Tomisti a confronto con Severino sul problema della creazione - Terza Parte (3/3)

 

Tomisti a confronto con Severino sul problema della creazione

Parte Terza (3/3)
 
Dio e il mondo

Il mondo è distinto da Dio e Dio è distinto dal mondo, perché il mondo è creato da Dio. Tuttavia Dio vede il mondo virtualmente ed eminentemente esistente nell’essenza divina identico all’essenza divina, la quale peraltro non è composta di Dio e mondo, ma è semplicissima, è la somma unitaria di tutte le perfezioni, è l’atto o attuazione di tutti i possibili ed è causa sapientissima creatrice di tutte le cose. Dio vede il mondo in Sé identico a Sé, ma vuole il mondo nel suo essere creato distinto dal suo essere creatore distinto da Sé e fuori di Sé o esterno a Sé.

Ora la causa intelligente, per poter produrre l’effetto, deve precontenerlo in se stessa in quanto da essa ideato e voluto.

Non bisogna pertanto confondere la scienza divina del mondo con l’essere divino in quanto creatore dell’essere del mondo. I tomisti parmenidei come Bontadini sono idealisti, per cui, identificando non solo realmente ma anche nozionalmente l’essere divino col pensare divino, giungono alla conclusione che il mondo non esiste fuori di Dio ma solo in Dio e quindi esiste solo Dio, così come per Parmenide esiste solo un unico essere, che è l’essere assoluto.

La relazione fra Dio e mondo per questi tomisti parmenidei comporta sì la creazione del mondo da parte di Dio. Ma per loro la creazione si riduce alla relazione. Come mai? Perché è chiaro che relazione non dice azione, non dice produzione, non dice causazione, ma dice solo fissità è immutabilità. Esclude il passaggio dal non essere all’essere.

Ma ciò è proprio quello che vogliono.  Essi infatti non intendono la creazione come produzione del mondo dal nulla ab initio temporis, bensì come relazione di dipendenza ab aeterno del mondo da Dio. Infatti loro non considerano che il mondo è un’entità temporale, molteplice, mutevole, spaziale e in divenire esterna a Dio e mossa da Dio, ma si fermano a considerare che tutto nell’essenza divina è eterno, come se non esistesse altro che Dio, secondo il concetto parmenideo dell’essere, per cui per loro il mondo è eterno come Dio è eterno.

Dunque, per questi tomisti Dio è tutto in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio, Dio è in me e io sono in Dio non nel senso  che Dio come causa prima creatrice e produttrice dell’essere  delle cose, sia presente per potenza e per essenza in me in tutte le cose, sicchè l’essere divino sia  distinto dall’essere delle cose, ma nel senso che Dio è l’unico essere esistente come unità e totalità dell’essere, l’unico e solo essere assoluto parmenideo, composto di Dio e di mondo, il cosiddetto  «Intero». Dio quindi è costitutivo dell’essenza del mondo e il mondo è costitutivo dell’essenza divina.

Questa riduzione della creazione alla relazione dipende dal fatto che il parmenideo riduce l’essere all’essenza astratta, considera l’essenza divina e il creare come fossero un’entità geometriche e aritmetiche, dove evidentemente lo aborrito divenire non esiste, ma siamo nell’immutabilità atemporali delle entità astratte, degli enti di ragione, dei puri concetti e delle pure idee. Così per il parmenideo fra Dio e mondo la relazione non comporta nessuna causalità efficiente, ma si esaurisce nell’essere simile a quella relazione di ragione o concettuale che in un triangolo esiste fra la superficie triangolare e i tre lati del triangolo o la relazione che esiste fra il numero 10 e le cifre inferiori implicitamente contenute in esso.

In tal modo ogni ente è necessario perchè ci sia l’essenza divina così come ogni lato del triangolo è necessario perché ci sia il triangolo ed ogni numero inferiore al 10 è necessario perchè ci sia il 10. Per il parmenideo il semplice non essere di una formica comporterebbe l’annullamento di Dio, cosa evidentemente assurda.

