Il concetto di Dio da Kant a Feuerbach - Da Dio come idea della ragione a Dio come alienazione della ragione - Quinta Parte (5/5)

  Il concetto di Dio da Kant a Feuerbach

Da Dio come idea della ragione a Dio come alienazione della ragione

 
 Quinta Parte (5/5)

L’ateismo di Feuerbach

Feuerbach, come Hegel, distingue il materiale dallo spirituale, solo che per lui il reale primario ed originario non è lo spirito, ma la materia. Abbiamo una ripresa di Democrito e di Epicuro contro il platonismo di Hegel, benché Hegel apprezzasse anche Eraclito, il che implica materialismo.  

Hegel connette lo spirituale all’ideale, ma nel contempo lo spirito è il reale; è la vera sostanza, è la vera essenza; è il Soggetto, è l’Idea, è l’essere. Ma è essere come divenire, come storia, come mondo, come uomo e così vediamo che l’idealismo hegeliano non è come quello platonico, schifiltoso e guardingo nei confronti dei sensi, del corpo, delle passioni e della materia. D’altra parte per Hegel, come sappiamo bene, l’ideale (razionale) coincide col reale, per cui nasce uno spiritualismo materialista. Non è difficile allora cavar fuori da questo spiritualismo un materialismo spiritualista. Ed è quello che fece Feuerbach.

Infatti l’Eraclito di Hegel si unisce all’essere parmenideo, che dice spirito e da esso dipende. Per questo in sostanza la filosofia di Hegel è una filosofia dello Spirito, benché si tratti di Spirito materializzato nel divenire storico-mondano. Tuttavia per Hegel è lo spirito che pone la materia. Invece per Feuerbach è la materia eterna che si trascende e diventa spirito, come si verificherà nel secolo scorso nella cosmologia di Teilhard de Chardin.

Feuerbach parte dalla concezione kantiana di Dio come ideale supremo della ragione elevata a Spirito assoluto in Hegel, per opporsi alla considerazione positiva che di Dio hanno Kant ed Hegel in quanto per loro Dio, seppur non esistente nella realtà extramentale, mantiene la funzione di ideale supremo della ragione e dello spirito.

Feuerbach, invece, riprendendo la tesi idealistica della intrascendibilità del pensiero, respinge il legame che Kant ed Hegel continuano a vedere di Dio con l’Assoluto, implicante una dipendenza, seppur solo ideale dell’uomo da Dio, che richiama al realismo metafisico e contrasta col dogma idealista dell’identità del pensiero con l’essere.

Ma nel contempo Feuerbach recupera il realismo della sensibilità contro lo scetticismo idealista, anche se l’Io inteso come il singolo uomo resta il pilastro della costruzione teoretica. Non è più tuttavia l’io puro idealista, ma è l’uomo concreto, composto di materia e spirito. Nel contempo appare la tematica dell’uomo come genere umano (Gattungswesen), che riapparirà in Marx. Dio non è il singolo uomo, ma l’umanità, come in Comte.

Succede allora che continuare a porre un Dio sia pur solo ideale al di sopra dell’uomo, per Feuerbach è una dimissione da parte dell’uomo delle sue potenzialità ed un’umiliazione davanti a un Dio, che non è altro che un ente immaginario che priva l’uomo della sua essenza ed è atto solo a lasciare l’uomo nella sua miseria.

Per Feuerbach la religione nacque nell’uomo primitivo spaventato e afflitto nel constatare le sue debolezze, i suoi fallimenti, le sventure della vita, le sue stesse cattive azioni, le ingiustizie patite. L’uomo, tutto concentrato su queste sue disgrazie, non pensò di riflettere sulle sue risorse e sulle sue potenzialità, ma invece di far leva su di esse, inventò un’entità personale trascendente, chiamata «Dio», alienandosi dalle proprie forze umane col trasferirle in questa entità immaginaria, che cominciò a considerare come suo protettore, suo liberatore, suo signore, al quale obbedire, render culto ed offrire sacrifici. Ed ecco nata la religione.

