Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 8 (2/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 8 (Parte 2/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)

Bologna, 17 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

             C’è ancora una questione riguardante l’influsso dell’intenzione sulla bontà della volontà, che dipende dalla intenzione medesima: cioè se la bontà della volontà dei mezzi dipende dall’intenzione del fine. E l’altra questione è questa: qual è la quantità dell’influsso dell’intenzione del fine sulla volontà di volere i mezzi.

Anzitutto il principio. Ci chiediamo se l’intenzione influisce sulla volontà, che vuole i mezzi. C’è una distinzione da fare, che è facilmente intuibile, e cioè l’intenzione può precedere la volontà o seguirla. Per esempio, siamo in Quaresima, facciamo un esempio riguardante una pratica oggi rara, e cioè il digiuno. Il digiuno. Un buon cristiano in Quaresima digiuna. Perché? Per dare lode e onore a Dio, e per mortificare se stesso.

C’è dunque l’intenzione di onorare Dio e di mortificare noi stessi, e poi c’è il mezzo con cui io mortifico me stesso e do lode a Dio. Mi astengo dal mangiare in determinati tempi della giornata, eccetera. In questo caso voi avete ovviamente una intenzione che precede la volontà dei mezzi. La mia volontà di onorare Dio precede la scelta del mezzo concreto di come Lo onoro, cioè facendo il digiuno, la penitenza e via dicendo.

E qui non c’è dubbio che la bontà dell’intenzione influisce sulla volontà dei mezzi e sulla bontà del volere i mezzi. Quindi, la bontà della volontà dipende dall’intenzione che precede i mezzi. Invece può succedere che l’intenzione sia conseguente rispetto alla volontà. Prima si vuole una cosa in sé e poi la si riferisce al fine, cioè si forma un’intenzione.

Faccio un esempio, sempre nell’ambito del digiuno: una persona che, come si può dire, vuol mantenersi snella nel corpo. E per questo motivo fa dei digiuni. Questo succede; è l’unica forma di digiuno oggi ormai praticata, ossia per motivi, non dico di vanità, ma, chiamiamoli così, per motivi estetici. O anche di salute, si potrebbe dire, un motivo più onesto.

Ad ogni modo, capita che o per motivi di salute o per motivi estetici o per altri motivi, uno si astiene dal mangiare e quindi digiuna. Però, poi, in un secondo tempo, gli viene in mente: ma, dal momento che con questo mio digiuno intendo perdere, non so, cinque chili, perché non dovrei con esso onorare anche nella santa Quaresima il Signore Dio Onnipotente?

E allora, dice S.Tommaso che ovviamente questa seconda intenzione, che viene dopo, non influisce sull’atto[1] che ho posto prima. Quindi sono due bontà morali molto diverse. Non c’è nulla di illecito, se uno vuol perdere un qualche kilo per mantenersi in buona salute o anche per riuscire gradevole al suo prossimo.

Quindi, egli ha già una finalità onesta, anche se non è la bontà propria della virtù di religione. Se poi dopo[2], io riferisco quell’azione, fatta precedentemente, a Dio, acquisto l’intenzione di religione, però senza avere l’opera di religione. Quindi bisogna che io eventualmente ponga un altro atto, per esempio continui a digiunare dopo aver fatta questa intenzione, e allora il digiuno susseguente di nuovo sarà comandato dall’intenzione di onorare Dio e non avrà più un valore puramente naturale, ma un valore effettivamente soprannaturale.

Penso che ciò spieghi abbastanza bene come la volizione dei mezzi può seguire o precedere l’intenzione. Se è l’intenzione che precede, allora l’intenzione domina la scelta dei mezzi e quindi influisce con la sua bontà morale anche sull’opera concreta che poi si fa. Invece, se l’intenzione è fatta in un secondo momento, c’è la bontà dell’atto interiore di intendere, ma non c’è ovviamente l’atto esterno, e quello fatto in precedenza non ha in sè la bontà dell’intenzione.

Ora, una questione non facile da dirimere e piena di distinzioni è quella della quantità. Quantità poi per modo di dire, ovviamente, perchè non è propriamente quantità matematica. Si tratta infatti della bontà nella volontà, in dipendenza dalla quantità della bontà nell’intenzione.

La domanda è questa: fino a che punto l’intenzione, con la sua caratteristica morale di bene o di male, influisce sulla volontà riguardante i mezzi? Fino a che punto l’intenzione si riversa, si potrebbe dire, ridonda in qualche modo, ha una ripercussione nell’ordine dei mezzi?

