La
dialettica hegeliana come apologia della doppiezza
Tu maledici l’uomo di doppia lingua
Sir
28,13
Se
una casa è divisa in se stessa,
quella
casa non può reggersi
Mc 3,25
Origine
della dialettica hegeliana
La
dialettica hegeliana è talmente nota, che basterà qui esordire ricordando
l’essenziale. Essa nasce in Hegel nell’orizzonte della sua impostazione
idealistico-panteista, che conduce alle estreme conseguenze l’idealismo nato da
Cartesio attraverso Kant, Fichte e Schelling. In Hegel questo filone di
pensiero si congiunge con la temperie del romanticismo tedesco come revival
della tipica sintesi di certezza ed angoscia caratteristica dell’anima
luterana.
Entrambi
questi filoni convergono verso una spiritualità fondata su di un assoluto
egocentrismo, per il quale Dio non è più il Tu davanti al soggetto, ma è l’Io radice
del soggetto. Sulla base di questo presupposto, Hegel, alla ricerca di un
accordo fra i due filoni, l’uno razionalista, l’altro emotivo, giunse alla
elaborazione della sua caratteristica «dialettica», che fu un novum nella storia della filosofia,
destinata ad avere un enorme successo – si pensi solo all’uso che ne fece Marx –
fino ai nostri giorni con l’improntare largamente di sé il modo di pensare e di
esprimersi nel linguaggio dell’attuale cultura relativistica dominante.
In genere,
la dialettica è un processo logico-linguistico, che avviene tra due opposti:
colui che afferma e colui che nega. Ma a quale scopo? Per cercare la verità,
s’intende. Senonchè però di per sé la dialettica, che è uno scambio o un
confronto di pareri o di opinioni, un dialogo tra due disputanti, non dà la
verità, ma solo l’opinione.
Alla fine
della discussione, infatti, la cui durata è stabilita in anticipo, come una
gara sportiva, i due contendenti tornano
ad avere le stesse idee che avevano alla partenza. Nessuno dei due ha imparato
dall’altro, tanto da dover cambiare idea. Ma allora a che cosa serve? Ad avvinarsi alla verità, la quale, con la
ripresa del dialogo, può essere comunemente raggiunta.
Lo schema
fondamentale della dialettica, che è l’arte del dialogo, comporta tre tappe o momenti:
apre il confronto uno dei dialoganti con una sua tesi affermativa. Segue la negazione
della tesi, ossia l’antitesi, ad opera dell’altro dialogante. Conclude, per il
momento, il primo, negando la negazione. Ma restano in piedi le due opposte
tesi, perché si suppone che il negante non sia soddisfatto degli argomenti dell’affermante,
che sono solo probabili, non dimostrativi. La conclusione dialettica, quindi,
può essere rimessa in discussione in un successivo dialogo o confronto.
La
dialettica si distingue dalla scienza, la quale può essere la conclusione di un
precedente confronto dialettico, al temine del quale si scopre la verità a
causa degli argomenti dimostrativi, che uno dei dialoganti è stato capace di
produrre nel corso del dibattito, tali, quindi, da chiudere la discussione. In
questo caso, una delle tesi si mostra falsa, per cui viene a cadere.
Il procedimento
scientifico è diverso da quello dialettico. Il primo è un sillogismo
dimostrativo, che viene esposto dal maestro al discepolo. Il discepolo può fare
obiezioni o presentare difficoltà o apparenti contraddizioni, che però vengono
risolte dal maestro. Ma se nella dottrina del maestro c’è una contraddizione reale, essa non può essere risolta, ma
fa crollare la dottrina del maestro convincendola di falsità. L’errore di Hegel,
come vedremo, è quello di credere che possa essere «risolta» una contraddizione
reale, come se non valesse il principio di non-contraddizione[1].
La dialettica
esisteva già dall’epoca di Platone ed Aristotele; ma mentre in Platone essa
serviva solo come via per arrivare alla contemplazione delle Idee e in Aristotele per regolare semplicemente il
confronto delle opinioni, in Hegel la dialettica occupa tutto lo spazio del
pensiero, dalla scienza sperimentale sensibile alla conoscenza dell’Assoluto. Si
aggiunga, in Hegel, l’identificazione eraclitea dell’essere col divenire, cosa
che comporterà la sostituzione della storia alla metafisica.
Nel contempo
Hegel assume la riduzione cartesiana dell’essere all’idea e il passaggio
luterano dal Dio-in-sé al Dio-in-me. Ma ciò non basta ancora a spiegare la nascita
della dialettica hegeliana. Si danno infatti anche altri elementi ispiratori, i
tre fattori decisivi: il moto ideale circolare in tre tappe dello spirito in
Proclo (stasi-uscita-ritorno), la «dialettica trascendentale kantiana»[2]
della ragione speculativa e il principio dell’arte magica Giordano Bruno,
laddove afferma:
«profonda magia è saper trovare il contrario,
dopo aver trovato il punto di unione», parole che Hegel riprende e commenta così:
«il più grande non è trovare il punto di unificazione, sibbene svolgere da esso
anche il suo opposto: ecco il vero e profondissimo segreto dell’arte»[3].
Come non
ricavare da questo precetto perverso la liceità se non il dovere di mescolare
la menzogna con la verità e il vizio con la virtù a seconda delle convenienze e
delle «situazioni»?
Chi ci dice,
d’altra parte, che questo metodo diabolico, questa dialettica demoniaca non
fosse già presente nella morale e nella dialettica dei Catari, i quali, nel
sec.XIII, insegnavano che la saggezza stava nella congiunzione degli opposti, unire,
per esempio la pratica della lussuria alla più disumana astinenza sessuale?
Ma per capire
l’anima profonda della dialettica hegeliana, bisogna leggere quello che nelle Lezioni sulla storia della filosofia,
dice della concezione del Dio trinitario di Jakob Böhme, mistico luterano
tedesco del ‘600. Prenderemo qui solo alcuni brani significativi di Hegel,
cominciando da questa sua citazione del Böhme:
«Dio è
tutto, è tenebra e luce, amore ed ira; ma Egli nomina se stesso soltanto come
il Dio Uno, secondo la luce del suo amore. Egli è un eterno Contrario tra tenebra
e luce: nessuna delle due afferra l’altra; nessuna è l’altra e tuttavia si ha
soltanto un’Essenza unica, ma distinta per via del tormento (Qual); e anche per via della volontà, ma
tuttavia non è essenza separabile. Un unico principio vi attua la distinzione,
che l’uno è nell’altro come un nulla, e tuttavia è; ma secondo la proprietà di
esso, è in esso, ma non manifestamente»[4].
Commenta
Hegel:
«Col
“tormento” si esprime quella che è la negatività assoluta, la negatività
consapevole di sé, sentita; il negativo che si riferisce a se stesso, il quale
perciò è affermazione assoluta. Intorno
a questo punto si aggirano tutti gli sforzi di Böhme: in lui il principio del concetto
è perfettamente vivo, ma egli non riesce ad esprimerlo nella forma del
pensiero. Tutto infatti sta nel pensare il negativo come semplice, poiché esso
è ad un tempo un opposto: il tormento è dunque questa interiore scissione e ad
un tempo il semplice. Dalla parola Qual,
tormento, Böhme fa derivare Quellen,
fonti, bel gioco di parole; perché il tormento, Qual, questa negatività, trapassa nella vita, nell’attività e così
Böhme lo accoppia anche con qualità, Qualität, di cui fa Qualität: si ha dunque in lui l’assoluta identità dei distinti»[5].
Hegel confonde
il distinguere col dividere: distinguere è opera benefica
dell’intelletto, che vede la diversità e le differenze, prepara l’unione dei
distinti o dei diversi. Il dividere o separare, invece, è opera del Divisore,
del diabolos, che disintegra ciò che è uno, crea dualismi, doppiezze,
contrapposizioni, conflitti, e divide ciò che è unito.
