La questione della teologia negativa - Non si tratta di abdicare all’intelligenza, ma di evitare la presunzione - Seconda Parte (2/3)

 La questione della teologia negativa

Non si tratta di abdicare all’intelligenza, ma di evitare la presunzione

Seconda Parte (2/3)

Come parlare di Dio 

Oggi spesso c’è chi non parla mai di Dio e c’è chi ne parla a ruota libera o in modo sbagliato o ingannevole, senza adeguata preparazione, per pura abitudine, senza prudenza, senza convinzione, senza discrezione, per convenienza, per vendere libri, per apparire un genio o un profeta, per puro dovere d’ufficio, per giustificare la licenza morale, per sollecitare la superbia o le passioni, per incitare all’odio, per creare divisioni, per bloccare il progresso, per sovvertire il buon costume e l’ordine sociale, per far perdere la fede e il senso del sacro. Sembra incredibile, ma è così. A tanto arrivano le astuzie del demonio e le risorse della doppiezza e dell’ipocrisia. Servirsi del teismo e magari della mistica per diffondere l’ateismo e l’immoralità.

L’uso della parola «Dio» è molto delicato. Questo uso è spontaneo nell’anima onesta e religiosa. Ma dev’essere anche imparato e praticato con discrezione, intelligenza, prudenza, saggezza, retta intenzione. In molte circostanze è meglio tacerlo. Non bisogna usarlo a sproposito o avventatamente o mossi dalla passione.

Sono rare le scuole di predicazione teologica. Si parla tanto di pastorale e di evangelizzazione, ma i contenuti bene spesso si limitano all’esegesi biblica, all’agiografia, all’aneddoto, al sociale, alla tematica umanistica o psicologica o alla morale. Lo stesso Ordine dei Frati Predicatori, nato apposta per questa bisogna, pare spesso essersi adagiato in questo andazzo corrente.

Per parlare opportunamente, sapientemente ed efficacemente di Dio, particolare attenzione si deve prestare al nome e ai nomi di Dio, cioè alle maniere o modi con i quali lo si deve nominare, a come, con quali nomi Lo si deve chiamare, quali termini occorre usare, per lodarlo convenientemente e per non offenderLo, per poter parlare di Lui dignitosamente come si conviene. Il che è come dire sapere che cosa si deve pensare di Lui, come concepirlo, quali proprietà assegnarGli e quali attributi conferirGli.

Ora esistono tre generi di attributi divini. Innanzitutto occorre distinguere quelli essenziali da quelli operativi. Quelli essenziali appartengono all’essenza e sono necessari, come l’infinità, la sostanzialità, la spiritualità, l’eternità, il pensiero, la sapienza, l’onnipotenza, la libertà, l’immutabilità, l’impassibilità.

Gli attributi operativi suppongono l’esistenza del creato, opera contingente dell’onnipotente libera volontà e della sapienza divine. Essi quindi non esisterebbero, se Dio non avesse creato il mondo. Essi sono l’esser creatore, provvidente, amorevole, giusto, leale, fedele e misericordioso[1]. Gli attributi operativi fondano gli attributi divini relativi all’uomo: l’intellegibilità, l’amabilità, la adorabilità, l’affidabilità, la credibilità, la temibilità.

Occorre porsi nell’orizzonte del linguaggio spirituale, per poter esprimere cose spirituali in termini spirituali (cf I Cor 2,13), sollevandosi dal livello carnale a quello spirituale, per non profanare o banalizzare le cose di Dio. Occorre un linguaggio tratto dalla metafisica e non dalla fisica. Si può prenderlo dalla psicologia, ma evitando gli antropomorfismi, perché Dio è puro spirito; non è un composto di spirito e corpo. Si possono usare certamente la metafora, il paragone, il simbolo, la poesia, l’analogia, la parabola, il mito, il paradosso, il racconto, ma facendo sempre in modo che la mente dell’ascoltatore salga dal sensibile all’immaginabile e dall’immaginabile all’intellegibile.

Nel parlare di Dio occorre evitare sia la timidezza, che fa incespicare, tergiversare, balbettare e farfugliare, sia l’audacia e la spericolatezza, che portano a spararle grosse e alle guasconate per far colpo sulla gente che resta a bocca aperta, ammirata per la genialità dell'oratore.

