Ateismo e salvezza - Quinta Parte (5/10)

 

Ateismo e salvezza

Quinta Parte (5/10)

Lutero

Il concetto luterano di Dio [1]

Dio non appare a Lutero come causa prima o Essere sussistente, oggetto dell’intelletto, ente primo e perfettissimo, la cui esistenza è affermata a conclusione di un procedimento razionale, che parte dagli effetti sensibili della sua attività creatrice, benché Lutero accetti senza difficoltà il Dio biblico, sapiente, provvidente, onnipotente, creatore del cielo e della terra, giusto e misericordioso, incarnatosi in Gesù Cristo.

In tal senso il concetto luterano di Dio è indubbiamente salvifico, anche se non sa staccarsi da un rivestimento emotivo per rivelarsi nella sua intellegibilità, e lascia implicito il procedimento razionale induttivo ed inferenziale, nascosto sotto un fideismo sentimentale ed antirazionale. Anzi a livello esplicito Lutero sembra raggiungere Dio con una «fede», che sostituisce la ragione corrotta dal peccato originale, fede che non è un prender per vera la Parola di Dio sull’autorità della Chiesa, ma senso spirituale verbalmente inesprimibile della presenza adirata o misericordiosa, terrificante o consolante di Dio. La Parola di Dio, per Lutero, più che essere oggetto di fede, è espressione della fede in quanto comunione con Cristo nella potenza dello Spirito.

Lutero fatica – lo dichiara egli stesso – a distinguere nella vita pratica Dio dal diavolo. Come mai? Dio gli appare sotto le vesti del diavolo e il diavolo a volte gli sembra Dio. Dice, per esempio – una dichiarazione sbalorditiva – che è il diavolo ad averlo convinto di non dire più la Messa![2].

Dio ora gli appare come tentatore e tormentatore, accusatore di colpe inesistenti. Oppure appare odioso perché nella nostra volontà di peccare, ci proibisce di peccare: meglio il diavolo che ce ne dà il permesso! Del resto, quando Dio copre il nostro peccato e fa finta di non vedere, non è uguale al diavolo? Quale consolazione dal sapere per fede che Dio misericordioso ci perdona anche se non siamo pentiti! Ma non è il diavolo che ci consiglia di non pentirci e non offrire sacrifici, dato che Cristo ha già pagato è per noi? Dunque vediamo quale grande confusione.

Il concetto luterano di Dio ha inoltre il difetto di confondere il sovrarazionale con l’irrazionale o antirazionale. Il primo è proprietà del mistero divino e giustifica l’atto di fede, la quale appunto aderisce a qualcosa che è al di sopra della ragione. L’irrazionale invece falsifica il concetto di Dio con attributi contradditori. È chiaro allora che questi aspetti del Dio luterano rendono inutilizzabile il concetto nella misura in cui sono presenti. Laddove invece il concetto ne è esente, esso può essere utilizzato.

La nozione luterana di Dio, che Lutero vorrebbe presentare come autenticamente biblica contro quella tomista che si avvaleva della concezione aristotelica, usata da secoli dalla teologia scolastica, sembra piuttosto riecheggiare l’irrazionalità, irrequietezza e violenza delle antiche divinità germaniche, Thor e Odino.  

La Parola di Dio è scandalo per la ragione

Per Lutero il contenuto di fede è contrario alla ragione. Per lui non si tratta tanto di aderire ai dei concetti, quanto a Cristo Crocifisso, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani», nella sua singola ed ineffabile Persona. Ciò non impedì affatto a Lutero di redigere due catechismi, e di commentare la Scrittura per tutta la vita, segno evidente della viva percezione che aveva dell’importanza delle idee e dei concetti, tanto che si potrebbe dure che l’istanza fondamentale della riforma luterana non è tanto un’istanza morale, quanto piuttosto un’istanza di verità: Lutero accusa il Papa, prima ancora che di dispotismo e immoralità, di falsificare il Vangelo. E sappiamo quanto teneva a intavolare questioni di ortodossia e di eresia, anche se poi sappiamo quali erano le sue idee.

