La dialettica hegeliana come apologia della doppiezza

La dialettica hegeliana come apologia della doppiezza

Tu maledici l’uomo di doppia lingua
        Sir 28,13

                        Se una casa è divisa in se stessa,
                        quella casa non può reggersi
Mc 3,25

Origine della dialettica hegeliana

La dialettica hegeliana è talmente nota, che basterà qui esordire ricordando l’essenziale. Essa nasce in Hegel nell’orizzonte della sua impostazione idealistico-panteista, che conduce alle estreme conseguenze l’idealismo nato da Cartesio attraverso Kant, Fichte e Schelling. In Hegel questo filone di pensiero si congiunge con la temperie del romanticismo tedesco come revival della tipica sintesi di certezza ed angoscia caratteristica dell’anima luterana.

Entrambi questi filoni convergono verso una spiritualità fondata su di un assoluto egocentrismo, per il quale Dio non è più il Tu davanti al soggetto, ma è l’Io radice del soggetto. Sulla base di questo presupposto, Hegel, alla ricerca di un accordo fra i due filoni, l’uno razionalista, l’altro emotivo, giunse alla elaborazione della sua caratteristica «dialettica», che fu un novum nella storia della filosofia, destinata ad avere un enorme successo – si pensi solo all’uso che ne fece Marx – fino ai nostri giorni con l’improntare largamente di sé il modo di pensare e di esprimersi nel linguaggio dell’attuale cultura relativistica dominante.

In genere, la dialettica è un processo logico-linguistico, che avviene tra due opposti: colui che afferma e colui che nega. Ma a quale scopo? Per cercare la verità, s’intende. Senonchè però di per sé la dialettica, che è uno scambio o un confronto di pareri o di opinioni, un dialogo tra due disputanti, non dà la verità, ma solo l’opinione.

Alla fine della discussione, infatti, la cui durata è stabilita in anticipo, come una gara sportiva,  i due contendenti tornano ad avere le stesse idee che avevano alla partenza. Nessuno dei due ha imparato dall’altro, tanto da dover cambiare idea. Ma allora a che cosa serve? Ad avvinarsi alla verità, la quale, con la ripresa del dialogo, può essere comunemente raggiunta.

Lo schema fondamentale della dialettica, che è l’arte del dialogo, comporta tre tappe o momenti: apre il confronto uno dei dialoganti con una sua tesi affermativa. Segue la negazione della tesi, ossia l’antitesi, ad opera dell’altro dialogante. Conclude, per il momento, il primo, negando la negazione. Ma restano in piedi le due opposte tesi, perché si suppone che il negante non sia soddisfatto degli argomenti dell’affermante, che sono solo probabili, non dimostrativi. La conclusione dialettica, quindi, può essere rimessa in discussione in un successivo dialogo o confronto.

La dialettica si distingue dalla scienza, la quale può essere la conclusione di un precedente confronto dialettico, al temine del quale si scopre la verità a causa degli argomenti dimostrativi, che uno dei dialoganti è stato capace di produrre nel corso del dibattito, tali, quindi, da chiudere la discussione. In questo caso, una delle tesi si mostra falsa, per cui viene a cadere.

Il procedimento scientifico è diverso da quello dialettico. Il primo è un sillogismo dimostrativo, che viene esposto dal maestro al discepolo. Il discepolo può fare obiezioni o presentare difficoltà o apparenti contraddizioni, che però vengono risolte dal maestro. Ma se nella dottrina del maestro c’è una contraddizione reale, essa non può essere risolta, ma fa crollare la dottrina del maestro convincendola di falsità. L’errore di Hegel, come vedremo, è quello di credere che possa essere «risolta» una contraddizione reale, come se non valesse il principio di non-contraddizione[1].

La dialettica esisteva già dall’epoca di Platone ed Aristotele; ma mentre in Platone essa serviva solo come via per arrivare alla contemplazione delle Idee e in  Aristotele per regolare semplicemente il confronto delle opinioni, in Hegel la dialettica occupa tutto lo spazio del pensiero, dalla scienza sperimentale  sensibile alla conoscenza dell’Assoluto. Si aggiunga, in Hegel, l’identificazione eraclitea dell’essere col divenire, cosa che comporterà la sostituzione della storia alla metafisica.

Nel contempo Hegel assume la riduzione cartesiana dell’essere all’idea e il passaggio luterano dal Dio-in-sé al Dio-in-me. Ma ciò non basta ancora a spiegare la nascita della dialettica hegeliana. Si danno infatti anche altri elementi ispiratori, i tre fattori decisivi: il moto ideale circolare in tre tappe dello spirito in Proclo (stasi-uscita-ritorno), la «dialettica trascendentale kantiana»[2] della ragione speculativa e il principio dell’arte magica Giordano Bruno, laddove afferma:

 «profonda magia è saper trovare il contrario, dopo aver trovato il punto di unione», parole che Hegel riprende e commenta così: «il più grande non è trovare il punto di unificazione, sibbene svolgere da esso anche il suo opposto: ecco il vero e profondissimo segreto dell’arte»[3].
  
Come non ricavare da questo precetto perverso la liceità se non il dovere di mescolare la menzogna con la verità e il vizio con la virtù a seconda delle convenienze e delle «situazioni»?

Chi ci dice, d’altra parte, che questo metodo diabolico, questa dialettica demoniaca non fosse già presente nella morale e nella dialettica dei Catari, i quali, nel sec.XIII, insegnavano che la saggezza stava nella congiunzione degli opposti, unire, per esempio la pratica della lussuria alla più disumana astinenza sessuale?

Ma per capire l’anima profonda della dialettica hegeliana, bisogna leggere quello che nelle Lezioni sulla storia della filosofia, dice della concezione del Dio trinitario di Jakob Böhme, mistico luterano tedesco del ‘600. Prenderemo qui solo alcuni brani significativi di Hegel, cominciando da questa sua citazione del Böhme:

«Dio è tutto, è tenebra e luce, amore ed ira; ma Egli nomina se stesso soltanto come il Dio Uno, secondo la luce del suo amore. Egli è un eterno Contrario tra tenebra e luce: nessuna delle due afferra l’altra; nessuna è l’altra e tuttavia si ha soltanto un’Essenza unica, ma distinta per via del tormento (Qual); e anche per via della volontà, ma tuttavia non è essenza separabile. Un unico principio vi attua la distinzione, che l’uno è nell’altro come un nulla, e tuttavia è; ma secondo la proprietà di esso, è in esso, ma non manifestamente»[4].

Commenta Hegel:

«Col “tormento” si esprime quella che è la negatività assoluta, la negatività consapevole di sé, sentita; il negativo che si riferisce a se stesso, il quale perciò  è affermazione assoluta. Intorno a questo punto si aggirano tutti gli sforzi di Böhme: in lui il principio del concetto è perfettamente vivo, ma egli non riesce ad esprimerlo nella forma del pensiero. Tutto infatti sta nel pensare il negativo come semplice, poiché esso è ad un tempo un opposto: il tormento è dunque questa interiore scissione e ad un tempo il semplice. Dalla parola Qual, tormento, Böhme fa derivare Quellen, fonti, bel gioco di parole; perché il tormento, Qual, questa negatività, trapassa nella vita, nell’attività e così Böhme lo accoppia anche  con qualità, Qualität, di cui fa Qualität: si ha dunque in lui l’assoluta identità dei distinti»[5].

Hegel confonde il distinguere col dividere: distinguere è opera benefica dell’intelletto, che vede la diversità e le differenze, prepara l’unione dei distinti o dei diversi. Il dividere o separare, invece, è opera del Divisore, del diabolos, che  disintegra ciò che è uno, crea dualismi, doppiezze, contrapposizioni, conflitti, e divide ciò che è unito.