Il tomista parmenideo non ammette quindi distinzioni fra l’essere, il pensare, l’agire, il volere, il creare e il creato divini.   Dio è le sue idee e pertanto è l’idea di me. Io sono creato da Lui in quanto Egli relaziona a Sé il mio essere come imitazione o partecipazione dell’idea di me che Egli ha in Sé, e che è Egli stesso, come Essere-Pensiero-Creatore.

Ma questo mio essere non è distinto dall’idea divina di me, che Egli ha in Sé e che Egli è, bensì il mio essere è solo la realizzazione di quella idea, io mi risolvo nel mio essere ideato-creato-relazionato-a-Dio, essere che a sua volta è realizzazione nell’essenza divina. Dunque io sono un’idea divina. Ma l’idea divina è Dio. E dunque io sono Dio. Tutto è uno e uno è tutto.

C’è da precisare che per il parmenideo la partecipazione di essere propria della creatura non è un essere per partecipazione distinto dall’essere per essenza proprio di Dio, ma è solamente (o nientedimeno che) una parte dell’essenza divina. Ecco perché Bontadini chiama Dio «l’Intero», perché è il risultato della somma delle parti, che sono le creature.

Teniamo infatti presente che per l’Uno parmenideo non c’è spazio per una molteplicità di enti distinti dall’unico essere, per cui l’unico modo per ammettere la molteplicità è di concepire questo essere come un tutto, un «intero» composto di parti. Così similmente tutto è incluso nell’eterno e tutto diventa eterno: il contingente, il passeggero, il divenire, il tempo, la storia, il vero e il falso, il bene e il male, l’essere e il nulla. Ma tutto ciò è già presente in Hegel.

Per San Tommaso Dio, conoscendo Se stesso vede all’interno della sua essenza il mondo come imitazione della sua idea paradigmatica del mondo, identico all’essenza divina. Ma nel contempo vede fuori di Se stesso il mondo stesso che ha creato. Purtroppo i tomisti parmenidei, per i quali esiste solo Dio e non c’è un mondo fuori di Lui, non riconoscono questa visione divina ad extra.

Il concetto di creazione

Prima che il mondo fosse

Gv 17,5

Per quanto riguarda il concetto di creazione divina, prendiamo in considerazione il progetto di Bontadini di formulare una rigorizzazione di questa dottrina fondamentale per la teologia naturale e per quella cristiana. Ma San Tommaso si è già espresso in modo sufficientemente rigoroso e non occorre né è possibile andare oltre. E soprattutto, come cristiani, bisogna che questa rigorizzazione aiuti alla comprensione del dogma della creazione formulato dal Concilio Lateranense IV e non gli crei difficoltà.

Ecco il testo del dogma:

«Crediamo fermamente e semplicemente confessiamo che Dio è il creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e corporali, che con la sua onnipotente virtù simultaneamente dall’inizio del tempo ha creato dal nulla (condidit de nihilo) l’una e l’altra creatura, la spirituale e le corporale, ossia quella angelica e quella mondana, e quindi quella umana, quasi costituita comune di anima e corpo» (Denz.800).

Il Concilio Vaticano I riprende questa formula precisando la libertà dell’atto creatore, atto di volontà, dell’agire divino  e non dell’essenza, facendo ben capire che la creatura, ovvero il mondo non è un attributo o una proprietà o un costitutivo dell’essenza divina ma un ente contingente esterno a Dio, cosa che era già intuibile dalla formula del Lateranense IV, dove si parla di creazione ab initio temporis, col che appare chiaro che Dio esisteva già da solo prima che desse l’avvio all’opera della creazione, il che vuol dire, se ce ne fosse bisogno, che era già completissimo come Dio prima che il mondo fosse.

Severino ritiene impossibile il creare, in quanto, invece di intenderlo come passaggio dal non-essere all’essere, dal poter essere all’essere, lo intende come essere del non-essere, cosa evidentemente assurda.