Il concetto
di Dio che Hegel desume da Böhme implica un distinguersi che è al contempo un
autonegarsi come opposizione di bene e di male. Dio stesso è dialettico come
opposizione di bene e di male, sicchè il male entra nell’essenza divina, sia pur
negato e superato dal bene[6].
Ciò comporta, in Hegel, un duplice paradossale
risultato, che da una parte il male, assunto da Dio, sembra sparire, sicchè
tutto diventa bene; ma dall’altra, il male, appunto perchè assunto da Dio, sembra
diventare un assoluto. Da qui da una parte
un monismo ottimista, ma dall’altra un tragedismo dialettico insuperabile. Per
questo Vito Mancuso ha avuto ragione di parlare di «imperdonabile assenza nella
teologia di Hegel, del “Principe di questo mondo”»[7].
Ma avrebbe potuto altrettanto bene parlare di una teologia che divinizza il
demonio.
Un colpo al cerchio
e uno alla botte
La dialettica hegeliana fonda un modo di
pensare e di ragionare, e quindi di esprimersi e di parlare, che non si
accontenta di procedere per negazioni, antitesi ed opposizioni, cosa che è
caratteristica della dialettica come tale; ma, come è noto, pretende di
superare il piano del probabile e dell’opinabile, per elevarsi al piano
apodittico della scienza ed anzi di una scienza assoluta, simile a quella
divina, dimenticando che nella dialettica sana e normale gli opposti per loro natura
coesistono pacificamente perché sono ignote la verità e la certezza.
Viceversa
la scienza, per essere scienza e non opinione, deve sapere inequivocabilmente,
oggettivamente, precisamente,
dimostrativamente e con certezza da che parte sta la verità, superando l’oscillazione
propria del pensare dialettico. La scienza toglie e fa cessare la pluralità delle
varie possibili contrastanti soluzioni o risposte e si ferma ad una sola, che è
la conclusione vera, definitiva, giusta ed indiscutibile. Se il probabile può
essere altro da sé, il vero è uno solo. Invece in Hegel la verità è circolare:
una volta che lo spirito, dopo aver negato sé, torna a sè nella semplicità
dell’inizio, il moto dialettico ricomincia e il ciclo si ripete senza fine.
L’identità (l’«in sè») è solo la semplicità e
la quiete dell’inizio e della fine del moto circolare. Ma essa, nella sua
interezza (l’«intero») sta nel moto non dall’identico al contrario, ma anche al
contradditorio (il «per sè»), che Hegel identifica con il diverso, ossia con l’altro
(l’«in sé e per sé»). In tal modo non ci sono più alternative assolute (o vero
o falso: aut-aut, terzo escluso), ma anche i contradditori sono in relazione
(vero e falso: et-et, terzo incluso).
Nel primo momento dell’in sé, secondo Hegel,
non abbiamo ancora la scienza, non c’è ancora la verità, ma solo l’opinione,
l’apparenza. Esso corrisponde all’affermazione del vero, ma poiché non è ancora
in atto il principio del movimento dialettico, che è la negazione, i concetti sono
fissi e si dà una netta ed assoluta opposizione fra vero e falso, col rifiuto
incondizionato del falso. Invece, dice Hegel, occorre che i concetti diventino
«fluidi»; occorre «abbandonare il fisso»[8]
. Solo così, dice Hegel,
«i puri
pensieri divengono concetti e soltanto allora essi sono ciò che essi veramente sono:
automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali.
Questo movimento delle essenze pure costituisce in generale la natura della scientificità»[9].
Ciò avviene nel secondo momento del moto dialettico,
quello della negazione, nel quale occorre
affermare senza ripugnanza anche il falso, perchè è solo da ciò che è per
negazione che nasce la verità, la quale sorge al terzo momento, che è quello della
sintesi vero-falso.
Così per Hegel dal falso nasce il vero in
forza della negazione del vero. Falso e vero devono convivere perché possa
darsi il vero. Il falso è l’«accidentale», che all’interno del vero
sostanziale,
«guadagna
una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà» grazie all’«immane
potenza del negativo, che è l’energia del pensare»[10].
Il negare è la potenza del pensiero, che è
potere di negazione, di pensare il falso inteso come negazione del vero. Per questo,
il falso non va respinto, ma va affrontato e mantenuto all’interno dello
spirito, in modo tale che sia presente ad un tempo il vero e il falso. Così lo
spirito
«guadagna la sua verità solo a patto di
ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla
maniera stessa del positivo, che non si dà cura del negativo, come quando di
alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente
a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perchè sa guardare in
faccia al negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza,
che volge il negativo nell’essere. Essa è
quel Soggetto, il quale, mentre nel proprio elemento dà esistenza alla
determinatezza, supera l’immediatezza astratta e cioè in genere solo essente o
l’immediatezza che non ha la mediazione fuori di lei, ma è questa stessa
mediazione».
Per questo, secondo Hegel, opporre in modo
assoluto vero e falso è sbagliato, ma occorre porli in relazione reciproca,
perché l’uno non può fare a meno dell’altro.
Le teorie che vorrebbero opporsi tra di loro assolutamente
«appartengono
a quei pensieri determinati che, privi di movimento, vorrebbero valere come
particolari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra di là, rigidamente
isolate e senza reciproca comunanza: contro una simile concezione si deve decisamente
affermare che la verità non è moneta coniata, la quale, così com’è, possa venir
spesa e incassata. Esiste un falso, quanto poco esiste un cattivo. Falso e cattivo
non sono mica perfidi come il diavolo, tanto è vero che, volendoli prendere per
diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolari; mentre essi, in
quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali, pur avendo, l’uno
rispetto all’altro, una propria natura. … »[11].
Vero e falso stanno assieme e devono essere
in relazione tra di loro. Non si può trafficare il vero isolatamente e
indipendentemente dal falso. Cristo e Beliar devono essere in rapporto tra di
loro. Il falso e il cattivo non c’entrano col diavolo, ma con la logica. Il falso e il cattivo sono rispettivamente i
momenti necessari della mediazione dello spirito con se stesso e il momento
negativo, che consente la negazione della negazione e il ritorno del vero e del
bene.
«Alcunchè
vien saputo falsamente, significa: il sapere è in ineguaglianza con la sua sostanza.
Ma proprio tale ineguaglianza è il distinguere in generale, che è momento
essenziale. Da tale distinzione deriva l’uguaglianza della distinzione stessa,
e tale uguaglianza divenuta è la verità. Ma questa è verità non come se la
disuguaglianza fosse stata eliminata, a quel modo che dal metallo puro è stata
espulsa la scoria; e neppure è essa verità, come dalla botte or ora costruita
si è rimosso l’arnese; anzi l’ineguaglianza stessa è ancora immediatamente presente
nel vero come tale, è presente come il negativo, come il sé.
Nell’espressione
“in ogni falso c’è qualcosa di vero”, quei due termini vengono presi come l’olio
e l’acqua, che, senza mescolarsi, si trovano insieme solo esteriormente. … Così
le espressioni di soggetto e oggetto, di finito e infinito, di essere e di
pensare, ecc., hanno l’inconveniente che i termini soggetto, oggetto ecc.
significano ciò che essi sono al di fuori della loro unità; e nell’unità,
quindi, essi non sono da intendersi così, come suona la loro espressione: altrettanto
il falso, non più come falso, è un momento della verità»[12].
Anche S.Tommaso riconosce che in ogni errore
c’è una parte di verità, perché noi non siamo naturalmente attratti
dall’errore, ma dalla verità, cosicchè noi cadiamo in errore perché ingannati
dalla parvenza di verità che esso contiene e così scambiamo per verità
l’errore: ma, se non siamo proprio attaccati all’errore ed amiamo il vero,
siamo grati a chi mette in luce il vero e ci libera dall’errore. Ben diverso
invece è il pensiero di Hegel. Per lui non si tratta di respingere l’errore e
di abbracciare il vero, ma di accoglierli entrambi.
Infatti per lui non si deve separare il falso
dal vero, perché il falso è un momento del vero. Non c’è vero senza falso.