Il concetto di Dio che Hegel desume da Böhme implica un distinguersi che è al contempo un autonegarsi come opposizione di bene e di male. Dio stesso è dialettico come opposizione di bene e di male, sicchè il male entra nell’essenza divina, sia pur negato e superato dal bene[6].  Ciò comporta, in Hegel, un duplice paradossale risultato, che da una parte il male, assunto da Dio, sembra sparire, sicchè tutto diventa bene; ma dall’altra, il male, appunto perchè assunto da Dio, sembra diventare un assoluto.  Da qui da una parte un monismo ottimista, ma dall’altra un tragedismo dialettico insuperabile. Per questo Vito Mancuso ha avuto ragione di parlare di «imperdonabile assenza nella teologia di Hegel, del “Principe di questo mondo”»[7]. Ma avrebbe potuto altrettanto bene parlare di una teologia che divinizza il demonio.

Un colpo al cerchio e uno alla botte

La dialettica hegeliana fonda un modo di pensare e di ragionare, e quindi di esprimersi e di parlare, che non si accontenta di procedere per negazioni, antitesi ed opposizioni, cosa che è caratteristica della dialettica come tale; ma, come è noto, pretende di superare il piano del probabile e dell’opinabile, per elevarsi al piano apodittico della scienza ed anzi di una scienza assoluta, simile a quella divina, dimenticando che nella dialettica sana e normale gli opposti per loro natura coesistono pacificamente perché sono ignote la verità e la certezza.
 Viceversa la scienza, per essere scienza e non opinione, deve sapere inequivocabilmente, oggettivamente, precisamente,  dimostrativamente e con certezza da che parte sta la verità, superando l’oscillazione propria del pensare dialettico. La scienza toglie e fa cessare la pluralità delle varie possibili contrastanti soluzioni o risposte e si ferma ad una sola, che è la conclusione vera, definitiva, giusta ed indiscutibile. Se il probabile può essere altro da sé, il vero è uno solo. Invece in Hegel la verità è circolare: una volta che lo spirito, dopo aver negato sé, torna a sè nella semplicità dell’inizio, il moto dialettico ricomincia e il ciclo si ripete senza fine. 

L’identità (l’«in sè») è solo la semplicità e la quiete dell’inizio e della fine del moto circolare. Ma essa, nella sua interezza (l’«intero») sta nel moto non dall’identico al contrario, ma anche al contradditorio (il «per sè»), che Hegel identifica con il diverso, ossia con l’altro (l’«in sé e per sé»). In tal modo non ci sono più alternative assolute (o vero o falso: aut-aut, terzo escluso), ma anche i contradditori sono in relazione (vero e falso: et-et, terzo incluso). 

Nel primo momento dell’in sé, secondo Hegel, non abbiamo ancora la scienza, non c’è ancora la verità, ma solo l’opinione, l’apparenza. Esso corrisponde all’affermazione del vero, ma poiché non è ancora in atto il principio del movimento dialettico, che è la negazione, i concetti sono fissi e si dà una netta ed assoluta opposizione fra vero e falso, col rifiuto incondizionato del falso. Invece, dice Hegel, occorre che i concetti diventino «fluidi»; occorre «abbandonare il fisso»[8] . Solo così, dice Hegel, 

«i puri pensieri divengono concetti e soltanto allora essi sono ciò che essi veramente sono: automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali. Questo movimento delle essenze pure costituisce in generale la natura della scientificità»[9]

Ciò avviene nel secondo momento del moto dialettico, quello della negazione,  nel quale occorre affermare senza ripugnanza anche il falso, perchè è solo da ciò che è per negazione che nasce la verità, la quale sorge al terzo momento, che è quello della sintesi vero-falso. 

Così per Hegel dal falso nasce il vero in forza della negazione del vero. Falso e vero devono convivere perché possa darsi il vero. Il falso è l’«accidentale», che all’interno del vero sostanziale, 

«guadagna una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà» grazie all’«immane potenza del negativo, che è l’energia del pensare»[10]

Il negare è la potenza del pensiero, che è potere di negazione, di pensare il falso inteso come negazione del vero. Per questo, il falso non va respinto, ma va affrontato e mantenuto all’interno dello spirito, in modo tale che sia presente ad un tempo il vero e il falso. Così lo spirito

 «guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo, che non si dà cura del negativo, come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perchè sa guardare in faccia al negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza, che volge il negativo nell’essere. Essa è  quel Soggetto, il quale, mentre nel proprio elemento dà esistenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta e cioè in genere solo essente o l’immediatezza che non ha la mediazione fuori di lei, ma è questa stessa mediazione».

Per questo, secondo Hegel, opporre in modo assoluto vero e falso è sbagliato, ma occorre porli in relazione reciproca, perché l’uno non può fare a meno dell’altro.
Le teorie che vorrebbero opporsi tra di loro assolutamente 

«appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento, vorrebbero valere come particolari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra di là, rigidamente isolate e senza reciproca comunanza: contro una simile concezione si deve decisamente affermare che la verità non è moneta coniata, la quale, così com’è, possa venir spesa e incassata. Esiste un falso, quanto poco esiste un cattivo. Falso e cattivo non sono mica perfidi come il diavolo, tanto è vero che, volendoli prendere per diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolari; mentre essi, in quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali, pur avendo, l’uno rispetto all’altro, una propria natura. … »[11].

Vero e falso stanno assieme e devono essere in relazione tra di loro. Non si può trafficare il vero isolatamente e indipendentemente dal falso. Cristo e Beliar devono essere in rapporto tra di loro. Il falso e il cattivo non c’entrano col diavolo, ma con la logica.  Il falso e il cattivo sono rispettivamente i momenti necessari della mediazione dello spirito con se stesso e il momento negativo, che consente la negazione della negazione e il ritorno del vero e del bene. 

«Alcunchè vien saputo falsamente, significa: il sapere è in ineguaglianza con la sua sostanza. Ma proprio tale ineguaglianza è il distinguere in generale, che è momento essenziale. Da tale distinzione deriva l’uguaglianza della distinzione stessa, e tale uguaglianza divenuta è la verità. Ma questa è verità non come se la disuguaglianza fosse stata eliminata, a quel modo che dal metallo puro è stata espulsa la scoria; e neppure è essa verità, come dalla botte or ora costruita si è rimosso l’arnese; anzi l’ineguaglianza stessa è ancora immediatamente presente nel vero come tale, è presente come il negativo, come il sé.
Nell’espressione “in ogni falso c’è qualcosa di vero”, quei due termini vengono presi come l’olio e l’acqua, che, senza mescolarsi, si trovano insieme solo esteriormente. … Così le espressioni di soggetto e oggetto, di finito e infinito, di essere e di pensare, ecc., hanno l’inconveniente che i termini soggetto, oggetto ecc. significano ciò che essi sono al di fuori della loro unità; e nell’unità, quindi, essi non sono da intendersi così, come suona la loro espressione: altrettanto il falso, non più come falso, è un momento della verità»[12].

Anche S.Tommaso riconosce che in ogni errore c’è una parte di verità, perché noi non siamo naturalmente attratti dall’errore, ma dalla verità, cosicchè noi cadiamo in errore perché ingannati dalla parvenza di verità che esso contiene e così scambiamo per verità l’errore: ma, se non siamo proprio attaccati all’errore ed amiamo il vero, siamo grati a chi mette in luce il vero e ci libera dall’errore. Ben diverso invece è il pensiero di Hegel. Per lui non si tratta di respingere l’errore e di abbracciare il vero, ma di accoglierli entrambi.