Il creare non comporta un moto o un divenire, non è un far passare l’ente dalla potenza all’atto, perché ciò presupporrebbe la potenza. Invece il creare non presuppone nulla di ciò che è creato a ciò che è creato. Tommaso chiama il creare productio totius entis, per distinguerlo dal produrre umano, che comporta l’impressione della forma in una materia adatta preesistente.

Invece il creare come operazione esclusiva di Dio onnipotente, vuol dire far essere, causare l’essere, far passare un ente possibile presente in mente Dei dallo stato di esistenza possibile all’esistenza attuale, dar l’essere a un’essenza progettata da Dio.

Vuol dire far passare un ente dal non-essere all’essere, fare esistere ciò che prima non esisteva, era nulla, dar inizio all’esistenza di qualcosa. Solo l’Essere come ipsum Esse può causare l’essere, così come il fuoco causa il fuoco, la vita causa la vita, la mente causa il pensiero. Questo è il creare, così come lo intendono la ragione e la fede.

Per la Sacra Scrittura il termine creare è espresso o con l’ebraico barà, che significa fare, produrre, causare, far essere, per cui la creatura è barè, ciò che è stato fatto, il factum, o in greco con i termini poiein, che vuol dire fare o ktizein, che ha il senso di fondare o costituire. Dio è concepito come un artigiano che idea o progetta un’opera e la realizza.

Platone si era avvicinato a questo concetto col mito del Demiurgo, ma non ha pensato alla possibilità che il Demiurgo crei la materia e la forma, delle quali si serve per plasmare il mondo.  Materia e forma sono preesistenti. Né Platone né Aristotele si chiedono perché esistono, chi le ha create. Tuttavia Platone ha la stupenda e sublime dottrina delle idee, adottata da Sant’Agostino per formare la dottrina cristiana delle idee divine e del Logos divino.

Aristotele è arrivato all’altissimo concetto dell’Autocoscienza divina, la nòesis noèseos, ammirato anche da Hegel, ma non si è accorto che quel pensare sussistente coincide con l’essere sussistente, che in quanto tale crea l’essere per partecipazione proprio dell’essere del mondo.

Il termine stesso greco pragma, che noi traduciamo col termine cosa o realtà, benché gli antichi Greci non avessero il concetto della creazione, suggerisce o implica l’idea dell’esser fatto e quindi di un fattore. Così pure l’effectum, che cosa è se non qualcosa che è stato fatto, da cui la domanda: chi lo ha fatto? Ecco la ricerca della causa. È questa la domanda fondamentale della ragione[1].

Per questo stupisce che Bontadini, così preoccupato delle esigenze rigorose della ragione, non prenda in considerazione, a proposito della dimostrazione dell’esistenza di Dio, gli effetti del suo operare, che sono appunto gli enti contingenti divenienti e faccia tanta difficoltà a riconoscerne l’identità e l’intellegibilità accessibile a qualunque mente umana normale.

Gli enti divenienti non sono altro che quegli ea quae facta sunt, dei quali parla San Paolo, considerando i quali è possibile «contemplare con l’intelletto le sue perfezioni invisibili, come sono la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20). Come mai Bontadini non riconosce la grandezza e bellezza del divenire, delle opere di Dio? «Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si riconosce l’autore» (Sap 13,5). Occorre ragionare per analogia!

Bontadini, con la mente tutta occupata dall’essere parmenideo. come se corrispondesse al modo giusto di considerare l’essere, si domanda in tono drammatico: come mai gli enti non sono l’essere? E sarebbe tentato di dire che non esistono o sono contradditori, se un certo buon senso non gli suggerisse che anch’essi appartengono alla realtà.

Per questo, Bontadini, benchè pressato per vent’anni da Severino che voleva convincerlo che il divenire è contradditorio, si è sempre difeso da questa pressione e, benchè con difficoltà, ha sempre riconosciuto che il diveniente è cosa reale e in fin dei conti è rimasto tomista nel riconoscere che l’esistenza di Dio si ricava dal divenire. Anzi ha creduto di dimostrare questa esistenza meglio di quanto l’abbia fatto San Tommaso.

