Dio non è ambiguo e non vuole un sacrificio umano - Prima Parte (1/2)

  Dio non è ambiguo e non vuole un sacrificio umano

Ancora sul sacrificio di Abramo

Prima Parte (1/2)

Il nostro lettore Bruno, mi ha fornito ulteriori interventi su questo argomento importante ed appassionante, che è il famoso episodio biblico del sacrificio di Abramo, episodio che davanti all’esegesi moderna suscita delicate questioni e stimola ad una importante tematica concernente la natura del sacrificio cultuale, il modo in cui Dio intende il sacrificio, nonché l’importanza della buona fede e della libertà di coscienza, sempre nell’orizzonte ermeneutico tradizionale della figura di Abramo come padre nella fede ed esempio eccelso di obbedienza e di fedeltà ad un Dio che ci promette una grande abbondanza di frutti di vita eterna.

Di seguito il testo di Bruno con le mie risposte.

 

Esegesi del sacrificio di Abramo proposta da A. Wénin e D. Candido

In questa interpretazione del racconto genesiaco si sostiene che Dio avrebbe formulato il comando del sacrificio (Genesi 22,2), in modo volutamente ambiguo, tale da poter essere interpretato sia come richiesta di sacrificare Isacco, tanto come richiesta dell’olocausto di un animale, rituale a cui avrebbe dovuto esser presente anche Isacco. Abramo, pur tormentato dal dubbio, sarebbe stato libero di scegliere, e qualsiasi delle due opzioni avesse scelto, non sarebbe stato in contrasto con Dio, salvo che scegliendo la prima, sarebbe stato fermato al momento finale ma apprezzato per la forza della sua fede e per aver così espresso la sua volontà di “restituire” a Dio il dono-Isacco ricevuto, riconoscendo così che il figlio amato non doveva essere oggetto di suo esclusivo possesso.

Osservo che in queste parole c’è un grave equivoco: non è che Dio parli in modo ambiguo; è Abramo, il quale, inconsciamente influenzato da concezioni religiose che ammettevano sacrifici umani, pensò in buona fede che il comando di uccidere il figlio venisse da Dio. L’angelo successivamente gli rivela qual è la vera volontà di Dio.

Ora, cade qui opportuno citare un ricorrente insegnamento di Papa Francesco, il quale insiste nel dire che Dio non vuole la morte di nessuno, che quindi non si può in nome di Dio o di qualunque religione sopprimere la vita umana, soprattutto se innocente.

Se uno dovesse obiettare che il Padre ha voluto la morte di Gesù, è chiaro che questa volontà del Padre non va assolutamente interpretata secondo lo schema dei sacrifici umani, perché il sacrificio di Cristo comporta bensì l’obbedienza di Cristo al Padre, ma ciò in nome dell’immenso amore del Padre e del Figlio per noi peccatori al fine che Cristo espiasse per i nostri peccati e sodisfacesse al Padre per le nostre colpe.

Questa esegesi è sostenuta da André Wénin, professore di Esegesi biblica presso l'Université Catholique de Louvain, che ha insegnato anche a Roma presso la Gregoriana, direttore dal 2016 al 2021 della «Revue Théologique de Louvain», è stato anche membro del comitato di redazione di «Recherches de Science Religieuse».

In Italia è stata ripresa dal sacerdote Dionisio Candido, docente di Esegesi dell’Antico Testamento presso l’Istituto Superiore di Scienze religiose di Siracusa e lo Studio Teologico di Catania, nonché responsabile del Settore dell’Apostolato Biblico all’interno dell’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI.

Per le citazioni che seguiranno, farò riferimento, per Wénin, alla conferenza “Abramo sacrifica la propria paternità” che tenne nel 2018, presso la Fondazione Collegio San Carlo, che possiamo seguire qui:

https://www.youtube.com/watch?v=dqB3tiuoj4I

Per D. Candido farò riferimento al suo testo “Le sette obbedienze di Abramo”, San Paolo, 2009.

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Inizio con una citazione da D. Candido:

«Il nodo è fondamentalmente legato all’espressione verbale solitamente tradotta con “offrirlo in olocausto”: Dio starebbe chiedendo cioè al patriarca ultra-centenario di sacrificare il figlio Isacco, ormai giovinetto.

