Sostanza e relazione nella filosofia della persona - Prima Parte (1/3)

 Sostanza e relazione nella filosofia della persona

Prima Parte (1/3)

Che cosa è la persona?

Il concetto di persona negli ultimi secoli è andato evolvendosi in due direzioni: una direzione introversa e una direzione estroversa. Sotto vari pretesti – o perché giudicato un inutile sostegno degli accidenti o perché visto come inadeguato a rappresentare l’autocoscienza o il divenire dello spirito - si è abbandonato il concetto di sostanza come categoria della persona e ci si è concentrati sull’agire della persona: l’agire della persona su se stessa e l’agire verso l’altra persona.

Da una parte nella linea agostiniano-cartesiana si è giunti a concepire la persona come autocoscienza. Dall’altra, nella corrente del realismo aristotelico-tomista, si è continuato a concepire la persona come sostanza approfondendo l’importanza della relazione sociale della persona.

Tuttavia, come è noto, nel sec. XIX, col sorgere del socialismo, conseguenza dell’illuminismo del ‘770, appare, con Hegel e Marx un concetto di persona che eccede nella subordinazione dell’individuo al tutto sociale, privandolo della dignità spirituale di persona ed esaurendo l’essere dell’individuo nel suo essere sociale. Viene meno la trascendenza della persona sul bene comune temporale, per cui l’individuo viene ad essere puramente funzionale alla collettività intesa come totalità. Già Hegel aveva risolto l’individuo nella sua soggezione assoluta allo Stato[1] visto come «Spirito etico». Così la filosofia moderna é passata da una concezione sostanzialista ad una concezione relazionista della persona.

Questo fatto è l’effetto di un mutamento nella concezione dell’assoluto, che non è stato più visto come uno e semplice, ma come duale, per cui l’assoluto non è più stato concepito come irrelato, ma come relazione del relativo con l’assoluto o assoluto relativo al relativo.

Si è perduta cioè la vera nozione dell’assoluto e si è preteso di far entrare il relativo nel concetto dell’assoluto, sicchè si è cominciato a credere che l’assoluto non si debba definire come qualcosa che esiste da sé ed a sé, autosufficiente e senza relazione ad altro, ma al contrario si è cominciato a concepirlo come relazione ad altro, come reciprocità di polarità opposte. Si è perduta la percezione che il relativo dipende dall’assoluto, il quale può esistere senza di lui, mentre il relativo non può esistere senza l’assoluto e si è messo il relativo alla pari dell’assoluto, sicchè l’uno non può esistere senza l’altro.

Da qui l’idea dell’inseparabilità fra essere e nulla, fra vero e falso, fra bene e male, fra vita e morte, fra sostanza e accidente, fra finito e infinito, fra materia e spirito, fra pensiero ed essere, fra uomo e Dio. Da qui il principio del relativismo di Comte, secondo cui «tutto è relativo, e questo è l’unico principio assoluto»: non esiste più il relativo all’assoluto, ma l’assoluto è interrelazione tra due relativi l’uno opposto all’altro. È chiaro che in questa metafisica scompare il vero assoluto, che non può essere un relativo che rimanda ad un altro relativo, altrimenti il relativo non è più relativo a niente e si annulla come relativo. Il relativismo conduce al nichilismo.

Inoltre, con l’avvento del relazionismo idealista cartesiano è venuta meno anche la concezione analogica della persona, per la quale la persona è la persona creata, che è la sussistenza di una sostanza spirituale singola con accidenti, tra i quali le relazioni con altre persone create e la persona divina, ma similmente la persona è anche la persona divina, sussistenza della sostanza divina esente da accidenti, con relazioni di ragione con le creature.

Occorre inoltre tener presente che il relazionismo toglie alla persona umana la sua assolutezza e degrada la sua condizione di sostanza alla condizione di relazione, trasformando la sostanza in un accidente. Alcuni[2], facendo riferimento al fatto che la persona divina trinitaria non è sostanza, ma è relazione sussistente, hanno creduto di poter similmente considerare la persona umana come relazione sussistente nel senso di risolvere il suo agire nel suo essere.

Ma qui c’è un duplice errore: primo, che solo in Dio l’essere s’identifica con l’agire e, secondo, che nella persona umana la relazione si aggiunge alla persona e non la costituisce. Il fatto, per esempio, che Pietro sia padre di Paolo non definisce l’essenza della persona di Pietro, che è la sussistenza della singola sostanza di Pietro, ma presuppone la persona già esistente ed è una relazione che Pietro ha acquistato col generare Paolo.