Nel contempo tutto ciò non impedisce a Lutero di negare la possibilità di una teologia e di un’etica naturali, da cui il suo disprezzo per Aristotele e San Tommaso, e di negare altresì la possibilità e la necessità di motivi ragionevoli che conducano alla fede. Con Tertulliano il suo motto è: «credo quia absurdum».

Come interpretare la dichiarata adesione di Lutero alla teologia agostiniana e la sua forte avversione a quella di Aristotele e di San Tommaso? Da che cosa dipende? Dal fatto che egli nell’immaginare la divinità, è attratto dalle immagini bibliche emozionanti dei segni della presenza divina, che richiamano alle divinità aggressive e tremende della mitologia germanica, Odino e Thor, come il  vento impetuoso, il tuono, l’uragano, il temporale, il fulmine, il fuoco, il terremoto, forza tellurica, mentre stenta a capire e ad apprezzare il concetto pure biblico fondamentale come ente o sostanza intellegibile, come persona spirituale dotata di intelletto e volontà, della quale noi siamo immagini create. Da qui il rapporto dialogico, ragionato e filiale con Dio, quando questo rapporto è normale.

Il dato fondamentale per capire Lutero è la sua nozione di verità[3], che non è concepita come atto della ragione, ossia come adeguazione del nostro giudizio alla realtà, ma come rivelazione divina. La verità viene dalla fede, non dalla ragione, non dall’uomo, ma da Dio, fede intesa non come conoscenza mediata dalla Chiesa, ma come illuminazione divina. Non esistono verità razionali o naturali, ma solo verità di fede. Questo è il caratteristico fideismo luterano.

Per San Tommaso ed Aristotele la filosofia introduce alla teologia

Per Tommaso ed Aristotele, come per la Bibbia, la filosofia, filìa tes sofìas, amore per la sapienza, è sapienza che introduce alla fede e alla teologia. Al contrario, per Lutero, la filosofia è un inganno, fraintendendo in ciò la condanna paolina (Col 2,8) che evidentemente si riferisce alla falsa filosofia, giacchè, se c’è un autore biblico che valorizza la sapienza naturale, questi è proprio San Paolo.

Per Lutero, invece, la Scrittura non ha bisogno di nessuna filosofia per essere interpretata, ma solo di se stessa, accostata con fiducia e obbedienza. La cosa paradossale che avverrà nel sec. XIX con Hegel, che si dichiara luterano, è una vendetta della filosofia, la quale sostituirà la ragione alla fede non recuperando la ragione naturale di Aristotele e San Tommaso, ma intendendo la ragione come divina rivelazione.

Adesso la filosofia non è più un inganno, ma la «scienza assoluta» al di sopra della religione. Ciò non impedisce ad Hegel di continuare a ritenersi luterano perché di fatto che mette in luce l’anima razionalistica e gnostica che si nasconde sotto la fede luterana. È interessante come razionalismo e irrazionalismo si richiamino a vicenda nel distruggere il vero valore della ragione.

Notiamo ancora a proposito dell’irrazionalismo luterano che quando nella Scrittura appaiono affermazioni su Dio che appaiono contradditorie, San Tommaso si preoccupa di sciogliere queste apparenti contraddizioni per metter d’accordo la Parola di Dio con la nostra ragione. Viceversa, Lutero fa tutto il contrario: le considera con compiacimento vere e proprie contraddizioni, pensando, come il Cusano, che ciò che è contradditorio per noi non lo è per Dio, sicchè nella sua esegesi biblica prova un gusto speciale nell’umiliare la ragione, nel lasciarla nello sconcerto, scandalizzata, smarrita, confusa, frustrata e insoddisfatta.