Semplificando la questione testuale, il problema è legato soprattutto al verbo ebraico ‘alah, che assume come primo significato letterario il senso di “far salire” (la forma è quella causativa: Hifil). Poiché le vittime venivano appunto fatte salire sull’altare del sacrificio, questa forma verbale per estensione assume nell’Antico Testamento anche il senso tecnico e più specifico di “sacrificare”, “offrire in olocausto”. Ma se si resta ancorati al primo significato, Dio avrebbe comandato ad Abramo semplicemente di “far salire” Isacco, cioè di portarlo con sé, in cima al monte indicato presso il territorio di Mòria. In questo modo, Dio gli starebbe chiedendo soltanto di far partecipare Isacco a un sacrificio, perché impari a esercitare il culto e a onorare Dio.

Non c’è difficoltà ad ammettere che la radice ebraica sacrificare significhi far salire. Ed è chiaro che Abramo sale sul monte; però resta sempre il fatto che stando alla lettera del testo biblico, Dio comanda formalmente di sacrificare il figlio, tanto è vero che Abramo prende con sé la legna e la legna per il sacrificio, e il figlio Isacco gli chiede dov’è la vittima per il sacrificio.

Il verbo ebraico è ambiguo e dà adito al dubbio sul vero senso del comando divino: insegnare a Isacco a fare i sacrifici per Dio o sacrificare Isacco a Dio? Non meraviglia che l’incertezza insita nella richiesta da parte di Dio non sia sfuggita nei secoli ai commentatori ebraici medievali [citazione di A. Wénin, Isacco o la prova di Abramo. Approccio narrativo a Genesi 22, Cittadella, 2005, p. 38-41]».

Possiamo ammettere che la radice ebraica possa suscitare un significato ambiguo alla parola presente nel testo. Ma quello che assolutamente non possiamo ammettere è che Dio si sia espresso in maniera ambigua, perché se c’è un Essere che si esprime con inequivocabile chiarezza e precisione di significati, questo è proprio Dio, dato che Dio è la Verità sussistente e il principio di ogni onestà e lealtà del linguaggio, proibendo formalmente in Cristo di mescolare il sì e il no.

Il Dio ambiguo non è assolutamente il Dio biblico, ma semmai è il Dio di Hegel o forse anche quello di Lutero, il quale è il Dio della contraddizione e del contradditorio, che vuole ad un tempo il vero e il falso, il bene e il male, la giustizia e il peccato.

Non conoscendo l’ebraico non mi permetto di dare giudizi a livello linguistico-filologico, mi viene però spontaneo domandarmi come mai codesto “primo significato letterale” abbia avuto, per quanto mi consta, così poca fortuna, nel corso dei secoli sino ad ora…

Per quanto riguarda il significato della radice ebraica “far salire”, si può ben comprendere che tale significato sia rimasto nell’ombra, perché se leggiamo con attenzione il senso testuale della Scrittura, appare chiarissimo che questo “far salire” non è un vago far salire, ma è il comando fatto ad Abramo di salire sul monte per sacrificare Isacco.

Passiamo ora ad A. Wénin:

«Occorre dunque cominciare a leggere il testo in una traduzione volutamente letterale.

“Dopo queste parole, quando Dio fece un test ad Abramo, gli disse: “Abramo!” ed egli disse “Eccomi” e gli disse “prendi, prego, tuo figlio, il tuo unito/unico figlio, che tu ami, Isacco, e vattene verso la terra del Moria e fallo salire là per un olocausto su una delle montagne che io ti dirò” […]

La traduzione proposta non corrisponde a quella autentica del testo biblico, il quale recita in questo modo: “prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto” (Gen 22,2). Quindi non offri un sacrificio in senso vago, ma “offrilo in sacrificio”. Il pronome “lo” evidentemente si riferisce ad Isacco.

Circa questa questione della radice ebraica del verbo sacrificare, l’esegeta non può trarre a pretesto dalla semplice radice che significa “far salire” per escludere il concetto del sacrificare, perché il testo biblico autentico parla di un sacrificare e non di un far salire.

Uno potrebbe obiettare: ma il Magistero della Chiesa non ha dato una interpretazione ufficiale di questo episodio, per cui l’esegeta è libero di dare quell’interpretazione che ritiene la migliore. Ora, però bisogna osservare che un esegeta non può partire da una concezione di Dio che mette in dubbio la limpidezza della sua parola, quindi non può parlare di un Dio ambiguo o di un Dio che ammetta sacrifici umani, perché un Dio del genere è un falso Dio e tale falsità risulta soprattutto oggi che Papa Francesco insiste sul concetto di Dio, come Dio Verità e che non vuole la morte di nessuno.

È ovvio peraltro che davanti al comando divino Abramo conserva il libero arbitrio, ma questo libero arbitrio non va inteso che ad Abramo Dio proponga di scegliere tra l’uccisione di Isacco o quella di un ariete. Ma, stando al testo biblico, Dio è molto chiaro e non è affatto ambiguo, ma ordina formalmente ad Abramo di uccidere Isacco e Abramo capisce benissimo.