Pietro era Pietro anche prima che generasse Paolo. Invece la persona del Padre celeste non ha preceduto nel tempo, né è stata presupposta alla generazione del Figlio, ma il suo stesso essere Padre, il suo relazionarsi al Figlio costituisce ed esaurisce la sua essenza di persona e si identifica con la sostanza della natura divina. Il Padre è realmente distinto dal Figlio, ma il Padre è Dio e il Figlio è Dio: la loro sostanza non è distinta come nel caso di Pietro e Paolo, ma è la stessa del medesimo ed unico Dio.

La relazione di paternità in Dio è il Padre ed è la stessa essenza di Dio, a differenza di Pietro, nel quale il suo essere Pietro è realmente distinto dal suo essere padre. In noi ad ogni persona corrisponde una diversa singola natura umana e viceversa. Invece in Dio non è così, ma alla singola natura divina corrispondono tre persone, perché esse non sono tre sostanze, ma tre relazioni che possono coesistere in una sola sostanza.

Aggiungiamo che il relazionismo assoluto, espressione propria del panteismo, sostituisce la creazione con l’emanazione o la manifestazione molteplice dell’Uno. L’uno, cioè Dio o Io assoluto, non causa né crea dal nulla i molti enti da lui distinti come il contingente differisce dal necessario, ma emana da sé gli enti, che sono della sua stessa sostanza, come il sole emana i suoi raggi oppure si particolarizza o finitizza nei molti, come il mare si attua nelle onde, oppure si manifesta ai molti come limitato, così come io vedo il mare solo fino all’orizzonte; si manifesta ai molti io, altri da Me in Me (Fichte), relativi a Me come Io assoluto, mentre io come io empirico e molteplice  sono relativo al Me assoluto.

Un’altra causa della vanificazione della persona ridotta a serva del potere o a ingranaggio della macchina sociale o un accidente del Tutto sostanziale è l’oscuramento della distinzione fra l’anima e le facoltà dell’intelletto e della volontà. Ora, bisogna dire che la persona umana non è una ragione e una volontà sussistenti, non è una res cogitans, ma una res spiritualis quae potest cogitare et non cogitare. Cioè il pensare e il volere non costituiscono l’essenza della persona, ma sono due atti che la persona può compiere o non compiere in forza della sua libera volontà o può anche non compiere a causa di impedimenti psicofisici.

Il pensare, il conoscere, l’intuire, il riflettere, il ragionare, il volere, il decidere, lo scegliere, il parlare sono tutti atti spirituali che alternativamente e in vari modi emanano non dall’essenza, ma da facoltà della persona, facoltà che si aggiungono all’essenza o sostanza della persona come accidenti, seppur necessari all’essenza della persona. Se questi atti, come avviene nella natura divina, s’identificassero con la persona, sarebbero un unico atto di essere e di agire, e non si distinguerebbero tra di loro nello spazio e nel tempo, come invece di fatto avviene in noi. Dunque questo è il segno che tra l’anima e le sue facoltà esiste una distinzione reale, perchè l’anima resta sempre la stessa, mentre gli atti della persona variano e sono in continuo mutamento.

La distinzione fra la persona e le sue relazioni dovrebbe risultarci evidente dal fatto che mentre la persona non muta, mutano e variano diacronicamente e sincronicamente le sue relazioni. Il defunto Piero è stato sempre Piero a quattro anni,  a 40 anni e 80 anni. Molteplici invece sono state le relazioni volontarie o naturali, stabili o passeggere, che egli ha intrattenuto nel corso del tempo, insieme con l’evolversi del suo organismo fisico, dei processi psicologici della sua mente, delle sue convinzioni e della sua condotta morale.

È certamente cosa buona distinguere persona e personalità non come astratto di persona, ma come categoria psicologico-morale, per cui si parla, per esempio, della personalità di un dato artista o di un dato politico o di un dato uomo d’affari e così via. In tal senso possiamo dire che un embrione è una persona, ma non ha una personalità.

La personalità sì che è un esser persona nel senso del relazionarsi personale con le altre persone, nel rapporto interpersonale. Essa dipende da molteplici fattori, alcuni innati, altri acquisiti, alcuni dipendenti, altri indipendenti dalla sua volontà: dalle sue note individuanti, dalle sue disposizioni fisico-neurovegative, dal carattere, dalle inclinazioni o abiti psicologici o naturali o acquisiti, da eventi accidentali favorevoli o sfavorevoli, dal contesto storico-sociale nel quale vive, dall’educazione ricevuta, dalla cultura acquisita, dalla sua capacità di esprimersi o comunicare, dalla considerazione o non considerazione nella quale è tenuta dall’ambiente umano nel quale vive, dalle sue disposizioni morali, dagli influssi consci e inconsci dell’ambiente.

Per capire che cosa è la persona

non basta la psicologia, non basta il diritto,

non basta la biologia, non basta la politica,

ma bisogna ricorrere alla metafisica

Definire la persona con la categoria dell’autocoscienza (Cartesio) o come soggetto capace di intendere e di volere (Cicerone) o come vertice dell’evoluzione animale (Darwin) o come essere sociale (Marx) non è sbagliato, ma è insufficiente: si colgono aspetti importanti ma secondari della persona. Non si coglie la sostanza.

