circa i compiti odierni del teologo
Penso di far cosa gradita ai Lettori renderli edotti di una corrispondenza che ho avuto con un Vescovo incaricato di un importante ufficio in campo teologico presso la Santa Sede. Egli mi ha inviato una lunga lettera, nella quale espone il suo pensiero circa la sua concezione della teologia e del suo metodo, nonchè quelli che ritiene essere i compiti oggi del teologo.
Data la delicatezza della cosa, il Lettore mi scuserà se lascio lo Scrivente nell’anonimato, per riguardo alla sua persona. Non ho voluto fare una delle solite «lettere aperte», che spesso urtano la suscettibilità del destinatario con problematici risultati nei rapporti con l’interlocutore. Non voglio quindi che questo possa essere il caso del mio rapporto con questo autorevole teologo, col quale tengo molto a proseguire il dialogo.
D’altra pare, ritengo utile pubblicare la mia risposta, perchè la materia trattata è molto interessante, per cui credo che, tutto sommato, quanto dico possa servire più ai Lettori che a chi mi ha scritto, che, essendo un teologo stimato dal Papa, sa già probabilmente quello che gli dico e che ha semplicemente espresso in termini diversi da come mi esprimo io.
La sua lettera si svolge in otto punti. Non riporto il testo integrale, ma faccio riferimento, punto per punto, solo a quelle sue tesi che maggiormente ho ritenuto di dover prendere in considerazione. Ecco dunque la mia risposta.
In riferimento ai nn.1 e 2 della lettera, concordo con Vostra Eccellenza nel constatare con preoccupazione il successo attuale dello scientismo e la diffusa disistima nella quale la cultura popolare dominante massmediale ignora o considera la teologia come un vuoto discorrere o un vagare tra le nuvole o una perdita di tempo.
Coltivo la teologia tomista ormai da 60 anni e la mia impressione è che oggi come oggi la teologia per lo più non si trovi più in quel disdegnoso e sterile isolamento elitistico di ristretti circoli esoterici ruotanti su se stessi con strane terminologie accessibili solo a loro.
Il rinnovamento conciliare della teologia in questi 50 anni ha efficacemente spinto i teologi a promuovere la teologia fra i laici e a saper esprimere in termini e concetti semplici e popolari la sottile concettualizzazione e la raffinata terminologia teologica, tanto che oggi molti senza titoli accademici, ma imbevuti di questa teologia popolarizzata, ritengono di poter tener testa ai teologi accademici e far loro da maestri.
Anche l’eccessiva preoccupazione dei teologi di distinguere la teologia dalle altre scienze mi pare fosse piuttosto il difetto di 50 anni fa. L’insistenza con la quale da 50 anni ci si batte sulla necessità dell’interdisciplinarietà e la collaborazione reciproca ha prodotto certamente buoni frutti, ma mi sembra che oggi si sia caduti nell’eccesso opposto di confondere la teologia con la storia, con la letteratura, la mitologia, l’aneddoto, la poesia, la mistica – la teologia «narrativa» - alla maniera di Heidegger o Jean-Luc Marion o Massimo Cacciari o viceversa di trasformarla alla maniera di Severino o di Husserl o di Hegel in una specie di gnosi o di scienza assoluta, o di idealismo panteista, come ha rilevato il Papa nella Gaudete et exsultate. Ci si è dimenticati dei «gradi del sapere» di maritainiana memoria.
Riguardo al n.3, dove V.E. cita l’appello del Papa ad «un radicale cambio di paradigma» e ad «una coraggiosa rivoluzione culturale», direi che non si tratta evidentemente di rivoluzioni di tipo cartesiano o hegeliano o modernista, ma non si tratta altro che di un richiamo alla metànoia paolina, metanoia che anima tutto lo stile della riforma conciliare e che è quell’atteggiamento spirituale di fondo, che deve animare quotidianamente il cristiano ad operare una «rivoluzione permanente», per esprimerci con una famosa formula maoista, ma naturalmente con tutt’altro significato.