La fede per Lutero è il buio totale per l’intelletto, negazione del concetto. La fede, col pretesto del mistero e dell’incomprensibile, non è luce per la ragione, ma negazione della ragione. Essendo negazione del concetto, lascia senza parole, dato che la parola esprime il concetto. Qui però evidentemente Lutero fraintende quella che è l’esperienza mistica, che comporta il tacere. Infatti il mistico non tace perché non esercita l’attività concettualizzatrice, ma perché non è in grado di esprimere a parole quanto ha provato, tanto ineffabile è l’esperienza spirituale che ha fatto della sua unione con Dio.

Ci domandiamo però: quale concetto di Dio viene fuori da questo sconcerto della ragione? In queste condizioni come si fa parlare di Dio? Che cosa è la Parola di Dio? Con tutto ciò Lutero si dedicò appassionatamente fino alla morte alla predicazione del Vangelo. Ma che peso dava alle sue parole se Dio non si può esprimere in concetti e giudizi? Che cosa comunicava? Delle nozioni o delle emozioni? Delle convinzioni intellettuali e ragionate o degli stati d’animo? Faceva sentire agli altri quello che sentiva lui o comunicava ad essi verità oggettive espresse nei dogmi e nelle parole di Cristo? Contenuti universali o la sua soggettiva esperienza? Gli articoli di fede o un’esperienza di vita? Un «vissuto» - per usare il linguaggio di Husserl – o un pensato?

Tommaso si preoccupa di mostrare come gli attributi di Dio siano in armonia fra di loro, formino un tutto unitario, e come esista tra di essi un nesso logico e ragionevole reciproco, per cui, se neghiamo anche uno solo di questi attributi essenziali e necessari, cadono tutti gi altri. Tommaso, basandosi sulla Scrittura, mette in luce come tra Dio e uomo, tra il divino e l’umano, tra ragione umana e ragione divina esiste una somiglianza, un’analogia, una possibilità di accordo, essendo la ragione umana creata dalla Ragione divina, ad immagine della Ragione divina.

Lutero, invece, prendendo a pretesto l’opposizione dell’umano al divino, che pur a volte si trova nella bocca di Cristo, opposizione che per la verità fa seguito al peccato originale, crea un’insanabile opposizione o frattura fra l’umano e il divino, sicchè l’uomo non appare più come creatura di Dio ma una specie di nemico di Dio alla maniera del manicheismo, e viceversa Dio appare nemico dell’uomo, per cui, per affermare il divino, nega l’umano e per affermare l’umano nega il divino, per affermare la fede nega la ragione, per affermare il perdono e la grazia nega la natura, il libero arbitrio e il merito; per affermare la misericordia nega la giustizia.

Dal che consegue che l’affermazione della natura comporta la negazione della grazia e l’affermazione di quel pelagianesimo che pur intendeva escludere. Dalla negazione della natura sorgerà l’idealismo e il panteismo di Hegel; dalla negazione della grazia sorgerà l’illuminismo razionalista e massonico del sec. XVIII fino all’ateismo di Marx.

Il credere ripugna alla ragione

La fede, per Lutero, è sì effetto della grazia, ma non nasce da un ragionamento, bensì da un’esperienza emotiva formidabile, spontanea, sconvolgente e originaria, trascinatrice, entusiasmante ed affascinante, occasionata dal contatto con la Bibbia o col credente, un’esperienza che sorge da uno stadio preconscio e preconcettuale dell’io, un’esperienza ora di consolazione e conforto celeste ed ineffabile, ora di angoscia mortale e spavento indescrivibili, ora di certezza assoluta, ora di dubbio atroce,  che scuotono e coinvolgono tutto l’essere umano nelle sue fibre più intime, sin dalle  fondamenta del suo essere.

La fede genera l’assoluta certezza di essere salvi per «pura fede» (sola fides), «per la promessa di Cristo», nonostante il rimprovero della coscienza che denuncia la nostra colpevolezza, certi di essere perdonati anche se non siamo pentiti. È questa una contraddizione? È una cosa impossibile? Per nulla, risponde Lutero, state tranquilli, perché nulla è impossibile a Dio, equivocando evidentemente le parole dell’angelo a Maria, il quale intende dire che Dio è infinitamente più potente dell’uomo e non intende affatto negare il principio di non-contraddizione col sostenere che è possibile l’impossibile.