Per definire nel senso più ampio, ossia metafisico, l’essenza  propria e specifica della persona, a prescindere che si tratti di una persona corporea o incorporea, avvicinabile per analogia, come vedremo, alla persona divina ontologica o trinitaria, occorre l’uso della categoria dell’ente, non però per fermarci e restringerci nell’ente umano singolo e temporale in relazione all’essere, come nell’antropologia di Heidegger e di Rahner, confondendo l’antropologia con la metafisica, ma occorre far riferimento all’ente sostanziale rivestito di accidenti, precisando ulteriormente la spiritualità di questa sostanza.

Non è detto che persona sia solo l’individuo umano nello spazio e nel tempo, nella sua concretezza esistenziale autocosciente, l’io qui e adesso, alla maniera cartesiana o luterana. Persona è sì un singolo soggetto, un sussistente, ma può essere anche un universale, un’essenza sussistente, come nel caso dell’angelo[3] e di Dio.

Per sgombrare pertanto il terreno per una definizione veramente comprensiva della persona, non ristretta al solo singolo uomo in relazione con se stesso o con la realtà, dobbiamo cominciare col ricordare che l’ente si distingue in sostanza ed accidente. La sostanza è l’essenza singola completa che sussiste[4]; l’accidente è un’essenza che si aggiunge[5] ed inerisce alla sostanza, la perfeziona in vari modi. Bisogna pertanto dire che l’essere comporta l’essere in sé e l’essere in. Il primo è il sussistere, il secondo è l’inerire. Il primo appartiene alla sostanza e il secondo appartiene all’accidente.

Inoltre, una cosa importante riguardo alla sostanza è che essa non è, come pretenderebbero alcuni, oggetto dei sensi, così come si parla di sostanza chimica. Se uno nel porsi il problema della sostanza, pretende di basarsi solo sull’esperienza sensibile senza far uso dell’intelligenza, come gli empiristi e i buddisti, la sostanza non la trova. Si ferma a un insieme di dati empirici e pensa che la sostanza non sia altro che questa collezione di dati empirici. In tal modo non riesce più a coglierla e la confonde con l’accidentale.

Essa certamente è nascosta dietro gli accidenti, ne è il sostegno, senza essere alcuno di essi; se tuttavia non la si guarda con l’intelletto nella categoria dell’ente, tolti gi accidenti, la sostanza svanisce. Eppure in certo modo la colgono anche gli animali, privi d’intelletto. Quando un cane riconosce il suo padrone coglie una sostanza, anche se non sa cogliere la persona, perché manca di intelletto. Il che vuol dire che la sostanza non è del tutto ignorata dai sensi e mostra quanta capacità conoscitiva essi hanno, sino a sfiorare la potenza dell’intelletto.  Gli empiristi, con i loro sofismi, dicono delle falsità, che anche un animale è capace di denunciare col suo comportamento.

L’ente, inoltre, si distingue in relativo ed assoluto. Il primo è l’ente che ha relazione all’assoluto. Invece l’ente assoluto di per sé non si relaziona con nessuno. L’assoluto, tuttavia, è principio, causa e regola del relativo, per cui, se produce il relativo, acquista con lui una relazione se non reale,  almeno di ragione. È, quest’ultimo, il caso di Dio, che non ha una relazione reale con la creatura, ma solo di ragione, perché relazione dice dipendenza e Dio non dipende da nessuno.

Assoluto (ab-solutus) vuol dire, sciolto, libero, indipendente, autonomo, perfetto, completo, incondizionato, per sé stante. L’esser relativo è proprio dell’ente relativo, che viceversa è relativo all’assoluto. Per questo, mentre può esistere l’assoluto senza il relativo, non può esistere il relativo senza l’assoluto al quale il relativo è relativo.

La sostanza è l’ente assoluto, l’ente in senso assoluto, essenza singola atta a sussistere o di fatto sussistente. Il sussistere è l’atto proprio della sostanza; ma il dogma trinitario ci insegna che il sussistere può appartenere anche a quell’essere che nella sostanza creata ha come atto d‘essere l’inerire, ossia l’accidente.

L’essere non dice solo unità, ma dice anche reciprocità di due termini relativi l’uno all’altro. Sapevamo già dell’esistenza della pluralità, ma non sapevamo che l’essere stesso fosse plurale in forza dell’esse ad, pur restando uno. Ciò però era già implicito nella nozione analogica dell’essere. Il mistero trinitario ha esplicitato e messo in luce questo significato nascosto dell’analogia dell’essere. 

