pugilato, dove gli avversari non possono assolutamente esser mossi da ira o da odio, ma devono essere lucidi e controllati, perché diversamente avrebbero la sconfitta assicurata. Ugualmente in guerra l’azione irrazionale e puramente passionale favorisce la sconfitta e se c’è la vittoria, questa non assicura una vera pasce, perché non è il trionfo del diritto ma della forza, per cui, come dimostra la storia, è una pace finta che prepara nuove guerre.

Invece l’uccisione dell’ingiusto aggressore è lecita e può anche essere doverosa, se non ci sono altri mezzi per fermarlo e il soldato che cade in battaglia può, per il suo coraggio e dedizione al suo dovere, meritare anche la qualifica di eroe. Per questo si giunge a parlare, ovviamente in un senso profano, ma non senza rapporto con la religione, anche di sacrificio per la salvezza della patria. In tal caso l’uccisione del nemico non è più omicidio, ma atto di giustizia, che, eliminando con la forza un potere nemico, che impedisce la giustizia e la pace, ricostituisce una situazione di giustizia e di pace.

Secondo la Bibbia, la guerra in questo senso, in quanto connessa col peccato o peccato essa stessa, come effetto dell’invidia, della superbia, dell’odio, della violenza e dell’infrazione della legge della fratellanza umana, sarà assente solo nella Gerusalemme celeste, dove ci sarà un’umanità finalmente unita e concorde nella piena obbedienza alla volontà divina, la quale non vuole assolutamente la guerra in quel senso, ma solo la vita, la concordia, la gioia e la pace.

Un’occasione di guerra può essere data dal fatto che a causa di un’ingiusta determinazione dei confini geografici di uno Stato, una parte del popolo di quello Stato si trova nel territorio dello Stato confinante, eventualmente ingiustamente trattato o addirittura decimato da quello Stato. È comprensibile allora che lo Stato, privato di quella parte del suo popolo, si senta spinto ad invadere lo Stato confinante per punire i nemici di quella parte del suo popolo che si trova al di là del confine e magari per favorire una secessione di quella parte di popolo, che si costituisce Stato a sé, staccandosi da quello Stato nel cui territorio prima risiedeva.

Ma questa soluzione è sconsigliabile, perché può provocare una reazione bellica da parte dello Stato confinante, che si vede privato di una parte del suo territorio. È quello che sta succedendo adesso nel conflitto fra Russia e Ucraina. La cosa da fare sembra essere il chiedere al popolo stesso se restare con lo Stato attuale o costituirsi in uno Stato autonomo o aggregarsi allo Stato, il cui popolo è lo stesso di quel popolo.

La Bibbia conosce guerre di difesa e guerre di conquista. In riferimento alle guerre d’Israele, giustifica come voluta Dio stesso, una moderata difesa militare contro uno Stato aggressore o l’abbattimento di regni pagani fondati sulla disobbedienza alla legge divina e sull’idolatria e nemici di Israele.

Tuttavia è altrettanto chiaro che, considerate le armi moderne, capaci di distruggere l’intera umanità, uno Stato in possesso di quelle armi, quand’anche fosse in diritto di difendersi da un altro parimenti possessore di quelle armi, non sarebbe in grado di vincere il nemico, perché privo di un’adeguata difesa atomica. È evidente che una guerra di tal genere è assolutamente da bandire, mentre può continuare ad esser lecito l’uso delle armi convenzionali, a patto che esse vengano usate solo quando i mezzi pacifici si rivelano inutili.

La guerra è lo sbocco finale di carattere fisico

di un precedente processo psicologico collettivo.

La guerra come conflitto armato è l’atto finale e culminante, esterno e materiale, comportante la soppressione fisica dell’avversario, di un precedente processo psicologico volontario, intriso di incontrollata passionalità, processo che inizia nell’intimo dell’uomo, nella sua mente, nei suoi giudizi, nei suoi ragionamenti, nel suo rapporto con la realtà, con Dio, con se stesso, con le sue passioni e con gli altri.

Il bellicoso, invece di vigilare sui suoi pensieri con oggettività, limpidezza e onestà, invece di stare sempre in ascolto della coscienza e della voce di Dio in essa, invece di acconsentire all’inclinazione alla benevolenza, alla fiducia, alla comunione, alla comunicazione, all’umiltà, all’ascolto degli altri, alla giustizia e alla misericordia, allo spirito di accoglienza, di sopportazione, di pace e di conciliazione, si lascia sedurre, ingannare e trascinare dalle sue cattive inclinazioni, dalle suggestioni dei malvagi e del demonio, dalla superbia, l’egoismo,  l’orgoglio, la doppiezza, la prepotenza, la presunzione, l’invidia, l’aggressività, l’impulsività, l’ira.