Separare il falso dal vero vuol dire falsificare il vero. Hegel confonde il concetto del vero e falso con la loro realtà.
È vero che i concetti di vero e falso si richiamano e s’illuminano a vicenda. Ma
non è affatto necessaria la realtà del falso e del male all’esistenza della
verità e del bene.
«La verità racchiude
in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso, qualora potesse
venir considerato esso stesso come
essenziale; esso, cioè, non è da considerare nella determinazione di
alcunché di rigido, che, tagliato via
dal vero, debba venire abbandonato dove che sia, al di fuori di questo, né
d’altronde il vero è da considerare come un alcunché di positivizzato e di
morto, giacente inerte dall’altra parte. … Per tal motivo il vero è il trionfo
bacchico, dove non c’è un membro che non sia ebbro, e poiché ogni membro nel
mentre si isola, altrettanto immediatamente si risolve, il trionfo è altrettanto
la quiete trasparente e semplice»[13]
.
La grave illusione di Hegel è la sua concezione
del cammino dello spirito umano verso la verità come se si trattasse di un moto
circolare articolato secondo la scissione della semplicità iniziale
nell’opposizione tra affermazione e negazione (delirio bacchico). Ma è proprio
la stessa opposizione «devastante», l’inquietudine della contraddizione (il
«potere del negativo»), che è il principio della riconciliazione, che qui Hegel
chiama «risoluzione», ossia il ritorno al semplice e al quieto, il ritorno
all’uno.
È qui che abbiamo il principio della doppiezza.
Infatti in Hegel la conciliazione toglie bensì la contraddizione; ma per giungere
ad essa occorre l’opposizione, occorre il conflitto, occorre il «negativo». In
sostanza, per giungere al vero occorre il falso. Per arrivare al bene occorre il
male. Da qui la legittimità della coesistenza di vero e di falso, bene e male,
e quindi la giustificazione della doppiezza.
Non l’opposizione assoluta, non l’esclusione
reciproca di sì e di no, ma la relazione reciproca; oltre all’opposizione tra
il sì e il no vi è una terza possibilità: il sì-no: la loro sintesi, il loro
accordo. Non il terzo escluso, ma il terzo incluso. È questa la conciliazione
hegeliana: non la conciliazione tra due beni, ossia dell’uomo peccatore col Dio
santo, ma la conciliazione del vero col falso, del bene col male, di Cristo con
Beliar.
In tal modo, come nota giustamente Mancuso,
in Hegel la coscienza umana dialetticamente costituita ed idealisticamente
concepita come io assoluto, non ha da riconciliarsi con un Dio esterno e trascendente,
ma essa, in forza della dialettica, si scinde in se stessa per riconciliarsi
con se stessa[14].
La contraddizione
La contraddizione, originariamente, come dice
la parola stessa, è un dire-contro. Comporta un contrasto di idee. Comporta
l’opposizione della negazione all’affermazione, l’opposizione del no al sì. Ci
può essere anche una contraddizione reciproca. A contraddice a B e B
contraddice ad A.
La contraddizione può avere un aspetto logico
ed un aspetto morale. Vi può essere una contraddizione in un discorso, quando
prima si dice una cosa e poi il suo contrario. Oppure un giudizio stesso può
essere in contraddizione con se stesso, a causa di due predicati tra di loro
incompossibili come se io dicessi: ho
disegnato un cerchio quadrato oppure l’uomo
è una bestia, oppure: in Norvegia ci
sono montagne senza valli. La contraddizione, come atto del giudizio e del linguaggio,
può essere volontaria come atto moralmente cattivo di slealtà. Il contradditorio
ontologico, come reciproco annullamento di essere e non-essere, non può esistere.
Molti concetti sbagliati sono semplicemente
contradditori. L’impossibile è impensabile e può essere espresso in parole, le
quali hanno senso separatamente l’una dall’altra, ma non congiunte come soggetto
e predicato di una proposizione, come se dicessi il gatto è un leone. Il concetto di gatto e quello di leone
esistono, sono intellegibili, coerenti e corrispondono al reale, ma solo,
separatamente l’uno dall’altro.
Invece il contraddire in senso morale può
essere inteso o come un dir di no nel senso della disobbedienza, mentre il sì
rappresenta l’obbedire. Ma il contraddire chi dice il falso è atto di saggezza.
È quella che Hegel chiama «negazione
della negazione». Il contraddire può essere moralmente proibito, se è un
contraddire alla verità o alla realtà.
Come già è stato stabilito da Aristotele, dovere
fondamentale dell’onestà del pensiero e del linguaggio è quello di giudicare,
affermare e dire essere ciò che è e giudicare, negare e dire non essere ciò che
non è. Questo è il principio della verità del giudizio, espresso da Cristo nelle
famose parole: «il vostro parlare sia sì, sì, no, no» (Mt 5,37). Questo
principio va assieme al principio morale della sincerità del parlare, per il quale
nel linguaggio non dobbiamo contraddire al vero contenuto nella mente o nella
coscienza.
L’affermazione e la negazione sono due atti
necessari del pensiero e del linguaggio. Essi sono motivati dall’opposizione dell’essere
al non-essere. Sulla base infatti dell’intuizione di questa opposizione
radicale ed assoluta il pensiero forma l’affermazione
e la negazione fondamentali ed originarie del giudizio, che Parmenide ha
espresso nel famoso enunciato del principio di non-contraddizione: «l’essere
esiste e il non-essere non esiste».
Essere e nulla, vero e falso, bene e male non
sono semplicemente diversi o differenti, come pensa Hegel, così che possa
esistere tra di loro un paragone, un confronto o una reciprocità. Qui non c’è
in gioco l’alterità o la molteplicità, ma l’identità inviolabile dell’ente, di
ogni ente, uno diverso dall’altro. È l’essere ad essere internamente diversificato,
uno e molteplice, secondo il principio dell’analogia e della partecipazione. Se
l’essere è il non-essere, tutto è nulla. Qui ha ragione Severino. E qui Hegel
ha torto marcio. Il non-essere non è «altro» dall’essere. Il non-essere è
nulla. Può limitare l’essere, ma non sintetizzarsi con lui.
Essere e non-essere si oppongono tra di loro
per contraddizione. Quindi non può esistere tra loro alcuna conciliazione, come
vorrebbe farci credere Hegel perché sono assolutamente inconciliabili. Il male
va assolutamente espulso dal bene, senza misericordia. Volerli conciliare è
doppiezza ed ipocrisia, violazione del principio di non-contraddizione e del terzo
escluso.
È, come si dice popolarmente, voler tenere un
piede su due staffe o fare il doppio gioco. Non vi è tra di loro alcuna
relazione reale, né alcuna possibilità di mediazione, tanto meno possono identificarsi fra di loro, ma possono
essere uno solo nell’orizzonte dell’essere logico di ragione (ens rationis), soltanto logica, benché
il nulla, per essere espresso nel
linguaggio, debba essere concepito come fosse esistente. Hegel ha capito
questo. Il suo errore è stato quello di ridurre l’essere reale all’essere di
ragione e al concetto, il pensiero al pensato.
La
concezione hegeliana della contraddizione
Come ogni essere ragionevole, anche Hegel,
nonostante le sue sparate sulla logicità della contraddizione e sulla
contradditorietà della realtà, si
preoccupa, all’occasione, almeno a parole, di evitare le contraddizioni, di
mostrare agli avversari che non si contraddice e di accusarli di contraddirsi.
Con tutto ciò egli, come è noto, non rifugge
dal fare delle dichiarazioni apertamente e sfrontatamente contradditorie ed assurde,
presentate come verità fondamentali e pilastri del suo sistema. Famose fra
tutte sono le sue definizioni dell’essere e del divenire e della verità. Diamo
qualche esempio:
«In sé il
male è la stessa cosa che il bene»[15].
Sull’essenza dell’essere.