Qui S.Tommaso fa una fondamentale distinzione. Anzitutto possiamo considerare questa quantità del bene o del male morale dalla parte dell’oggetto. Avviene infatti che si voglia o si faccia un bene più o meno grande. In tal caso, la quantità dell’atto non sempre segue la quantità dell’intenzione. Può succedere che l’intenzione non si riversi del tutto sull’atto; quindi che l’intenzione rimanga in qualche modo a metà strada. Che ci sia un ostacolo, che non permette all’intenzione di elevare alla sua altezza anche ciò che si fa poi nell’ordine dei mezzi.

Questa distinzione bisogna farla anche per quanto riguarda l’atto esterno e l’atto interno. Nell’atto esterno può succedere che l’oggetto ordinato al fine inteso, che è l’oggetto dell’intenzione, non gli sia proporzionato. E S.Tommaso fa un esempio. Se io voglio nella mia intenzione acquistare una cosa che costa mettiamo un milione, voglio, nella mia intenzione, con un atto esterno ovviamente comperare, o acquistare una cosa che costa un milione di lire. Però nel contempo dispongo soltanto di cento mila lire.

Allora, è evidente che, quanto alla quantità dell’atto esterno, ho un’intenzione superiore riguardo ai mezzi che effettivamente sono disposto a spendere per il conseguimento di quel determinato fine. L’esempio dell’acquisto di una cosa materiale tramite mezzi finanziari ci fa capire bene questo fatto che un’intenzione maggiore, a livello dell’esecuzione dell’atto esterno, può essere in qualche modo dimezzata, o bloccata.

Quindi talvolta uno può intendere più di quanto poi non esegua; esegue solo parzialmente. Oppure può succedere che uno, per quanto abbia delle ottime intenzioni, sia impedito dall’eseguire l’atto esterno o dall’eseguirlo come vorrebbe. Per esempio, come dice S.Tommaso, io voglio andare a Roma, però subentra un ostacolo e non riesco ad andarci.

Oppure non riesco ad andarci convenientemente. C’è un ostacolo. Ci penso sempre quando sto lì con l’orario. Bisogna che arrivi in quel posto a quella determinata ora. No, c’è lo sciopero a singhiozzo, come si chiama. Quindi i treni tutti fermi. E allora io mi metto a contare i minuti. Allora succede che io ho la migliore intenzione di questo mondo di arrivare in quella determinata città proprio in orario, anche perché è proprio dovuto a chi mi aspetta lì; però poi subentra un qualcosa di imprevisto e non ce la faccio. E quindi la mia azione rimane buona, ma, ahimè, l’azione non lo è altrettanto. Però in questo caso per fortuna non per colpa mia.

Nell’atto interno, ossia nel secondo caso dell’impedimento[3], l’ostacolo non può verificarsi, perchè i nostri atti interni sono sempre in nostro potere. Insomma, non è possibile che uno faccia sciopero rispetto a se stesso.

Quindi, in qualche modo, ci può essere un impedimento esterno. Invece, all’atto interiore non c’è un impedimento. Però, può verificarsi in qualche modo appunto il primo caso di diminuzione dell’intenzione, e cioè che la volontà voglia un oggetto non del tutto adeguato all’intenzione. Così, se la volontà si porta in assoluto su tale oggetto, non del tutto adeguato, non è tanto buona quanto lo era l’intenzione del fine. In quanto però l’intenzione fa parte dell’atto volitivo, come suo motivo, la quantità dell’intenzione buona si riversa sulla volontà. Essa vuole qualcosa di grande come fine, anche se i mezzi che dispone al fine non gli sono adeguati.

Quindi, può succedere che la volontà interiormente vuole, cioè intende qualche cosa di grande, però non vuole poi adeguatamente i mezzi. Però comunque la grandezza dell’intenzione sollecita almeno, la volontà a proporzionare i mezzi all’intenzione, anche se non ci arriva sempre. Poi qui S.Tommaso farà in seguito il solito e classico esempio della medicina e  della salute; chi aspira alla salute è disposto a sorbirsi tante medicine amare, oppure operazioni chirurgiche disagevoli.

In qualche modo, se io voglio molto la salute, questa forte intenzione mi porterà anche a essere un buon paziente, a non brontolare, e a non contrastare troppo il povero medico, che mi prescrive talvolta delle cose spiacevoli, ma questa intenzione mi porta ad essere più disposto ad obbedirgli. Seppure non sempre poi effettivamente magari ci riesca.

Quindi, il discorso è questo, che anche nell’atto interiore è possibile che l’intenzione del fine non arrivi ad affermarsi del tutto nell’ordine dei mezzi, cioè che io a livello di mezzi voglia meno di quanto intenda rispetto al fine. Però l’intenzione del fine, in qualche modo, richiama sempre la volontà a disporre anche adeguatamente i mezzi, seppure non sempre appunto l’intenzione riesca ad avere dalla volontà ciò che le è dovuto.