È vero che la Scrittura ogni tanto ha delle espressioni paradossali su Dio. Ma non bisogna confondere il linguaggio paradossale col discorso assurdo, contradditorio o insensato. Il paradosso è solo un modo di esprimersi dotato di una sua efficacia ed incisività, ma non ha nulla a che vedere con ciò che intendiamo dire ovvero col contenuto concettuale del discorso. Lutero, col pretesto del linguaggio biblico, finisce per giocare sull’equivoco che provoca l’eresia.

Il paradosso è usato nell’oratoria o nella letteratura, ma non certo nella scienza e quindi in teologia. Può valere nella mistica. Ad ogni modo lo scrittore onesto e leale fa un uso sobrio e prudente del paradosso, avendo cura di intercalarlo con l’espressione formale, appropriata ed ortodossa, onde evitare di ingenerare eventuali confusioni, equivoci o scandali che possono sorgere soprattutto nelle menti semplici e ignare di questa figura retorica.

Lutero identifica la teologia con la mistica

Il pregio della teologia di San Tommaso, del suo concetto di Dio e di come essa sa parlare di Dio, è dato dal fatto che Tommaso dà all’esperienza mistica e al linguaggio mistico tutto lo spazio legittimo che ad essi è consentito[4], riconoscendo pienamente l’oscurità dell’essenza divina, ma nel contempo la sua conoscibilità e concepibilità nelle formule dogmatiche, nonché  la sua visibilità intuitiva ed immediata da parte dell’intelletto dei beati, ed inoltre  l’incomprensibilità ed ineffabilità divine, conformemente all’insegnamento biblico, ma negando assolutamente che sia impossibile formarsi un concetto razionale di Dio e dei suoi attributi, nonché nominare il nome di Dio, senza per questo abbracciare la forma gnostica del razionalismo hegeliano, col suo modo idealista  di concepire il concetto.

Nel contempo Tommaso riconosce alla ragione speculativa tutto il suo potere, seppur limitato, e tutti i suoi diritti e doveri nell’indagare, concepire e dimostrare ciò che di Dio è per noi indagabile, concepibile e dimostrabile e con ciò stesso esprimibile nel linguaggio della teologia e della predicazione.

Il contrasto fra Lutero e Tommaso è emblematico di due modi fondamentali di affrontare il rapporto con Dio, contrasto che si potrebbe esprimere nei seguenti termini: Tommaso vuol capire per sperimentare; a Lutero interessa poco il capire; per lui l’importante è il sentire, lo sperimentare. 

Per Tommaso la parola contiene la verità. L’esperienza sperimenta ciò che è espresso con la parola; per Lutero la parola è solo un’esternazione emotiva secondaria, provvisoria ed ambigua della verità dell’esperienza. È necessaria, ma solo per esprimere o evocare l’esperienza o condurre all’esperienza. Ciò non impedisce a Lutero di essere attaccatissimo alle formule della sua fede. Comunque, per Lutero la verità non è nel dogma, ma nella mistica.

Per Tommaso la mistica è esperienza emotiva di ciò che è espresso nella verità del dogma. Come dice lo stesso Lutero: «Dio non lo si può intendere, ma lo si sente»[5]. È evidente una tendenza sensista e materialista, mascherata da mistica. Per questo la Chiesa raccomanda Tommaso e ha messo in guardia contro Lutero.

Nell’apologetica luterana, al contrario di quella tomista, veramente conforme alla Scrittura, non si tratta di comunicare concetti, ma sensazioni; non si tratta di illuminare l’intelletto, ma di scaldare la passione; non di dimostrare ma di raccontare, non di ragionare, ma di far sperimentare, non di persuadere, ma di stimolare, non di di attirare la volontà, ma di affascinare la sensibilità e l’istinto.