Mi permetto, quindi, di dissentire da V.E., quando, sempre al punto 3, auspica una «impostazione della ricerca teologica – e perciò il sapere teologico – non più sulla base di un metodo deduttivo, bensì sulla base di un metodo induttivo».
Le ricordo che la deduzione è altrettanto necessaria al ragionamento teologico, quanto lo è l’induzione ed anzi lo è di più, perché l’induzione parte dal dato sensibile per elevarsi al piano dello spirito, ma con la necessità di periodici ritorni all’esperienza per controllare la verità del risultato raggiunto. Per esempio, dall’esperienza possiamo ricavare una data constatazione relativamente al comportamento di un uomo in un dato tempo. Ma chi ci si assicura che egli ha mantenuto quel comportamento un certo tempo dopo, se non vien fatto un monitoraggio mediante verifica sperimentale?
Ma ci sono procedimenti induttivi, che non esigono ulteriori verifiche sperimentali, perché la conclusione raggiunge un piano dell’essere non soggetto a mutamento. Per esempio, una volta che la teologia ha dimostrato l’esistenza di Dio partendo dall’esperienza, non è che successivamente occorreranno ulteriori verifiche empiriche per controllare se Dio esiste ancora o ha mutato essenza.
Quanto poi alla deduzione, essa parte da verità già conosciute ed assolutamente certe o evidenti e si mantiene quindi su di un piano epistemico per il quale non si passa da esperienza a concetto, ma da concetto a concetto secondo necessità logiche ed un processo esplicativo, in modo che il sapere aumenta senza bisogno di ricorrere a verifiche empiriche.
Una volta che, per esempio, dopo esser partiti dall’esperienza, sappiamo che l’uomo ha un’anima spirituale, dal fatto che sia spirituale deduciamo che è immortale e siccome è immortale sopravvive al corpo, e siccome sopravvive al corpo, vive separata dal corpo e così via.
Quanto al punto 4, il fatto che, come Ella dice, «la teologia proceda a partire da un’assiomatica generale desunta dall’orizzonte metafisico o anche dalla rivelazione divina», e il fatto che «prenda le mosse dalla storia comune degli uomini», non si escludono affatto vicendevolmente, ma stanno e devono stare assieme e richiamarsi l’un l’altro perché l’uno non può fare a meno dell’altro, pena la distruzione del teologare come atto del pensiero.
Un conto infatti è il procedere dall’esperienza e un conto è il procedere della ragione. Questi due procedimenti nell’uomo devono andare assieme, perché con la sola esperienza abbiamo solo la conoscenza animale; con la sola assiomatica abbiamo soltanto l’angelo. Ora però, come è noto, l’uomo è un animale razionale e perciò il suo conoscere è ad un tempo sensibile e spirituale.
Quanto poi alla rivelazione divina, se non si giudica la realtà alla luce della fede nella divina rivelazione, dove va a finire il cristianesimo? Che ne è dell’intellectus fidei? Se non c’è la sapienza, c’è la stoltezza. Non c’è via di mezzo. È chiaro che il nostro sapere prende le mosse dalla storia degli uomini. Ma in base a quale criterio si giudica la storia degli uomini, basandosi su che cosa, partendo teoreticamente da dove, se non dalla luce della ragione e della fede? E dove la ragione trova il suo fastigio se non nella metafisica?
Per che cosa Papa Francesco è tornato di recente a raccomandare San Tommaso come Doctor communis Ecclesiae, se non perché Tommaso si è servito della metafisica per interpretare la Parola di Dio, come i Papi hanno ripetuto per 800 anni dalla morte dell’Aquinate?
Al punto 5 la proposta di V.E. di una contestualizzazione della teologia non può che trovarmi d’accordo. È chiaro che il teologo studia, pensa ed opera in un determinato contesto storico, geografico, ecclesiale, ambientale, sociale, culturale, religioso, economico e politico.