Invece, se prendiamo la quantità del bene e del male della moralità, dalla parte del soggetto che intende e che vuole, cioè del soggetto della moralità, che appunto elicita un atto di intenzione o di volontà più o meno forte, allora è ancora possibile distinguere in questo modo. Notate bene questa distinzione. C’è un caso, che si pone dalla parte della intensità dell’atto, in quanto procedente dall’agente, cioè l’intensità dell’atto, in quanto procedente dall’agente. Ossia, il volere o fare qualche cosa intensamente.

In tal caso l’intenzione si riversa sull’atto interno ed esterno della volontà, perchè   proprio il motivo formale dell’atto è l’intenzione: io intendo quel fine e quindi per quell’intenzione ordino i mezzi al fine, scelgo i mezzi al fine, eseguo anche esteriormente, cioè metto in pratica questi mezzi, circa i quali mi sono consigliato, li metto in pratica, li metto in atto per conseguire il fine. Però, materialmente, nonostante l’intensità dell’intenzione, l’atto interiore ed esterno può essere meno intenso.

Ad esempio, dice S.Tommaso, uno che vuole molto la salute, vuole però meno la medicina. Sì, voglio molto la salute, però una operazione chirurgica mi lascia molto perplesso. Magari è una operazione pericolosa, che devo sottoscrivere. Sapete che c’è quest’obbligo di sottoscrivere un documento che dichiara che io di mia volontà, mi sottopongo all’operazione.

Oh, a questo punto io divento bianco come un lenzuolo. E dico: oh, potrei rimanere sotto i ferri. Allora, da una parte voglio la salute, però dall’altra, il mezzo che mi si propone per ottenerla mi lascia perplesso. Quindi è possibile che io abbia una forte intenzione, però che i mezzi, più che invogliarmi, mi blocchino. Però non c’è dubbio che formalmente parlando, di per sé, quanto più forte è l’intenzione, tanto più forti sono anche i sacrifici, che io sono in grado di sopportare, pur di ottenere ciò che intendo.

C’è un altro caso, che si pone sempre dalla parte del soggetto che agisce, dove però la quantità della bontà o della malizia, non è riferita al soggetto, ma all’oggetto. Si tratta, cioè, in qualche modo, di intendere, di volere o di agire intensamente. Cioè, io intendo che cosa? Il volere intensamente Cioè faccio del mio volere intensamente lo stesso oggetto della mia intenzione.

Il primo caso era immediato, cioè volere o agire intensamente. Nell’altro caso, c’è l’intendere di che cosa? Di volere con una determinata intensità. E qui non è detto che io effettivamente riesca a agire con quella intensità, con la quale intenderei di agire. E S.Tommaso dice che uno non merita tanto, quanto intende eventualmente di meritare. E questo è molto importante, perchè si connette con la questione del merito.

Io dico: Signore, io voglio fare una bellissima Quaresima, voglio mortificarmi, voglio chissà quale altra cosa.

Quindi ho proprio l’intenzione di una azione molto intensa. Ma poi, quando arriva la Quaresima, ahimè, succede che io poi effettivamente, quanto a mortificazioni, non sono altrettanto applicato come prima mi proponevo. Quindi, di fatto non merito tanto quanto intendevo di meritare. Non si merita con le sole pie intenzioni, seppure anch’esse intenzioni abbiano qualche merito. Notate bene. Davanti al Signore nulla rimane senza il merito.

Però non è possibile dire a noi stessi: io merito tanto quanto voglio meritare. No! Per meritare, bisogna proprio agire in vista del bene. Quindi non sempre, se io voglio, cioè se io intendo agire intensamente, poi di fatto agisco con quell’intensità che mi sono proposto nell’intenzione.  

Dunque, gli ultimi due articoli riguardano la conformità della volontà umana alla volontà divina. La bontà della volontà dipende dalla sua conformità alla volontà divina.  Non direttamente dalla legge eterna, che è Dio in Se stesso, ma alla volontà divina. Cioè la mia volontà per essere buona, non solo deve voler Dio, ma deve volere ciò che Dio vuole.

E qui non poteva mancare nel sed contra, - questo è importante -, il riferimento all’agonia di Gesù nell’orto, Mt 26: “Non come voglio io, ma come vuoi Tu”. Il Salvatore, anche in ciò che in fondo ci dispiace, ci insegna come dobbiamo sempre adeguare il nostro volere al volere di Dio. Fiat voluntas tua è veramente una richiesta fondamentale del Padre Nostro, ossia l’acconsentire sempre a che si faccia la volontà divina, non la nostra. Quindi sottomettere la nostra volontà a quella di Dio.

Ebbene, la bontà della volontà dipende dall’intenzione del fine e il fine ultimo è il sommo bene che è Dio. Perciò, affinchè la volontà umana sia buona, si richiede ovviamente che sia ordinata al Sommo Bene, cioè al fine ultimo. Fin qui, l’abbiamo già visto, questo è fin troppo evidente Quindi, ogni volontà che vuole un bene, deve volere quel bene ultimamente in vista del Sommo Bene, al quale ogni altro bene è subordinato.