Infatti per lui non si deve separare il falso dal vero, perché il falso è un momento del vero. Non c’è vero senza falso. Separare il falso dal vero vuol dire falsificare il vero. Hegel confonde il concetto del vero e falso con la loro realtà. È vero che i concetti di vero e falso si richiamano e s’illuminano a vicenda. Ma non è affatto necessaria la realtà del falso e del male all’esistenza della verità e del bene.

«La verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso, qualora potesse venir considerato esso stesso  come essenziale; esso, cioè, non è da considerare nella determinazione di alcunché  di rigido, che, tagliato via dal vero, debba venire abbandonato dove che sia, al di fuori di questo, né d’altronde il vero è da considerare come un alcunché di positivizzato e di morto, giacente inerte dall’altra parte. … Per tal motivo il vero è il trionfo bacchico, dove non c’è un membro che non sia ebbro, e poiché ogni membro nel mentre si isola, altrettanto immediatamente si risolve, il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice»[13] .

La grave illusione di Hegel è la sua concezione del cammino dello spirito umano verso la verità come se si trattasse di un moto circolare articolato secondo la scissione della semplicità iniziale nell’opposizione tra affermazione e negazione (delirio bacchico). Ma è proprio la stessa opposizione «devastante», l’inquietudine della contraddizione (il «potere del negativo»), che è il principio della riconciliazione, che qui Hegel chiama «risoluzione», ossia il ritorno al semplice e al quieto, il ritorno all’uno.

È qui che abbiamo il principio della doppiezza. Infatti in Hegel la conciliazione toglie bensì la contraddizione; ma per giungere ad essa occorre l’opposizione, occorre il conflitto, occorre il «negativo». In sostanza, per giungere al vero occorre il falso. Per arrivare al bene occorre il male. Da qui la legittimità della coesistenza di vero e di falso, bene e male, e quindi la giustificazione della doppiezza. 

Non l’opposizione assoluta, non l’esclusione reciproca di sì e di no, ma la relazione reciproca; oltre all’opposizione tra il sì e il no vi è una terza possibilità: il sì-no: la loro sintesi, il loro accordo. Non il terzo escluso, ma il terzo incluso. È questa la conciliazione hegeliana: non la conciliazione tra due beni, ossia dell’uomo peccatore col Dio santo, ma la conciliazione del vero col falso, del bene col male, di Cristo con Beliar.

In tal modo, come nota giustamente Mancuso, in Hegel la coscienza umana dialetticamente costituita ed idealisticamente concepita come io assoluto, non ha da riconciliarsi con un Dio esterno e trascendente, ma essa, in forza della dialettica, si scinde in se stessa per riconciliarsi con se stessa[14].

La contraddizione

La contraddizione, originariamente, come dice la parola stessa, è un dire-contro. Comporta un contrasto di idee. Comporta l’opposizione della negazione all’affermazione, l’opposizione del no al sì. Ci può essere anche una contraddizione reciproca. A contraddice a B e B contraddice ad A.

La contraddizione può avere un aspetto logico ed un aspetto morale. Vi può essere una contraddizione in un discorso, quando prima si dice una cosa e poi il suo contrario. Oppure un giudizio stesso può essere in contraddizione con se stesso, a causa di due predicati tra di loro incompossibili come se io dicessi: ho disegnato un cerchio quadrato oppure l’uomo è una bestia, oppure: in Norvegia ci sono montagne senza valli. La contraddizione, come atto del giudizio e del linguaggio, può essere volontaria come atto moralmente cattivo di slealtà. Il contradditorio ontologico, come reciproco annullamento di essere e non-essere, non può esistere.
Molti concetti sbagliati sono semplicemente contradditori. L’impossibile è impensabile e può essere espresso in parole, le quali hanno senso separatamente l’una dall’altra, ma non congiunte come soggetto e predicato di una proposizione, come se dicessi il gatto è un leone. Il concetto di gatto e quello di leone esistono, sono intellegibili, coerenti e corrispondono al reale, ma solo, separatamente l’uno dall’altro.

Invece il contraddire in senso morale può essere inteso o come un dir di no nel senso della disobbedienza, mentre il sì rappresenta l’obbedire. Ma il contraddire chi dice il falso è atto di saggezza. È  quella che Hegel chiama «negazione della negazione». Il contraddire può essere moralmente proibito, se è un contraddire alla verità o alla realtà. 

Come già è stato stabilito da Aristotele, dovere fondamentale dell’onestà del pensiero e del linguaggio è quello di giudicare, affermare e dire essere ciò che è e giudicare, negare e dire non essere ciò che non è. Questo è il principio della verità del giudizio, espresso da Cristo nelle famose parole: «il vostro parlare sia sì, sì, no, no» (Mt 5,37). Questo principio va assieme al principio morale della sincerità del parlare, per il quale nel linguaggio non dobbiamo contraddire al vero contenuto nella mente o nella coscienza.

L’affermazione e la negazione sono due atti necessari del pensiero e del linguaggio. Essi sono motivati dall’opposizione dell’essere al non-essere. Sulla base infatti dell’intuizione di questa opposizione radicale ed assoluta il pensiero forma  l’affermazione e la negazione fondamentali ed originarie del giudizio, che Parmenide ha espresso nel famoso enunciato del principio di non-contraddizione: «l’essere esiste e il non-essere non esiste». 

Essere e nulla, vero e falso, bene e male non sono semplicemente diversi o differenti, come pensa Hegel, così che possa esistere tra di loro un paragone, un confronto o una reciprocità. Qui non c’è in gioco l’alterità o la molteplicità, ma l’identità inviolabile dell’ente, di ogni ente, uno diverso dall’altro. È l’essere ad essere internamente diversificato, uno e molteplice, secondo il principio dell’analogia e della partecipazione. Se l’essere è il non-essere, tutto è nulla. Qui ha ragione Severino. E qui Hegel ha torto marcio. Il non-essere non è «altro» dall’essere. Il non-essere è nulla. Può limitare l’essere, ma non sintetizzarsi con lui.
Essere e non-essere si oppongono tra di loro per contraddizione. Quindi non può esistere tra loro alcuna conciliazione, come vorrebbe farci credere Hegel perché sono assolutamente inconciliabili. Il male va assolutamente espulso dal bene, senza misericordia. Volerli conciliare è doppiezza ed ipocrisia, violazione del principio di non-contraddizione e del terzo escluso. 

È, come si dice popolarmente, voler tenere un piede su due staffe o fare il doppio gioco. Non vi è tra di loro alcuna relazione reale, né alcuna possibilità di mediazione, tanto  meno possono identificarsi fra di loro, ma possono essere uno solo nell’orizzonte dell’essere logico di ragione (ens rationis), soltanto logica, benché il nulla, per essere  espresso nel linguaggio, debba essere concepito come fosse esistente. Hegel ha capito questo. Il suo errore è stato quello di ridurre l’essere reale all’essere di ragione e al concetto, il pensiero al pensato.

La concezione hegeliana della contraddizione

Come ogni essere ragionevole, anche Hegel, nonostante le sue sparate sulla logicità della contraddizione e sulla contradditorietà della realtà,  si preoccupa, all’occasione, almeno a parole, di evitare le contraddizioni, di mostrare agli avversari che non si contraddice e di accusarli di contraddirsi.

Con tutto ciò egli, come è noto, non rifugge dal fare delle dichiarazioni apertamente e sfrontatamente contradditorie ed assurde, presentate come verità fondamentali e pilastri del suo sistema. Famose fra tutte sono le sue definizioni dell’essere e del divenire e della verità. Diamo qualche esempio:

«In sé il male è la stessa cosa che il bene»[15].

Sull’essenza dell’essere.

«Nell’essere non vi è nulla da intuire, se qui si può parlare di intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla. … Il puro essere e il puro nulla sino dunque lo stesso»[16].