Rosmini[6]

Concetto di Dio sufficiente alla salvezza è quello rosminiano: Dio come essere ideale assoluto intuito esplicitando la nozione apriorica dell’essere ideale come tale. Anche qui il cammino è lo stesso di Sant’Anselmo, con la differenza che mentre Sant’Anselmo parte dal concetto dell’essere perfettissimo, Rosmini parte dall’essere ideale assoluto identico al reale, coincidenza di essenza ed essere, come anche in Anselmo. Rosmini evita l’idealismo e resta nel realismo, perché per lui Dio esiste realmente fuori dell’anima, creatore dell’anima. Questo è l’essenziale da salvare, anche se la prova a posteriori è assente.

Concetti insufficienti di Dio

L’importanza della metafisica è data dal fatto che essa considera l’ente in quanto tale e le proprietà trascendentali dell’ente. E Dio è l’ente sommo, primo, supremo e perfettissimo.  Ora l’ente perfettissimo, id quo nihil maius cogitari potest, è quell’ente la cui essenza è quella di essere, come lo ha rivelato Dio a Mosè: «Io sono» (Es 3.14). Sono l’ente assolutamente necessario: non posso non esistere, perchè l’essere sussistente è la mia essenza. Ossia io sono o esisto per essenza. Io quindi sono l’ipsum Esse per se subsistens, come ha detto San Tommaso.

Dio dice di Sé: il mio essere è la mia essenza e la mia essenza è quella di essere. Dio è puro atto di essere, senza potenza di essere, o essenza che faccia da soggetto dell’essere, come è in tutte le creature, che hanno l’essere e non sono l’essere. Il che vuol dire che in Dio l’essenza-potenza-di-essere non è distinta dal suo atto d’essere, ma coincide con il suo essere. Egli in tal senso è essere puro.

Notiamo bene: Dio non è semplicemente l’essere in generale o l’essere comune, che riguarda tutte le cose in quanto enti. Se no si cadrebbe nel panteismo. Dio è un ente o essere specialissimo, individualissimo, singolarissimo, unico, sostanziale e personale: l’ipsum Esse. E di ipsum Esse ce n’è uno solo. Ecco il monoteismo.

Per formarsi poi un concetto di Dio, occorre in particolare il concetto dello spirito. Occorre aver scoperto dell’esistenza dello spirito, cosa che è possibile riflettendo sull’attività spirituale propria e degli altri. Occorre capire il primato dello spirito sulla materia. La stima dello spirito in generale non vuol dire ancora aver dimostrato l’esistenza di Dio, perché si può scambiare Dio per un angelo, santo o malvagio che sia. Il politeismo è un culto degli angeli e giustamente San Paolo ci ricorda che «i sacrifici dei pagani sono fatti a demoni» (I Cor 10,20).

Lo Spirito di Hegel e di Gentile, negatività che pone se stessa come mondo, per tornare a sé come Spirito, in opposizione a se stessa, dove bene e male, essere e non-essere, vero e falso s’identificano, non mostra per la verità le proprietà della natura divina, ma quelle tenebrose dello spirito impuro o malvagio, il  demonio, personaggio ben noto nella Scrittura e nelle religioni - il «dio di questo mondo», espressione hegeliana che si ritrova in San Paolo - che appunto oppone sé a sé nella disobbedienza a Dio e nell’atto di superbia col quale assolutizza se stesso.

L’idolatria

A tal riguardo la Scrittura parla del dio «fatto dalle mani dell’uomo»[7]. Essa si riferisce immediatamente alla fabbricazione degli idoli, ma è chiaro che il discorso si può applicare anche all’opera del pensiero o dell’immaginazione, ossia alla produzione di un Dio immaginario non corrispondente al Dio reale.

E allora è chiaro che l’idolatria non è soltanto il grossolano e volgare culto degli idoli, che facilmente diventa o nasconde totemismo, sciamanismo, vuduismo, spiritismo, satanismo, divinazione o stregoneria, ma idoli sono anche quei raffinati concetti di Dio che non rappresentano il Dio reale, ma un Dio inventato ad usum delphini,[8] dove Dio è lo stesso contenuto del concetto.