Tutto ciò gli suggerisce e a volte gl’impone o per dovere d’ufficio o per richieste dei Superiori o per la sua sensibilità o per intima ispirazione, di occuparsi di dati temi o problemi, suscita in lui dati interessi, lo stimola verso date ricerche, lo spinge a rispondere a certe domande, ad intraprendere certe battaglie, a ripararsi da certi pericoli, a difendersi da certi assalti, a correggersi da certi errori, a modificare certe sue opinioni, ad affrontare certe sfide, a soddisfare certe esigenze o bisogni che riscontra nei suoi contatti con la gente o che gli vengono manifestati dalla gente.
Egli ha il dovere di essere disponibile ed accessibile, dev’essere, nel suo modo di fare e di parlare, «alla mano», come si suol dire; ché se invece egli con tono sussiegoso dà l’apparenza non di fare il suo semplice dovere o di svolgere un servizio, ma di concedere una grazia speciale; ossia, se, come si dice, la fà «cader dall’alto», mette in soggezione l’interlocutore, usa un tono oracolare o un gergo incomprensibile, se chiede troppo all’intelligenza dell’interlocutore, se si lascia interpellare solo da devoti o ammiratori che siano all’altezza del suo genio, o che parli nel suo linguaggio «trascendentale» o «fenomenologico» o «esistenziale», è chiaro che manca al suo dovere di teologo, perché la teologia, come diciamo noi Domenicani, non è solo un contemplari, ma anche un contemplata aliis tradere.
Non si è veri teologi, se non si è anche pastori. Su ciò, cara Eccellenza, sono perfettamente d’accordo con Lei. E la mia esperienza quarantennale di insegnante di teologia, mi dice che il teologo impara anche mentre insegna e mentre impara comprende come deve insegnare. Comunica mentre ascolta e ascolta mentre comunica. In tal senso la pastorale e la teologia s’intrecciano effettivamente in modo indissolubile tra di loro con reciproco vantaggio.
Inoltre, sono perfettamente d’accordo sulla necessità di fatto e di diritto della contestualizzazione del teologare. Fra il teologo e il suo contesto di lavoro esiste e deve esistere un’interazione o un interscambio: il teologo agisce sul suo contesto e questo agisce su di lui.
Nessuno gl’impedisce di prender l’iniziativa nel trattare temi ai quali nessuno pensa o nel proporre tesi teologiche avanzate o nel recuperare o rivisitare temi teologici dimenticati o trascurati, che egli ritiene utili al prossimo e d’altra parte è importante che egli sappia discernere i bisogni del suo tempo e le prospettive di successo che il suo tempo gli offre. Se il teologo condivide il detto di Orazio odi profanum vulnus et arceo, e resta chiuso nella sua torre d’avorio, in splendido isolamento, condanna a morte la sua teologia e manda alla dannazione la sua anima, perché manca di carità e di misericordia.
D’altra parte, però, il teologo non deve diventare schiavo del contesto – è il pericolo di oggi -; deve sì conoscerlo bene, ma poi deve saperlo dominare e giudicare alla luce della Scrittura, della Tradizione e dottrina della Chiesa. Deve anche ascoltare altresì «quello che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,17), ossia le voci profetiche che oggi lo Spirito Santo suscita fra il popolo e nel popolo di Dio. Questo, si potrebbe dire, è l’aspetto sinodale del teologare: teologare assieme.
La verità che il teologo deve insegnare non l’apprende però dal contesto, ma dall’ascolto di quelle fonti che ho detto, i cosiddetti «luoghi teologici»[1]. E però è vero che egli non può neppur credere, come si pensò un tempo, di poter esser così indipendente dal contesto, da poter elaborare per conto suo una teologia stratosferica capace di uscire dal proprio contesto, col pretesto dell’universalità del pensare teologico sovratemporale. Qui avremmo l’astrattezza nel peggior senso della parola.