Sull’essenza del divenire:

«Il niente, considerato come immediato uguale a se stesso, è il medesimo che l’essere. La verità dell’essere come del niente è perciò l’unità d’entrambi. Questa unità è il divenire»[17].

Sulla verità:

«Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere non è passato, ma passa nel nulla e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione; ma che anzi essi non sono lo stesso, che essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche separati e inseparabili e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire, movimento in cui l’essere e il nulla sono differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risolta»[18].

La verità non sta nel vero che si oppone al falso e lo esclude assolutamente, ma sta nella coesistenza del vero e del falso, o nel passaggio dall’uno all’altro, e più precisamente in una oscillazione o in un barcamenarsi, a seconda delle convenienze, fra l’opposizione assoluta e l’ opposizione relativa. 

Per questo, diventa lecito affermare di una stessa cosa A e non-A, si  può esprimere il proprio pensiero in modo che possa essere inteso sia come A che come non-A e si può dar ragione contemporaneamente sia a chi dice A che a chi dice non-A. Va bene il matrimonio, ma va bene anche la convivenza; va bene la distinzione maschio-femmina, ma va bene anche omosessualità; va bene la transustanziazione, ma va bene anche la consustanziazione: va bene la fede, ma va bene anche l’incredulità; va bene il teismo, ma va bene anche l’ateismo; va bene S.Tommaso, ma va bene anche Lutero o Hegel o Severino; va bene Cristo, ma va bene anche Maometto e così via.

Per Hegel la contraddizione deve essere evitata in nome del rispetto del principio di identità ma egli intende l’identità dell’essere non come essere idem, essere il medesimo o lo stesso, ma come «identità dell’identità con la non-identità». Egli concepisce l’identità dell’essere non come semplice identità, opposta alla non-identità, ossia come verità opposta alla falsità, ma come identità che nega se stessa, oppone sé a sé,  per tornare a se stessa come «tolta» o «risolta» o «riconciliata con se stessa, ma non come verità che toglie la falsità in modo assoluto, bensì solo in modo relativo, perché la verità è relativa alla falsità, perché il vero non può essere senza il falso[19].

È possibile peraltro che Hegel usi i termini «contraddizione» e  «contradditorio» in senso improprio, per dire l’altro, il differente, il diverso. È possibile che egli s’imbrogli equivocando sulla frase «questo non è quello», come se la negazione di quello volesse dire che tra questo e quello c’è contraddizione ed esclusione reciproca. Invece quel «non» fa capo semplicemente all’analogia dell’essere, che è ad un tempo uno, molteplice e diversificato, senza bisogno di metter l’essere in contrasto con se stesso e senza confondere l’aut-aut con l’et-et, dividendo i diversi e conciliando l’inconciliabile.

Così Hegel tende a confondere la diversità con la conflittualità, per cui il diverso diventa con ciò stesso un nemico, oppure la conflittualità, confusa con la diversità, diventa cosa normale. Non si deve tentare di sedarla, perché sarebbe come spegnere il dinamismo della vita sociale. In Hegel c’è un passaggio senza soluzione di continuità dal  «tu non sei ciò che sono io», al «tu sei diverso da me» al «tu mi sei nemico». 

Infatti, la vera diversità si fonda sulla somiglianza, a sua volta connessa con l’analogia dell’essere, concetto assente dalla metafisica e dalla logica di Hegel, al  quale quindi resta ignoto il vero concetto dell’amore e dell’amicizia. Per lui l’amore comporta l’identità fra i due amanti. Non sa concepire la loro distinzione, perché per lui distinzione o differenza vuol dire già inimicizia, conflitto. Hegel allora dice: «o tu sei uguale a me o tu sei contro di me».

E viceversa la dialettica hegeliana, riducendo il male al bene e il nemico in semplice diverso, smorza la ripugnanza verso il male e lo fa apparire come produttore di bene, mentre l’avversario non è il nemico e il «figlio del diavolo» (I Gv 3,10), ma l’interlocutore del dialogo. Da Hegel sorge tanto l’ingenua visione buonistica dei nostri giorni, quanto la sistematica conflittualità della lotta di classe marxista, tanto la demonizzazione dell’avversario politico, quanto la doppiezza sorniona dei pateracchi truffaldini.

Romano Guardini, dal canto suo, respinge la dialettica hegeliana dell’accordo del bene col male; eppure usa un modo di esprimersi che gli si avvicina, quando prospetta una concezione etica dalla quale scompare la vittoria sul mondo e la lotta contro il nemico ricondotto alle condizioni del semplice «altro», col quale dialogare, secondo la dialettica dell’«opposizione polare». 

«L’essenza di questo procedimento – dice Guardini – consiste nel fatto che l’altro non appare come avversario, ma come “opposto polare”, e i due punti di vista, tesi e antitesi, vengono portati all’unità. … La dottrina dell’”opposizione polare” è la teoria di quel contrasto, che avviene non attraverso una lotta contro un nemico, ma grazie alla sintesi di una tensione feconda, ossia grazie alla costruzione dell’unità concreta»[20]

Non esistono nemici, ma solo amici con i quali dialogare. Tutti, in fondo, sono buoni. Il dialogo, ossia la dialettica, risolve tutto, anche i conflitti più radicali, perché tra bene e male non c’è un’opposizione assoluta, ma una relazione reciproca.

Massimo Borghesi in un libro che narra il cammino intellettuale di Papa Francesco negli anni ’70 del secolo scorso, quando era Provinciale dei Gesuiti, cita alcuni passi del pensiero di Bergoglio, dove è possibile rintracciare questa tendenza a confondere diversità con conflittualità. Trattando di come egli vede il metodo dell’apostolato dei Gesuiti, Bergoglio scrive:

«La concezione ignaziana è la possibilità di armonizzare gli opposti, di invitare a una tavola comune concetti che in apparenza non si potrebbero accostare, perché li colloca su di un piano superiore in cui trovano la loro sintesi. … La storia dei Gesuiti  è segnata da un’unità  capace di plasmare la sintesi degli opposti. Unire riducendo è relativamente facile, ma non duraturo. Più difficile è elaborare un’unità che non annulla il diverso, che non riduce il conflitto; è con questa unità che la Compagnia segnò la sua opera di evangelizzazione»[21].

Qui non è chiaro di quali opposti parla Bergoglio. Infatti, se si tratta di opposti relativi, contrari o reciproci, che mettono in gioco la diversità, come spiegherò più avanti, allora la sintesi è possibile e doverosa. Ma se gli opposti sono in conflitto tra di loro, è impossibile togliere l’opposizione e conciliarli, se non si tolgono le cause del conflitto, assegnando con equità ed imparzialità ad entrambe le parti in contrasto ragioni e torti. Il diverso è un valore e quindi va preservato e difeso. Il conflitto è un difetto che impedisce la pace, l’unità e la concordia e quindi va tolto.   
Si può avere in Hegel un sintomo di questa confusione tra diversità e conflittualità da frasi come queste, le quali diversamente, sarebbero senza senso: «La determinazione è la contraddizione … La differenza è la contraddizione»[22]. In Hegel manca un concetto analogico dell’essere, uno e molteplice, per cui, per fondare le differenze e la diversità degli enti e spiegare il divenire ha a disposizione solo la negazione dell’essere. Quindi, per non negare l’alterità, le differenze, la diversità e il divenire, si vede obbligato a negare il principio di identità.