«Nell’essere
non vi è nulla da intuire, se qui si può parlare di intuire, ovvero esso è
questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero
l’essere non è che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato immediato,
nel fatto è nulla, né più né meno che nulla. … Il puro essere e il puro nulla
sino dunque lo stesso»[16].
Sull’essenza del divenire:
«Il niente,
considerato come immediato uguale a se stesso, è il medesimo che l’essere. La
verità dell’essere come del niente è perciò l’unità d’entrambi. Questa unità è
il divenire»[17].
Sulla verità:
«Il vero non
è né l’essere né il nulla, ma che l’essere non è passato, ma passa nel nulla e
il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la
loro indistinzione; ma che anzi essi non sono lo stesso, che essi sono assolutamente
diversi, ma insieme anche separati e inseparabili e che immediatamente ciascuno
di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto
questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi
nell’altro: il divenire, movimento in cui l’essere e il nulla sono differenti,
ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risolta»[18].
La verità non sta nel vero che si oppone al
falso e lo esclude assolutamente, ma sta nella coesistenza del vero e del
falso, o nel passaggio dall’uno all’altro, e più precisamente in una
oscillazione o in un barcamenarsi, a seconda delle convenienze, fra
l’opposizione assoluta e l’ opposizione relativa.
Per questo, diventa lecito affermare di una
stessa cosa A e non-A, si può esprimere
il proprio pensiero in modo che possa essere inteso sia come A che come non-A e
si può dar ragione contemporaneamente sia a chi dice A che a chi dice non-A. Va
bene il matrimonio, ma va bene anche la convivenza; va bene la distinzione maschio-femmina,
ma va bene anche omosessualità; va bene la transustanziazione, ma va bene anche
la consustanziazione: va bene la fede, ma va bene anche l’incredulità; va bene
il teismo, ma va bene anche l’ateismo; va bene S.Tommaso, ma va bene anche Lutero
o Hegel o Severino; va bene Cristo, ma va bene anche Maometto e così via.
Per Hegel la contraddizione deve essere
evitata in nome del rispetto del principio di identità ma egli intende l’identità
dell’essere non come essere idem,
essere il medesimo o lo stesso, ma come «identità dell’identità con la
non-identità». Egli concepisce l’identità dell’essere non come semplice identità,
opposta alla non-identità, ossia come verità opposta alla falsità, ma come identità
che nega se stessa, oppone sé a sé, per
tornare a se stessa come «tolta» o «risolta» o «riconciliata con se stessa, ma
non come verità che toglie la falsità in modo assoluto, bensì solo in modo relativo,
perché la verità è relativa alla falsità, perché il vero non può essere senza il
falso[19].
È possibile peraltro che Hegel usi i termini
«contraddizione» e «contradditorio» in
senso improprio, per dire l’altro, il
differente, il diverso. È possibile che egli s’imbrogli equivocando sulla frase
«questo non è quello», come se la negazione di quello volesse dire che tra
questo e quello c’è contraddizione ed esclusione reciproca. Invece quel «non»
fa capo semplicemente all’analogia dell’essere, che è ad un tempo uno, molteplice
e diversificato, senza bisogno di metter l’essere in contrasto con se stesso e
senza confondere l’aut-aut con l’et-et, dividendo i diversi e conciliando
l’inconciliabile.
Così Hegel tende a confondere la diversità con
la conflittualità, per cui il diverso diventa con ciò stesso un nemico, oppure
la conflittualità, confusa con la diversità, diventa cosa normale. Non si deve
tentare di sedarla, perché sarebbe come spegnere il dinamismo della vita
sociale. In Hegel c’è un passaggio senza soluzione di continuità dal «tu non sei ciò che sono io», al «tu sei diverso
da me» al «tu mi sei nemico».
Infatti, la vera diversità si fonda sulla somiglianza, a sua volta connessa con l’analogia
dell’essere, concetto assente dalla metafisica e dalla logica di Hegel, al quale quindi resta ignoto il vero concetto dell’amore
e dell’amicizia. Per lui l’amore comporta l’identità fra i due amanti. Non sa
concepire la loro distinzione, perché per lui distinzione o differenza vuol
dire già inimicizia, conflitto. Hegel allora dice: «o tu sei uguale a me o tu sei
contro di me».
E viceversa la dialettica hegeliana, riducendo
il male al bene e il nemico in semplice diverso, smorza la ripugnanza verso il
male e lo fa apparire come produttore di bene, mentre l’avversario non è il
nemico e il «figlio del diavolo» (I Gv 3,10), ma l’interlocutore del dialogo. Da
Hegel sorge tanto l’ingenua visione buonistica dei nostri giorni, quanto la
sistematica conflittualità della lotta di classe marxista, tanto la
demonizzazione dell’avversario politico, quanto la doppiezza sorniona dei
pateracchi truffaldini.
Romano Guardini, dal canto suo, respinge la dialettica
hegeliana dell’accordo del bene col male; eppure usa un modo di esprimersi che gli
si avvicina, quando prospetta una concezione etica dalla quale scompare la
vittoria sul mondo e la lotta contro il nemico ricondotto alle condizioni del
semplice «altro», col quale dialogare, secondo la dialettica dell’«opposizione
polare».
«L’essenza
di questo procedimento – dice Guardini – consiste nel fatto che l’altro non
appare come avversario, ma come “opposto polare”, e i due punti di vista, tesi
e antitesi, vengono portati all’unità. … La dottrina dell’”opposizione polare”
è la teoria di quel contrasto, che avviene non attraverso una lotta contro un
nemico, ma grazie alla sintesi di una tensione feconda, ossia grazie alla costruzione
dell’unità concreta»[20].
Non esistono nemici, ma solo amici con i
quali dialogare. Tutti, in fondo, sono buoni. Il dialogo, ossia la dialettica,
risolve tutto, anche i conflitti più radicali, perché tra bene e male non c’è
un’opposizione assoluta, ma una relazione reciproca.
Massimo Borghesi in un libro che narra il
cammino intellettuale di Papa Francesco negli anni ’70 del secolo scorso,
quando era Provinciale dei Gesuiti, cita alcuni passi del pensiero di Bergoglio,
dove è possibile rintracciare questa tendenza a confondere diversità con
conflittualità. Trattando di come egli vede il metodo dell’apostolato dei
Gesuiti, Bergoglio scrive:
«La concezione
ignaziana è la possibilità di armonizzare gli opposti, di invitare a una tavola
comune concetti che in apparenza non si potrebbero accostare, perché li colloca
su di un piano superiore in cui trovano la loro sintesi. … La storia dei
Gesuiti è segnata da un’unità capace di plasmare la sintesi degli opposti.
Unire riducendo è relativamente facile, ma non duraturo. Più difficile è
elaborare un’unità che non annulla il diverso, che non riduce il conflitto; è
con questa unità che la Compagnia segnò la sua opera di evangelizzazione»[21].
Qui non è chiaro di quali opposti parla
Bergoglio. Infatti, se si tratta di opposti relativi, contrari o reciproci, che
mettono in gioco la diversità, come spiegherò più avanti, allora la sintesi è
possibile e doverosa. Ma se gli opposti sono in conflitto tra di loro, è
impossibile togliere l’opposizione e conciliarli, se non si tolgono le cause
del conflitto, assegnando con equità ed imparzialità ad entrambe le parti in
contrasto ragioni e torti. Il diverso è un valore e quindi va preservato e
difeso. Il conflitto è un difetto che impedisce la pace, l’unità e la concordia
e quindi va tolto.
Si può avere in Hegel un sintomo di questa
confusione tra diversità e conflittualità da frasi come queste, le quali
diversamente, sarebbero senza senso: «La determinazione è la contraddizione …
La differenza è la contraddizione»[22].
In Hegel manca un concetto analogico dell’essere, uno e molteplice, per cui,
per fondare le differenze e la diversità degli enti e spiegare il divenire ha a
disposizione solo la negazione dell’essere. Quindi, per non negare l’alterità,
le differenze, la diversità e il divenire, si vede obbligato a negare il
principio di identità.