Quindi, la nostra volontà, per essere buona, deve volere l’ultimo fine, deve essere conforme a Dio inteso come Legge eterna. Tuttavia, qui subentra un elemento nuovo. Quell’ultimo fine, cioè il Sommo Bene, il Bene divino è la Legge[4], che non solo è promulgata da Dio, ma quella Legge che è Dio, è Dio in Se Stesso, quella Bontà che è Dio in Se Stesso, quell’oggetto divino, che è fine ultimo della nostra vita umana, di ogni nostro agire moralmente corretto. Quel fine ultimo è l’oggetto primario della volontà divina.

Quindi la prima volontà corretta, - S.Tommaso parla proprio in questi termini -, volontà buona, retta, santa, è quella volontà, che più propriamente ha per oggetto il Sommo Bene, cioè la volontà divina, così come Dio diventa la causa esemplare di ogni volontà moralmente corretta nelle sue creature. Quindi, ovviamente, affinchè una creatura, dotata della possibilità di agire liberamente, abbia una volontà corretta, è necessario che voglia come Dio vuole. Non solo ciò che Dio vuole, cioè il fine ultimo, che è ancora Dio, ma come Dio lo vuole, perché il fine ultimo è il primo oggetto della volontà divina.

Quindi, è necessario che ci sia una conformità della volontà umana alla volontà divina. E’ necessario che la volontà umana si conformi a quella di Dio e quindi che ci sia questo fiat voluntas tua, che si compia la Tua volontà. Vedete come subentra una analogia di proporzionalità. E’ molto bello questo, metafisicamente parlando, perché c’è una duplice analogia di proporzione, ex parte obiecti e ex parte subiecti.

Cioè voi avete due ordini dei beni: il Sommo Bene, che è il bene divino e poi tutti gli altri beni subordinati ad esso. E poi avete l’ordine dei soggetti, cioè delle volontà che vogliono i beni. C’è Dio, che vuole il Suo bene divino, e poi ogni volontà particolare, che ha un oggetto formale proprio diverso dagli altri.

A questo punto subentra una analogia di proporzionalità. Cioè, come Dio vuole il suo Sommo bene, che è Lui stesso, così io devo volere il mio bene umano in proporzione al modo in cui Dio vuole il Suo bene divino. Quindi in qualche modo il paradigma dalla volontà santa, della volontà buona, diventa la stessa volontà di Dio. Notate l’esemplarità morale di Dio e della volontà del Signore.

Però S.Tommaso non lascia la questione semplicemente così, ma si chiede, - e la domanda è direi di estrema importanza - se è necessario che la volontà umana si conformi alla volontà divina, proprio nell’oggetto voluto, in volito, quindi, se è necessario volere proprio ciò che Dio vuole in particolare oppure se basta volere come Dio vuole. Notate che la questione è molto più concreta di quanto non sembri.

Mettiamo che il Signore Dio Onnipotente si compiaccia di mandarmi una polmonite. Che Dio ci ripensi! Comunque, potrebbe succedere che il Signore abbia decretato di mandarmi una polmonite. Ebbene, io devo dire: Signore, ti ringrazio, è una bella cosa che mi hai mandato, la polmonite? Oppure mi è lecito brontolare un po’ e di dire: insomma, la polmonite proprio non è piacevole. Quindi, è lecito che la mia volontà rifiuti il male, che però Dio vuole per me, per il mio bene.

La soluzione che S.Tommaso dà è estremamente equilibrata. Dice che in fondo la volontà si porta al suo oggetto, in quanto le è proposto dalla ragione, quindi sempre con la mediazione della conoscenza. La ragione però, e questa è cosa importante, può considerare una cosa buona sotto un aspetto e cattiva sotto un altro. Si tratta di un bene particolare, diverso da Dio, perché solo Dio è il pieno e Sommo bene, quindi ovviamente in Dio non c’è neanche un’ombra di imperfezione. Invece, in tutti gli altri beni finiti è possibile vedere sempre un duplice aspetto. Il bene che c’è ma anche il limite di quel bene.

E quindi la volontà, tramite la ragione che le presenta l’oggetto, può vedere nell’oggetto, sì il suo bene, ma anche il limite di quel bene, che è insito in esso. Così la volontà, che vuole una cosa in quanto è buona, è buona; ma anche la volontà, che rifiuta quella stessa cosa, in quanto è cattiva, è ancora buona. Quindi è buona la volontà che vuole una cosa, in quanto è buona, ma è anche buona quella volontà, che rifiuta la stessa cosa, in quanto quella stessa cosa è anche cattiva.