Se l’astrazione scientifica contestualizzata è di somma utilità, l’astrazione priva di contesto è del tutto inutile. Così pure si ha un’astrattezza – i cosiddetti «discorsi per aria» - non solo inutile ma dannosa in morale, quando si crede che sia sufficiente il principio morale nella sua naturale astrattezza o la legge nella propria universalità per dirigere hic et nunc l’azione concreta, dimenticando che se il precetto morale. mediato da fattori intermedi, non è fatto calare, con la dovuta prudenza e l’oculato discernimento nel concreto della realtà, l’agente morale resta privo di impulso per la mancanza dell’ultimo giudizio-comando pratico immediatamente operativo: «fa’ questo!
Se dunque l’astrazione è l’aria nella quale respira il pensiero teoretico, per non estinguersi nell’immaginario, così la concretezza della situazione storica e spaziale è l’orizzonte di realtà nel quale si esercita l’azione, se si vuol passare dalle parole ai fatti.
Al punto 7 V.E. afferma che una «“teologia profonda” si mette sulle tracce del Dio di Gesù Cristo “nel chiaroscuro della storia” come leggiamo al n. 1 del Proemio di VG, e non nell’iperuranio delle idee astratte, pena la deriva ideologica che sta sempre dietro l’angolo. La sua principale attitudine è quella ermeneutica, per ricercare e incontrare la verità di Dio – sempre personale, mai astratta – nelle pieghe strette della storia e nelle piaghe aperte del mondo».
Direi che le tracce del Dio di Gesù Cristo non si trovano solo nel chiaroscuro della storia, ma anche nelle idee astratte, purchè tale astrazione sia ben condotta. Le idee teologiche sono per loro natura le più astratte, perché basate sull’astrazione metafisica, che permette al nostro pensiero quel massimo di estensione, ampiezza, capacità, penetrazione, sottigliezza, spiritualità, comprensione, stabilità, elevatezza e purezza, pur nella sua limitatezza, mutevolezza e fallibilità.
Nel chiaroscuro della storia troviamo, grazie al mistero dell’Incarnazione, del Dio fatto storia, l’eterno, l’Assoluto, l’Infinito, l’ipsum Esse per Se subsistens, Colui Che È (Es 3,14) e il solo che ha il diritto di dire Io Sono (Gv 8, 24.28.58; 13,19; 18,5). Allora è chiaro che per avere il concetto di Dio, della natura divina e quindi per poter parlare di Dio sapendo quello che si dice ed essendo in grado di far sapere agli altri quello che si dice – questa è la teologia -, è necessario che il nostro intelletto abbia la nozione dell’essere, che è l’idea fra tutte la più astratta, perché tutte le altre sono in essa comprese e quindi meno astratte.
L’idea dell’essere, la più ampia, astratta, comprensiva ed accogliente che abbiamo a nostra disposizione, luce che Dio stesso ci ha donato[2], è quanto di meglio la nostra mente può offrire al Dio della gloria, è il tempio nel quale accogliamo, sempre indegnamente, poveramente e inadeguatamente, tra tutti i nomi da noi nominabili, che Dio stesso si è scelto, il più bello e il più sublime, il meno indegno di Lui, nome che fra tutti Si è scelto per manifestarsi a noi in Cristo, che pertanto ha ricevuto «il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9). E questo nome è: Io sono. «Alzatevi, porte antiche, ed entri il Re della gloria» (Sal 23,9). Come a dire: ampliatevi, o trascendentali, e ospitate nel vostro piccolo orizzonte Colui Che È!
Astrarre con l’intelletto vuol dire allargare e potenziare la sua capacità d’intellezione e di comprensione, perché si tratta di prescindere dal caduco, dal corruttibile e da ciò che è troppo stretto per l’ampiezza del nostro spirito – ciò che è materiale – per sollevarsi da terra e salire al cielo. Dio non abita nei cieli? Se Cristo è disceso dal cielo, è solo perchè con lui dobbiamo salire al cielo, dove «lo vedremo così come Egli è» (I Gv 3,2).