Invece, se noi vediamo nelle cose solo l’essere sic et simpliciter, e non notiamo che è un esser-fatto, non ci poniamo la domanda chi le ha fatte, come non se la è posta Parmenide, come non se la è posta Severino e come non se la pongono tutti i panteisti. Bontadini è stato tentato anche lui di panteismo, ma è riuscito con fatica a venirne fuori, impostando il problema come scioglimento di una contraddizione, il che non è del tutto errato, purchè si precisi, come gli disse il Padre Alberto Boccanegra suo discepolo, che si tratta di contraddizione apparente e non  reale.

Concepire il mondo come assoluto, mentre è relativo, è assurdo. E per questo occorre porre un assoluto a cui il mondo sia relativo. Se si arriva a capire il divenire come ente relativo, allora si arriva con certezza a dimostrare che Dio esiste. È questa la via breve di Bontadini? Ma se è questa, c’era già in San Tommaso. C’era bisogno di tirare fuori Parmenide?

Inoltre, in accordo con Tommaso i tomisti parmenidei sostengono che l’atto divino creatore coincida con Dio stesso, in quanto in Lui l’essere coincide con l’agire. Ma poi confondendo idealisticamente la distinzione reale con quella di ragione, non ammettono in Dio la distinzione di ragione fra essenza e volontà con la conseguenza di negare che l’atto creativo sia libero o viceversa riducendo l’essenza divina a volontà, come già aveva fatto Schelling, introducendo il volontarismo.

La creatura dipende totalmente da Dio nel suo essere. Essa sarebbe nulla senza di Lui. E tuttavia il suo essere creato non esaurisce tutto l’essere della creatura. La creatura non coincide col suo essere creato; il suo essere non si risolve nel suo essere creato, ma costituisce il soggetto di questo essere creato, da esso distinto. L’essere creato è distinto da essa come un accidente è distinto dalla sostanza. Dio crea sia la creatura nella sua essenza che l’essere creato della creatura. Crea sia l’essenza che l’essere.

Gli attributi divini non sono distinti realmente, ma solo nozionalmente. Dio è semplicissimo. Eppure, come insegna la ragione e la fede, in Lui bisogna distinguere la sua esistenza, la sua essenza, il suo essere, il suo intelletto e la sua volontà, nonchè gli atti dell’intelletto (le idee) e quelli della volontà (la creazione del mondo).

L’atto del libero arbitrio, nell’uomo e in Dio, non è necessitato ad unum, ma per sua essenza è ad opposita, è relativo al contingente, a diverse e contrarie possibilità. Se, come credono i tomisti parmenidei, esistesse solo il necessario, né Dio né l’uomo sarebbero liberi, ma tutto avverrebbe per necessità. La creazione non sarebbe contingente, ma necessaria, una determinazione dell’essenza divina, come già in Spinoza: omnis determinatio est negatio. La creatura è una finitizzazione dell’infinito divino.

Se l’uomo non fosse libero, ma il suo agire fosse tensione a Dio, come sostiene Rahner, non ci sarebbero il bene e il male, il peccato e la giustizia, il vizio e la virtù, il paradiso e l’inferno, ma tutto sarebbe bene. Da qui sorge il buonismo[2] del tutti buoni, tutti salvi.

Ora, in realtà si sceglie – sia Dio che l’uomo - ciò che può essere o non essere, ma non ciò che non può non essere. Io non decido che 2+2=4 o che l’uomo è un animale ragionevole o che l’acqua bolle a 100°, ma decido su quello che posso io o non posso fare. Similmente, Dio non decide sulla natura della sua essenza, se essere o non essere, ma nello scegliere che cosa creare e che cosa non creare, chi salvare chi non salvare. Decide sulle cose contingenti. Stabilisce sì le leggi di natura per cui l’agente che agisce necessariamente e deterministicamente, ma avrebbe potuto non crearle.