La bontà o meno di un atto dipende dal motivo formale dell’accettazione o del rifiuto. Quindi la volontà buona accetta la cosa buona in quanto buona, ma nel contempo è capace di rifiutarla in quanto non è il Sommo bene, ma presenta anche aspetti di limite e quindi di male.

 Per fare un esempio concreto, un po’ drastico, S.Tommaso non aveva problemi per quanto riguarda una vera giustizia, anche se spiccia. Dice quindi, che praticamente il giudice che vuole la morte del delinquente per il bene comune, impiccarlo o comunque proprio fargli del male[5], se lo vuole per il bene comune, certamente ha una volontà buona, cioè vuole proprio questo bene che consiste nel togliere di mezzo un pericolo pubblico per tutta la società.

Invece i parenti del delinquente, poveretti, sono proprio nel loro diritto di vedere le cose diversamente e di dire: ma come? Per esempio, la moglie del delinquente potrà dire: ma io, il mio marito lo voglio in vita, anche se il giudice lo vuole condannare alla sedia elettrica.

Quindi, dice S.Tommaso, entrambe le volontà sono buone. E’ buona la volontà del giudice, che vuole rendere innocuo il delinquente, ma è buona anche la volontà della moglie, dei figli e dei parenti che vogliono invece il delinquente in vita. Tuttavia, anche se entrambe le volontà sono buone, non sono però alla pari, non sono, diciamo così, di uguale qualità morale. Ora, quanto più comune è la ragione del bene conosciuto, tanto più comune è il bene, al quale la volontà si porta. E quanto più estesa è la conoscenza, tanto più comune e più universale è anche il bene, al quale si porta la volontà così regolata da una simile conoscenza.

Quindi, il giudice ha una conoscenza molto più ampia di quanto non ne abbia un familiare del delinquente. Perché? Perchè il giudice rapporta il delinquente all’insieme della società. Questo è il suo dovere. Egli giudica non a nome suo, ma a nome di tutta la società. Quindi rapporta il singolo a tutto il bene comune della società politica.

Invece la moglie certamente vede anch’essa suo marito, ripeto, in una luce più ampia, però non al di là della famiglia, insomma. Lo vede come padre di famiglia, non come un pericolo pubblico per la società. Quindi, in qualche modo si potrebbe dire che l’orizzonte conoscitivo e affettivo della moglie e del delinquente si limitano al governo della famiglia, mentre quello del giudice si estende al governo di tutta la società.

Allora, dice di S.Tommaso, che la moglie del delinquente voglia aver salva la vita di suo marito, questo affetto del tutto naturale è buono. Però sarebbe un affetto sbagliato, cioè proprio peccaminoso, se non si conformasse poi alla decisione del giudice, in quanto il giudice ovviamente, con l’ampiezza delle sue vedute, in qualche modo supera la limitatezza delle vedute proprio dei familiari. Anche se ovviamente, dal punto di vista affettivo, le cose stanno diversamente. Ma, dal punto di vista della conoscenza, è così.

Ebbene, vedete perché S.Tommaso utilizza  questo argomento del giudice, che rappresenta il bene comune. Similmente Dio ha la cura del bene comune di tutto l’universo. Quindi, come l’uomo deve avere l’umiltà rispetto ai propri governanti, anche se non sempre è facile, soprattutto al giorno di oggi, bisogna comunque avere questa umiltà di dire: io non ci vedo chiaro; c’è il nostro amico Giulio Andreotti che adesso provvederà a formare il nuovo governo. Io non ci vedo chiaro, mi astengo dal giudizio.

E’ molto difficile orientarsi in certe diatribe e astenersi dal giudizio. Ad ogni modo, il cittadino, secondo quanto dice S.Tommaso, dovrebbe lasciare ai governanti la cura del bene pubblico, e dovrebbe astenersi dal giudicarli. Quindi dovrebbe dire, insomma: si impegnino loro, ci penseranno loro, io non posso vedere con quella chiarezza con la quale loro vedono gli affari pubblici dello Stato italiano; io non posso vederlo con la stessa ampiezza.

Similmente appunto, come in questo caso, la moglie del delinquente non può dire: io ho diritto alla difesa della vita di mio marito, anche contro la volontà del giudice, che giustamente lo condanna; così l’uomo non può prendersela con il Signore, perchè permette un male, per esempio, quando permette, che uno contragga una malattia o qualcosa del genere. 

Quindi, se mi capita una polmonite, io che cosa devo fare? Devo conformarmi alle vedute del Signore. Cioè devo dire: Signore Dio Onnipotente, tu ci vedi più chiaro di me, quindi sai qual è il mio bene più di quanto io non possa vederlo. Quindi probabilmente, se mi capita una polmonite, questo è per il mio bene, per un motivo che però a me è sconosciuto. Ciò però non vuol dire che io debba volere la polmonite. Sono infatti nel mio perfetto diritto di dire che la polmonite è un brutto affare.