Favoriscono questo disordine e questa indisciplina interiore il cedimento ai piaceri terreni, in particolare la lussuria, la gola, l’attaccamento alle ricchezze ed alle comodità. Quest’atmosfera di passionalità ed emotività smodata obnubila lo sguardo della mente, ottunde l’acutezza dell’intelligenza e la capacità critica, rende il cuore indurito, specie nelle cose morali, spirituali e religiose, per cui nasce l’accidia, che è il disgusto o l’insensibilità o la svogliatezza o l’incuria per le cose dello spirito.

L’intelletto fatica a sollevare lo sguardo verso il cielo e diventa tutto intento alle cose della terra. I piaceri sensibili non sono più espressione di quelli spirituali, ma al contrario i diletti dello spirito sono soffocati o indeboliti dall’attrattiva esagerata dei piaceri sensibili. Tutto ciò ostacola l’oggettività del giudizio e crea varie forme di soggettivismo e relativismo, ampiamente giustificate dalle false filosofie e teologie.

L’azione esterna e fisica dell’omicidio bellico è così preparata da una prima fase mentale e passionale, originata dal fatto che il bellicoso incontra un individuo amante della verità e della giustizia, il quale si oppone alle sue idee sbagliate e alle sue pratiche viziose, ed eventualmente lo critica e lo rimprovera.

La reazione del bellicoso è ben rappresentata da quella di Caino. La Bibbia dice brevemente che nel constatare che Dio gradiva i sacrifici di Abele e non i suoi, «Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (Gen 4,5). Ma Caino non si è domandato il perché Dio preferisse i sacrifici del fratello? Evidentemente non per un capriccio o per accezione di persona, ma per un preciso motivo: semplicemente perchè i sacrifici del fratello erano sinceri, mentre non lo erano i suoi.

Ma Caino era fisso nella sua ipocrisia, per cui, invece di rallegrarsi del successo di Abele, comincia ad invidiarlo e ad odiarlo, perché evidentemente il suo modo di sacrificare gli suonava come un rimprovero. Così, invece di imitarlo – cosa che certamente avrebbe attirato su di lui la benevolenza divina -, Caino non intende rinunciare al suo narcisismo, per cui la presenza di Abele gli diventa odiosa e la cosa finisce come sappiamo.

Dunque la prima guerra, la prima aggressione, il primo omicidio del bellicoso avviene nella sua mente, nel suo giudicare odioso l’avversario, nel giudicarlo un ostacolo all’affermazione di sé. Il bellicoso comincia col cancellare dalla sua mente, con l’uccidere mentalmente il ricordo del nemico, oppure ricorda con rancore i torti ricevuti rifiutandosi di perdonare. Interrompe il dialogo e la comunicazione, spegne la fiducia e la confidenza, non risponde se il nemico lo interpella e gli chiede spiegazioni del suo comportamento ostile o dei suoi maltrattamenti. 

Consapevole di essere dalla parte del torto, ma non avendo l’onestà di riconoscerlo, il bellicoso non dà spiegazioni della sua condotta, oppure si sfoga con insulti, calunnie, ingiurie, false accuse, diffamazioni, maldicenze. ingiusti rimproveri. Cerca di mettere anche altri contro il suo nemico, fingendosi innocente e mentendo sul suo conto per metterlo in cattiva luce.  Cessa l’amore e subentra l’odio e il disprezzo. Molti si fermano qui.

Ma ecco che può intervenire la seconda fase, quella conclusiva, di questo maledetto processo che conduce all’omicidio sul piano interpersonale e alla guerra sul piano sociale e collettivo. Che cosa accade? Che sorge nell’animo dell’odiatore il desiderio di soddisfare l’odio fino in fondo, vale a dire, di cancellare l’odiato non solo nel pensiero e nel ricordo, ma anche fisicamente nell’esistenza. Ed è così che egli arriva all’omicidio, che si chiama assassinio, se si tratta di sopprimere un'altra persona; si tratta di guerra, se si tratta di uccidere nell’esercito nemico o far prigionieri dall’esercito nemico, una tale quantità di soldati, che obblighi il nemico ad arrendersi e a dichiararsi sconfitto.

Se nell’assassinio l’assassino è preso da interessi personali abominevoli, nella guerra intesa come crimine un’intera collettività si coagula attorno a qualche idea o interesse comune evidentemente peccaminoso. Accade così che certe guerre possono essere ispirate da dottrine filosofiche o religiose.

Come la guerra è causata dalla cattiva volontà,

la fine della guerra, ossia la pace, dipende dalla buona volontà

Abbiamo visto dunque che la radice prima delle guerre, in ultima analisi, è data dal fatto che viene meno l’unione delle menti e dei cuori in Dio. Per andare d’accordo, occorre essere uniti nelle idee e nella volontà, nella accettazione della medesima verità, nel perseguimento del medesimo fine di giustizia e di santità.