Il teologo che parla di Dio in modo pedestre e pedante, come se dovesse fare i conti della spesa o l’elenco delle auto in un parcheggio, faccia piuttosto il ragioniere o il vigile urbano. Il teologo che fa l’attore, si dia piuttosto al teatro. Quello che non sa altro che raccontare, si dedichi piuttosto a scrivere romanzi.

Chi tira in ballo l’emozione mistica, perché non sa imbastire un ragionamento teologico, è meglio forse che si dedichi a disciplinare la sua affettività sessuale. Il teologo che parla in modo astruso, si domandi se capisce egli stesso quello che dice.

Regole per far funzionare il principio di causalità. 

Fondamentale nel parlare di Dio è il sapersi destreggiare con l’uso dei primi princìpi della ragione speculativa, in particolare il principio di causalità, che è quello che conduce la mente alla scoperta dell’esistenza di Dio. Ora, bisogna sapere che il causare è proprietà trascendentale dell’ente, che abbraccia il poter causare e il causare per essenza. L’essere effetto, invece è un predicato categoriale che appartiene solo agli enti causati.

Volendo dimostrare al dubbioso l’esistenza di Dio, occorre mettersi d’accordo preliminarmente su che cosa s’intende con la parola «Dio» e si dice: con questa parola intendiamo «causa prima». Ci domandiamo allora: esiste una causa prima?

Nel rispondere a questa domanda, occorre rispettare le seguenti regole: 

1. La causa è superiore all’effetto e precede l’effetto.

2. La causa (il più) non può provenire dall’effetto (il meno) (contro Teilhard de Chardin).

3. La causa non sempre produce l’effetto, perché, come causa libera, può astenersene (contro Spinoza).

4. La causa eleva l’effetto, lo aumenta, lo sviluppa e lo fa crescere.

5. Non esiste solo la causa assoluta, ma anche la causa seconda (contro Severino).

6. La causa non può causare sé stessa (contro Cartesio).

7. L’effetto assomiglia alla causa, partecipa dell’essere della causa.

8. L’effetto può essere paragonato alla causa, è in armonia con la causa.

9. L’effetto è relativo alla causa. È ordinato alla causa.

10. L’effetto proprio è effetto di una causa necessaria e proporzionata.

11. L’effetto proprio è causato di per sé e non accidentalmente.

12. L’effetto è precontenuto virtualmente nella causa.

13. L’effetto è sufficientemente spiegato da una causa sufficiente (Leibniz).

14. L’effetto non è un semplice post hoc, ma è un propter hoc (contro Hume).

15. Il caso non esiste perché nega l’esistenza della causa del causato (contro Monod).

16. L’effetto non può contraddire alla causa e viceversa (contro Hegel).

17. Nessun effetto proviene dal nulla se non ciò che è creato dalla prima causa (contro il nichilismo).

18. Nessun effetto esiste da sé senza causa, perché ciò sarebbe contradditorio (Bontadini).

Una volta dimostrato che Dio esiste, ci si accorge che la causa prima non può che essere l’ente assolutamente necessario, che non può non esistere, un ente la cui essenza coincide col suo esistere. Infatti se non esistesse, nulla sarebbe spiegato, nulla esisterebbe. Egli dunque include l’esistere nella sua stessa essenza: se no, non sarebbe Dio, non sarebbe la causa prima.

E questa identità di essere e di essenza è la sua essenza. Ma questo lo veniamo a sapere dopo aver scoperto, mediante il principio di causa, che Dio esiste. Il predicato dell’esistere entra nella stessa essenza divina. Non è possibile concepire un Dio che non esista necessariamente. Ma questo lo sappiamo solo dopo aver dimostrato che esiste.

Quindi la famosa prova cosiddetta «ontologica» anselmiana dell’esistenza di Dio basata sul fatto che il concetto di Dio è il concetto di un ente necessariamente esistente, non prova affatto che Dio esiste effettivamente, ma suppone che si sappia già che in Dio l’essenza coincide col suo essere, cosa che si deduce o si viene a sapere solo dopo aver dimostrato per causalità (Rm 1,20) che Dio esiste.