Per salvare l’identità del divenire senza assurde identificazioni dell’essere col nulla, sarebbe bastato che Hegel avesse assunto le coppie concettuali aristoteliche potenza-atto e materia-forma, riguardanti la generazione, ossia il «cominciare»[23] e la corruzione, ossia il «cessare»[24]

Invece se la prende con l’enunciato del principio del terzo escluso interpretato peraltro alla maniera parmenidea: «o l’essere è o non è; non c’è una terza soluzione»[25], ricordando la precisazione di Parmenide, secondo il quale il divenire non esiste, perché da una parte dall’ente non diviene l’ente, perché è già ente e dall’altra dal non ente non può divenire l’ente. 

Il superamento della contraddizione per Hegel non sta nel respingere l’opposto, ma proprio nell’assumerlo in sé nella sintesi dialettica, mutando il negativo in positivo, perché altrimenti, dice Hegel, invece di realizzare l’identità, si è vinti dalla contraddizione. Dice Hegel:

«Quando un esistente non può nella sua determinazione positivamente estendersi fino ad abbracciare in sé in pari tempo la determinazione negativa e tener ferma l’una nell’altra, non può cioè avere in lui stesso la contraddizione, allora esso non è l’unità vivente stessa, non è fondamento o principio, ma soccombe nella contraddizione»[26]

Occorre tener fermo Cristo e Beliar. Se non li mettete d’accordo, succede che soccombete sotto il loro contrasto.

«Solo quando sono stati spinti all’estremo della contraddizione, i molteplici diventano attivi e viventi l’uno di fronte all’altro e nella contraddizione acquistano la negatività, che è la pulsazione immanente del muoversi e della vitalità»[27].

«Ogni determinazione, ogni concreto, ogni concetto è essenzialmente un’unità di momenti distinti e distinguibili, che diventano contradditori mediante la differenza determinata, essenziale. Questo contradditorio si risolve certamente in nulla, torna nella sua unità negativa. La cosa, il soggetto, il concetto è ora appunto questa stessa unità negativa; è un che di contradditorio in se stesso, ma è anche insieme la contraddizione risolta; è il fondamento che sostiene e regge le sue determinazioni»[28]
 
Il differente, determinandosi, diventa contradditorio, cade nel nulla, ma con ciò stesso la contraddizione si risolve e torna nella sua unità negativa, la quale è il fondamento, che sostiene e regge le sue determinazioni, ossia è il soggetto produttore della polarità positivo-negativo, che si risolve. 

Rifiuto del principio del terzo escluso

Il principio del terzo escluso dice che ogni cosa o è A o non-A. Non può essere simultaneamente A e non A, perché si elidono a vicenda. Questa terza possibilità è esclusa.  L’uomo, per esempio, è un animale razionale, per cui non può essere un animale irrazionale. È escluso, quindi, che possa essere ad un tempo razionale ed irrazionale. 

Per far funzionare il principio del terzo escluso e dargli la sua forza irresistibile di verità, bisogna far riferimento a definizioni di essenze, come nell’esempio succitato. Per questo, dato che nella definizione un predicato è vero e l’altro è falso, il principio dice che non c’è una via di mezzo, non c’è una terza possibilità fra il vero e il falso. Potremmo chiamarlo anche il principio dell’aut-aut. Questo è il principio della lealtà del linguaggio, contro la doppiezza, che ammette invece la terza possibilità del congiungimento del vero col falso, il doppio senso o doppio parlare.

Hegel invece lo fraintende scambiandolo addirittura per contradditorio, perché vede nella alternativa che ogni cosa  o è A o è B l’accoppiamento irrelato di due proposizioni che si contraddicono , delle quali una dice che una cosa è se stessa (una cosa è A), mentre l’altra  dice che ogni cosa è rapporto con altra (non è non-A).

Da qui il suo infierire contro il principio del terzo escluso, perché offenderebbe a suo dire il principio il principio di identità e sarebbe contradditorio. Dice: «Questa proposizione della opposizione contraddice nel modo più esplicito la proposizione dell’identità. .. La proposizione del terzo escluso è la proposizione dell’intelletto determinato, che vuole respinger da sé la contraddizione e, nel far ciò, incorre appunto nella contraddizione. Egli presenta l’alternativa «o A o non-A» come  un’«antitesi vacua»[29], perché usa un esempio assurdo: «lo spirito è bianco o non è bianco, è giallo o non è giallo e così via all’infinito»[30]

Inoltre Hegel, sempre al fine di neutralizzare la forza di un fastidiosissimo principio, che scalzerebbe alle radici la sua dialettica della contraddizione, concepisce il principio secondo questa formula: «Non si può dar nulla che non sia né A, né non-A»[31]. Lo imposta secondo predicati negativi, seppure escludentisi a vicenda. Ma in tal modo il soggetto diventa estraneo ad entrambi, per cui, anche se si contraddicono, il soggetto resta lo stesso. 

Facciamo un esempio, secondo la schema  di Hegel:  un gatto non può essere un leone né può essere un non-leone. Che un gatto sia o non sia un leone gli è indifferente. Quindi, secondo Hegel, il terzo escluso sarebbe «indifferente all’opposizione»[32]; ma se è indifferente, vuol dire che la può ammettere. Ed è qui che Hegel vuole arrivare. 

Addomestica il principio del terzo escluso per metterlo d’accordo con la sua dialettica. Sviluppiamo infatti l’esempio proposto. Il gatto non ha niente a che vedere col leone o col non-leone. Il gatto stesso, dunque, risulta essere, prosegue Hegel, «quel terzo, che dovrebbe essere escluso». Da qui conclude che il terzo, che dovrebbe essere un «morto qualcosa» va «considerato, più profondante, l’unità della riflessione, nella quale l’opposizione torna come nel suo fondamento»[33]

Per Hegel il cosiddetto terzo escluso non è affatto escluso, anzi è il soggetto esistente dialetticamente strutturato. Il terzo è dunque incluso perché rappresenta il divenire, la contraddizione dialettica dell’essere-non-essere, del dire-non-dire, rappresenta la «differenza», l’«alterità» e la «determinatezza», che per Hegel sono l’effetto dell’«immane potenza del negativo». Tutto questo per arrivare a dire ch il gatto, come «tutte le cose», è una realtà «contradditoria»[34] .

Ma se Hegel avesse preso sul serio il principio del terzo escluso, non avrebbe avuto scappatoie ai suoi sofismi. Infatti, il vero principio del terzo escluso, non quello adattato da Hegel ad usum delphini, fondandosi sul principio di non-contraddizione (non si può affermare e negare simultaneamente la stessa cosa della stessa cosa), che si fonda a sua volta sul principio di identità (ogni ente è ciò che è e non altro da sè), pone un’alternativa tra due predicati  opposti, uno positivo (essere), l’altro negativo (non-essere) reciprocamente escludentisi, riferiti ad un solo soggetto; non pone due predicati negativi opposti senza riferimento al soggetto, in modo che esso resti indifferente ad essi, ma al contempo predicabili di entrambi. 

Prender sul serio il principio del terzo escluso vuole dire per esempio: il gatto ha o non ha quattro zampe. È esclusa una terza possibilità e cioè che il gatto abbia e non abbia quattro zampe. È chiaro che qui l’impossibilità e l’impensabilità è talmente evidente, che anche Hegel ve la concederebbe, per non fare la figura del demente. Ma non per questo egli rinuncia al suo piano truffaldino, onde aver modo di imbrogliarvi possibilmente senza che ve ne accorgiate.  Ed è il modo col quale egli concepisce il principio in oggetto. 

Allora, per arrivare a quella conclusione, Hegel inventa il meschino espediente di falsificare il principio, per convincervi, se non tenete gli occhi aperti, che il gatto, in quanto ente diveniente (il divenire non è contradditorio?), è un ente contradditorio e perciò l’esser gatto, se volete la verità del gatto, non esclude il terzo, cioè la contraddizione, ma la accoglie e la «risolve». 