Feuerbach nota che l’uomo è finito, fragile, mortale, fallibile, passibile, corruttibile, peccabile, mutevole. Feuerbach non si accorge di quale stridente contraddizione ci sia tra questi attributi, effettivamente propri dell’uomo e quelli che assegna all’uomo rubandoli a Dio, come l’esistere per essenza, l’intrascendibilità del suo essere, l’indipendenza nell’essere, e la totale autonomia del volere, la libertà illimitata libera da ogni legge trascendente.

La religione, dunque, per Feuerbach, non è benefica ma dannosa perché per essa l’uomo infelice trasferisce in un ente immaginario da lui creato, detto «Dio» quelle potenzialità appartenenti alla natura umana, delle quali l’uomo può e deve disporre per la liberazione sua e dell’intera umanità. Quindi l’uomo, inventando la religione, finisce, secondo Feuerbach, per adorare inutilmente e illusoriamente le sue potenzialità umane idealizzate ed ipostatizzate e non utilizzate.

Tuttavia, secondo Feuerbach, nella religione l’uomo percepisce l’infinità e divinità della sua essenza. Non sta qui – dice lui - l’errore della religione: il suo errore sta nell’adorare come ente supremo e trascendente l’ipostatizzazione immaginaria celeste dell’infinità della natura umana. Infatti, come dice Feuerbach,

 

«La religione, in generale, essendo identica con l’essenza dell’uomo, è identica con l’autocoscienza, con la coscienza che l’uomo ha della propria essenza. Ma la religione, per dirla in termini generici, è coscienza dell’infinito» – questo tema è già presente in Schleiermacher -; «è dunque e non può essere nient’altro che la coscienza che l’uomo ha della propria essenza e non di quella finita e limitata, ma infinita.

 

Un ente che sia davvero finito non ha la minima, non ha la più remota idea – ed è inutile parlare di coscienza – di un’essenza infinita, perché il termine dell’essenza è anche il termine della coscienza. … Coscienza, intesa in senso stretto o proprio e coscienza dell’infinito sono la stessa cosa. Una coscienza limitata non è coscienza; la coscienza è necessariamente di natura infinita. La coscienza dell’infinito non è altro che la coscienza dell’infinito della coscienza. In altri termini: nella coscienza dell’infinito il soggetto cosciente ha come oggetto l’infinità della propria essenza»[1].

Secondo Feuerbach, in quanto percezione dell’infinità dell’essenza umana, la religione svolge un ruolo positivo. Sbaglia nel suddetto processo di autoestraneazione, per il quale l’uomo si priva della sua essenza prendendo occasione dalla percezione della propria miseria e credendo così di rimediare ad essa.

L’uomo, invece, secondo Feuerbach, deve prender coscienza della vanità dell’illusione religiosa e riappropriarsi di quell’essenza divina della quale egli stesso stoltamente si è privato. Marx, considerando l’aspetto ingannevole della religione, darà ad essa, come è noto, un senso meramente negativo. Invece Feuerbach, vedendo in essa l’intuizione dell’infinità dell’uomo, le dà anche un senso positivo.

Riguardo a questa questione dell’infinito, è evidente l’equivoco di Feuerbach: nessuno nega che la coscienza umana abbia l’intuizione dell’infinito, aspiri a superare il finito ed abbia sete di infinito. Sta qui effettivamente la sua nobiltà. Ma ciò non significa affatto che sia infinita essa stessa e sappia da sé superare la finitezza, se non è lo stesso Infinito a sollevarla. Al contrario le sue forze sono limiate non solo per natura, ma anche per quei limiti difettivi, che pur lo stesso Feuerbach riconosce. Inoltre il finito non può diventare infinito e viceversa. Nell’uomo il finito e l’Infinito sono fatti per unirsi senza confondersi tra di loro.

Sta comunque di fatto che per Feuerbach, a causa del suddetto equivoco, l’essenza dell’uomo è l’essenza di Dio. Gli attributi divini sono gli attributi dell’uomo. L’uomo però si arroga attributi che in realtà appartengono solo a Dio. Feuerbach si rende ben conto che l’uomo non è infinito, eterno, creatore del mondo, onnipotente, immutabile, immortale, impassibile, incorruttibile. Dice Feuerbach:

 

«L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, più esattamente, l’essenza dell’uomo purificata e liberata dai termini dell’uomo individuale e oggettivata, cioè mirata e venerata come se fosse un’altra essenza diversa da lui, con propri caratteri. Tutte le determinazioni dell’essenza divina sono quindi determinazioni umane»[2].