L’astrarre non comporta nessun disprezzo per il concreto, per le più umili realtà materiali quotidiane, per il corpo nostro e quello del prossimo, tutti segni e prove di Dio creatore, nessuna disattenzione, come dice bene V.E., «per le pieghe strette della storia e nelle piaghe aperte del mondo».
Saremo infatti meritevoli del cielo nella misura in cui, come il buon samaritano, avremo saputo trattare secondo Dio queste umili e fugaci realtà terrene e corporali, senza farne degli idoli per il loro luccichio. Non bisogna quindi disprezzarle, con la scusa che sono corruttibili e che passano, perchè dovranno tornare alla resurrezione finale.
Astrarre però vuol dire non lasciarsi invischiare in esse, non chiuderci nel concreto, non cedere alle seduzioni del mondo e della carne, ma saper lasciare tutto per Cristo, come ha fatto Pietro, che per premio ha ricevuto il centuplo.
L’ascesi cristiana parte dall’ascesi dell’intelletto – ecco la «purezza di cuore» -, che è appunto un sapiente astrarre. È così che si pone la base e la premessa di un’azione veramente umana e saggia, che non sia semplicemente quella dell’animale, che parte dal concreto per restare nel concreto.
È vero che la conoscenza parte dall’induzione, ossia dall’esperienza sensibile. Ma per poterci librare in cielo. al livello del sapere celeste, nel mondo dello spirito e del divino, che è l’orizzonte della teologia dogmatica, occorre la deduzione, occorre saper volare senza bisogno di contatti con la terra, occorre restare nel puro intellegibile. Solo in questo modo il nostro spirito è in grado di dirigere l’azione in modo che essa sia motivata dal contatto con Dio e non solo da finalità terrene. Solo così l’azione conduce a Dio e non solo ad obbiettivi terreni.
Solo nella luce dell’astratto rettamente inteso, ben altra cosa da un vuoto astrattismo, possiamo e dobbiamo quindi occuparci del concreto. Solo lo spirito ha il diritto di guidare la materia. Se comanda lei, se diamo la guida al concreto, non possiamo diventare quell’uomo spirituale e celeste, del quale parla San Paolo (I Cor 15, 40.48), ma siamo degli uomini carnali, votati alla perdizione. Solo nella luce dello spirito, ossia dello Spirito Santo, che poi è la carità, che è il sapere amante, possiamo dar sapore di cielo ed efficacia soprannaturale alle più umili azioni terrene, perché fatte per amore di Dio, cosicchè esse, pur nelle loro umiltà e materialità, conducono a Dio.
In tal modo, nella luce dell’ideale e dell’astratto, inteso e praticato nel modo che ho detto, possiamo scendere sulla terra, scendere nel concreto ed animare la terra rendendola spirituale. E questa è la teologia morale. È questa la vera teologia pastorale. Se vogliamo, è anche la teologia mistica. È questo il «corpo spirituale» auspicato da San Paolo, al di là del corpo carnale conseguente al peccato originale.
L’astrazione intellettuale ben fatta, non quella dualistica di Platone, ma quella sintetica di Aristotele e San Tommaso, è necessaria sia per il pensiero che per l’azione. L’azione è certo nel concreto, ma essa non può partire dal concreto, dalla sola immaginazione, come quella degli animali. No. Deve scendere dall’alto, dall’astratto, dall’ideale, dalla concezione intellettuale del fine e dei mezzi, dal comando della prudenza.
Già Anassagora, spesso citato da San Tommaso, aveva capito che «l’intelletto dev’essere separato per poter comandare». Non si tratta di sovrastare in modo dispotico, ma di rendere un servizio nel bene e nella giustizia. Il giudice che non sa essere al di sopra delle parti, non potrà essere imparziale. È il trascendente la regola dell’immanente. Non è il concreto, non è il materiale, il sensibile, ma è l’ideale, il bonum intellegibile che deve guidare l’azione, anche se indubbiamente occorre tener conto delle circostanze concrete. Se poi consideriamo la contemplazione o la pura teoresi filosofica, metafisica o teologica, con essa il pensiero, mosso dall’amore, si solleva da terra e resta in cielo senza più tornare sulla terra.