È dunque vero che l’assoluto è uno solo, perché, se ce ne fosse un altro, dovrebbe distinguersi per qualcosa che l’altro non ha, mentre l’assoluto è la totalità delle perfezioni. Ma l’assolutezza è una realtà analogica e partecipativa, relativa agli elementi dell’ente: l’essenza, la sussistenza e l’essere. Dio è assoluto rispetto a tutti e tre questi elementi.

Ma è assoluta anche la persona creata, che, se non è assoluta rispetto al suo essere, che dipende da Dio, è assoluta rispetto al suo sussistere, per il quale possiede un vera benchè limitata autonomia ontologica da Dio, base del potere di autodeterminazione della volontà e quindi della facoltà, che la persona ha di mettersi in comunicazione con Dio nel campo del conoscere e dell’agire e quindi del relazionarsi liberamente a Lui e al prossimo.

Esistono così gradi nell’assoluto. Resta vero che l’assoluto in senso assoluto è solo uno, è Dio. Ma nel contempo, grazie alla fede nel mistero trinitario, abbiamo scoperto che proprio l’ipsum Esse è identico all’Esse ad, non con l’ente relativo, che è creato, ma con la relazione, che può esistere anche in Dio ed anzi essere addirittura Dio[6].

Circa lo statuto ontologico della persona è bene ricordare che l’ente sostanziale si distingue in una pluralità di gradi di perfezione. Salendo dal minimo al massimo, abbiamo la sostanza elementare, la sostanza chimica, la sostanza fisica, la sostanza vegetale, la sostanza animale, la sostanza umana, la sostanza angelica[7], la sostanza divina.

Ogni ente dell’universo è in relazione con quelli del suo grado ontologico secondo le leggi e i modi del suo agire. Al grado vegetativo appare l’azione immanente della vita, per cui la sostanza non è informata dalla forma energetica, ma dall’anima.

L’animale è certamente un soggetto vivente sensitivo, ma non è persona. Per quale motivo? Perché non vive di una vita spirituale. La persona è sostanzialmente un vivente spirituale, non importa che abbia o non abbia un corpo. Propriamente la persona non è neppure essenzialmente una res cogitans, ma una res intellectualis, come insegna San Tommaso d’Aquino[8]. Non è la stessa cosa.

Res cogitans, ossia l’ente pensante in atto è solo Dio. La persona creata è un ente capace di pensare, Ma che pensi o non pensi dipende da lei. E se è sempre in atto di pensare, come l’angelo, il pensare non la definisce nella sua essenza, ma è solo un atto di una sua potenza, che è l’intelletto. Ecco perchè l’angelo può essere definito – come fa San Tommaso - come intelletto sussistente[9]. Ma l’atto d’intendere coincide con la propria essenza solo in Dio.

La persona umana è una sostanza composta di materia e forma. Ma la nozione di persona non dice necessariamente la presenza della materia. È sufficiente la forma (morfè). Non è facile capire come può esistere una forma senza soggetto materiale, quella che Aristotele chiama usìa coristè e San Tommaso forma separata, perché quando noi pensiamo a una forma, la concepiamo abitualmente come forma di una materia, quindi un oggetto che cade sotto i nostri sensi, come è appunto una persona umana.

Eppure siamo capaci di concepire un’essenza, la quale nella nostra mente è qualcosa di immateriale, è una pura forma. Sappiamo concepire ideali morali di virtù, bontà, onestà. In questi oggetti evidentemente non c’è materia. Astraiamo l’universale dal particolare materiale. Facciamo l’esperienza dell’autocoscienza.

Scopriamo il mondo dello spirito. Scopriamo di avere un’anima spirituale. Proviamo interesse per le cose dello spirito, i valori morali e religiosi. Se nella cosa materiale chiamiamo forma ciò che di essa il nostro intelletto intende, ossia l’essenza astratta dal senso, un quid evidentemente immateriale, che mettiamo in relazione col nostro intelletto e la nostra anima, come chiamare queste cose da noi intese se non col nome di «forme»?

La persona come pura sostanza spirituale, dunque, l’angelo, è una pura forma sussistente. È un’essenza specifica sussistente, senza essere l’essenza specifica o specie predicabile di molti individui ad essa soggetti, così come la natura umana si predica specificamente dei molti individui umani composti di materia e forma. Infatti la stessa essenza specifica angelica è un individuo ed è una persona. Gabriele, Raffaele e Michele sono ad un tempo individui ed essenze. Ciò vuol dire che un angelo differisce da un altro non solo individualmente, ma anche specificamente.

Anche il concetto di essenza (to ti en einai, quod quid erat esse) presenta difficoltà analoghe a quelle del concetto di forma. Quando infatti parliamo di essenza, solitamente intendiamo l’essenza di una cosa. Invece di per sé l’essenza può mancare di un soggetto materiale e sussistere da sé. Gli angeli sono persone benché non abbiano un corpo. Un errore che commettono i materialisti è la concezione biologistica della persona.