Quindi, S.Tommaso fa questa distinzione. Dice che c’è l’obbligo di conformarsi alla volontà di Dio, formalmente, nel volere, ma non materialmente in ciò che è voluto, Io devo accettare per me la volontà di Dio, qualsiasi espressione essa assuma, ma non è necessario che io mi compiaccia delle singole espressioni, talvolta spiacevoli.

… scusi, Padre …

Signora, dica. Mi dica, cara.

… se devo accettare la volontà divina come prova … in caso di malattia  … quindi non mi devo curare …

No, no assolutamente, no. Vede. Proprio.

… come si … equilibrati …

Sì. Infatti, infatti. Vede, cara, in questo hanno fatto molte obbiezioni a noi buoni cattolici. E’ vero che ci fu nel ‘700 qualche prete un po’ entusiasta[6], che per opporsi ad altrettante esagerazioni degli illuministi, per esempio vietava la vaccinazione. Diceva appunto che la vaccinazione è un non accettare la provvidenza divina; se Dio mi manda qualche malattia contagiosa, io me la tengo; se mi curo troppo con questi mezzi scientifici, guai a me. In qualche modo rifiuto.

Invece S.Tommaso proprio in questo articolo chiarisce questa cosa, e cioè che, se è la volontà di Dio che io dalla polmonite non guarisca, posso prendere tanti antibiotici quanti voglio, ma non guarirò. Ebbene, posso essere sicuro che avverrà quello che Dio vuole. Però, ciò non toglie che io, dal mio punto di vista, debba nel contempo ovviamente prendere tutti gli antibiotici, che mi sono prescritti, mentre, serenamente accetto le sofferenze, e mi faccio ricoverare e tutto il resto.

Vede, questo si collega anche con il fatto che il Signore prevede tutte le cose non solo nel loro effetto, ma anche considerando le cause degli effetti stessi. Facciamo l’esempio della preghiera. C’è anche qui questo argomento, che dice che è inutile pregare, perchè Dio sa già tutto in partenza. Quindi, se io mi salvo, mi salvo comunque; se mi danno, mi danno comunque. Non c’è bisogno di pregare. Invece no! Il Signore prevede la mia salvezza, sì, ma la prevede con tutte quante le preghierine che farò per ottenerla.

Similmente Dio, se mi manda una prova, prevede anche tutti i mezzi che io lecitamente adopererò, per scansare in qualche modo la prova stessa. Quindi, possiamo essere sicuri, carissima, non c’è problema, vedrà che se il Signore vorrà mettere alla prova, non ci saranno antibiotici che terranno. E infatti poi di fatto è così. Però, in fondo, l’adoperarli, cioè adoperare tutti i mezzi per alleggerire la sofferenza, è cosa più che normale, più che giusta.

Non dico che qui non ci siano certi spazi, diciamo così, di tolleranza. Non è infatti necessario adoperare proprio tutti i mezzi di cui la scienza dispone. Per esempio, se uno prova un certo dolore e non prende subito la pillola perché il male gli passi. Allora può essere una salutare mortificazione. Purchè si tratti solo di subire un po’ di dolore.

Ma se si tratta di un dolore, che poi porta anche a compromettere la salute, allora lì sarebbe al limite moralmente illecito non adoperare, cioè omettere di adoperare dei mezzi che ci sono messi a disposizione per togliere di mezzo il male. Quindi, è possibile combattere le polmoniti, le malattie e tutti quei brutti mali, senza venir meno a questa conformità della volontà umana riguardo alla volontà divina, formalmente parlando.

Il nostro caro Angelico Dottore, chiarisce poi con una precisazione questa stessa conformità e dice che la volontà umana corretta si conforma a quella divina sotto diversi aspetti, cioè, in quanto la volontà umana è conforme alla ragione comune del voluto formalmente, cioè se la volontà dichiara: io voglio per me tutto quello che Dio vorrà per me, qualsiasi cosa essa sia.

Quindi, se io ho questa conformità formale alla volontà di Dio, la mia volontà si conforma a quella di Dio nel fine ultimo. Cioè, io so che il Signore mi conduce a Sè come fine ultimo. Per questo, disporrà con la Sua provvidenza tante vicende nella mia vita e io le accetto tutte pur di arrivare dove Dio mi vuole, cioè nel possesso del fine ultimo. Quindi conformità al fine ultimo.

Tuttavia, per quanto però la volontà del buon cristiano, che dice: Signore accetto tutto quello che Tu mi mandi, non accetta però l’espressione particolare di questa volontà, nella sua spiacevolezza concreta. Quindi in qualche modo rifiuta una malattia. In questo non c’è disordine, ma anzi c’è ancora conformità alla volontà di Dio. In che modo, però? Perché qui sembrerebbe che ci sia una difformità.