Per salvare l’identità del divenire senza
assurde identificazioni dell’essere col nulla, sarebbe bastato che Hegel avesse
assunto le coppie concettuali aristoteliche potenza-atto e materia-forma, riguardanti
la generazione, ossia il «cominciare»[23]
e la corruzione, ossia il «cessare»[24].
Invece se la prende con l’enunciato del principio
del terzo escluso interpretato peraltro alla maniera parmenidea: «o l’essere è
o non è; non c’è una terza soluzione»[25],
ricordando la precisazione di Parmenide, secondo il quale il divenire non
esiste, perché da una parte dall’ente non diviene l’ente, perché è già ente e
dall’altra dal non ente non può divenire l’ente.
Il superamento della contraddizione per Hegel
non sta nel respingere l’opposto, ma proprio nell’assumerlo in sé nella sintesi
dialettica, mutando il negativo in positivo, perché altrimenti, dice Hegel, invece
di realizzare l’identità, si è vinti dalla contraddizione. Dice Hegel:
«Quando un esistente non può nella sua
determinazione positivamente estendersi fino ad abbracciare in sé in pari tempo
la determinazione negativa e tener ferma l’una nell’altra, non può cioè avere
in lui stesso la contraddizione, allora esso non è l’unità vivente stessa, non
è fondamento o principio, ma soccombe nella contraddizione»[26]
.
Occorre tener fermo Cristo e Beliar. Se non
li mettete d’accordo, succede che soccombete sotto il loro contrasto.
«Solo quando
sono stati spinti all’estremo della contraddizione, i molteplici diventano
attivi e viventi l’uno di fronte all’altro e nella contraddizione acquistano la
negatività, che è la pulsazione immanente del muoversi e della vitalità»[27].
«Ogni
determinazione, ogni concreto, ogni concetto è essenzialmente un’unità di
momenti distinti e distinguibili, che diventano contradditori mediante la differenza
determinata, essenziale. Questo contradditorio si risolve certamente in nulla,
torna nella sua unità negativa. La cosa, il soggetto, il concetto è ora appunto
questa stessa unità negativa; è un che di contradditorio in se stesso, ma è
anche insieme la contraddizione risolta; è il fondamento che sostiene e regge le
sue determinazioni»[28]
Il differente, determinandosi, diventa
contradditorio, cade nel nulla, ma con ciò stesso la contraddizione si risolve e
torna nella sua unità negativa, la quale è il fondamento, che sostiene e regge
le sue determinazioni, ossia è il soggetto produttore della polarità positivo-negativo,
che si risolve.
Rifiuto del
principio del terzo escluso
Il principio del terzo escluso dice che ogni
cosa o è A o non-A. Non può essere simultaneamente A e non A, perché si elidono
a vicenda. Questa terza possibilità è esclusa.
L’uomo, per esempio, è un animale razionale, per cui non può essere un
animale irrazionale. È escluso, quindi, che possa essere ad un tempo razionale
ed irrazionale.
Per far funzionare il principio del terzo
escluso e dargli la sua forza irresistibile di verità, bisogna far riferimento
a definizioni di essenze, come
nell’esempio succitato. Per questo, dato che nella definizione un predicato è
vero e l’altro è falso, il principio dice che non c’è una via di mezzo, non c’è
una terza possibilità fra il vero e il falso. Potremmo chiamarlo anche il
principio dell’aut-aut. Questo è il principio della lealtà del linguaggio, contro
la doppiezza, che ammette invece la terza possibilità del congiungimento del vero
col falso, il doppio senso o doppio parlare.
Hegel invece lo fraintende scambiandolo addirittura
per contradditorio, perché vede nella alternativa che ogni cosa o è A o è B l’accoppiamento irrelato di due proposizioni
che si contraddicono , delle quali una dice che una cosa è se stessa (una cosa è
A), mentre l’altra dice che ogni cosa è rapporto
con altra (non è non-A).
Da qui il suo infierire contro il principio del
terzo escluso, perché offenderebbe a suo dire il principio il principio di identità
e sarebbe contradditorio. Dice: «Questa proposizione della opposizione
contraddice nel modo più esplicito la proposizione dell’identità. .. La
proposizione del terzo escluso è la proposizione dell’intelletto determinato, che
vuole respinger da sé la contraddizione e, nel far ciò, incorre appunto nella contraddizione.
Egli presenta l’alternativa «o A o non-A» come un’«antitesi vacua»[29],
perché usa un esempio assurdo: «lo spirito è bianco o non è bianco, è giallo o non
è giallo e così via all’infinito»[30].
Inoltre Hegel, sempre al fine di
neutralizzare la forza di un fastidiosissimo principio, che scalzerebbe alle
radici la sua dialettica della contraddizione, concepisce il principio secondo
questa formula: «Non si può dar nulla che non sia né A, né non-A»[31].
Lo imposta secondo predicati negativi, seppure escludentisi a vicenda. Ma in
tal modo il soggetto diventa estraneo ad entrambi, per cui, anche se si
contraddicono, il soggetto resta lo stesso.
Facciamo un esempio, secondo la schema di Hegel:
un gatto non può essere un leone
né può essere un non-leone. Che un gatto sia o non sia un leone gli è
indifferente. Quindi, secondo Hegel, il terzo escluso sarebbe «indifferente
all’opposizione»[32]; ma se
è indifferente, vuol dire che la può ammettere. Ed è qui che Hegel vuole arrivare.
Addomestica il principio del terzo escluso per
metterlo d’accordo con la sua dialettica. Sviluppiamo infatti l’esempio
proposto. Il gatto non ha niente a che vedere col leone o col non-leone. Il
gatto stesso, dunque, risulta essere, prosegue Hegel, «quel terzo, che dovrebbe
essere escluso». Da qui conclude che il terzo, che dovrebbe essere un «morto
qualcosa» va «considerato, più profondante, l’unità della riflessione, nella
quale l’opposizione torna come nel suo fondamento»[33].
Per Hegel il cosiddetto terzo escluso non è
affatto escluso, anzi è il soggetto esistente dialetticamente strutturato. Il
terzo è dunque incluso perché rappresenta il divenire, la contraddizione
dialettica dell’essere-non-essere, del dire-non-dire, rappresenta la «differenza»,
l’«alterità» e la «determinatezza», che per Hegel sono l’effetto dell’«immane potenza
del negativo». Tutto questo per arrivare a dire ch il gatto, come «tutte le
cose», è una realtà «contradditoria»[34]
.
Ma se Hegel avesse preso sul serio il
principio del terzo escluso, non avrebbe avuto scappatoie ai suoi sofismi.
Infatti, il vero principio del terzo escluso, non quello adattato da Hegel ad usum delphini, fondandosi sul
principio di non-contraddizione (non si può affermare e negare simultaneamente
la stessa cosa della stessa cosa), che si fonda a sua volta sul principio di
identità (ogni ente è ciò che è e non altro da sè), pone un’alternativa tra due
predicati opposti, uno positivo
(essere), l’altro negativo (non-essere) reciprocamente escludentisi, riferiti ad un solo soggetto; non pone due
predicati negativi opposti senza
riferimento al soggetto, in modo che esso resti indifferente ad essi, ma al contempo predicabili di entrambi.
Prender sul serio il principio del terzo escluso
vuole dire per esempio: il gatto ha o non
ha quattro zampe. È esclusa una terza possibilità e cioè che il gatto abbia e non abbia quattro zampe. È chiaro che qui l’impossibilità e
l’impensabilità è talmente evidente, che anche Hegel ve la concederebbe, per
non fare la figura del demente. Ma non per questo egli rinuncia al suo piano truffaldino,
onde aver modo di imbrogliarvi possibilmente senza che ve ne accorgiate. Ed è il modo col quale egli concepisce il principio
in oggetto.