Noi produciamo il concetto di Dio, ma non produciamo Dio

Se il pensiero coincidesse con l’essere, noi produrremmo Dio

Ora, posto che siamo noi a produrre i nostri concetti, se formiamo un concetto di Dio non basandoci sul Dio reale, ma mettendo dentro a questo concetto falsi attributi divini, ossia quello che fa al nostro comodo, è chiaro che il contenuto intellegibile di questo concetto non corrisponderà a ciò che Dio è veramente, al Dio reale fuori della nostra anima, ma ad un idolo inventato da noi stessi, estraneo al Dio reale. Non si tratterà più del Dio trascendente, creatore della nostra mente, ma sarà la nostra mente a produrre Dio. Ma Dio qui non è altro che un ente immaginario. Non è altro che un idolo.

Che Dio è infatti un Dio prodotto da noi? Come fa a salvarci? Come è possibile dipendere da ciò che dipende da noi? È assurdo! Diciamo francamente che siamo noi a volerci sostituire a Dio per normare la nostra condotta secondo il nostro piacere e non tiriamo fuori pretesti metafisici, esistenziali, trascendentali o filosofici o cose del genere.

Potrebbe allora aver ragione Feuerbach a dire che Dio non esiste, ma è solo un’invenzione della nostra mente. Tuttavia Feuerbach è sì preoccupato di abbattere gli idoli, ma non si preoccupa di sostituirli col vero Dio e questo perché Feuerbach non abbatte solo il Dio di Hegel ma con lui il vero Dio della ragione naturale e della fede. Egli alla fine vorrebbe sostituire Dio con l’uomo, per cui il suo idolo diventa l’uomo.

Se invece il concetto di Dio viene privato di quel minimo di elementi che sono indispensabili a costituire la divinità, come la trascendenza, la spiritualità, l’infinità e l’onnipotenza, succede che il suo volto scompare del tutto, per essere sostituito o dal nostro io o da qualche creatura anche sublime come potrebbe essere l’angelo decaduto che «si maschera da angelo della luce» (II Cor 11,14). Sono gli dèi pagani.

In sostanza, per poter instaurare un rapporto salvifico con Dio, si possono trascurare o non capire alcuni attributi di Dio molto sottili, come l’aseità o la predestinazione o la elezione, purchè lo riconosciamo come causa prima e fine ultimo trascendente, giusto e misericordioso, del quale possiamo sperimentare la presenza nella nostra anima nell’unione mistica silenziosa con Lui, che venga concepito come ente, sostanza e persona, della quale noi siamo immagine, per cui Dio nella Bibbia ci parla di Sé, ci dà ordini su come dobbiamo comportarci, noi gli possiamo parlare nella preghiera e possiamo parlare di Lui al prossimo nella predicazione e guidarlo verso la salvezza manifestandogli la sua volontà.

Esistono concezioni della realtà o della conoscenza che conducono all’ateismo. Chi per esempio sostiene che lo spirito è una sublimazione evolutiva della materia, non sfugge all’ateismo, perché Dio è puro spirito creatore della materia. Qui dobbiamo citare Democrito, Marx, Lenin, Engels, Comte, Spencer, Darwin, Freud e Teilhard de Chardin, per quanto in effetti sia stato uno spirito religioso.

Parmenide[9]

Conduce all’ateismo il monismo ontologico di Parmenide, che identifica l’essere con l’essere assoluto, per cui esiste un solo essere, che è l’essere assoluto e la molteplicità e il divenire sono solo apparenza. Il mondo è l’apparire di Dio. E noi siamo l’apparire di Dio. Ecco il panteismo. Ma se tutto è Dio e Dio è tutte le cose, Dio non trascende il mondo, ma il mondo è Dio. Il mondo sostituisce Dio. Ecco dunque l’ateismo.