Altro punto da tener presente contro il personalismo relazionista è che la persona umana non è costitutivamente in relazione con Dio e col prossimo, ma per natura possiede solo un’inclinazione in questo senso. Sta al suo libero arbitrio attuarla o non attuarla, attuarla bene nell’amore o attuarla male nell’odio, scegliere fra l’egoismo e l’altruismo, fra la propria volontà e quella di Dio, obbedire o disobbedire a Dio, scegliere Dio o scegliere se stessa. E d’altra parte, se io non mi relaziono con gli altri e con Dio, non per questo annullo il mio essere di persona, ma resto semplicemente una persona biasimevole, egoista ed empia.

Sempre contro questo errore, bisogna dire che il rapporto interpersonale non è una relazione sussistente e necessaria fra due polarità opposte come tesi-antitesi o io-non-io nell’orizzonte dell’Io assoluto che sono io, come dice Fichte. No. Il rapporto interpersonale è un rapporto liberamente deciso dalla volontà, mantenuto e conservato dalla volontà, che quindi ci può essere o non essere restando la persona la stessa, un rapporto che consiste nell’esercizio del libero volere, che può essere il bene come il male dell’altra persona (uomo, angelo o Dio), può essere l’amore o l’odio, un volere attuando il quale io realizzo o non realizzo il fine della mia vita e il senso della mia esistenza.

Rimane falso oltre a ciò quel relativismo comtiano, per il quale esiste solo l’ente relativo e si nega l’assoluto, cosa per la verità assurda, perché il relativo dipende essenzialmente dall’assoluto e non può esistere senza l’assoluto. Ma con la fede trinitaria viene superata la concezione dell’assoluto che esclude ogni altro assoluto inferiore. La persona divina infatti è il sommo analogato della personalità, che di per sé dice assolutezza.

Già infatti la dottrina veterotestamentaria della persona creata ad immagine e somiglianza di Dio implica l’esistenza di gradi nell’assoluto, mentre il Nuovo Testamento esplicita questa dottrina mostrando la sublime dignità della persona umana chiamata a partecipare della vita della Santissima Trinità, che ci insegna appunto la relazionalità della sostanza spirituale.

Hegel probabilmente ha intravisto questa relazionalità trinitaria dell’essere, ma a causa della mancanza di una nozione analogica dell’essere e a causa della sua dialettica della contraddizione e del divenire, non è riuscito a concettualizzarla nel senso giusto, cioè non ha compreso che l’identità non include ma esclude la contraddizione e che la sintesi dell’uno con i molti non è il monismo panteista, ma la dottrina di Dio, ipsum Esse, purissima Sostanza trinitaria, creatore del mondo e della pluralità delle persone, ognuna come sostanza dotata di accidenti, capace di relazionarsi con Dio non come accidente a sostanza, ma come persona con persona.

La persona umana, in quanto sostanza, è dunque un ente assoluto, benché non sotto ogni rispetto. È assoluto riguardo al sussistere, ossia l’esistere in sé, ma non riguardo all’essere, nel quale dipende da Dio ed è relativa a Dio. Ma la sua relazione con Dio si aggiunge come accidente al suo essere personale, che in tal senso è un ente assoluto.

Essa dunque non si risolve nel suo esser creata perché altrimenti essa si trasformerebbe nello stesso atto creativo, seppur in modo passivo, giacchè è chiaro che al creare corrisponde l‘esser creato. Se dunque il creare entra seppur passivamente nell’essenza del creato allora il creato viene a coincidere col creare ed abbiamo il panteismo.

D’altra parte, se la persona creata non esistesse come persona, non si potrebbe dire che è creata. Essa non potrebbe avere relazione a Dio e non potrebbe neppure mettersi in relazione con Lui mediante la sua azione. Il che non toglie affatto la dipendenza nell’essere della creatura dal Creatore. Solo Dio, quindi, è ente assoluto sotto ogni rispetto, perché non solo sussiste da sé, ma anche esiste da sé ed a sé (aseitas). 

Se quindi abbiamo un concetto relazionistico della persona umana, ci illudiamo che ciò comporti la imitazione della persona divina. In realtà la relativizziamo al relativo e sarà quindi inutile lamentarci dell’imperante relativismo metafisico o gnoseologico o morale o religioso, perché esso è precisante l’effetto, benchè forse non voluto, del personalismo relazionista, il quale, ben lungi dall’esaltare la dignità della persona come soggetto in relazione, togliendole il suo essere sostanza, la riduce ad un essere accidentale, asservendola al potere politico o rendendola schiava dello Stato, come appare evidente nei regimi totalitari, i quali si basano esattamente su questo concetto di persona falsamente presentato come vittoria sull’isolamento e l’egoismo, e come l’esempio della dedizione o del servizio al prossimo o al bene comune