Come, poi? Semplice: facendo presente che il concetto di gatto e di non-gatto si richiamano a vicenda. E questo è vero, sul piano logico: per sapere che cosa è il gatto, occorre sapere anche che cosa non lo è. Ma nella realtà il gatto è il gatto. Funziona qui il principio di identità. Ora, per avere la verità sul gatto, occorre badare alla realtà del gatto, dove il gatto è quello che è  e non altro da sè. Non ci si deve fermare sul piano dei concetti, che è appunto quello della dialettica, ma, per mezzo dei concetti, cogliere il reale per quello che è, nella sua identità unica,  irripetibile, precisa e determinata, senza confonderlo con altre cose.

Identità infatti viene da idem, il medesimo, la stessa cosa. L’identità è la medesimezza di quel dato ente, di ogni ente, anche mutevole. L’identità corrisponde all’unità e viceversa, solo che identità dice «questo tale», mentre unità dice «non diviso». «Identico» regge il dativo: Gianni è identico ad Antonio. Sono identici. L’uguaglianza è l’identità sul piano della quantità: 2+2=4. Identificare può reggere o l’accusativo o il complemento di compagnia. «L’assassino è stato identificato», ossia riconosciuto nella sua identità. «In Dio l’essere s’identifica col pensiero»: sono la stessa cosa. 

Senonchè qui Hegel scopre il suo idealismo, che riduce l’essere al concetto, cosicchè  secondo lui il concetto è contradditorio, perché il reale stesso è contradditorio. E quindi, così come il concetto è necessariamente contradditorio, ne viene che anche il  linguaggio o parlare potrà e dovrà essere contradditorio.  Ecco dunque la legittimazione della doppiezza e della menzogna.  Ma vediamo come Padre Barzaghi ci spiega con la sua solita acutezza, come funziona questo meccanismo perverso, questa macchina della menzogna.

Gli opposti

     Tutte le cose sono a coppia, l’una di fronte all’altra;
      Egli non ha fatto nulla di incompleto
                    Sir 42, 24

Per comprendere però l’interpretazione di Padre Barzaghi occorre premettere un breve discorso sulla teoria logico-metafisica degli opposti. Gli opposti in generale sono due termini in logica inseparabili, in metafisica separabili, i quali per essenza stanno l’uno davanti (ob-positum) all’altro o convergendo o divergendo.

La convergenza moderata comporta una certa convergenza, supponendo un medesimo soggetto sostanziale (concreto) o essenziale (astratto) per entrambi; divergono solo accidentalmente, ossia per il predicato. Abbiamo qui gli opposti relativi, per esempio il rapporto padre-figlio; gli opposti reciproci: maschio e femmina e gli opposti contrari, come l’avvicendarsi del freddo e del caldo in una stessa stanza. La divergenza qui è solo relativa ai predicati. Tutti questi opposti si possono ricondurre all’opposizione relativa, che non è totale, ma secundum quid. Sotto l’aspetto dell’essenza o della sostanza o dell’essere convergono.

La divergenza totale, quindi l’opposizione assoluta riguarda non solo la proprietà o il predicato, ma anche la sostanza o il soggetto, insomma tutto l’ente e quindi è opposizione secondo l’essere e il non-essere. È l’opposizione contradditoria: A e B non possono in nessun modo stare assieme, non hanno tra di loro alcuna relazione, ma se c’è l’uno non c’è l’altro e viceversa.  Se c’è la grazia, non ci può essere il peccato. Se si ascolta Cristo. non si può ascoltare il demonio. Se si dice sì non si può dire no. E così via.

Si chiama opposizione contradditoria non perchè leda il principio di non-contraddizione, ma al contrario proprio per salvarlo, come per esempio l’opposizione fra l’affermazione dell’esistenza di Dio e la negazione. Non possono essere vere entrambe: o è vera l’una o è vera l’altra. Tertium non datur.  Sarebbe contradditorio dire che Dio esiste e non esiste. Sarebbe doppiezza una simile proposizione.

Hegel dà la seguente definizione  degli opposti:

 «nell’opposizione la riflessione determinata, la differenza è compiuta. L’opposizione è l’unità dell’identità e della diversità; i suoi momenti sono diversi in una sola identità; così sono opposti»[35].

Osservo che una simile definizione lascia intendere in Hegel un duplice errore. Primo: ridurre l’opposizione all’identità. Questo non è lecito né possibile, perché, come abbiamo visto, gli opposti contradditori sono inconciliabili e, secondo, Hegel trascura il fatto che l’alterità non è una semplice negazione o addirittura soppressione del semplice identico (l’in sé, l’an sich), e che non tutti i distinti, i differenti, i disuguali e i diversi possono essere ridotti agli opposti, perché essi normalmente sono una molteplicità. E la molteplicità è un fenomeno ontologico irriducibile, che non può essere sufficientemente spiegato e compreso con lo schema affermazione-negazione, ma occorre far uso di un concetto analogico e partecipativo dell’essere.

La famosa coincidentia oppositorum in Dio, della quale parla Nicolò Cusano può essere intesa in un senso accettabile, se si tratta di opposti relativi, reciproci o contrari, che salvano il principio di identità. Il vero Dio non è un Dio doppio, un Dio del sì=no, ma un Dio uno e semplice, non contradditorio, Dio della vita e non della morte.

Ma l’opposizione è inaccettabile e assurda, se pretende, come sembra essere nel Cusano, di esprimere  un punto di vista divino che possa essere al di là del sì e del no. Così pure non esiste, come vorrebbe farci credere Nietzsche, qui perfetto cusaniano ed hegeliano, un «al di là del bene e del male». Dio non è sì e no, ma è assoluto SI’, come S.Paolo dice di Cristo, che Egli «non fu “sì” e “no”, ma ci fu solo il “sì” (II Cor 1,19). La differenza con Nietzsche è che mentre questi usa questo trucco per negare Dio, gli altri due credono all’esistenza di un Dio assurdo, che si autonega e si autoafferma in questa autonegazione.

È vero che esistono contraddizioni apparenti che in Dio si sciolgono; ma la ragione umana può scoprire con assoluta certezza l’esistenza di una contraddizione reale. E credere, come fa Cusano, che Dio possa smentire tale certezza in una superiore unità, è sbagliatissimo, perché la ragione umana ha già in se stessa le forze sufficienti per individuare una contraddizione reale e Dio qui conferma e non smentisce il dato della ragione. Parlare, come fa Cusano, di “mistica” a proposto del Dio che smentisce quella ragione, che Egli stesso ha creati  è gettare fumo negli occhi e per conseguenza bestemmiare il Creatore.

L’interpretazione di  Padre Giuseppe Barzaghi

Il bisogno dell’unità del reale è sacrosanto, perché ogni ente è uno, ma non va inteso come bisogno di identificare l’essere col non-essere, né si deve arrivare a dire che tutto è Uno trascurando l’opposizione radicala fra l’essere e il non essere, secondo la lezione parmenidea circa il principio di non-contraddizione.

 Non bisogna pensare che l’opposizione assoluta fra essere e non-essere impedisca l’unità del reale o addirittura, come vedremo in Hegel, generi contraddizione. L’universo composto da Dio e mondo non è un unico Essere, Uno-Tutto univoco, come pensava Parmenide, ma è l’associazione dell’ipsum Esse divino, summum Ens, con la molteplicità e varietà degli enti da Lui creati, il che suppone evidentemente una concezione analogica e partecipativa e non univoca o unicista dell’essere inteso come essere assoluto, il solo essere esistente.