Dio non fa tutto quello che potrebbe fare e fa cose che avrebbe potuto non fare. Potrebbe fare cose diverse da quelle che fa o che ha fatto. Non muta volontà, ma muta le creature che ha creato. Avrebbe potuto agire prima o avrebbe potuto agire dopo. Poteva creare il mondo prima o dopo di quando lo ha creato. Egli esisteva già ab aeterno prima che il mondo fosse. Essendo atto puro di essere sussistente ed essere compiutissimo e perfettissimo, non ha bisogno del mondo per esistere.

Dio ha creato il mondo con un atto della sua volontà, «liberrimo consilio», dice il Concilio Vaticano I. Se avesse voluto, poteva non creare il mondo. Avrebbe potuto creare un mondo dove il peccato non esisteva.  Poteva creare un mondo migliore di questo o diverso da questo. Avrebbe potuto lasciare negli inferi la coppia primitiva peccatrice. Avrebbe potuto impedire il peccato originale. Avrebbe potuto perdonare subito i progenitori senza castigarli e senza che occorresse la redenzione di Cristo. Poteva salvare l’uomo in modo diverso da come effettivamente lo salva. Se avesse voluto, avrebbe potuto salvare tutti. Avrebbe potuto creare l’Incarnazione del Figlio solo per un fine perfettivo e non redentivo. 

Eppure dobbiamo credere che sia meglio che le cose siano andate come sono andate, piuttosto che se fossero andate diversamente. Dio è stato più buono così, che se avesse agito diversamente. Però se avesse voluto, avrebbe potuto essere ancora più buono. Con la creazione non ha manifestato e realizzato tutta la sua bontà, ma solo un’infinitesima parte.

L’intero

«Intero» è un termine usato da Bontadini per designare la totalità dell’essere come somma di Dio e del mondo. Ma Dio e mondo non fanno un tutto o uno supremo, perché ciascuno, nel suo piano di essere, è già uno, è già un tutto: per partecipazione, il mondo; per essenza, Dio.

Ora, si tratta di un uso improprio del termine, come se Dio e mondo fossero parti di un uno, di un tutto o il tutto. Intero infatti, dice completo o pieno o perfetto, una sostanza o un qualcosa di integrale, composto di parti. Così si parla di un popolo intero, di un pollo intero, di un pasto intero, di una mela intera. Siamo qui davanti a un monismo che vuol dire panteismo.

Posso concedere il concetto di intero inteso come la totalità dell’essere: Dio e il mondo assieme, quasi fossero sommati. Ora è vero che Dio più il mondo è eguale a Dio. Il mondo non aumenta l’essere divino, giacchè Egli, che è già tutto, è l’essere perfettissimo.

Ma aumenta il numero degli enti, giacchè, se esistesse solo Dio ci sarebbe uno solo ente, mentre con la creazione abbiamo, oltre a Dio, gli enti, che però non fanno numero con Dio dal punto di vista dell’essere, ma solo della quantità, perché Dio, l’essere per essenza, si pone sul piano della sostanza, mentre il numero degli enti, che hanno l’essere per partecipazione, si pone sul piano della quantità.  

Ignorare che i molti enti non si aggiungono all’unità divina comporta la loro identificazione con l’unità divina e quindi il panteismo. Questo infatti vuol dire confondere Dio col mondo. Certo il mondo non aggiunge nulla a Dio, dato che Egli è l’essere perfettissimo. Ma ciò non toglie che il mondo sia sostanzialmente distinto ed esterno a Dio.

Ciò non pregiudica affatto alla perfezione dell’essere divino, perché l’essere del mondo è meno essere dell’essere divino, è essere per partecipazione, mentre l’essere divino è essere per essenza. Dal punto di vista dell’essere, il mondo toglie quindi e non aggiunge, abbassa e non innalza, così come il finito sta sotto l’infinito e per questo parliamo di trascendenza dell’essere divino rispetto a quello del mondo.