L’assoluto, da ente semplice, puro essere, come ipsum Esse, com’è nella concezione di San Tommaso, nel relazionismo si sdoppia in due polarità contrapposte reciprocamente relative l’una all’altra su di un piede di parità. Può trattarsi di opposizioni polari reciprocamente complementari come nel pensiero di Romano Guardini ovvero di opposizione dialettica, come in Hegel: essere-non-essere, Divenire. L’Uno, quindi, non è più l’ente indiviso, come nella metafisica tomista, ma è la sintesi di essere-nulla, io-non-io, soggetto-oggetto come nell’idealismo tedesco. L’io, come in Cartesio, al di fuori del quale non c’è nulla, è una relazione con se stesso. Da qui l’idea che Dio non può essere Dio senza il mondo. Probabilmente questo errore deriva dalla concezione luterana dell’Incarnazione, giacchè Lutero non sapeva concepire Dio se non incarnato in Cristo.

La persona umana è un ente assoluto ed è relativa solo nell’agire. Servire il prossimo non deve voler dire esser schiavi del prossimo. Ci si può servire del prossimo senza per questo schiavizzarlo. Servirmi di un amico per ottenere un favore non è la stessa cosa del servirmi del telefono per telefonare all’amico.  L’autorità è servizio, dal servizio postale e dal servizio al bar al servire la patria, lo Stato e il bene comune fino al servire Deo che regnare est. L’uomo libero, per il cristiano, è il Servo di Dio.

Da tutto ciò risulta chiaramente che il comunismo, il fascismo, il totalitarismo, il collettivismo non prosperano altro che facendo riferimento a questo concetto falso della persona. I relazionisti credono di esaltare la dignità della persona con un’insistenza esagerata sulla sua relazionalità che è relatività e non si accorgono di cadere nel relativismo. La persona è un assoluto, è un fine non un mezzo, come diceva Kant, ma è questo proprio perché è sostanza.

L’agire della persona è accidente e non sostanza della persona, non il tutto della persona e neppure l’essenza della persona. La persona non si risolve affatto nel suo agire. Indubbiamente è un agire senza il quale la persona non esisterebbe, ma è comunque sempre un qualcosa che suppone l’agente, giacchè senza agente non c’è l’agire. Soltanto Dio è pura Azione sussistente. La persona resta persona anche se non esercita l’intendere e il volere. L’embrione, il neonato, il dormiente e il demente sono persone anche se non esercitano gli atti propri della persona.

Le relazioni della persona possono variare, essere stabili o passeggere, essere positive o negative, buone o cattive. Ciò dipende dalla qualità delle sue inclinazioni e degli abiti. Ma la persona, nella sua identità sostanziale, non muta, mantiene sempre la sua identità, resta sempre la stessa. Muta la sostanza materiale, cambiando la forma sostanziale, ma la forma della persona, che è la anima, è immutabile.

Esiste certo un’evoluzione nella vita della persona nel bene come nel male, può esistere un progresso o un regresso. Si può dare un’alterazione, un mutamento accidentale e temporaneo, stabile o instabile. Ma l’identità di ogni persona è la stessa in eterno. Per questo, nella prospettiva cristiana, essa può accedere alla vita eterna.

Per questo tra le persone che si amano possono esistere vincoli indissolubili e amori eterni. Può accadere che il vincolo si sciolga o si spezzi per motivi connessi con le condizioni psichiche o la condotta morale, ma se i due erano fatti l’uno per l’altro, come per esempio nel matrimonio, la riunione è possibile, come insegna la fede cristiana, almeno dopo la morte.

Ed anche un legame di amicizia, nonostante gravi incidenti che possono capitare, può sempre essere ricostruito. Anche impegni sacri che si erano lasciati, possono sempre essere assunti, dopo adeguata conversione. È cosa stolta, pertanto, rifiutare di legarsi per sempre a una persona col pretesto che le persone cambiano. È stolto rifiutare di assumere impegni definitivi col pretesto che non possiamo prevedere il futuro. Le relazioni spirituali sono indipendenti dall’evolversi della materia e dalle condizioni psicofisiche delle persone.

La persona psichicamente normale chiaramente è sempre in relazione con qualche altra persona e con Dio stesso. È indubbiamente inconcepibile una persona che non sia in relazione con nessuno, che non comunichi con nessuno, salvo che manchi dell’uso di ragione.

Dire che la relazione è un accidente, non vuol dire che sia facoltà della persona relazionarsi o non relazionarsi. Cambiano le relazioni, ma la persona, se ha l’uso di ragione, è perr sua essenza sempre in relazione. Ciò non impedisce, come si è detto, che fra la persona e le sue facoltà di relazionarsi esista una distinzione reale, per il fatto che l’azione è effetto di una potenza dell’anima e se questa potenza non si attua, è chiaro che l’anima, come forma spirituale della natura umana continua a sussistere, anche se non possiede quella data relazione che consegue a quella data azione.