La prova di Sant’Anselmo vorrebbe provare l’esistenza di Dio in base ad una sua proprietà essenziale, che si deduce dal sapere già che Dio esiste, ricavato dall’applicazione del principio di causalità, partendo dai visibilia di questo mondo (Rm 1,20).

Il problema della causa prima 

Cosa significa causare e che rapporto ha la ragione col causare? Causare vuol dire produrre, muovere, far essere, far passare dalla potenza all’atto, dal possibile all’attuale, dall’ideale al reale, determinare, ordinare, creare, attirare come scopo o fine.

La ragione, dal canto suo, è il potere dello spirito di ordinare e di conoscere deducendo, argomentando e motivando, adducendo appunto ragioni e rendendo ragione ossia spiegando il perchè di quello che fa o di quello che esiste. Essa, interrogandosi sul perché dell’esistenza delle cose, del proprio io, del mondo o dell’universo, accorgendosi che essi non possono essersi fatti da sé o autocausati, capisce con assoluta certezza che devono essere stati causati o creati da una causa sufficiente ed assoluta, non bisognosa a sua volta di essere spiegata e che essa chiama causa prima o «Dio».

Nasce così il teismo. Il politeismo invece è segno di una mentalità primitiva, immersa nell’immaginazione ed incapace di elevarsi al puro intellegibile, una mentalità rozza e sensuale, soggetta al regime del mito e non del logos.

Essa mostra sì un barlume di razionalità, assegnando una causa (il dio o l’idea platonica) ad ognuno dei grandi fenomeni della natura; capisce che ogni valore, ogni ideale deve avere un principio e un patrono; ma non riesce a ricavare per astrazione dagli enti la nozione dell’ente contingente universale e trascendentale, sì da domandarsi qual è la causa dell’ente contingente, qual è la causa o il principio (archè) del mondo.

Il politeismo denota un concetto insufficiente della divinità. Il vero Dio non può che essere uno solo. È vero che le grandi categorie dell’essere, i diversi valori o generi della realtà hanno ciascuno un loro principio. Ma non siamo ancora qui al livello del divino. Il vero Dio deve essere al di sopra di tutti i generi e spiegare la totalità delle cose, l’ente contingente come tale. Inoltre il vero Dio deve contenere virtualmente nella sua essenza tutte le perfezioni. Non può ammettere accanto a sé un altro dio che abbia ciò che non ha lui.

La ragione umana, pertanto, mediante un’applicazione radicale del principio di causalità che metta in gioco la causa dell’esistenza del mondo, giunge all’affermazione monoteistica, ossia dell’esistenza di un unico Dio Signore dell’universo, ma anche e soprattutto concepito come entità personale, in quanto creatore dell’uomo, al quale quindi l’uomo rende culto – ecco la religione - e obbedendo al quale l’uomo raggiunge la sua felicità – ecco la morale.

La ragione si accorge che Dio è «una sostanza spirituale singolare», come dice il Concilio Vaticano I (Denz.3001), cioè è persona, che ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Ma chi è questa persona? È possibile definirla? Sì, certo, la chiamiamo «Dio», perché è la causa prima e il fine ultimo dell’universo.

Noi possiamo definire le essenze specifiche, ma non quelle individuali. Le possiamo solo descrivere. Se definire per genere e differenza specifica ci è impossibile per la persona umana, figuriamoci per quella angelica o per quella divina! L’essenza specifica può essere astratta. Possiamo ricavare l’umanità dall’uomo, la divinità da Dio. Ma non possiamo astrarre l’individualità o, come la chiamava il Beato Duns Scoto, la haecceitas dall’hoc, perché l’individualità non è un universale.

Tuttavia riguardo alla questione di definire l’essenza o natura di Dio, possiamo prendere come genere il concetto dell’ente, e ottenere la differenza specifica dalla divisione dell’ente in finito e infinito, mutevole e immutabile, passibile e impassibile, spirituale e materiale, composto e semplice, sostanziale ed accidentale, assoluto e relativo, singolo e molteplice. Dio è un ente infinito, immutabile, impassibile, spirituale, semplice, assoluto, singolo e sostanziale.