Il dramma di fondo, come ho detto molte volte, è che Abramo ritiene essere volontà di Dio ciò che invece riflette una concezione sbagliata del sacrificio, per la quale Dio può volere un sacrificio umano, cosa che invece Dio non può assolutamente volere e cosa che oggi più che mai viene totalmente esclusa in una sana teologia.

Come leggere le parole testuali? Il comando divino, con tutti i particolari, esprime una concezione umana del culto dovuto a Dio, una concezione limitata dall’ignoranza e dalle conseguenze del peccato originale. È occorsa allora una purificazione, che avviene con la rivelazione dell’angelo ad Abramo e in pienezza con la rivelazione del Nuovo Testamento.

Questa parola rivolta ad Abramo è possibile capirla come ordine di sacrificare Isacco e di fare di lui un olocausto, oppure come richiesta di farlo andare lassù per far salire un olocausto affinché Isacco sia educato al servizio del nome di Dio […]

Il comando di Dio, stando alla lettera del testo, è molto chiaro ed univoco, come ho già detto.

se l’ordine di Dio contiene questa ambiguità, sia il personaggio di Abramo sia il lettore si pongono la stessa domanda: che senso dare all’ordine di Dio? Cosa Dio intende chiedere ad Abramo con questa frase ambigua? Ma se entrambi, il lettore e Abramo, si interrogano sulla stessa cosa, non lo fanno negli stessi termini né con la stessa intensità.

Ribadisco che nel comando di Dio, non c’è nessuna ambiguità, perché il testo biblico parla esplicitamente di sacrificare Isacco.

Il lettore, infatti è stato avvisato fin da subito dal narratore che si tratta di un test […] Ora che cos’è un test? Un test consiste nel mettere in atto un processo per scoprire qualcosa che si ignora. Il professore fa passare un test a uno studente perché non sa se lo studente ha integrato le competenze che il corso si propone di dargli […] ma quando si è verificato ciò che si voleva sapere, lo studente sa o non sa, lo scienziato vede se l’ipotesi è giusta o meno, il test si ferma. Quindi un test è sempre qualcosa di temporaneo […]

Occorre distinguere la prova dal test. Dio non sottopone Abramo ad un test, ma lo mette alla prova, che è un’altra cosa.

Indubbiamente, sia nel test che nella prova la persona, che è soggetta al test o alla prova, deve mostrare ciò di cui è capace. Questo è l’elemento comune che costituisce il fine del sottoporre ad un test o del mettere alla prova.

Tuttavia c’è una differenza, che è la seguente. Il mettere alla prova una persona consiste nel fatto che colui che mette alla prova sottopone il probando a un certo sforzo al fine di rafforzare la virtù di quella persona. Dio mette alla prova Abramo, perché vuole rafforzarlo nella fede.

Invece il docente che sottopone uno scolaro al test si propone di verificare la capacità intellettuale dello scolaro e se lo scolaro è in grado di dimostrare certe conoscenze.

Ora è evidente che non è questo il caso della prova alla quale è sottoposto Abramo. In che modo Dio mette alla prova Abramo? Permettendo che nella mente di Abramo si formi l’idea, proveniente da una religione pagana, secondo la quale Dio può chiedere sacrifici umani. Questo fatto rientra nel fenomeno più generale per il quale Dio permette l’esistenza dell’errore, come conseguenza del peccato originale.

Caratteristica del mettere alla prova, come ho detto, sta nel sottoporre la volontà del soggetto ad uno sforzo meritorio, perché lo induce ad un atto di virtù, che, nel caso di Abramo è un atto di obbedienza fiduciosa oppure diciamo senz’altro un atto di fede in quel Dio che gli aveva promesso una grande discendenza.

Ora, è evidente che in un test è assente tutta questa dinamica psicologica, che riguarda la volontà e la virtù morale, mentre gioca la preparazione culturale e semmai la virtù intellettuale.

Inoltre c’è anche questa differenza tra la prova e il test. Che la prova comporta una certa sofferenza nel probando, mentre chi è sottoposto ad un test è esente da questo tipo di sofferenza. Ciò comporta che colui che è sottoposto alla prova può essere confortato o consolato da colui che lo sottopone alla prova.