Il mondo non è solo in Dio, ma anche fuori di Dio. Possiamo metterci dal punto di vista di Dio e vedere il mondo dal suo punto di vista, come lo vede Lui, esistente virtualmente ed eminentemente nell’essenza divina, come imitazione dell’essenza divina, ma non possiamo da qui trarre la conclusione che non esiste un mondo fuori di Dio, giacchè il mondo è effetto del suo potere creatore e Dio stesso vede ciò che ha creato non solo in Lui stesso, ma anche in quanto effetto del suo atto creativo.

Conseguenze nel campo della morale

Se per i tomisti parmenidei la creazione è di essenza divina, se l’uomo è un’idea divina esistente ab aeterno in Dio, se egli è apparizione e rivelazione di Dio, se è manifestazione necessaria ed eterna dell’essenza divina e relazione a Dio, se è attributo dell’essenza divina, Dio non è più creatore, signore, legislatore, giudice, retributore e fine ultimo dell’agire dell’uomo.

In questo caso l’uomo non ha la facoltà e la possibilità di scegliere o per Dio o contro Dio. Non deve affatto render conto a lui del suo operato nel bene come nel male, perché, essendo attuazione e realizzazione di un’idea divina, ed essendo egli stesso un’idea divina, tutto ciò che fa non può che esser giusto e buono. Non ci sarà nessun giudizio divino universale che separi beati e dannati, perché tutto è bene così com’è, per il semplice fatto di essere, dato che l’essere è l’assoluto, essendo tutto manifestazione eterna del Dio eterno, e dato che solo Dio esiste.

Non esiste il peccato come atto di disobbedienza alla legge divina. La volontà divina, che è la stessa essenza divina, si realizza necessariamente sempre e dovunque. Essa, come dice Severino, è il «destino della necessità», come recita il titolo di uno dei suoi libri[3].

 Non c’è pena o castigo del peccato, perché il peccato non è un atto che toglie o priva, ma che pone, in quanto la negazione che è il peccato suscita, come già ha sostenuto Hegel, la negazione della negazione.  Non esiste quindi male di colpa, ma semmai solo male di pena, la sofferenza, in quanto dolore e gioia, vita e morte, essere e non-essere sono costitutivi dell’essere, ossia dell’assoluto.

La sofferenza viene consolata nella gioia, ma la sofferenza resta necessaria affinchè ci sia la consolazione. Vediamo però da questo ragionamento sofistico come questa sia una magra consolazione incapace di togliere la sofferenza, perché anzi la sofferenza ci deve essere affinchè possa esserci la consolazione. Succede così nella concezione di questi pseudotomisti che i beati soffrono e chi è all’inferno è beato.

Qualcosa del genere c’è anche nella teologia di Von Balthasar[4]. Si tratta della visione gnostica di Jakob Böhme[5], per il quale in Dio c’è il sì e il no, il bene e il male, la bontà e la malvagità, per cui Egli muove sia alla giustizia che al peccato. Da questa concezione Lutero ricavò la dottrina della doppia predestinazione: al paradiso e all’inferno.

Infatti per Hegel e similmente, a quanto pare, anche per Bontadini il principio di non-contraddizione non esclude ma comporta la contraddizione, ossia l’opposizione di essere e non-essere, come già aveva inteso Hegel. Principio di non-contraddizione significa scioglimento della contraddizione, che è,come dice già Hegel  il dato originario offerto dal divenire.

 Quindi vale sempre il principio parmenideo che l’essere non è il non-essere. Tuttavia Severino e Bontadini cercano, come fece già Hegel di assumere anche l’istanza eraclitea, integrano con Hegel il principio parmenideo per razionalizzare quei divenire che Parmenide non è riuscito a spiegare. Per questo Dio stesso soffre insieme col mondo sofferente e ad un tempo beato che è all’interno dell’essenza divina.

Per questo tomismo parmenideo, la libertà non esiste in Dio e per conseguenza neppure nell’uomo, ma tutto è determinazione dell’essenza divina. Omnis determinatio, come diceva già Spinoza, est negatio. Il finito è negazione determinata dell’infinito di Dio, è una finitizzazione di Dio.  