Alla resurrezione futura recupereremo tuttavia il concreto, che quaggiù abbiamo lasciato, a cominciare dal nostro stesso corpo maschile e femminile, perché Dio ci darà il nostro corpo. Ma allora non avremo più bisogno di astrarre, perchè il nostro intelletto sarà così unito al senso, che non avrà più bisogno di separarsi da lui, ma agirà insieme con lui in perfetta armonia.
Il Beato Duns Scoto non aveva tutti i torti, nel sostenere che l’obbligo di astrarre è una conseguenza del peccato originale, che ha contrapposto quel senso ed intelletto che nel piano originario divino dovevano essere uniti.
La verità di Dio, comunque, per adesso, su questa terra, è sì personale, come dice V.E., ma anche astratta. Infatti, se per verità di Dio s’intende la realtà stessa di Dio, è chiaro che essa è verità sussistente, fatta persona, perché è la verità di Colui che ha detto di sé: «Io sono la verità». Dio non solo conosce, dice e rivela la verità, ma è la verità ontologica assoluta.
Ma se per «verità di Dio» intendiamo quella verità, quel sapere che ci viene da Lui, ci è rivelata da Lui o che riguarda Lui o il nostro pensare Lui, ossia la verità su Dio o attorno a Dio (circa Deum), allora qui abbiamo la verità astratta, in quanto abbiamo il giudizio, che, come V.E. sa bene, è una composizione di concetti e i concetti sono enti mentali astratti, i quali, però proprio come tali nel giudizio prudenziale, colgono la verità della realtà o il vero nella sua concretezza reale ed esistente. E il giudizio, eventualmente espresso in una proposizione o asserzione speculativa, è allora o il giudizio o articolo di fede o la formula dogmatica o il giudizio teologico.
Quindi la deriva ideologica, che V.E. teme, non consiste e non trae origine dal semplice uso di idee astratte – abstrahentium non est mendacium –, ma semmai da un cattivo o sbagliato modo di astrarre, come quello degli idealisti, che reificano ciò che è astratto identificando il pensiero con l’essere e pongono come astratto ciò che è concreto, trasformando il reale in un’idea.
Ora l’ideologia, rovina del pensare, non è il semplice produrre idee, ma è il produrre idee alla maniera sbagliata, ossia idealistica; le idee, di per sé, in quanto idee, sono astratte; oppure non sono idee, ma semmai immagini della fantasia. Altrimenti, dovremmo dire che il semplice pensare produce l’ideologia, giacchè non si può pensare, se non si hanno idee.
Ma l’ideologia è piuttosto un’elefantiasi o la falsificazione dell’ideale a scapito del reale, cosa che è il vizio proprio dell’idealismo e dello gnosticismo, come dice con chiarezza Papa Francesco nella Gaudete et exsultate. Se infatti vogliamo conoscere qual è la gnoseologia che ci propone il Papa, il suo documento più chiaro e significativo è questo, dove egli ripropone il realismo e condanna l’idealismo. L’ideologia non è il semplice uso delle idee più o meno astratte, scientifiche o metafisiche o teologiche, ma comporta un concetto falso di ciò che è l’idea, scambiata o con l’immagine sensibile o con la realtà.
L’operazione astrattiva è naturale al nostro intelletto per poter pensare e conoscere, ma è un’operazione delicata, dove facilmente possiamo sbagliare, come attesta la storia della filosofia, nella quale troviamo due errori diametralmente opposti, le due disfunzioni fondamentali del lavoro astrattivo dell’intelletto, disfunzioni, che sempre ritornano come le malattie croniche, dalle quali non riusciamo mai a guarire.