Allora, per arrivare a quella conclusione, Hegel
inventa il meschino espediente di falsificare il principio, per convincervi, se
non tenete gli occhi aperti, che il gatto, in quanto ente diveniente (il
divenire non è contradditorio?), è un ente contradditorio e perciò l’esser
gatto, se volete la verità del gatto, non esclude il terzo, cioè la contraddizione,
ma la accoglie e la «risolve».
Come, poi? Semplice: facendo presente che il concetto
di gatto e di non-gatto si richiamano a vicenda. E questo è vero, sul piano logico: per sapere che cosa è il gatto,
occorre sapere anche che cosa non lo è.
Ma nella realtà il gatto è il gatto.
Funziona qui il principio di identità. Ora, per avere la verità sul gatto, occorre
badare alla realtà del gatto, dove il gatto è
quello che è e non altro da sè. Non ci
si deve fermare sul piano dei concetti, che è appunto quello della dialettica,
ma, per mezzo dei concetti, cogliere il reale per quello che è, nella sua
identità unica, irripetibile, precisa e
determinata, senza confonderlo con altre cose.
Identità infatti viene da idem, il medesimo, la stessa cosa. L’identità
è la medesimezza di quel dato ente, di ogni ente, anche mutevole. L’identità
corrisponde all’unità e viceversa, solo che identità dice «questo tale», mentre
unità dice «non diviso». «Identico» regge il dativo: Gianni è identico ad Antonio. Sono identici. L’uguaglianza è
l’identità sul piano della quantità: 2+2=4. Identificare può reggere o l’accusativo
o il complemento di compagnia. «L’assassino è stato identificato», ossia
riconosciuto nella sua identità. «In Dio l’essere s’identifica col pensiero»: sono
la stessa cosa.
Senonchè qui Hegel scopre il suo idealismo, che
riduce l’essere al concetto, cosicchè secondo
lui il concetto è contradditorio, perché il reale stesso è contradditorio. E quindi,
così come il concetto è necessariamente contradditorio, ne viene che anche il linguaggio o parlare potrà e dovrà essere
contradditorio. Ecco dunque la legittimazione
della doppiezza e della menzogna. Ma vediamo
come Padre Barzaghi ci spiega con la sua solita acutezza, come funziona questo meccanismo
perverso, questa macchina della menzogna.
Gli opposti
Tutte le cose sono a coppia, l’una di fronte
all’altra;
Egli non ha fatto nulla di incompleto
Sir 42, 24
Per comprendere
però l’interpretazione di Padre Barzaghi occorre premettere un breve discorso sulla
teoria logico-metafisica degli opposti. Gli opposti in generale sono due
termini in logica inseparabili, in metafisica separabili, i quali per essenza stanno
l’uno davanti (ob-positum) all’altro
o convergendo o divergendo.
La convergenza
moderata comporta una certa convergenza, supponendo un medesimo soggetto
sostanziale (concreto) o essenziale (astratto) per entrambi; divergono solo accidentalmente,
ossia per il predicato. Abbiamo qui gli opposti relativi, per esempio il
rapporto padre-figlio; gli opposti reciproci: maschio e femmina e gli opposti contrari,
come l’avvicendarsi del freddo e del caldo in una stessa stanza. La divergenza
qui è solo relativa ai predicati. Tutti questi opposti si possono ricondurre
all’opposizione relativa, che non è totale, ma secundum quid. Sotto l’aspetto dell’essenza o della sostanza o
dell’essere convergono.
La
divergenza totale, quindi l’opposizione assoluta riguarda non solo la proprietà
o il predicato, ma anche la sostanza o il soggetto, insomma tutto l’ente e quindi
è opposizione secondo l’essere e il non-essere. È l’opposizione contradditoria:
A e B non possono in nessun modo stare assieme, non hanno tra di loro alcuna
relazione, ma se c’è l’uno non c’è l’altro e viceversa. Se c’è la grazia, non ci può essere il
peccato. Se si ascolta Cristo. non si può ascoltare il demonio. Se si dice sì
non si può dire no. E così via.
Si chiama
opposizione contradditoria non perchè leda il principio di non-contraddizione,
ma al contrario proprio per salvarlo, come per esempio l’opposizione fra
l’affermazione dell’esistenza di Dio e la negazione. Non possono essere vere
entrambe: o è vera l’una o è vera l’altra. Tertium
non datur. Sarebbe contradditorio
dire che Dio esiste e non esiste. Sarebbe doppiezza una simile proposizione.
Hegel dà la seguente
definizione degli opposti:
«nell’opposizione la riflessione determinata,
la differenza è compiuta. L’opposizione è l’unità dell’identità e della diversità;
i suoi momenti sono diversi in una sola identità; così sono opposti»[35].
Osservo che
una simile definizione lascia intendere in Hegel un duplice errore. Primo:
ridurre l’opposizione all’identità. Questo non è lecito né possibile, perché, come
abbiamo visto, gli opposti contradditori sono inconciliabili e, secondo, Hegel trascura
il fatto che l’alterità non è una semplice negazione o addirittura soppressione
del semplice identico (l’in sé, l’an sich),
e che non tutti i distinti, i differenti, i disuguali e i diversi possono
essere ridotti agli opposti, perché essi normalmente sono una molteplicità. E
la molteplicità è un fenomeno ontologico irriducibile, che non può essere sufficientemente
spiegato e compreso con lo schema affermazione-negazione, ma occorre far uso di
un concetto analogico e partecipativo dell’essere.
La famosa coincidentia oppositorum in Dio, della
quale parla Nicolò Cusano può essere intesa in un senso accettabile, se si tratta
di opposti relativi, reciproci o contrari, che salvano il principio di identità.
Il vero Dio non è un Dio doppio, un Dio del sì=no, ma un Dio uno e semplice, non
contradditorio, Dio della vita e non della morte.
Ma l’opposizione
è inaccettabile e assurda, se pretende, come sembra essere nel Cusano, di esprimere un punto di vista divino che possa essere al
di là del sì e del no. Così pure non esiste, come vorrebbe farci credere
Nietzsche, qui perfetto cusaniano ed hegeliano, un «al di là del bene e del
male». Dio non è sì e no, ma è assoluto SI’, come S.Paolo dice di Cristo, che
Egli «non fu “sì” e “no”, ma ci fu solo il “sì” (II Cor 1,19). La differenza con
Nietzsche è che mentre questi usa questo trucco per negare Dio, gli altri due
credono all’esistenza di un Dio assurdo, che si autonega e si autoafferma in
questa autonegazione.
È vero che
esistono contraddizioni apparenti che in Dio si sciolgono; ma la ragione umana
può scoprire con assoluta certezza l’esistenza di una contraddizione reale. E credere, come fa Cusano, che
Dio possa smentire tale certezza in una superiore unità, è sbagliatissimo,
perché la ragione umana ha già in se stessa le forze sufficienti per
individuare una contraddizione reale e Dio qui conferma e non smentisce il dato
della ragione. Parlare, come fa Cusano, di “mistica” a proposto del Dio che smentisce
quella ragione, che Egli stesso ha creati
è gettare fumo negli occhi e per conseguenza bestemmiare il Creatore.
L’interpretazione
di Padre Giuseppe Barzaghi
Il bisogno dell’unità del reale è sacrosanto,
perché ogni ente è uno, ma non va inteso come bisogno di identificare l’essere
col non-essere, né si deve arrivare a dire che tutto è Uno trascurando
l’opposizione radicala fra l’essere e il non essere, secondo la lezione
parmenidea circa il principio di non-contraddizione.
Non
bisogna pensare che l’opposizione assoluta
fra essere e non-essere impedisca l’unità del reale o addirittura, come
vedremo in Hegel, generi contraddizione. L’universo composto da Dio e mondo non
è un unico Essere, Uno-Tutto univoco, come pensava Parmenide, ma è
l’associazione dell’ipsum Esse divino,
summum Ens, con la molteplicità e
varietà degli enti da Lui creati, il che suppone evidentemente una concezione analogica
e partecipativa e non univoca o unicista dell’essere inteso come essere assoluto,
il solo essere esistente.