Naturalmente questa identificazione dell’essenza umana con quella divina, non significa che l’uomo sia onnipotente come Dio, ma ciò non porta Feuerbach a rinunciare al suo panteismo perché in ogni caso per lui l’uomo resta onnipotente se non in senso effettivo, almeno in senso ottativo, come si evince da queste parole:

 

«Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare l’uomo è illimitato, libero, onnipotente; è Dio; ma nel potere, nell’appagamento, nella realtà è condizionato, dipendente, limitato, è uomo nel senso di un essere finito»[3].

Parlando di sé in terza persona Feuerbach dice:

 

«Nel suo libro[4] Feuerbach si è proposto quale unico compito il ricondurre Dio e la religione alla loro origine umana e, mediante questa riduzione, di dissolverli sia teoreticamente che praticamente nell’uomo.  La religione rappresenta perciò l’essenza propria dell’uomo o l’essenza astratta dell’uomo, come un ente extra o sovrumano.

 

Feuerbach doveva quindi ricondurre questa frattura in Dio e uomo a quella distinzione che si verifica nell’ambito stesso dell’uomo; e come sarebbe spiegabile la religione se nell’uomo non ci fosse alcuna differenza tra io o autocoscienza e l’essenza o natura? Egli doveva quindi prendere come punto di partenza della sua trattazione le condizioni psicologiche che determinavano appunto l’uomo a distinguere da sé e a porre sopra di sé come se fossero potenze divine, la sua stessa essenza e la sua proprietà, gli stati d’animo, cioè, di entusiasmo e di passione, di concentrazione e di estraneazione da sé.

 

Il critico intelligente tenga conto, insomma, che la introduzione all’Essenza del cristianesimo, nella quale si insiste in particolar modo sulle potenze che “nell’uomo sono superiori all’uomo” non è l’introduzione a un saggio filosofico sul rapporto tra predicati umani e soggetto umano, o tra essenza umana o io umano, ma appunto un’introduzione all’essenza del cristianesimo, cioè all’essenza della religione»[5].

Per Feuerbach i doveri etici non esprimono una volontà divina, ma solamente la volontà dell’uomo:

 

«I rapporti etici non sono affatto sacri “per se stessi”, se non in quanto essi sono in opposizione al cristianesimo e con il “per volontà di Dio”; sono sacri solo a cagione dell’uomo, sacri soltanto perché e in quanto essi sono rapporti tra uomo e uomo e quindi autoaffermazioni, soddisfazioni che l’essenza umana ha per se stessa.

 

È vero dunque che Feuerbach riporta l’etica alla religione, ma non per se stessa, in abstracto, non come fine, ma soltanto come conseguenza; non perché per lui l’ente morale, cioè l’essenza della morale sia l’essenza suprema, come è per il “protestantesimo illuminato”, il razionalismo e il kantismo, ma perché per lui l’ente morale, sensibile e individuale è l’ente religioso è cioè l’ente supremo»[6].

La religione dice sì sentimento di dipendenza, non però dipendenza da Dio, ma dalla natura:

 

«L’affermazione che la religione sia innata nell’uomo, sia naturale, è falsa, se sotto il termine generico “religione” si vogliono far passare le rappresentazioni del teismo, quelle cioè della vera e propria fede in Dio, ma è invece perfettamente vera se per “religione” non s’intende altro che il sentimento di dipendenza, il sentimento e la coscienza dell’uomo di non esistere, né di poter esistere senza un ente che sia altro, diverso da lui, di non dovere a se stesso la propria esistenza.

 

In questo significato la religione è, per l’uomo, altrettanto necessaria quanto la luce per l’occhio, l’aria per i polmoni, il cibo per lo stomaco. La religione è la vivente considerazione, il riconoscimento solenne di ciò che io sono. Ma io sono soprattutto un ente che non esiste senza luce, senza aria, senz’acqua, senza terra, senza cibo, un ente dipendente dalla natura»[7].