Ma ciò è dato dalla comune ricerca di Dio ed obbedienza a Dio. Più in radice è dato dalla condivisione del medesimo concetto di Dio. Non ci può essere pace fra il teista, l’ateo, il nichilista, il panteista, l’agnostico, l’idolatra e il politeista. Non ci può essere pace fra chi cerca Dio e chi è attaccato a se stesso. Non ci può essere pace fra chi alza lo sguardo al cielo e chi è attaccato ai beni della terra. Non ci può essere pace fra chi serve il prossimo e chi serve se stesso. Non ci può essere pace fra l’altruista e l’egoista, fra chi impone le proprie idee e chi ascolta l’altro, fra chi vuole emergere e chi vuol servire, fra chi cerca il successo e chi cerca la verità, fra chi cerca i piaceri della carne e chi cerca piaceri dello spirito, tra chi si concentra in questo mondo e chi pensa alla vita futura.

Per questo, nessuno può sottrarsi al combattimento. Si tratta solo di sapere chi ha ragione ed è il più forte, e mettersi dalla sua parte. Basta stare dalla parte del più forte o bisogna che il più forte abbia ragione? Ora, Cristo è colui che ha ragione, è il Logos e nel contempo è il più forte. Conviene quindi combattere ai suoi ordini e con la sua forza. Ma combattere come? Con quali armi? Con le armi della verità e della carità. Con le armi di Cristo crocifisso e rsorto. Bisogna tenere presente che il suo regno non è di questo mondo, ma è il futuro regno dei cieli, che si conquista vincendo noi stessi, ossia vincendo la concupiscenza, e con la vittoria sul peccato, sul mondo e su Satana.

È Cristo che vince il mondo o il mondo distruggerà il cristianesimo? È il teismo o l’ateismo ciò che assicura la pace? Dio può vincere le forze del male o deve adattarsi a convivere con esse? Gli oppressi possono liberarsi dei loro oppressori o è legge della vita che il forte domini sul debole? L’uomo può vincere da solo i suoi nemici o si richiede il soccorso divino? Possono esistere delle forze armate cristiane? Sono esistite, ma con quale risultati?

Pensiamo a Lepanto. Sì, è stato un successo. Ma ha risolto il problema dei rapporti con l’Islam? C’è voluto il Concilio Vaticano II per avviare un dialogo con l’Islam, un dialogo che ha messo fine a secolari guerre sanguinose fra cristiani e musulmani.  Pensiamo alle Crociate. Sì, sono servite a liberare il Santo Sepolcro e a costituire un regno cristiano in Palestina. E tuttavia, pensiamo alla Crociata del 1204, che fece strage in Terra Santa di ortodossi.

Ricordiamo che dopo la frattura dell’Europa occidentale cattolica con la pseudoriforma luterana, abbiamo oltre a ciò assistito a guerre fra cristiani: pensiamo per esempio ad avvenimenti terribili e scandalosi del sec. XVI, come lo scontro fra la flotta spagnola del cattolico Filippo II con l’anglicana flotta inglese, alla strage degli Ugonotti in Francia[2] o alla tragedia di Maria Stuarda[3] in Inghilterra o alla guerra dei trent’anni del sec. XVII.

L’Europa cristiana è rimasta dolorosamente e scandalosamente divisa. Provvidenziale è stato l’avvento dell’ecumenismo col Concilio Vaticano II; ma purtroppo è stato finora frainteso o mal condotto, perché non ha ottenuto, per lo più, l’effetto che si proponeva di avvicinare a Roma i fratelli separati e invece purtroppo, a causa dell’influsso modernista, molti cattolici sono rimasti cattolici di nome, ma di fatto si sono semiprotestantizzati. 

Una parola sul pacifismo. 

Esso è la dottrina che crede possibile la promozione della pace solo con mezzi pacifici. Essa viene da alcuni giudicata evangelica, ma in realtà, a parte gli insegnamenti chiarissimi dell’Antico Testamento e dell’Apocalisse, Gesù stesso la smentisce indirettamente nel suo colloquio con Pilato, dove dice bensì che il suo regno non prevede l’uso delle armi, ma lo prevedono invece i regni di questo mondo (Gv 18,36; cf anche Lc 24,31).

Ora appunto Gesù risorto dice agli apostoli che ogni potere gli è stato dato in cielo e sulla terra (Mt 28,18). E dunque, se Cristo governa anche su questa terra, a dispetto del potere di Satana, ciò significa che in quelle parole Gesù vuol dire che anche uno Stato con le sue forze militari è suo rappresentante e riceve da Lui l’autorità, come del resto nella suddetta circostanza Gesù dice a Pilato. I regni di questo mondo sono ordinati al regno di Dio, perché a Cristo è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Quindi il combattere con le armi per la giustizia in questo mondo non contrasta ma favorisce il combattimento spirituale per la conquista del regno dei cieli.