Non si deve neppur pensare che l’opposizione
essere-non-essere sia un dualismo o un contrasto da eliminare o da «risolvere»
o da «conciliare». La vera unità del reale è l’unità dell’essere che ha al suo culmine
nell’unità divina. Il non essere, ben
lungi da completare l’unità, è negazione, dissoluzione e privazione della unità.
Quindi è assurdo credere, come ha fatto Hegel, che, perchè vi sia l’unità del
tutto, occorra aggiungere all’essere il non-essere, il falso al vero.
Così in campo teologico l’associazione del paradiso
con l’inferno non suppone affatto, come temeva Origene, un’unità incompleta ed insufficiente
della bontà divina, così che per ottenerla, occorrerebbe spegnere l’inferno. Ma
Hegel sbaglia ancora di più, mettendo assieme
in Dio, come fa Böhme, il bene col male e il paradiso con l’inferno, cosa che al
pio Origene avrebbe fatto orrore.
Il Barzaghi prende in esame in Hegel la sua
tesi dell’opposizione fra l’essere e il non essere e per conseguenza fra il vero
e il falso e fra il bene e il male, e nota giustamente che per Hegel la detta
opposizione non è assoluta, ma relativa, nel senso che i due termini non sono
isolati l’uno dall’altro, sì da escludersi vicendevolmente o reciprocamente, ma si trovano in una relazione reciproca, si
richiamano l’un l’altro, l’uno non può stare senza l’altro.
Ora, la cosa interessante e sorprendente è
che, siccome l’opposizione assoluta dei due termini dà fastidio ad Hegel,
perché fondata sul principio di non-contraddizione, Hegel, per le esigenze
della sua dialettica, ossia per negare l’assolutezza dell’opposizione, ha la
sfrontatezza di affermare, per l’occasione, che la detta assolutezza conduce
alla contraddizione. Da che pulpito vengono le prediche contro la
contraddizione!
Prendendo come esempio di supposta opposizione
assoluta la frase «la vita non è la morte», Barzaghi presenta in tal modo il ragionare
di Hegel: «Se la vita (=non morte),
per costituirsi come tale escludesse assolutamente (cioè non relativamente) la
morte (non-vita), non potrebbe
costituirsi come non-morte (si deve
escludere il riferimento, la relazione) e quindi sarebbe la non-non-morte, cioè la morte (non-non-morte), cioè la non-vita: la vita
sarebbe la morte. Contraddizione!»[36]-
Dove sta il sofisma di Hegel? Esso suppone la
riduzione idealistica hegeliana della cosa al concetto o alla definizione della
cosa. Ma un conto è una cosa e un conto è la definizione della cosa. La cosa è
sul piano della realtà. La definizione è sul piano dei concetti. L’opposizione
è effettivamente relativa sul piano dei concetti, ma non della realtà. È chiaro
che la nozione logica dell’essere, del tutto astratta, include in sé tanto
l’essere reale che il non-essere, per cui si può dire che, in relazione a tale
nozione dell’essere, tanto l’essere che il nulla esistono.
Infatti
è del tutto lecito definire la vita
come non-morte, per cui è chiaro che nel definire occorre far riferimento al concetto della morte. In tal senso è
vero che il concetto della vita e il concetto della morte sono
inscindibilmente in relazioni fra di loro. Ma l’opposizione logica o predicativa
non è ancora l’opposizione reale fra
la realtà della vita e la realtà della morte.
Certo anche il logico deve rispettare il principio
di non-contraddizione, tuttavia resta che l’opposizione assoluta fra essere e
nulla è sul piano della realtà e non su quello dell’ente di ragione
logico. È dunque sul piano della realtà
che vita e morte sono in assoluta e totale opposizione, l’una esclude l’altra, non
hanno alcuna relazione reciproca, e non hanno niente a che vedere l’una con
l’altra.
Nessuno di noi è contento di vederci doppio,
ma si fa curare dall’oculista perché il suo occhio riesca a mettere a fuoco gli
oggetti. Ebbene, Hegel è come un oculista che consigliasse al paziente di
restare così, perché quello è il modo normale di vedere.
Esempi
di doppiezza nel linguaggio
del
principio di non-contraddizione e del terzo escluso.
1.Affermare di non aver detto ciò che si è detto. In termini popolari: «cambiare le carte in
tavola». È un modo di sgusciare o cambiare soggetto del contendere, quando si è
messi alle strette, per far credere di aver ragione, mentre si ha torto;
2. Incoerenza nel discorso: prima si afferma
e poi si nega o viceversa;
3. Si esprime una frase equivoca, ambigua, a
doppio senso, fraintendibile, interpretabile in significati contradditori;
4. Si inganna il prossimo ovvero si induce
l’altro in errore proponendogli una tesi erronea ma apparentemente vera o
facendogli apparire come vera una tesi che si sa essere falsa;
5. Riportare il discorso di un altro
alterandolo nel suo senso;
6. Interpretare il discorso di un altro
falsandone o cambiandone il significato a favore delle proprie contrarie
opinioni;
7. Tacere e non rispondere a chi ci
interpella, quando siamo colti in fallo o, come si dice popolarmente, quando
siamo «presi in castagna», per non riconoscere di aver sbagliato;
8. Far dire a un altro quello che non ha
detto;
9. Dire il contrario di quello che si pensa.
Princìpi
di logica formale e del linguaggio atti a causare doppiezza,
ricavati
dalla logica di Hegel
1.Esiste la
verità, ma se è vero A, è vero anche non-A.
2. Se A è B, è giusto affermare che A è B. Ma
questa è ancora un’espressione ingenua. La logica dialettica sta nell’affermare che A è anche non-B.
3. Si può dire correntemente che tra A è B e
A non è B una terza possibilità è esclusa, ma si può dire meglio, in filosofia, che è inclusa: A è e non è B.
4. Tra vero e falso si può ammettere nella
logica ingenua un’opposizione assoluta ed una incomunicabilità reciproca
assolute (sì, sì, no, no). Ma nella logica dialettica si deve e si può dire che,
come dice Hegel, esistono una conciliazione e una relazione reciproche: niente
falso senza vero, ma anche niente vero senza
falso. La verità è l’unità dialettica del vero e del falso.
5. Bisogna evitare di prendere posizioni
nette, che escludano assolutamente il contradditorio, ma ammettere sempre, in
certe situazioni, questa possibilità;
6. il contradditorio non è altro che il
contrario o il diverso: non va escluso, ma accolto: l’inverno non esclude
l’estate, il piccolo non esclude il grande, il caldo non esclude il freddo, il
maschio non esclude la femmina. L’essere non esclude il non-essere, il vero non
esclude i falso, il bene non esclude il male;
7. il rifiuto
del contradditorio è il rifiuto dell’altro e della diversità. Ma chi ragiona
così, dà prova di avere una mente chiusa all’accoglienza e al rispetto dell’altro;
8. Non si deve mai comandare o proibire nulla
in modo assoluto ed universale, perché la verità e le leggi mutano a seconda
dei luoghi, dei tempi, delle indoli e delle preferenze dei singoli e dei
gruppi, delle convenzioni e delle convenienze;
9. L’opposizione fra il vero e il falso è
come quella tra il bianco e il nero: ci sono molte gradazioni intermedie.
Esiste un passaggio graduale, per cui una proposizione può non essere né vera
né falsa, oppure può essere vera e falsa ad un tempo, così come il grigio è un
punto intermedio fra il bianco e il nero. I concetti non sono fissi, ma sono
fluidi, trapassano l’uno nel suo opposto. Ogni concetto è lui e il suo opposto.
Esempi di
conseguenze teoretiche
1.Si afferma l’esistenza di Dio, ma poi si
sostiene che anche l’ateo si salva.
2. Si afferma il monoteismo, ma poi si
afferma che Pachamama è un’immagine della divinità.