Nel caso di Abramo, Dio sottopone Abramo ad una prova, ma nel contempo lo conforta inviandogli l’angelo. Papa Francesco ci dà un esempio di questo intervento confortante di Dio nel momento della prova con l’avere mutato le parole “non indurci in tentazione” in “non abbandonarci nella tentazione”. Perché infatti questo cambiamento? Perché la nuova formula ci fa capire meglio come Dio, insieme con la prova, ci dà anche la forza per superarla.

pertanto per il lettore che sa che si tratta di un test, la domanda può essere formulata in questi termini: qual è questo test? Qual è l’obiettivo del test al quale Dio sottopone Abramo? Cosa Dio vuole sapere che già non sappia di Abramo? E quindi come reagirà Abramo, cosa il test rivelerà di lui? Questo per il lettore, ma per Abramo la domanda è un’altra, perché l’ordine di Dio desta in lui una crisi esistenziale: che cosa si aspetta esattamente Dio da lui? Che cosa deve fare con il suo figlio amato e unico, offrirlo in sacrificio oppure offrire un sacrificio insieme a lui? […] in realtà è soltanto al versetto 9 che [il lettore] capirà che Abramo ha scelto la prima opzione».

Abramo in un primo tempo non si fa nessuna domanda, non si sente davanti ad una scelta e quindi non si sente obbligato a scegliere, ma semplicemente obbedisce in buona fede e secondo coscienza e già qui dimostra di saper superare la prova obbedendo ed ottenendo il merito della fede.

Abramo in un primo tempo crede di sapere quello che Dio vuole ed è pronto a metterlo in pratica, per quanto ciò lo possa angosciare. È solo con l’intervento dell’angelo che Abramo capisce che cosa Dio veramente vuole: non la morte del figlio ma il sacrificio dell’ariete. E obbedisce prontamente, aumentando il merito della fede, che gli consente di superare la prova. Abramo, illuminato dall’angelo, si accorge che aveva un concetto inadeguato di Dio e accoglie prontamente la verità, che l’angelo gli comunica.

A parte tutte le problematiche connesse nel postulare un’ambiguità nelle parole di Dio, su cui Wénin sembra sorvolare, quest’ultima sua affermazione non mi sembra punto scontata.

Il fatto che Abramo, prima di partire, si preoccupi di prendere con sé la legna, che possiamo immaginare trovarsi abbastanza facilmente nei paesaggi dell’epoca ancora privi di cementificazione… e invece non prenda con sé, da subito, un animale, più difficile da trovare libero anche perché costituiva una fonte di sostentamento ed un valore economico importante, è un forte indizio che Abramo fosse convinto, sin dall’inizio, di dover sacrificare il figlio.

E ciò viene confermato dalla domanda che Isacco gli farà (Gen 22,7), che suona proprio come “abbiamo preso la legna e il fuoco e non l’oggetto che dovremo bruciare su quella legna”. Se tale apparente dimenticanza non fosse risultata particolarmente strana, Isacco non si sarebbe permesso di rivolgere quella domanda al proprio genitore.

Caro Bruno, concordo con queste osservazioni critiche nei confronti di Wénin, in quanto, anche ammesso che il comando di Dio non fosse chiaro o inequivocabile, tutto il contesto, soprattutto quello suscitato da Isacco, mostra chiaramente che Abramo aveva inteso chiaramente ciò che Dio riteneva volesse.

Torniamo a D. Candido:

«Ma per quale ragione Dio avrebbe dovuto lasciare Abramo nel dubbio e non piuttosto chiedere esplicitamente una chiara obbedienza? In realtà, il dubbio, per quanto pesante, lascia spazio alla libertà dell’uomo. Il Dio biblico, in questo caso, mostrerebbe una delicatezza infinita: non vuole metter Abramo con le spalle al muro. Non gli chiede una obbedienza lampante, su una questione così delicata come la vita del figlio. Ma, al contempo, gli offre la possibilità di dare prova di una obbedienza e di una fiducia incondizionate […]».

Riguardo a queste parole di Candido, mi sembra che la sua tesi sia simile a quella di Wénin, cioè Dio avrebbe la delicatezza di offrire ad Abramo una duplice possibilità: o di sacrificare il figlio oppure di sacrificare l’ariete.

Senonchè però, leggendo attentamente le parole testuali della Scrittura, ci accorgeremo che Dio comanda perentoriamente e quindi non offre affatto ad Abramo alcuna scelta. Infatti la decisione di sacrificare l’ariete sorge in Abramo solo in un secondo tempo, quando l’angelo lo ferma al momento di uccidere il figlio e gli indica qual è la vittima del sacrificio.