S.Tommaso dice che c’è una conformità nella causa efficiente. Cioè io mi conformo alla volontà del Creatore. Rifiutando la malattia, per esempio, io voglio ciò che Dio vuole; o meglio, non voglio ciò che Dio proprio non vuole. Ossia Dio mi ha dato l’istinto di autoconservazione, che rifiuta la malattia. Quindi, è una reazione sana quella di ribellarsi, rispetto alla malattia.

… come mai nei Santi non si coglie questo …

S.Tommaso è un santo un po’ particolare da quel lato, devo dire. S.Tommaso sarebbe severo con i suoi colleghi santi. Eh. Pensi. E’ una cosa interessantissima. Notate l’ottimismo che pervade queste pagine tomistiche. S.Tommaso direbbe che un santo che si compiace della malattia come tale, non è affatto un santo. Egli infatti deve compiacersi della malattia come prova che il Signore gli manda. Questo, sì. Ma solo in questa maniera trascendente. Se egli si compiacesse del male in se stesso, nella sua particolarità di male, agirebbe contro natura, cioè proprio anche moralmente agirebbe contro la legge naturale.

Quindi bisogna che il santo, per essere tale, faccia entrambe le cose, cioè rifiuti la malattia come tale, però poi la accetti come espressione della volontà di Dio. Ma senza coltivare la malattia. Questo è molto difficile da spiegare ai nostri comuni consumatori di notizie giornalistiche. Per esempio, come spiegarlo a un lettore, della Repubblica o dell’Espresso o di altra stampa anticlericale, infatuati dalla psicanalisi e dalle scienze, si fa per dire, affini? Come spiegar loro che la penitenza cristiana non è masochismo?

Appunto, il cristiano, se fa penitenza, non si compiace nell’aver fame, per esempio. Adesso in Quaresima dovremmo averne un po’. Non è perché ho lo stomaco vuoto, cioè nella stessa privazione del cibo e nella sofferenza che eventualmente, per quanto piccola, ne segue, che io per questo debba rallegrarmi. No! Di questo devo anzi in qualche modo affliggermi, no? Che penitenza poi sarebbe se mai, se mi facesse come tale un piacere?

Invece deve farmi piacere per una intenzione che va al di là del mezzo adoperato. Ovviamente, il mezzo dev’essere almeno indifferente. Se io digiunassi in maniera tale da compromettere la salute, certamente farei del male. E’ vero che S.Tommaso, non dovrei dirlo in Quaresima, non era un gran che di digiunatore. Però aveva una grande indifferenza verso i cibi. Si dice che una volta gli avevano versato dell’aceto anziché del vino e lui serenamente le bevve. Chissà, avrà pensato a qualche problema teologico, e allora così non protestò.

Ad ogni modo, questo è il punto. Cioè il penitente, che fa penitenza, non si compiace del male che si infligge. Se lo infligge proprio per rattristarsi del male stesso, in vista però di un bene che supera quel male. E’ proprio questo il senso dell’articolo presente. Notate. Il Signore Dio Onnipotente, Lui, Creatore dell’essere umano, ha voluto che in noi ci fosse la ripugnanza alla malattia e alla morte, e ad ogni specie di male fisico.

Quindi, uno che dice: Signore, io accetto tutto quello che Tu mi mandi, però non accetto la malattia come tale, non accetto la morte come tale. Allora quell’uomo è conforme alla volontà di Dio.  E’ conforme accettando formalmente il fine ultimo ed è conforme ribellandosi al male in particolare nella causa efficiente, perchè vuole ciò che Dio vuole a e non vuole cioè che Dio non vuole, dandogli gli istinti contrari appunto alla morte, alla malattia e a ogni tipo di male fisico.

S.Tommaso, inoltre, non poteva mancare di un’ultima precisazione. Dice che c’è un altro modo di conformità alla volontà divina ed è addirittura la conformità nella causa formale. E questa è la conformità più squisitamente teologale. Questo avviene ancora, dice S.Tommaso, nel fine ultimo, ma nel fine ultimo della carità, cioè tramite la carità, perchè non solo si vuole ciò che Dio vuole e come Dio lo vuole, ma si vuole tutto questo con la stessa volontà di Dio partecipata nell’uomo.

La virtù della carità infatti non è solo volere ciò che Dio vuole, ma volere non con un volere umano, ma con un volere divino, del quale il volere umano è formalmente rivestito. Studiate bene questa triplice conformità, che è molto bella. Cioè, per avere una volontà retta, è sempre necessario conformarsi a quello che è voluto da Dio per noi. E’ necessario conformarvisi formalmente nel fine ultimo, dicendo: il Signore, qualunque male permetta nei miei riguardi o addirittura voglia, i mali fisici sono anche voluti, cioè qualunque male fisico Dio voglia nei miei riguardi, è sempre ben fatto per un motivo che solo Dio conosce.