I suddetti due errori opposti riguardo all’astrazione, come sa lo storico della logica, consistono uno del dare troppa importanza all’astrazione – ecco l’astrazionismo platonico, col quale se la prende il Santo Padre – e l’altro è il rifiuto di astrarre proprio di Ockham, e il voler servirsi solo del senso, nella convinzione che l’astrazione decurti il reale e quindi lo falsifichi o porti fuori della realtà, sostituendo il concetto con l’atto di nominare la cosa, cosicchè il significato delle parole sostituisce il significato dei concetti e la parola pretende di significare direttamente la cosa senza la mediazione del concetto, che per Ockham, è uno di quegli enti inutili, che vanno aboliti in base al suo principio entia non sunt multiplicanda sine necessitate. Il linguaggio sostituisce la metafisica. Non si parla più di cose, ma di parole. Se questi non sono i discorsi vuoti, ditemi quali sono i discorsi vuoti.
Il primo errore è l’idealismo esagerato di Platone, che arriva ad Hegel, che ipostatizza l’ideale, come se l’idea astratta fosse una sostanza, scambiando così l’intelletto umano con l’intelletto divino, giacchè solo in Dio il pensare coincide con l’essere, l’ideale col reale.
Il secondo errore è il realismo sensuale di Ockham, che arriva ai moderni empiristi inglesi, che pretenderebbe di ridurre l’universale a un semplice nome comune per indicare un gruppo di cose concrete simili fra di loro: un modo di usare l’idea per distruggere l’idea ed abbassare il sapere umano al livello della sensibilità animale.
Ora, l’astrazione intellettuale è un atto spontaneo dell’intelletto, col quale esso coglie il suo oggetto, l’ente determinato o indeterminato, materiale o spirituale, sensibile o intellegibile, individuale, specifico, generico o trascendentale, prescindendo o astraendo dal contesto spaziotemporale ed immaginativo dell’ente sensibile dal quale è avvolto e nel quale è di fatto inserito nella realtà extramentale (extra animam, come dice San Tommaso).
Perché, a che scopo e con quale risultato l’intelletto fa questo lavoro? A tutta prima – e questa è l’obiezione dei concretisti e dei nominalisti – sembrerebbe decurtare la realtà, prendendone una parte senza considerare il resto. E come, allora, essi insistono, l’intelletto pretenderebbe di conoscere la realtà sotto l’aspetto di universalità prendendone solo una parte e non tutta?
Fido è un cane reale. Come posso dire di conoscere Fido se debbo astrarre dai caratteri individuali di Fido formando il concetto di cane, che va bene anche per Pluto? Che il concetto di cane, essendo universale, va bene anche per Pluto, non fà problema. Io conosco Fido nella sua individualità con i sensi e l’immaginazione e non con l’intelletto.
Obietta ancora il concretista occamista: se l’universale non esiste come tale nel reale, ma solo nell’intelletto, come si pretenderebbe che la scienza sia scienza dell’universale? Non sarà scienza di un’entità mentale da noi prodotta e forse che in tal modo il reale esterno non sfugge alla presa dell’intelletto?
I realisti tomisti rispondono dicendo che il nostro intelletto di più non può fare. Si deve accontentare di questo oggetto interiore, che è il concetto astratto (conceptus obiectivus), per il quale l’intelletto coglie l’essenza della cosa. Solo l’intelletto divino, che ha ideato e creato il reale nella sua totalità, lo può cogliere intellettualmente nella sua totalità, senza aver bisogno di astrarre da niente.
Ma gli idealisti hegeliani credono di possedere l’intelletto divino e per questo sono convinti che le loro idee coincidono con l’essere che esse concepiscono e rappresentano. Credono che il loro pensare coincide con l’essere, l’essere è l’essere pensato; la loro idea del reale è il reale. Come diceva Hegel, per gli idealisti il reale è il logico-razionale; il logico-razionale è il reale. La logica, per Hegel, coincide con la metafisica e la metafisica con la teologia. Per Rahner, similmente, più vicino ad Heidegger, il pensiero coincide con l’essere e l’uomo coincide con l’essere («svolta antropologica»). L’antropologia coincide con la metafisica.