Cristo per adesso non regna ancora pienamente in questo mondo, ove agisce ancora il principe di questo mondo. Ma le lotte armate per la giustizia e la libertà, con l’aiuto di Dio, contribuiscono a spodestare il Tiranno di questo mondo, ossia Satana e a preparare la battaglia escatologica finale di Cristo contro le potenze del male e ad instaurare pienamente il regno dei cieli, che inizia già da adesso col progresso della Chiesa verso la Gerusalemme celeste.

Questa forma di pacifismo imbelle non è dunque il pacifismo evangelico, il quale non esclude l’uso moderato della coercizione, della forza e delle armi, ma è una forma di pacifismo indiano, non per nulla riferito all’insegnamento di Gandhi[4], che sottende appunto la visione brahmanica della pace e della guerra come un’alternanza eterna di vita e di morte, rappresentata dall’eterno alternarsi di Sciva, Dea della distruzione e Visnù, il Dio della conservazione, per cui sofferenza e felicità sono indissolubilmente ed eternante intrecciate, in modo tale che il rispetto della vita si congiunge con l’accettazione della morte, legate alla corporeità.

La catena della vita-morte è superata solo nella cessazione del shamshara, la reincarnazione al vertice del processo di purificazione dello yoga. Ma nel cristianesimo la corporeità non è necessariamente legata alla sofferenza, né la promozione della vita esclude quella difesa della vita che consiste nel togliere la vita al vivente che procura la morte, nella fattispecie il principio della legittima difesa.  Invece nell’induismo è prevista sì la beatitudine dell’anima dopo la morte, ma non la felicità eterna del corpo, che per l’induismo è essenzialmente legato alla sofferenza.

Per conseguenza la reazione alla sofferenza, vista come ineluttabile, è scarsa. Da qui il rifiuto dell’uso della forza contro un nemico che infligge la sofferenza. Il rifiuto di far soffrire è cosa buona, ma è sempre legato alla convinzione dell’ineluttabilità della sofferenza.  Per il cristiano il far soffrire il nemico è lecito, perché egli merita questa misura per aver commesso il peccato d’aver aggredito – si suppone – l’innocente. Del resto, per il cristiano anche il nemico, se si pente del suo peccato, può essere liberato dalla sofferenza.

Aggiungiamo che nel cosiddetto metodo della non-violenza, connesso col pacifismo, rinunciare alla violenza, non ripagare il male col male non vuol dire necessariamente rinunciare all’uso della forza o della coercizione, quindi all’uso delle armi, se esiste una ragione valida e se c’è speranza di vittoria. Vincere o fermare l’ingiusto aggressore non è peccato ma è un’opera buona.  Rinunciare invece alla lotta, quando ci sarebbe la possibilità di vincere, non ribellarsi al male, rassegnarsi alla propria schiavitù è scendere a compromesso col peccato. È pessimismo, disfattismo e fatalismo. Nella visione indiana il male è invincibile. Purtroppo il risultato è la codardia, l’inerte passività, e la connivenza col male.

La legittima azione militare non è dunque un ripagare il male col male, ma è un vincere il male col bene. È bene sopprimere ciò che si oppone al bene. D’altra parte, quando il nemico è troppo forte, mitezza, pazienza e resistenza passiva, appello alla coscienza dell’aggressore, offerta della propria sofferenza, sacrificio, sono metodi che sono conformi al Vangelo, e che operano per la pace. E questo è certo un punto di contatto col gandhismo. Il cristianesimo aggiunge quell’amore del nemico, che vede anche in lui un fratello e che fa dire anche a noi come Cristo sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 aprile 2022

 

 

 

 

la radice prima delle guerre, in ultima analisi, è data dal fatto che viene meno l’unione delle menti e dei cuori in Dio

 


 

quell’amore del nemico, che vede anche in lui un fratello e che fa dire anche a noi come Cristo sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).



[1] Quindi non come peccato, omicidio, crimine o violenza crudele, così come oggi è entrato nell’uso e si trova anche nella Bibbia.

[2] Cf G. Gollino, La strage della notte di San Bartolomeo, De Vecchi Editore, Milano 1973.

[3] Cf Antonia Fraser, Maria Stuart, La tragedia di una regina, Mondadori, Milano 1996.

[4] Cf J. Maritain, La dottrina del «satyagraha» esposta da Gandhi, in Strutture politiche e libertà, Morcelliana, Brescia 1968, pp.163-170.

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