Certamente, quello che possiamo fare è farci in questo modo un concetto giusto di Dio. Disponendo eventualmente già di un concetto generico di divinità, ricavato da un qualunque dio pagano, esso ci serve, dovutamente purificato e perfezionato, come pietra di paragone per distinguere il vero dal falso Dio.

Ma una volta che abbiamo capito qual è il vero Dio, ci viene allora il desiderio di conoscere la personalità divina nella sua propria originale identità e singolarità e di entrare in relazione con lei. Sappiamo che comunque la persona è di per sé intellegibile, si tratti dell’uomo, dell’angelo o di Dio.

Ma come porla davanti alla nostra intelligenza? Come intuirla? Chi abbiamo di fronte? Non possiamo concettualizzarla. Eppure riusciamo a riconoscere o a sentire[2] la presenza di Dio, a pregarlo, a parlargli. Sentiamo quando ci parla. Come ciò avviene? Sappiamo anche che il nostro intelletto coglie normalmente il singolare facendo appello all’esperienza sensibile. Ma davanti al puro spirito, angelo o Dio, dobbiamo trascendere tutto il sensibile e l’immaginabile – ecco la teologia negativa - ed esercitare il puro pensiero, il puro intelletto per metterci alla presenza del puro Spirito.

Ecco dunque le tre religioni monoteistiche, cristianesimo, ebraismo ed islamismo, accomunate nel culto dell’unico vero Dio, creatore del cielo e della terra, eterno, onnipotente, sapiente, giusto e misericordioso, e la possibilità di parlare all’unisono sul piano della teologia e della religione naturale, mentre tra tutte le religioni, quella cristiana ha da Dio la missione di istruirle e illuminarle tutte con la parola di Dio comunicata al mondo dal Figlio di Dio, Verbo incarnato e Parola del Padre, che, con la potenza dello Spirito Santo, elargisce abbondantemente i doni della grazia vincendo il potere delle tenebre.

Testimonianza del Dio della ragione e della religione naturale è il Dio Grande Architetto dell’Universo della massoneria. Il Dio massonico respinge l’ateismo come «stupidità» secondo le Costituzioni londinesi di Anderson del 1723, ma non è un Dio personale; è il simbolo della razionalità che governa ad un tempo la razionalità umana, che si esprime nella triade della uguaglianza, fraternità e libertà.

La massoneria non sposa nessuna delle rivelazioni vantate dalle religioni, ma nelle riunioni di loggia è aperto il «libro sacro», al quale ognuna delle religioni rivelata è libera di dare il contenuto che corrisponde alla propria fede. Tuttavia l’accezione massonica di Dio non dà valore oggettivo alla rivelazione divina, che non è considerata soprannaturale e sovrarazionale, ma una semplice contingente manifestazione culturale, perché la massoneria non ammette un sapere superiore alla ragione, cadendo quindi in una forma di gnosticismo.

Inoltre, non è difficile accorgersi – e di ciò certamente Hegel fu consapevole - che gli eventi e i fatti della natura e della storia sono causati, ordinati, organizzati, connessi, collegati fra di loro da nessi logici, anche quelli che sembrano disordinati, sconnessi, irrazionali o casuali. Anche il male, che pure sembrerebbe razionalmente inspiegabile e quasi assurdo, ha tuttavia una spiegazione, una causa. E per questo ha un rimedio e può essere tolto. La ragione ci può dire perché esiste e da dove trae origine il male. Più difficile se non impossibile è toglierlo con le sue sole forze.

 Kant alle prese col problema dell’esistenza di Dio 

Come è noto, Kant, con la sua famosa Critica della ragion pura, ha creduto di chiarire e fondare una volta per tutte mediante una riflessione della ragione su se stessa, l’oggettività, certezza e veracità del suo sapere, e quelli che sono i princìpi, i punti di partenza, i metodi, i limiti, l’ampiezza, le possibilità, i doveri, i diritti, le esigenze, gli scopi e la natura della ragione umana.