Non si deve neppur pensare che l’opposizione essere-non-essere sia un dualismo o un contrasto da eliminare o da «risolvere» o da «conciliare». La vera unità del reale è l’unità dell’essere che ha al suo culmine nell’unità divina. Il non essere,  ben lungi da completare l’unità, è negazione, dissoluzione e privazione della unità. Quindi è assurdo credere, come ha fatto Hegel, che, perchè vi sia l’unità del tutto, occorra aggiungere all’essere il non-essere, il falso al vero. 

Così in campo teologico l’associazione del paradiso con l’inferno non suppone affatto, come temeva Origene, un’unità incompleta ed insufficiente della bontà divina, così che per ottenerla, occorrerebbe spegnere l’inferno. Ma Hegel sbaglia ancora di  più, mettendo assieme in Dio, come fa Böhme, il bene col male e il paradiso con l’inferno, cosa che al pio Origene avrebbe fatto orrore.

Il Barzaghi prende in esame in Hegel la sua tesi dell’opposizione fra l’essere e il non essere e per conseguenza fra il vero e il falso e fra il bene e il male, e nota giustamente che per Hegel la detta opposizione non è assoluta, ma relativa, nel senso che i due termini non sono isolati l’uno dall’altro, sì da escludersi vicendevolmente o reciprocamente,  ma si trovano in una relazione reciproca, si richiamano l’un l’altro, l’uno non può stare senza l’altro. 

Ora, la cosa interessante e sorprendente è che, siccome l’opposizione assoluta dei due termini dà fastidio ad Hegel, perché fondata sul principio di non-contraddizione, Hegel, per le esigenze della sua dialettica, ossia per negare l’assolutezza dell’opposizione, ha la sfrontatezza di affermare, per l’occasione, che la detta assolutezza conduce alla contraddizione. Da che pulpito vengono le prediche contro la contraddizione!

Prendendo come esempio di supposta opposizione assoluta la frase «la vita non è la morte», Barzaghi presenta in tal modo il ragionare di Hegel: «Se la vita (=non morte), per costituirsi come tale escludesse assolutamente (cioè non relativamente) la morte (non-vita), non potrebbe costituirsi come non-morte (si deve escludere il riferimento, la relazione) e quindi sarebbe la non-non-morte, cioè la morte (non-non-morte), cioè la non-vita: la vita sarebbe la morte. Contraddizione!»[36]-

Dove sta il sofisma di Hegel? Esso suppone la riduzione idealistica hegeliana della cosa al concetto o alla definizione della cosa. Ma un conto è una cosa e un conto è la definizione della cosa. La cosa è sul piano della realtà. La definizione è sul piano dei concetti. L’opposizione è effettivamente relativa sul piano dei concetti, ma non della realtà. È chiaro che la nozione logica dell’essere, del tutto astratta, include in sé tanto l’essere reale che il non-essere, per cui si può dire che, in relazione a tale nozione dell’essere, tanto l’essere che il nulla esistono.

 Infatti è del tutto lecito definire la vita come non-morte, per cui è chiaro che nel definire occorre far riferimento al concetto della morte. In tal senso è vero che il concetto della vita e il concetto della morte sono inscindibilmente in relazioni fra di loro. Ma l’opposizione logica o predicativa non è ancora l’opposizione reale fra la realtà della vita e la realtà della morte.  

Certo anche il logico deve rispettare il principio di non-contraddizione, tuttavia resta che l’opposizione assoluta fra essere e nulla è sul piano della realtà e non su quello dell’ente di ragione logico.  È dunque sul piano della realtà che vita e morte sono in assoluta e totale opposizione, l’una esclude l’altra, non hanno alcuna relazione reciproca, e non hanno niente a che vedere l’una con l’altra. 

Nessuno di noi è contento di vederci doppio, ma si fa curare dall’oculista perché il suo occhio riesca a mettere a fuoco gli oggetti. Ebbene, Hegel è come un oculista che consigliasse al paziente di restare così, perché quello è il modo normale di vedere.

Esempi di doppiezza nel linguaggio
ovvero proposizioni disoneste consentite dal rifiuto
del principio di non-contraddizione e del terzo escluso.

1.Affermare di non aver detto ciò che si è detto.  In termini popolari: «cambiare le carte in tavola». È un modo di sgusciare o cambiare soggetto del contendere, quando si è messi alle strette, per far credere di aver ragione, mentre si ha torto;

2. Incoerenza nel discorso: prima si afferma e poi si nega o viceversa;

3. Si esprime una frase equivoca, ambigua, a doppio senso, fraintendibile, interpretabile in significati contradditori;

4. Si inganna il prossimo ovvero si induce l’altro in errore proponendogli una tesi erronea ma apparentemente vera o facendogli apparire come vera una tesi che si sa essere falsa;

5. Riportare il discorso di un altro alterandolo nel suo senso;

6. Interpretare il discorso di un altro falsandone o cambiandone il significato a favore delle proprie contrarie opinioni;

7. Tacere e non rispondere a chi ci interpella, quando siamo colti in fallo o, come si dice popolarmente, quando siamo «presi in castagna», per non riconoscere di aver sbagliato;

8. Far dire a un altro quello che non ha detto;

9. Dire il contrario di quello che si pensa.

Princìpi di logica formale e del linguaggio atti a causare doppiezza,
ricavati dalla logica di Hegel

1.Esiste la verità, ma se è vero A, è vero anche non-A.

2. Se A è B, è giusto affermare che A è B. Ma questa è ancora un’espressione ingenua. La logica dialettica  sta nell’affermare che A è anche non-B. 

3. Si può dire correntemente che tra A è B e A non è B una terza possibilità è esclusa, ma si può dire meglio, in filosofia,  che è inclusa: A è e non è B.

4. Tra vero e falso si può ammettere nella logica ingenua un’opposizione assoluta ed una incomunicabilità reciproca assolute (sì, sì, no, no). Ma nella logica dialettica si deve e si può dire che, come dice Hegel, esistono una conciliazione e una relazione reciproche: niente falso senza vero,  ma anche niente vero senza falso. La verità è l’unità dialettica del vero e del falso.

5. Bisogna evitare di prendere posizioni nette, che escludano assolutamente il contradditorio, ma ammettere sempre, in certe situazioni, questa possibilità;

6. il contradditorio non è altro che il contrario o il diverso: non va escluso, ma accolto: l’inverno non esclude l’estate, il piccolo non esclude il grande, il caldo non esclude il freddo, il maschio non esclude la femmina. L’essere non esclude il non-essere, il vero non esclude i falso, il bene non esclude il male;

 7. il rifiuto del contradditorio è il rifiuto dell’altro e della diversità. Ma chi ragiona così, dà prova di avere una mente chiusa all’accoglienza e al rispetto dell’altro;

8. Non si deve mai comandare o proibire nulla in modo assoluto ed universale, perché la verità e le leggi mutano a seconda dei luoghi, dei tempi, delle indoli e delle preferenze dei singoli e dei gruppi, delle convenzioni e delle convenienze;

9. L’opposizione fra il vero e il falso è come quella tra il bianco e il nero: ci sono molte gradazioni intermedie. Esiste un passaggio graduale, per cui una proposizione può non essere né vera né falsa, oppure può essere vera e falsa ad un tempo, così come il grigio è un punto intermedio fra il bianco e il nero. I concetti non sono fissi, ma sono fluidi, trapassano l’uno nel suo opposto. Ogni concetto è lui e il suo opposto.

Esempi di conseguenze teoretiche

1.Si afferma l’esistenza di Dio, ma poi si sostiene che anche l’ateo si salva.

2. Si afferma il monoteismo, ma poi si afferma che Pachamama è un’immagine della divinità.

3. Si accoglie il magistero della Chiesa, ma si afferma che i suoi pronunciamenti possono essere interpretati secondo significati opposti

4. Si afferma che Cristo è il Salvatore dell’umanità, ma poi si afferma che le altre religioni sono diverse vie di salvezza volute da Dio.