L’essere, di per sé indeterminato, diventa determinato negando se stesso. Ma siccome questa negazione è incompatibile con l’essere, ecco che essa nega se stessa e torna l’essere. Teniamo presente che Hegel dice che è tanto vero che l’essere è il nulla quanto che l’essere non è il nulla. L’identità hegeliana è la sintesi dei due princìpi. Non è il semplice sì, ma un sì superiore, che è la sintesi del sì e del no.

Quando Origene dice che tutto viene dalla divisione dell’uno e si ricompone (apocatastasi) tornando all’uno, si mostra un precursore di Hegel, ma questo perchè lo stesso Hegel riprende il moto ciclico di Proclo, del quale era un ammiratore e dal quale lo stesso Origene è influenzato. E se proprio vogliamo trovare chi ha dato inizio a questa visione dell’essere, arriveremo a Parmenide e ad Eraclito, i quali, come ha detto giustamente Heidegger, dicono la stessa cosa: l’essere è il divenire.

Così nel cristianesimo parmenideo Dio si fa uomo non perché assume una natura umana, ma perché la natura divina si riduce alle dimensioni della natura umana, come si rimpicciolisce una fotografia. L’uomo diventa Dio come un palloncino che si gonfia con l’immissione dell’aria.

I tomisti parmenidei hanno ragione a trovare in Parmenide l’esse e l’ego sum tomisti, che poi non sono altro che quelli della Bibbia (Es 3,14). Il loro errore sta nel loro idealismo panteista, che identifica il pensiero con l’essere, con l’apparire, col divenire e con l’agire. Il risultato, nella prassi, è l’associazione di intellettualismo e volontarismo: il parmenideo non agisce, ma si accontenta dell’agire pensato; d’altra parte, per agire non gli occorre pensare: gli basta il semplice volere, che è già pensare. Così abbiamo un pensare inefficace e un volere cieco. Ma qui siamo ben lontani da San Tommaso e piuttosto nel regno delle tenebre.

P. Giovanni Cavalcoli   

Fontanellato, 25 gennaio 2024

 

Bontadini chiama Dio «l’Intero», perché è il risultato della somma delle parti, che sono le creature.

Per San Tommaso Dio, conoscendo Se stesso, vede all’interno della sua essenza il mondo come imitazione della sua idea paradigmatica del mondo, identico all’essenza divina. Ma nel contempo vede fuori di Se stesso il mondo stesso che ha creato.

Severino ritiene impossibile il creare, in quanto, invece di intenderlo come passaggio dal non-essere all’essere, dal poter essere all’essere, lo intende come essere del non-essere, cosa evidentemente assurda.

Il creare, come operazione esclusiva di Dio onnipotente, vuol dire far essere, causare l’essere, far passare un ente possibile presente in mente Dei dallo stato di esistenza possibile all’esistenza attuale, dar l’essere a un’essenza progettata da Dio.

Solo l’Essere come ipsum Esse può causare l’essere, così come il fuoco causa il fuoco, la vita causa la vita, la mente causa il pensiero. Questo è il creare, così come lo intendono la ragione e la fede.

Immagine da Internet:
- Dio crea il mondo, miniatura della Bibbia dei Grands Augustins

[1] La famosa domanda di Leibniz «perché esiste l’essere piuttosto che il nulla?» occupa a lungo l’attenzione di Heidegger in due sue opere Che cosa è la metafisica, Adelphi Edizioni, Milano 2001 e Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 2019. Ma chiedersi perché c’è l’essere non ha senso, giacchè l’essere comprende anche l’essere necessario. Ha senso invece chiedersi perché c’è l’essere contingente, dato che il suo essere è quello di poter non essere.

[2] Vedi il mio opuscolo L’eresia del buonismo. Il buonismo e i suoi rimedi, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2017.

[3] Adelphi Editore, Milano, 1980.

[4] Vedi il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.

[5] Kurt Ruh, Jokob Böhme, Morcelliana, Brescia 2000; Franz Hartmann, Il mondo magico di Jakob Böhme, Edizioni Mediterranee, Roma 2005.

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