Il risultato è stato quello di dare un buon fondamento alle scienze della natura e dei fenomeni, nonchè alle scienze matematiche, ma ha fallito nell’edificare la metafisica, perchè ha trascurato di far uso della nozione comune dell’ente, ricavata per astrazione dalla esperienza dell’ente sensibile.

Mancandogli quindi la nozione dell’ente e ancor più dell’essere, ha perso di vista le proprietà trascendentali dell’ente e quindi dei princìpi primi della ragione speculativa, di identità, di causalità e di finalità, i quali enunciano i tre orientamenti fondamentali dell’ente: verso se stesso (identità), verso il principio (causa) e verso il fine (finalità).

Kant ha confuso il trascendentale ontologico col cogito cartesiano e quindi ha inaugurato un concetto di ragione chiusa nella propria autocoscienza, sicchè Kant non si è posto la questione fondamentale della causa ontologica della ragione, che è la stessa Ragione divina. In tal modo la ragione umana ha iniziato a considerarsi assoluta e dal concetto kantiano di ragione verrà fuori quello di Hegel, che identifica la Ragione tout court con Dio stesso.

Inoltre Kant, nel suo tormentato, faticoso e tortuoso interrogarsi per pagine e pagine circa l’esistenza di Dio, in mezzo ad intoppi, antinomie, fraintendimenti, incertezze, ipotesi, circoli viziosi, paralogismi, tentennamenti e barcollamenti, non riesce alla fine neanche a stabilire il concetto di causa prima, per cui c’è veramente da domandarsi che cosa ha scritto a fare un libro di 700 pagine come la famosa Critica della ragion pura per arrivare a negare l’esistenza di una causa prima, che è esattamente l’esito conclusivo, il porto sicuro del cammino della ragione naturale, comune a tutte le religioni, fallendo al quale la ragione fallisce nella ragion d’essere del suo esistere e del suo procedere verso la verità.

Kant, infatti, come è noto, non riesce a formarsi un concetto metafisico, analogico di causalità e rimane fermo alla causalità univoca del piano dei fenomeni. Per forza egli lamenta il fatto che non si può arrivare a Dio per via di causalità! Infatti è evidente che Dio non è un fenomeno.

Questo, almeno, Kant lo sa. Ma allora come mai egli non riflette sul fatto che esiste lo spirito finito? E questo in forza di che cosa possiede il suo essere? Di se stesso? Se così fosse, già questo sarebbe Dio. Ma se è finito, come fa ad essere Dio? É stupefacente che a Kant, in tutta la sua ricerca di 700 pagine non passi assolutamente per la testa di porsi un problema di tale genere, inevitabile per chi vuol scrivere un trattato completo sulla ragione.

Se chiedersi chi ha causato la causa prima non ha senso, molto sensato è il chiedersi che necessità c’è di porre una causa prima e se non si potrebbe retrocedere all’infinito nelle cause, tanto più che ciò non presenta alcuna difficoltà nelle cause fisiche.

Ma l’esigenza radicale che la ragione sente davanti all’esistenza del mondo e di se stessa, è quello dell’esistenza stessa del mondo e di se stessa. Non basta porre una catena di cause causate. La causa causata non spiega sufficientemente l’esistenza dell’effetto. Occorre porre una causa che sia solo causa. Questa è la causa prima. Occorre una causa che spieghi la totalità dell’effetto, quindi il suo stesso essere. Questa causa tutti la chiamano «Dio». Nessuno chiama la causa prima con un altro nome. Si può chiamare «Dio» una causa seconda, ma la causa prima tutti la chiamano «Dio».

Corrispettivamente la ragion pratica che muove la volontà richiede un fine ultimo dell’agire. Anche qui, tuttavia, si pone un problema simile a quello della causa efficiente: che bisogno c’è di ammettere un fine ultimo? Non è forse vero che l’uomo e gli agenti naturali, raggiunto un fine, ne perseguono un altro e così all’infinito? Non è forse vero che il progresso umano non ha mai termine? Indubbiamente, come nel campo dell’agire, del fare e dell’efficienza non ci sono preclusioni all’infinità delle cause del moto o del divenire, anche nel perseguimento dei fini non vediamo ostacoli o preclusioni a porre almeno come possibile o pensabile lo svolgersi di una catena infinita di fini finiti, un succedersi all’infinito di fini conseguiti a precedenti fini.