5. Si ammettono gli articoli del Credo, ma si sostiene la mutabilità del dogma.

6. Si ammette il dogma di Calcedonia, ma lo si affianca alla cristologia di Hegel come espressione moderna del mistero di Cristo.

7. Si afferma il mistero della transustanziazione eucaristica, ma poi si afferma che la consustanziazione luterana è un altro legittimo modo di interpretare la Presenza reale.

8. Si ammette il papato, ma non si riconosce l’infallibilità pontificia.

9. Si afferma la propria appartenenza alla Chiesa cattolica, ma poi si accusano di modernismo le dottrine del Concilio Vaticano II e il magistero dei Papi del postconcilio.

10. Ci si considera cattolici, ma poi si afferma che Lutero è stato un riformatore che ha guarito non diviso la Chiesa. 

11. Si fanno le lodi della famiglia e dell’indissolubilità del matrimonio, ma poi si considerano le unioni omosessuali come semplici e liberi diversi orientamenti sessuali.

12. Ci si considera tomisti, ma poi si approvano gli errori di Lutero, di Cartesio, di Kant, di Hegel, di Marx,  di Gentile, di Freud, di Heidegger, di Rahner, di Schillebeeckx e di Severino.

La doppiezza è un peccato contro il Vangelo

La doppiezza non è solo disonestà nel ragionare, nel pensare e nel parlare, ma è anche peccato contro la verità evangelica ed offesa a Cristo. Egli, che è misericordioso con tutti, è severissimo contro gli ipocriti, i falsi, le persone doppie. Sono i suoi aspri rimproveri e le sue terribili minacce contro di loro, che susciterà in essi l’odio che li porterà a crocifiggere la Verità fatta persona. 

E Gesù ha ragione di tenere questa condotta. La doppiezza non è un peccato di fragilità. come può essere un peccato carnale, ma è un peccato pienamente lucido e cosciente, un peccato ben calcolato e perfettamente voluto e preparato, frutto di una volontà perversa e di un intelletto accecato dall’invidia e dalla superbia.

Questo peccato comporta una profonda distorsione della naturale aspirazione della mente umana alla verità e della naturale inclinazione della volontà alla onestà ed alla sincerità nel pensare e nell’intrattenere rapporti verbali col prossimo. 

La doppiezza, come ci è chiaramente insegnato dalla Scrittura, trae la sua ispirazione dal demonio, padre della menzogna, e per questo Cristo ci avverte che «quel di più», che pretenderebbe aggiungere una maggiore saggezza a quella basata sull’opposizione del sì al no, come se questa non bastasse, «viene dal maligno» (Mt 5,38). Ora qui Cristo non fa altro che enunciare in termini semplicissimi, vorremmo dire infantili, comprensibili a tutti, quello che è il principio di non-contraddizione e per conseguenza del terzo escluso.

Ed è questo il principio fondamentale della semplicità evangelica, inscindibilmente connesso con l’esigenza intellettuale di rispettare e non manipolare la verità e con l’esigenza morale dell’onestà nel pensare, nel ragionare e nel parlare.

Semplicità infantile, vorremmo dire fanciullesca, che non è semplicioneria, dabbenaggine e infantilismo, ma è congiunzione o sintesi della semplicità della colomba con la prudenza del serpente (Mt 10,16), sì che possa realizzarsi il precetto paolino: maturità di giudizio e infantile innocenza: «Siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi» (I Cor 14,24). 

Il bambino, nella sua spontaneità naturale, è un intuitivo, non conosce il calcolo e la doppiezza, ma dice semplicemente quello che vede e che pensa, mettendo magari in imbarazzo gli adulti, come fa il ragazzo della favola del re nudo. Indubbiamente il bambino non ha ancora l’occhio critico, che permette di distinguere l’apparenza dalla realtà. E per questo occorrerà il saper riflettere e ragionare, qualità dell’adulto. 

Ma purtroppo, a seguito del peccato originale e della seduzione del demonio, ben più pericolosa, insidiosa e fascinosa della seduzione della carne, avviene che l’adulto fa uso della ragione per ingannare se stesso e del linguaggio per ingannare il prossimo. Ecco allora il senso del famosissimo comando di Cristo ad essere come  bambini, da associare, al fine di essere ben compreso, all’altro fondamentale, citato sopra di essere prudenti come i serpenti. 

P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 1 febbraio 2020


[1] Il Maritain è molto severo nell’accusare Hegel di violare il principio di non-contraddizione, nella sua
 opera Antimoderno, Edizioni Logos, Roma 1979, pp.156-157. Hegel, dal canto suo, si accorge di averla fatta grossa e fa ogni sforzo per spiegarsi e per difendere questa tesi assurda, che se fosse vera, sarebbe la distruzione del pensiero, compreso il suo. Ma non convince. Potrebbe trattarsi di un difetto di espressione. Tutto quello che eventualmente si può ricavare dalla tesi hegeliana, è, come cerco di dimostrare in questo mio saggio, la disonestà e doppiezza del linguaggio, ed un’assurda concezione conflittuale della realtà, del pensiero e dell’agire. Cf Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, pp.93-97.
[2] Hegel probabilmente è stato spinto da Kant ad ammettere una dialettica trascendentale, che egli ha trasformato in scienza, mentre in Kant resta dialettica, cioè opinione. Ma l’errore di Kant che ha sviato Hegel è stato quello di credere che possa esistere una dialettica sul piano trascendentale, quando questo invece non ha niente a che vedere con la dialettica, che è opinione, mentre il piano trascendentale, essendo il piano dei primi princìpi, contiene assolute certezze. Per questo il povero Kant, ponendo il problema dell’esistenza di Dio sul piano dialettico, non cava un ragno dal buco, ma s’impegola nelle contraddizioni, perché il problema di Dio non s’imposta sul piano della dialettica, ma su quello trascendentale.
[3] Lezioni sulla storia della filosofia,3,1,  La Nuova Italia Editrice, Firenze 1985, p.221.
[4] Cit. in Lezioni sulla storia della filosofia, 3,II, p.45.
[5] Ibid.
[6] Questa idea sembra ritrovarsi nel concetto che Luigi Pareyson si fa della libertà divina: cf Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995.
[7] Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, Edizioni Piemme, 1996.
[8] La fenomenologia dello Spirito, Edizioni La Scuola, Firenze 1988, p.27.
[9] Ibid., p.27-28.
[10] Ibid., p.26.
[11] Ibid., pp.30-31.
[12] Ibid., pp.31-32.
[13] Ibid., pp.37-38.
[14] Hegel teologo, op.cit., pp.143-147.                            
[15] Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1988, vol.II, p.277.
[16] Logica, Edizioni Laterza,Bari 1984, pp.70-71.
[17] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.93.
[18] Logica, op.cit., p.71.
[19] Vedi sotto la spiegazione di Giuseppe Barzaghi.
[20] Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Romano Guardini. La vita e l’opera, Morcelliana, Brescia 2018, p.306.
[21] Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, p.82.
[22] Op.cit., p.482.
[23] Propedeutica filosofica, La Nuova Italia, Firenze 1977, p.88.
[24] Ibid.
[25] Ibid.
[26] Logica, op.cit., p.492.
[27] Ibid., p.493.
[28] Ibid., p.494.
[29] Encilopedia, op.cit., p.118.
[30] Ibid.
[31] Logica, op.cit.,  p.490.
[32] Ibid.
[33] Ibid.
[34] Ibid.
[35] Logica, op.cit., p.473.
[36] Compendio di storia della filosofia, Edizioni ESD,Bologna, 2006, pp.142-143.



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