Quanto all’evoluzionismo eracliteo, esso implica il nichilismo. Dato che infatti l’essere ha una sua fissità, necessità e immutabilità, che consente la sua identità e identificazione, è ente anche l’ente diveniente o in movimento, perché anch’esso è ente. Se questa identità è negata, si avrà un bel parlare di divenire o movimento. Infatti la negazione dell’essere non è che il nulla.

Occorre osservare che anche il divenire ha un suo volto, una sua identità, è qualcosa di determinato, ha un’essenza, per cui nel momento in cui avviene, non può non avvenire ed essere, appartenere all’essere. Sennò sarebbe inconoscibile ed irriconoscibile. Invece noi distinguiamo ciò che si muove da ciò che non si muove.

È però un errore credere che il divenire sia più dell’essere, come il moto della vita è più dell’inerzia o immobilità del sasso. Al contrario, è il divenire ad essere meno dell’essere, perché è un tender verso l’essere, un imperfetto che tende alla perfezione, un esser in potenza, un non essere ancora, mentre l’essere è la sua attuazione.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 3 novembre 2023

 

La Scrittura parla del dio «fatto dalle mani dell’uomo». Essa si riferisce immediatamente alla fabbricazione degli idoli, ma è chiaro che il discorso si può applicare anche all’opera del pensiero o dell’immaginazione, ossia alla produzione di un Dio immaginario non corrispondente al Dio reale.

E allora è chiaro che l’idolatria non è soltanto il grossolano e volgare culto degli idoli, che facilmente diventa o nasconde totemismo, sciamanismo, vuduismo, spiritismo, satanismo, divinazione o stregoneria, ma idoli sono anche quei raffinati concetti di Dio che non rappresentano il Dio reale, ma un Dio inventato ad usum delphini, dove Dio è lo stesso contenuto del concetto.

Ora, posto che siamo noi a produrre i nostri concetti, se formiamo un concetto di Dio non basandoci sul Dio reale, ma mettendo dentro a questo concetto falsi attributi divini, ossia quello che fa al nostro comodo, è chiaro che il contenuto intellegibile di questo concetto non corrisponderà a ciò che Dio è veramente, al Dio reale fuori della nostra anima, ma ad un idolo inventato da noi stessi, estraneo al Dio reale. Non si tratterà più del Dio trascendente, creatore della nostra mente, ma sarà la nostra mente a produrre Dio. Ma Dio qui non è altro che un ente immaginario. Non è altro che un idolo.

Immagine da Internet: Divinità Etrusche

[1] Una buona esposizione di come Lutero concepiva Dio si trova in Rudolf Otto, Il Sacro, Edizioni SE, Milano 2018, pp.110-131.

[2] Lo riferisce Maritain nel suo libro Tre Riformatori.

[3] Heidegger espone il concetto luterano di verità rivestito di panni greci e privato del suo rapporto di fede in Dio nel suo libro L’essenza della verità, Morcelliana, Brescia 2021.

[4] Vedi il mio libro Il silenzio della parola. Le mistiche a confronto. Edizioni ESD, Bologna 2002; Jean-Hervé Nicolas, Dieu connu comme inconnu, Desclée de Brouwer, Paris 1966.

[5] Cit. da Rudolf Otto, op.cit., p.147.

[6] Cornelio Fabro, L’enigma Rosmini, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma 1988.

[7] Cf Dt 4,28; II Re 19,18; II Cr 32,19; Sal 115,4; 135, 15; Sap13,10; Is 2.8; Dn 14,5; Os 14,4.

[8] Per esempio un Dio pura idea, un Dio astratto, contradditorio, pura volontà, capriccioso, irrazionale, materiale, mutevole, passibile, peccatore, tiranno, crudele, ingiusto, inetto, impotente, ecc.

[9] Cf Parmenide, Poema sulla natura, a cura di Giovani Reale e Luigi Ruggiu, Rusconi, Milano 1991.

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