Dove l’agente dovrebbe fermarsi? E se si fermasse, non sarebbe la morte? Si può concepire un agente che non tenda ad un fine? Un ente che non agisca? Solo le astrazioni non agiscono, ma ogni ente reale agisce. Il problema è se può esistere un fine che quieta totalmente la forza attiva, la tensione, l’aspirazione o il bisogno dell’agente, così che esso sia totalmente soddisfatto, abbia compiuto tutto ciò che può fare e per cui esiste, così da non sentire il bisogno di cercare qualcosa di altro o di meglio. Certo, esiste un massimo o un ottimo, l’agente non può desiderare nulla di meglio una volta che l’abbia conseguito e ne sia entrato in possesso o l’abbia realizzato.

Lo spirito umano, pur essendo finito, non s’accontenta del finito e mutevole, ma ha bisogno di Infinito, di Eterno e di Assoluto. Ha bisogno di Dio. E se non considera Dio come l’assoluto, assolutizza la creatura o se stesso. Questo bisogno di assoluto, di un sommo bene o di un fine ultimo, diventa però malsano e funesto, se lo spirito umano desidera egli stesso diventare infinito o si considera egli stesso infinito. Questa è l’illusione più grave, della quale possa essere vittima l’uomo, illusione dettata dalla superbia e dal demonio. Da qui nascono tutte le filosofie atee, induiste, idealiste, panteiste e gnostiche.

D’altra parte, la causa prima deve possedere in modo infinito ed eminentissimo le perfezioni create che possono essere soggette ad un aumento infinito e quindi ad una perfezione infinita. Sono i valori dello spirito, perché quelli materiali, per quanto ingranditi, mantengono nella loro essenza un’imperfezione, come per esempio il divenire, la corruttibilità, la divisibilità propria dei corpi e cose del genere. 

Per questo, essi sono per essenza legati ad una limitatezza insuperabile. Possono essere solo precontenuti virtualmente nell’essenza della causa prima, identici ad essa; ma fuori di essa, esistenti in se stessi, non possono essere infinitizzati. Invece lo spirito finito è aperto ad una possibile infinitizzazione intenzionale mediante la conoscenza e l’amore. L’uno, il vero, il buono, il bello, il qualcosa possono essere infiniti. Da qui la predicazione teologica per eminenza, per la quale usiamo i superlativi assoluti.

Il nichilismo di Leopardi, secondo il quale tutto viene dal nulla e tutto torna al nulla è impressionante in una mente come la sua, pur così intelligente e sensibile, religiosamente educata da fanciullo. Si stenta a capire come una mente così acuta possa essere stata accecata da una simile stoltezza. Che cosa può essergli successo?

Fine seconda Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 giugno 2021

Invito a consultare:

3-4 Giugno 2021, Roma - Conferenza sulla teologia negativa per il XXI secolo

http://www.theologia.va/content/cultura/it/collegamenti/accademie-pontificie/teologia/archivioeventi.html 




 La causa (il più) non può provenire dall’effetto (il meno) (contro Teilhard de Chardin). 

 

 

 

La causa non sempre produce l’effetto, perché, come causa libera, può astenersene (contro Spinoza).

 

 

 

Non esiste solo la causa assoluta, ma anche la causa seconda (contro Severino).



 

 

 

 

 

Immagini da internet



[1] Sbaglia quindi il Card. Walter Kasper nel giudicare la misericordia attributo essenziale della natura divina. Vedi il suo libro Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo. Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2015.

[2] La fenomenologia di Husserl ha il termine Einfühlung. Riconosco una data anima, ne posso elencare le caratteristiche o proprietà mediante concetti e giudizi, posso farmene un concetto, ma non la colgo in un concetto, bensì in questo intuire o sentire. Così per Dio. Sento che è presente, lo riconosco, non però nel concetto, ma nell’intuizione, che non è intuizione della sua essenza, altrimenti avrei già la visione beatifica, ma è intuizione della sua presenza interiore.

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