Bisogna quindi dire che il familiare del delinquente condannato a morte dal giudice deve sottomettersi alla sentenza del giudice, anche se gli dispiace. Così il cristiano deve sottomettersi alla volontà di Dio, formalmente, cioè nel fine ultimo. Deve poi di fatto sottomettersi alla volontà di Dio, quanto alla causa efficiente, anche ribellandosi al male che in particolare Dio gli invia, proprio perchè gli istinti dell’uomo sono contrari al male.

E infine la terza conformità, che sola è quella perfettamente soprannaturale, e che quindi appartiene solo alla teologia, e in filosofia non può essere nemmeno prevista, è la conformità tramite la carità. Cioè volere con la volontà partecipata di Dio, con la carità che è l’amore di Dio nell’uomo. Ma, l’amore che è Dio, l’amore increato di Dio, partecipato all’anima umana in un abito creato. La triplice conformità della volontà umana alla volontà divina.

E’ inutile che adesso cominciamo la materia nuova. Vi premetto solo che faremo ancora la Questione 20, cioè la bontà e la malizia degli atti umani esterni, questione abbastanza importante perchè in qualche modo collega l’atto esterno con quello interno e fa vedere come non basta solo volere il bene, ma bisogna effettivamente anche farlo. E come il fare esterno possa aggiungere qualche cosa al volere interno.

Quindi in questa Questione 20 S.Tommaso spiega bene questo rapporto tra l’atto interno ed esterno. Finita questa, la Questione 21 la lascio a voi, perchè tratta solo di alcuni aspetti della bontà e malizia morale sotto l’aspetto del lodevole, del riprovevole, del meritevole, demeritevole, eccetera. Quindi questo non lo faremo. Poi passeremo subito al trattato sulle passioni, dove cercheremo di fare almeno le passioni in genere, per capirne la dinamica. Sarebbe tanto bello anche studiarle in particolare, chissà se ci riusciremo, e poi infine, prima della fine dell’Anno Scolastico, penso di fare almeno un po’ la dottrina tomistica degli abiti operativi.

E se Dio ce la manda proprio buona, ma qui penso di non riuscirci, ma accettiamo la volontà di Dio formalmente per noi, ebbene, forse riusciremo anche a parlare un po’ del de virtutibus in communi, cioè delle virtù in generale. Ma comunque poi quest’ultimo trattato sulle virtù in generale lo rivedrete anche facendo, svolgendo le singole virtù volta per volta.

Nel nome del Padre … Amen.

Ti rendiamo grazie … Amen.

Nel nome del Padre … Amen.

            Vi ringrazio del benevolo ascolto e ci rivediamo poi martedì.

Fine Seconda Parte

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 20 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 29 gennaio 2017
 
Padre Tomas Tyn, OP

Non si merita con le sole pie intenzioni, seppure anch’esse intenzioni abbiano qualche merito. Davanti al Signore nulla rimane senza il merito. Però non è possibile dire a noi stessi: io merito tanto quanto voglio meritare. No! Per meritare, bisogna proprio agire in vista del bene. Quindi non sempre, se io voglio, cioè se io intendo agire intensamente, poi di fatto agisco con quell’intensità che mi sono proposto nell’intenzione.  

La bontà della volontà dipende dalla sua conformità alla volontà divina. Non direttamente dalla legge eterna, che è Dio in Se stesso, ma alla volontà divina. Cioè la mia volontà per essere buona, non solo deve voler Dio, ma deve volere ciò che Dio vuole.

E qui non poteva mancare nel sed contra, - questo è importante -, il riferimento all’agonia di Gesù nell’orto, Mt 26: “Non come voglio io, ma come vuoi Tu”. Il Salvatore, anche in ciò che in fondo ci dispiace, ci insegna come dobbiamo sempre adeguare il nostro volere al volere di Dio. Fiat voluntas tua è veramente una richiesta fondamentale del Padre Nostro, ossia l’acconsentire sempre a che si faccia la volontà divina, non la nostra. Quindi sottomettere la nostra volontà a quella di Dio.

Quindi, è necessario che ci sia una conformità della volontà umana alla volontà divina. E’ necessario che la volontà umana si conformi a quella di Dio e quindi che ci sia questo fiat voluntas tua, che si compia la Tua volontà. Vedete come subentra una analogia di proporzionalità. E’ molto bello questo, metafisicamente parlando, perché c’è una duplice analogia di proporzione, ex parte obiecti e ex parte subiecti.


[1] Su quella parte di Quaresima che è già passata.

[2] Dopo la fine della Quaresima.

[3] Il primo ostacolo all’attuazione della mia intenzione è quello esterno, per esempio lo sciopero dei treni.

[4] La sua volontà.

[5] Irrogare la pena.

[6] Preso da un malinteso fervore ascetico.

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