Qui si vede la sensibilità di Feuerbach per la funzione della causalità materiale nella vita umana. Che l’uomo dipenda per la sua vita fisica dalla natura non c’è alcun dubbio. Tuttavia è evidente che ciò non significa che l’uomo dipenda solo dalla natura. Feuerbach trascura il fatto che l’uomo è animato da uno spirito, che a sua volta domina la natura e che per la sua superiorità sulla natura dovrà dipendere da una causa spirituale ben superiore alla natura, che è Dio.

Tuttavia, per Feuerbach l’uomo esiste da se stesso. Il suo essere non è causato, ma qualifica la sua stessa essenza. Il suo sapere è limitato, in continuo progresso; ma la sua libertà è assoluta, non limitata da nessuna legge che non sia quella che l’uomo impone a se stesso o agli altri o è stabilita da altri.

L’ateismo di Feuerbach si configura in Marx come affermazione del comunismo, in Freud come apoteosi del sesso (etero od omosessuale). Oggi fanno effetto però anche Schopenhauer per il volontarismo libertario e Schleiermacher per la sua mistica atematico-erotica. L’ateismo di Nietzsche è una riedizione della ybris prometeica di Schopenhauer.

La gnoseologia di Feuerbach

La gnoseologia di Feuerbach è realista; conosciamo le cose materiali che sono fuori di noi. Oggetto del sapere è il mondo materiale, è la natura, è l’uomo stesso in quanto sostanza sensibile ed amabile, perché l’uomo è fatto per l’uomo, così come uomo e donna sono fatti l’uno per l’altra.

Feuerbach non accetta la gnoseologia idealista, per la quale l’esse est percipi, oggetto del sapere è l’idea, le cose sono i concetti delle cose, sicchè le cose sono prodotto del pensiero umano. Egli capisce bene che ciò è un’assurdità, per cui rifiuta nettamente in ciò l’idealismo hegeliano e torna al realismo precartesiano aristotelico, però con un’accentuata impostazione sensista, per cui giudica impossibile conoscere la realtà spirituale partendo dall’esperienza sensibile. Egli l’ammette solo in forza dell’autocoscienza, restando in ciò un cartesiano. Ma posto questo principio, non segue affatto Cartesio nel dubitare dell’esistenza e della conoscibilità delle cose esterne.

Anche l’altra persona per Feuerbach, il tu, è una sostanza materiale sensibile, benché Feuerbach non neghi affatto il possesso dello spirito, dell’intelletto e della volontà. Feuerbach tiene moltissimo a questo rapporto io-tu, al legame sociale e comunitario. Tutta la sua etica esclude qualunque aspetto religioso, dato che per lui Dio non esiste, per cui Feuerbach si chiude soltanto nel rapporto interumano, nell’esercizio dell’amore.

L’uomo è soggetto che pensa, vuole ed è libero. La sua vocazione è l’amore. Non esiste però uno spirito puro e il tal senso, Dio, come puro spirito, non esiste. Lo spirito è sempre unito al corpo e questo è appunto l’uomo, che è l’ente sommo. Nulla c’è di più importante dell’uomo. Non esiste un ente più alto dell’uomo, dal quale l’uomo dipenda e tanto meno dal quale possa essere creato. L’uomo esiste in forza di se stesso; non deve il suo essere a nessun Dio. il suo essere è il risultato di una precedente evoluzione, per la quale a un certo punto, dalla materia è emerso lo spirito.

Importante in Feuerbach è la dottrina dell’alienazione (Entfremdung), ripresa da Hegel, che ha qualche somiglianza con la dottrina cristiana del peccato originale. Si tratta di una scissione dell’uomo con se stesso e da se stesso, della perdita della propria essenza, che gli si erge contro ostilmente, ovvero della espropriazione di sé col privarsi della propria dignità umana, la quale, idealizzata, viene posta in un al di là irraggiungibile, in cielo, e ipostatizzata o reificata fantasticamente come se fosse una persona vera, assoluta e trascendente, dalla quale ci si considera dipendenti e che si considera legislatrice della propria condotta morale, col dolore di non poter essere quella persona, perché lì l’uomo troverebbe la sua realizzazione.