Al punto 8 V.E. scrive «La teologia può allora smettere di essere soltanto una speculazione teorica e può finalmente lasciarsi interpellare seriamente dalla concretezza della realtà».
Osservo che la teologia è una scienza e quindi per sua natura è una speculazione teorica e se riesce a far questo con serietà e rigore ha già fatto il suo dovere e non deve far altro. E se è una scienza è proprio perché si suppone che si sia lasciata in precedenza interpellare dalla realtà concreta.
Questo lasciarsi interpellare la sana teologia cattolica lo fa istituzionalmente e per se essenza, anche se non neghiamo che a volte abbia mancato a questo suo dovere per cedere al fascino dell’idea in se stessa indipendentemente dal contatto con la realtà.
Quindi questo «finalmente» è fuori luogo. Semmai l’auspicio che possiamo esprimere è che la teologia continui a far questo, anzi lo recuperi e lo realizzi nel senso giusto sulla scia dei grandi teologi del passato, i Santi Padri e i Santi Dottori, tra i quali eccelle San Tommaso, non risolvendo l’essere nel pensiero, il reale nell’ideale e il concreto nell’astratto, ma al contrario dando il primato dell’essere sul pensiero, del reale sull’ideale, dell’astratto sul concreto. Il rischio grave, infatti, come ha segnalato il Papa, resta sempre quello dello gnosticismo, per il quale «il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione e dei suoi sentimenti»[3], formando «un’enciclopedia di astrazioni»[4].
Quanto all’esigenza di una teologia affettiva o teologia mistica, essa esiste sin dai tempi dei Padri della Chiesa. Non si tratta di istituirla adesso, ma di affiancarla, come sempre la Chiesa ha fatto, alla teologia dogmatica e scolastica, che conservano sempre la loro necessità come forme essenziali dell’intelligenza cattolica, la prima curando la formazione spirituale e la seconda la formazione dottrinale.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 14 novembre 2022
L’idea dell’essere, la più ampia, astratta, comprensiva ed accogliente che abbiamo a nostra disposizione, luce che Dio stesso ci ha donato, è quanto di meglio la nostra mente può offrire al Dio della gloria, è il tempio nel quale accogliamo, sempre indegnamente, poveramente e inadeguatamente, tra tutti i nomi da noi nominabili, che Dio stesso si è scelto, il più bello e il più sublime, il meno indegno di Lui, nome che fra tutti Si è scelto per manifestarsi a noi in Cristo, che pertanto ha ricevuto «il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9). E questo nome è: Io sono. «Alzatevi, porte antiche, ed entri il Re della gloria» (Sal 23,9). Come a dire: ampliatevi, o trascendentali, e ospitate nel vostro piccolo orizzonte Colui Che È!
Astrarre con l’intelletto vuol dire allargare e potenziare la sua capacità d’intellezione e di comprensione, perché si tratta di prescindere dal caduco, dal corruttibile e da ciò che è troppo stretto per l’ampiezza del nostro spirito – ciò che è materiale – per sollevarsi da terra e salire al cielo. Dio non abita nei cieli? Se Cristo è disceso dal cielo, è solo perchè con lui dobbiamo salire al cielo, dove «lo vedremo così come Egli è» (I Gv 3,2).
Immagine da Internet: Dianella Fabbri, Salmo 23
[1] E per questo il Denzinger, checché ne dicano con scherno e supponenza i modernisti, resta sempre uno strumento base indispensabile per l’edificazione di una teologia che eviti l’eresia. Lo stesso dicasi del Catechismo della Chiesa Cattolica, che gli dà la misura e il criterio dell’essere cattolico.
[2] Secondo la visione che va da Platone ad Agostino a Bonaventura a Rosmini.
[3] Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, del 19 marzo 2018, n.36.
[4] Ibid., n.37.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.