L’etica relazionista sente la giusta esigenza che la persona non cada nell’isolamento, ma esagera nel sottolineare l’importanza della comunicazione e quindi della relazione. Isolarsi dagli altri non è certamente cosa buona e peggio ancora è il separarsi da Dio. Può essere una forma di egoismo o di immaturità umana o di misantropia o dell’effetto di una deficienza mentale.

Tuttavia non bisogna confondere l’isolamento asociale e misantropo con la solitudine monastica o meditativa od orante. In questo caso il monaco realizza nell’intimo del suo colloquio con Dio e nel pensiero premuroso per il prossimo, una relazione comunionale col prossimo in Dio ancor più profonda e fruttuosa del rapporto sociale visibile.

L’agire è sussistente solo in Dio. Ma concepire la persona umana come agire o come relazione a un altro vuol dire strumentalizzarla come fosse un ente inferiore e quindi renderla schiava di un’altra persona e quindi mancare al principio dell’uguaglianza umana. E se è vero che la creatura è tutta relativa al creatore, nel senso che il suo esistere dipende totalmente da Dio, essa resta sempre sostanza, sicchè il suo essere creata e il suo dipendere da Dio è semplicemente una relazione, ossia un accidente che si aggiunge alla sostanza già costituita.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 febbraio 2023

Solo in Dio l’essere s’identifica con l’agire. Nella persona umana la relazione si aggiunge alla persona e non la costituisce. Il fatto, per esempio, che Pietro sia padre di Paolo non definisce l’essenza della persona di Pietro, che è la sussistenza della singola sostanza di Pietro, ma presuppone la persona già esistente ed è una relazione che Pietro ha acquistato col generare Paolo.

Santissima Trinità, F. Galliari - F. Savanni

Pietro era Pietro anche prima che generasse Paolo. Invece la persona del Padre celeste non ha preceduto nel tempo, né è stata presupposta alla generazione del Figlio, ma il suo stesso essere Padre, il suo relazionarsi al Figlio costituisce ed esaurisce la sua essenza di persona e si identifica con la sostanza della natura divina. Il Padre è realmente distinto dal Figlio, ma il Padre è Dio e il Figlio è Dio: la loro sostanza non è distinta come nel caso di Pietro e Paolo, ma è la stessa del medesimo ed unico Dio.

La relazione di paternità in Dio è il Padre ed è la stessa essenza di Dio, a differenza di Pietro, nel quale il suo essere Pietro è realmente distinto dal suo essere padre. In noi ad ogni persona corrisponde una diversa singola natura umana e viceversa. Invece in Dio non è così, ma alla singola natura divina corrispondono tre persone, perché esse non sono tre sostanze, ma tre relazioni che possono coesistere in una sola sostanza.

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[1] Vedi lo studio di Maritain, La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 1971, pp.183-202.

[2] Edda Ducci, Per una filosofia dell’educazione, Edizioni Anicia.

[3] Sum. Theol., I,

[4] Cf Umberto Degl’Innocenti, Il problema della persona nel pensiero di San Tommaso d’Aquino, Libreria Editrice dell’Università Lateranense, Roma 1967; Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009; M.-D.Philippe, L’être. Recherche d’une philosophie première, I, Editions Téqui, Paris 1972.

[5] Il greco synbebekòs ha il senso di qualcosa che sopravviene, sopraggiunge, avviene, ad-ventus, evento rispetto a un qualcosa che c’è già, appunto la sostanza e che la completa, la arricchisce e la perfeziona, ma che in certi casi può mancare senza pregiudizio per l’integrità della sostanza. Che io abbia in tasca un fazzoletto bianco o grigio non incide sulla mia personalità. Che io abbia o non abbia rapporti col Presidente Mattarella non è decisivo per il mio destino eterno. Diverso invece è il caso del mio rapporto con Dio. E tuttavia anche qui dipende dalla mia volontà rapportarmi o non rapportarmi con Lui.

[6] Secondo il dogma del Concilio di Firenze: In Deo omnia sunt unum, ubi non obviat relations oppositio (Denz.1330).

[7] Tomas Tyn, Gli angeli in San Tommaso d’Aquino, a cura di Francesco Rizzi, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2012; Marcello Stanzione, Gli angeli di San Tommaso d’Aquino. I domenicani e gli spiriti celesti, Edizioni Segno, Fano (PU) 2021.

[8] Sum .Theol., I, q.29, a.1.

[9] Ibid., q.50, a.1.