Da che cosa nasce questa scissione? Dalla divisione che è propria dell’essenza dell’Assoluto, secondo la sentenza dello stesso Feuerbach: «l’unità è sterile e fecondo è soltanto il dualismo, l’opposizione, la differenza»[8]. È l’antico principio eracliteo: o polemos pater panton, che si ritrova nella concezione cabalistica di Dio nel quale si congiungono il sì e il no. Questo conflittualismo stride in Feuerbach col tema dell’amore. In Marx invece emergerà con chiarezza nel tema della lotta di classe, secondo lo schema della dialettica hegeliana, anche se però pure in Marx la dialettica si dissolve nella società comunista.

Il positivo e il negativo si attirano e al contempo si respingono. L’antitesi è unita alla sintesi, l’una è la condizione dell’altra, l’una provoca l’altra. Ma l’uomo, per Feuerbach, è l’assoluto: da qui in lui la dialettica dell’alienazione e della riconciliazione. L’uomo si perde nella religione e si ritrova nell’ateismo. Lo schema ciclico non consente una conclusione che non sia un nuovo inizio.

Volendo fare un confronto con la dottrina cristiana del peccato originale, possiamo dire che essa comporta sì una scissione dell’uomo da Dio, ma essa viene definitivamente superata e cancellata dall’opera redentrice di Cristo. Marx tenterà di imitare questa conclusione pacifica con la previsione della società comunista; ci si può chiedere se ciò non comporterà, come ho accennato sopra, un dissolvimento della concezione dialettica della realtà e della storia. È solo il teismo, comunque, che senza ombra di equivoci e senza incertezze, assicura la pace e l’unità grazie all’assoluta unità del principio divino unificante la pluralità del molteplice. L’ateismo è inscindibile dalla contraddizione, dal conflitto e dalla guerra.

L’ateismo più seducente ed intelligente è indubbiamente quello di Feuerbach, di tipo umanistico, affettivo, solidaristico e dialettico, che sarà ripreso da Marx. È l’ateismo che deriva direttamente dal panteismo hegeliano. È un ateismo chiaro e dichiarato, a differenza della perplessità nella quale ci lasciano Husserl, Heidegger o Severino.

Si tratta di un ateismo metafisico e teologico, non di quello torbido, grossolano e volgare di Schopenhauer, Schleiermacher, Carnap, Comte e Freud e neanche di quello spaccone di Nietzsche. È quell’ateismo sofferto col quale oggi dobbiamo misurarci e possibilmente dialogare per «allargare, come diceva Papa Ratzinger, i confini della ragione» e quindi i confini dell’umanità.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 luglio 2023


 

Per Feuerbach l’essenza dell’uomo è l’essenza di Dio. Gli attributi divini sono gli attributi dell’uomo. Naturalmente questa identificazione dell’essenza umana con quella divina, non significa che l’uomo sia onnipotente come Dio, ma ciò non porta Feuerbach a rinunciare al suo panteismo perché in ogni caso per lui l’uomo resta onnipotente se non in senso effettivo, almeno in senso ottativo.

La gnoseologia di Feuerbach è realista; conosciamo le cose materiali che sono fuori di noi. Oggetto del sapere è il mondo materiale, è la natura, è l’uomo stesso in quanto sostanza sensibile ed amabile, perché l’uomo è fatto per l’uomo, così come uomo e donna sono fatti l’uno per l’altra.

L’ateismo più seducente ed intelligente è indubbiamente quello di Feuerbach, di tipo umanistico, affettivo, solidaristico e dialettico, che sarà ripreso da Marx. È l’ateismo che deriva direttamente dal panteismo hegeliano. È un ateismo chiaro e dichiarato, a differenza della perplessità nella quale ci lasciano Husserl, Heidegger o Severino.

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[1] Opere, Edizioni Laterza, Bari 1965, pp.180-181.

[2] Ibid., pp.195-196.

[3] Cit. da Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, vol.V, UTET, Torino 1993, p.184.

[4] L’essenza del cristianesimo.

[5] Feuerbach, Opere, op.cit., pp.253-254.

[6] Ibid., p.263.

[7] Ibid., pp.267-268.

[8] Opere, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.286.

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