Mi sembra che qui Candido dia una spiegazione, almeno in parte, contraddittoria: se Dio avesse voluto “lasciar spazio alla libertà” di Abramo, avrebbe permesso che ambedue le opzioni (sacrificio dell’animale con Isacco presente / sacrificio di Isacco) fossero recepite da Abramo come entrambe effettivamente percorribili; invece, lo stesso Candido dice che Abramo verrebbe lasciato nel dubbio, e che è proprio questo che “per quanto pesante, lascia spazio alla libertà”. Ma se si è tormentati dal dubbio, non ci si trova propriamente in quelle condizioni di serenità e di obiettività di valutazione che possano consentire una scelta realmente libera.

Dato che l’ipotesi del dubbio è da escludersi, le considerazioni basate sull’esistenza di tale dubbio non hanno ragion d’essere.

E poi questa “delicatezza infinita” del Dio biblico suona parecchio antropomorfica: non vuole obbligare Abramo a sacrificare il figlio, perché così lo metterebbe con le spalle al muro, però gli prospetta questa possibilità (ma non come certa) di modo che il patriarca, se la dovesse scegliere, potrà dar prova di incondizionata obbedienza e fiducia. Viene da chiedersi: ma in definitiva, Dio sta comandando oppure no il sacrificio di Isacco?

A tutti noi nel corso della nostra vita può capitare che Dio ci offra la possibilità di seguire diverse strade. Ma il punto non è questo. Il punto è, e lo ribadisco un’altra volta, che Dio non offre ad Abramo una possibilità di scelta, ma semplicemente gli ordina quello che deve fare. Quello che invece accade è che Abramo non capisce subito la vera volontà di Dio, tanto è vero che deve essere illuminato dall’angelo.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 settembre 2022


 

Il sacrificio di Abramo si può considerare una prefigurazione del sacrificio di Cristo. 

Naturalmente di ciò Abramo non era assolutamente consapevole. 

È una considerazione che possiamo fare noi oggi, dopo il fatto del sacrificio di Gesù.

Immagine da Internet:
Ravenna - Basilica di San Vitale - l'ospitalità di Abramo ai tre angeli e il sacrificio di Isacco

2 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    ho trovato importanti le sue considerazioni che, evidenziando le differenze tra “prova” e “test”, depongono decisamente a favore del primo dei due termini, per il significato dell’incipit di Genesi 22,1.

    Ritengo corretto precisare che Wénin (nel corso della stessa conferenza del 2018 citata) motiva la sua propensione per il termine “test” con le seguenti parole:
    «A volte si traduce una “prova” ma preferisco evitare questa traduzione che nelle nostre lingue ha una connotazione di punibilità, di sofferenza che di per sé la parola ebraica non ha».

    Di diverso avviso Laura Carnevale, docente di Storia del Cristianesimo e delle chiese presso l’Università Aldo Moro di Bari che, in un suo recente testo, in proposito scrive:

    «L’azione di Dio nei confronti di Abramo, presentata come il primum movens degli eventi che seguiranno, in tutte le versioni del testo è espressa da un verbo afferente alla sfera semantica della tentazione. In particolare, qui viene utilizzato il verbo ebraico “nasah” nella sua forma intensiva (piel): “nissah”. Il verbo è un hapax per il libro della Genesi, ma è attestato altrove, in particolare nel Pentateuco […] e nel libro dei Salmi. Il verbo, con i suoi derivati, viene sempre utilizzato per richiamare il concetto di “prova”, talvolta mettendo in evidenza i risvolti pedagogici della prova stessa, in particolare nella letteratura sapienziale, quando è Dio a imporla all’uomo.
    Un esempio è dato da pericopi quali:
    Es 16,4 («Allora il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no”»);
    Es 20,20 («Mosè disse al popolo: "Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore vi sia sempre presente e non pecchiate"»);
    Dt 4,34 («O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i vostri occhi?»);
    Dt 8,2 («Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi.»);
    Dt 13,4 («tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l'anima»);
    Dt 33,8 (benedizioni di Mosè «Da' a Levi i tuoi Tummìm
    e i tuoi Urìm all'uomo a te fedele,
    che hai messo alla prova a Massa,
    per cui hai litigato presso le acque di Mèriba»)».
    (L. Carnevale, “Obbedienza di Abramo e sacrificio di Isacco”, Il Pozzo di Giacobbe, 2022, pag.23)

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    1. Caro Bruno,
      il termine “prova” può avere vari significati. Capisco che il termine ebraico non comporti di per sé l’idea della sofferenza; tuttavia questo senso risulta chiarissimo dal contesto che ci fa capire molto bene l’angoscia che Abramo deve aver patito nel sentirsi obbligato a sacrificare Isacco.

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