4 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    lei, riprendendo quanto affermato da san Tommaso (Summa Th. I q.6 a.2 ad 1), ha scritto:
    «[…] Dio, che non ha una relazione reale con la creatura, ma solo di ragione, perché relazione dice dipendenza e Dio non dipende da nessuno».
    Ora che Dio non dipenda da nessuno è pacifico, ma che la relazione tra Dio e gli uomini sia “reale” solo negli uomini ma non in Dio, presenta qualche problema ad essere compreso per chi non è sufficientemente addentro al tomismo, e forse può essere utile qualche ulteriore spiegazione.
    In particolare, le chiedo:
    1) Come definire, interpretare la relazione che il Verbo di Dio incarnatosi in Gesù Cristo intrattiene con gli uomini?
    2) Nel Vangelo di Giovanni (17, 22-24) è scritto:
    «E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.
    Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch'essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo».
    Sembra che Cristo chieda al Padre che gli eletti siano ammessi a godere, in qualche modo, della stessa relazione trinitaria intercorrente tra il Padre e il Figlio. Ma allora, nella beatitudine della vita eterna, sarà ancora vero che la relazione tra Dio e le anime create sarà reale solo in esse?

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    1. Forse, in gran parte la difficoltà ad accogliere, in questo caso, la terminologia di Tommaso sta nel fatto che, nel sentire comune, una “relazione non reale” viene erroneamente supposta come puramente immaginaria (da parte dell’uomo), e quindi in definitiva inconsistente, inesistente… ma non è certamente questo il senso che il tomismo vuole intendere quando afferma che la relazione tra Dio e le creature non è reale in Dio, ma di ragione.
      Inoltre, spesso non ci si rende conto che si stanno utilizzando categorie antropomorfiche parlando della Trinità infinita, quella che, da Rahner in poi, è invalso chiamare “Trinità immanente”.

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    2. Caro Bruno,
      in San Tommaso la relazione di ragione è una relazione vera, che riflette la realtà, ossia tra due termini reali: Dio e la creatura, ma che è puramente pensata ossia immanente nella nostra mente, in modo tale che noi possiamo parlare di relazione senza con questo porre una dipendenza di Dio dalla creatura.
      Infatti, come ho detto, la relazione reale è una relazione di dipendenza. Ma Dio non dipende dalla creatura; però non possiamo fare a meno di parlare di una relazione tra Dio e la creatura. Allora, per affermare questa relazione e nello stesso tempo per riconoscere la dipendenza reale della creatura da Dio, siamo obbligati a concepire una relazione che resta un semplice concetto della nostra mente.
      Il che non vuol dire una relazione immaginaria o che non esiste oppure una relazione falsa. Si tratta di una vera relazione, perché abbiamo due termini che entrano in rapporto, cioè Dio e la creatura. Semplicemente ci vagliamo della nozione di relazione.
      Porto un altro esempio di relazione di ragione: la relazione che esiste tra il genere e la differenza. È chiaro che si tratta di una relazione vera, ma soltanto di ragione, in quanto soltanto immanente alla nostra mente. È una relazione vera, perché è vero che l’aggiunta della differenza al genere produce la specie; però differenza, genere e specie non stanno al di fuori della nostra mente, come fossero tre cose reali, ma esistono solo nella nostra mente.
      Quando diciamo che Cristo ha relazione con noi, intendiamo riferirci alle azioni che Cristo svolge nella nostra vita e non alla relazione che Cristo, come Dio, ha con noi. Questa è una relazione di ragione; le altre sono relazioni reali intese come azioni reali che Cristo compie nei nostri confronti, come per esempio quella di conferirci la grazia di Cristo.
      Gli eletti sono ammessi a godere della visione della Santissima Trinità. In questo senso sono ammessi a godere della relazione trinitaria in quanto questa relazione è la stessa Persona divina, ossia il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Tra le Persone divine non intercorre una relazione, come avviene tra noi persone umane, con le quali noi abbiamo relazioni reciproche. Allora, non si dice che una Persona divina abbia una relazione con l’Altra, perché, secondo il dogma, la Persona stessa è Relazione con l’Altra. Per esempio, il Figlio non è un figlio che ha relazione con il padre, ma è Esso stesso relazione di figliolanza col Padre.
      Nella vita eterna, la relazione di Dio con le anime resta una relazione di ragione, sempre per il motivo ovvio che non è Dio che dipende dalla creatura, ma è la creatura che dipende da Dio. Infatti, se la relazione fosse reale, si verrebbe a dire che Dio dipende dalla creatura. Reale invece è la relazione della creatura col creatore.

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    3. Caro Bruno,
      per quanto riguarda la posizione di Rahner, bisogna tenere presente che non è vero che la Trinità immanente è la Trinità economica, per il fatto che l’Incarnazione non entra nell’essenza della Trinità, ma è effetto della libera volontà del Padre. Tutto quello che si può concedere a Rahner è che di fatto il Verbo si è incarnato, ma il Verbo avrebbe potuto benissimo esistere anche senza incarnarsi.

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