3. Si accoglie il magistero della Chiesa, ma
si afferma che i suoi pronunciamenti possono essere interpretati secondo
significati opposti
4. Si afferma che Cristo è il Salvatore
dell’umanità, ma poi si afferma che le altre religioni sono diverse vie di
salvezza volute da Dio.
5. Si ammettono gli articoli del Credo, ma si
sostiene la mutabilità del dogma.
6. Si ammette il dogma di Calcedonia, ma lo si
affianca alla cristologia di Hegel come espressione moderna del mistero di Cristo.
7. Si afferma il mistero della
transustanziazione eucaristica, ma poi si afferma che la consustanziazione
luterana è un altro legittimo modo di interpretare la Presenza reale.
8. Si ammette il papato, ma non si riconosce l’infallibilità
pontificia.
9. Si afferma la propria appartenenza alla
Chiesa cattolica, ma poi si accusano di modernismo le dottrine del Concilio
Vaticano II e il magistero dei Papi del postconcilio.
10. Ci si considera cattolici, ma poi si
afferma che Lutero è stato un riformatore che ha guarito non diviso la Chiesa.
11. Si fanno le lodi della famiglia e dell’indissolubilità
del matrimonio, ma poi si considerano le unioni omosessuali come semplici e liberi
diversi orientamenti sessuali.
12. Ci si considera tomisti, ma poi si
approvano gli errori di Lutero, di Cartesio, di Kant, di Hegel, di Marx, di Gentile, di Freud, di Heidegger, di
Rahner, di Schillebeeckx e di Severino.
La doppiezza
è un peccato contro il Vangelo
La doppiezza non è solo disonestà nel
ragionare, nel pensare e nel parlare, ma è anche peccato contro la verità
evangelica ed offesa a Cristo. Egli, che è misericordioso con tutti, è
severissimo contro gli ipocriti, i falsi, le persone doppie. Sono i suoi aspri rimproveri
e le sue terribili minacce contro di loro, che susciterà in essi l’odio che li porterà
a crocifiggere la Verità fatta persona.
E Gesù ha ragione di tenere questa condotta.
La doppiezza non è un peccato di fragilità. come può essere un peccato carnale,
ma è un peccato pienamente lucido e cosciente, un peccato ben calcolato e
perfettamente voluto e preparato, frutto di una volontà perversa e di un
intelletto accecato dall’invidia e dalla superbia.
Questo peccato comporta una profonda distorsione
della naturale aspirazione della mente umana alla verità e della naturale
inclinazione della volontà alla onestà ed alla sincerità nel pensare e
nell’intrattenere rapporti verbali col prossimo.
La doppiezza, come ci è chiaramente insegnato
dalla Scrittura, trae la sua ispirazione dal demonio, padre della menzogna, e
per questo Cristo ci avverte che «quel di più», che pretenderebbe aggiungere
una maggiore saggezza a quella basata sull’opposizione del sì al no, come se questa
non bastasse, «viene dal maligno» (Mt 5,38). Ora qui Cristo non fa altro che
enunciare in termini semplicissimi, vorremmo dire infantili, comprensibili a
tutti, quello che è il principio di non-contraddizione e per conseguenza del
terzo escluso.
Ed è questo il principio fondamentale della
semplicità evangelica, inscindibilmente connesso con l’esigenza intellettuale
di rispettare e non manipolare la verità e con l’esigenza morale dell’onestà nel
pensare, nel ragionare e nel parlare.
Semplicità infantile, vorremmo dire
fanciullesca, che non è semplicioneria, dabbenaggine e infantilismo, ma è
congiunzione o sintesi della semplicità della colomba con la prudenza del
serpente (Mt 10,16), sì che possa realizzarsi il precetto paolino: maturità di
giudizio e infantile innocenza: «Siate come bambini quanto a malizia, ma uomini
maturi quanto ai giudizi» (I Cor 14,24).
Il bambino, nella sua spontaneità naturale, è
un intuitivo, non conosce il calcolo e la doppiezza, ma dice semplicemente
quello che vede e che pensa, mettendo magari in imbarazzo gli adulti, come fa
il ragazzo della favola del re nudo. Indubbiamente il bambino non ha ancora l’occhio
critico, che permette di distinguere l’apparenza dalla realtà. E per questo occorrerà
il saper riflettere e ragionare, qualità dell’adulto.
Ma purtroppo, a seguito del peccato originale
e della seduzione del demonio, ben più pericolosa, insidiosa e fascinosa della
seduzione della carne, avviene che l’adulto fa uso della ragione per ingannare
se stesso e del linguaggio per ingannare il prossimo. Ecco allora il senso del
famosissimo comando di Cristo ad essere come
bambini, da associare, al fine di essere ben compreso, all’altro fondamentale,
citato sopra di essere prudenti come i serpenti.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 1 febbraio 2020
[1] Il Maritain è molto severo nell’accusare
Hegel di violare il principio di non-contraddizione, nella sua
opera Antimoderno, Edizioni Logos, Roma 1979, pp.156-157. Hegel, dal
canto suo, si accorge di averla fatta grossa e fa ogni sforzo per spiegarsi e
per difendere questa tesi assurda, che se fosse vera, sarebbe la distruzione
del pensiero, compreso il suo. Ma non convince. Potrebbe trattarsi di un
difetto di espressione. Tutto quello che eventualmente si può ricavare dalla
tesi hegeliana, è, come cerco di dimostrare in questo mio saggio, la disonestà
e doppiezza del linguaggio, ed un’assurda concezione conflittuale della realtà,
del pensiero e dell’agire. Cf Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963,
pp.93-97.
[2] Hegel probabilmente è stato spinto da Kant
ad ammettere una dialettica trascendentale, che egli ha trasformato in scienza,
mentre in Kant resta dialettica, cioè opinione. Ma l’errore di Kant che ha sviato
Hegel è stato quello di credere che possa esistere una dialettica sul piano trascendentale,
quando questo invece non ha niente a che vedere con la dialettica, che è opinione,
mentre il piano trascendentale, essendo il piano dei primi princìpi, contiene
assolute certezze. Per questo il povero Kant, ponendo il problema dell’esistenza
di Dio sul piano dialettico, non cava un ragno dal buco, ma s’impegola nelle contraddizioni,
perché il problema di Dio non s’imposta sul piano della dialettica, ma su
quello trascendentale.
[3] Lezioni
sulla storia della filosofia,3,1, La
Nuova Italia Editrice, Firenze 1985, p.221.
[4] Cit. in Lezioni
sulla storia della filosofia, 3,II, p.45.
[5] Ibid.
[6] Questa idea sembra ritrovarsi nel concetto
che Luigi Pareyson si fa della libertà divina: cf Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino
1995.
[7] Hegel
teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, Edizioni
Piemme, 1996.
[8] La
fenomenologia dello Spirito, Edizioni La Scuola, Firenze 1988, p.27.
[9] Ibid., p.27-28.
[10] Ibid., p.26.
[11] Ibid., pp.30-31.
[12] Ibid., pp.31-32.
[13] Ibid., pp.37-38.
[14] Hegel
teologo, op.cit., pp.143-147.
[15] Fenomenologia
dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1988, vol.II, p.277.
[16] Logica,
Edizioni Laterza,Bari 1984, pp.70-71.
[17] Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.93.
[18] Logica,
op.cit., p.71.
[19] Vedi sotto la spiegazione di Giuseppe
Barzaghi.
[20] Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Romano Guardini. La vita e l’opera,
Morcelliana, Brescia 2018, p.306.
[21] Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book,
Milano 2017, p.82.
[23] Propedeutica
filosofica, La Nuova Italia, Firenze 1977, p.88.
[24] Ibid.
[25] Ibid.
[26] Logica, op.cit., p.492.
[27] Ibid., p.493.
[28] Ibid., p.494.
[29] Encilopedia,
op.cit., p.118.
[30] Ibid.
[31] Logica,
op.cit., p.490.
[33] Ibid.
[34] Ibid.
[35] Logica,
op.cit., p.473.
[36] Compendio
di storia della filosofia, Edizioni ESD,Bologna, 2006, pp.142-143.
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