Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 9 (1/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 9 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)

Bologna, 24 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

 

… appunto l’oggetto, il fine e le circostanze.

Ebbene, la moralità dell’atto umano interno è una sola e S.Tommaso ci spiega anche perchè è una sola, perchè dall’atto interno dipende ovviamente causalmente l’atto esteriore. E quindi è giusto che ciò che è principio sia più semplice del principiato o derivato. Quindi, la moralità dell’atto umano interno o meglio della parte interna dell’unico atto umano, deriva dal fine, unicamente dal fine, perché abbiamo visto che in fondo moralmente parlando l’atto umano è una unità.

Vedremo invece come la moralità dell’atto esterno deriva dalle altre due fonti, cioè dall’oggetto, che viene posto in qualche modo in atto, e viene realizzato nelle circostanze più o meno dovute. Quindi la moralità è tratta dall’oggetto e dalle circostanze.

Anzitutto, S.Tommaso in questo contesto della Questione 20, della I-II,  si chiede sempre se la moralità si trovi primariamente nell’atto interno della volontà.  Quindi qual è il principio della moralità, se primariamente la moralità è nell’atto interiore o nell’atto esterno. E comincia da questa distinzione, che ci accompagnerà lungo tutta questa Questione.

S.Tommaso dice che secondo il genere e le circostanze prese in se stesse, l’atto umano è specificato nella sua parte esteriore. Secondo il genere, determinato ovviamente dall’oggetto generico o specifico, si potrebbe dire che un atto umano è buono o cattivo ex genere; ma siccome ormai è invalsa un’altra la denominazione,  allora si parla appunto della moralità generica.

Ebbene, nel suo genere l’atto umano esterno è specificato dall’oggetto e poi ovviamente accidentalmente anche dalle circostanze. Così, per esempio, dare l’elemosina in circostanze dovute è sempre un bene, quanto all’esteriorità dell’atto. Invece il fine remoto, non il finis operis, che coincide con l’oggetto, ma il finis operantis, il fine per il quale l’agente agisce, e al quale rapporta la sua azione esterna, ebbene, questo fine è specificante rispetto all’atto interiore della volontà, come abbiamo d’altronde già visto nella Questione precedente.

Prendiamo l’esempio dell’elemosina, in vista di uno scopo veramente caritatevole. L’esempio dell’elemosina ci serve per riconoscere opportunamente una certa carità, così com’è malintesa popolarmente, ossia carità è fare del bene ai poveretti. Al contrario, carità è ovviamente la virtù teologale della carità, che deve unire l’anima con Dio. Quindi la stessa elemosina non sarebbe carità nel senso forte cristiano della parola, l’elemosina non sarebbe carità, se non fosse ordinata al bene spirituale del beneficiato.

Notate bene che i medievali sapevano ancora qual è la vera l’elemosina, forse anche perché la pratica dell’elemosina era più diffusa. Ebbene, l’elemosina è destinata non tanto come pensiamo noi a sollevare il poveretto dalle sue miserie materiali. Questa è la concezione fiscale e riduttiva dell’elemosina. Ovviamente consiste materialmente in questo; però il suo scopo è eminentemente spirituale, addirittura soprannaturale, cioè risollevare l’anima dalle sue pene e quindi rivolgerla, liberarla in qualche modo, in vista di Dio.

Se io do l’elemosina con questa finalità, ovviamente anche interiormente l’atto umano esterno è buono. Se io la dò invece con la finalità farisaica di farmi vedere e via dicendo, con ipocrisia, non c’è nessun dubbio che faccio del male a me stesso. Magari farò bene al poveretto, ma faccio molto male a me. Quindi l’azione umana risulta in qualche modo corrotta dalla parte interiore.

Ora, il fine è l’oggetto proprio della volontà, dimodoché la moralità, che l’atto esterno riceve dall’ordine al fine, si trova primariamente nell’atto interiore della volontà, e da esso deriva poi nell’atto esterno. Quindi notate bene, che la moralità derivante dal fine è quella che primariamente determina l’atto interno della volontà.

Quindi, questa moralità non è insita nell’atto esterno, ma semmai gli deriva dall’atto interiore. Quindi, io ho in animo, per esempio di fare l’ipocrita. Mettiamo che io sia un fariseo che fa suonare la tromba, proprio secondo il racconto evangelico. Mettiamo che io abbia questa intenzione farisaica e poi, in dipendenza da essa, cioè per farmi vedere, io ricorra all’elemosina con questa intenzione.

Ebbene, l’intenzione deriva all’atto esterno, non in virtù dello stesso atto esterno, ma gli deriva dall’atto interiore, che è concepito nella mente prima di porre l’atto esterno. Invece, la moralità, che l’atto esterno possiede in se stesso, per così dire per conto suo, è la moralità insita nell’atto esterno, quella che non gli è partecipata dall’interiorità della volontà, ma che esso possiede in sè, quella che anche S.Tommaso chiama materia morale, l’oggetto circa il quale l’atto si svolge, il fine dell’opera, che dà appunto consistenza specifica all’opera stessa, il fine dell’opera o l’oggetto o la materia da una parte e le circostanze dall’altra.

Ebbene, queste due fonti della moralità determinano quella moralità, che è insita nell’atto esterno, indipendentemente dall’atto interiore della volontà. Nell’elemosina c’è sempre questo: dare qualche bene temporale a una persona bisognosa e darlo in questa o quella circostanza. Quindi, questa moralità che è insita nell’atto esterno, non deriva all’atto esterno dalla volontà, cioè non gli deriva dall’atto interiore della volontà, ma semmai questa moralità dell’atto esterno, che lo qualifica in sè, la moralità cioè dell’oggetto e delle circostanze, diventa oggetto della ragione.

Cioè la ragion pratica presenta alla volontà quella determinata azione esterna, tipo l’elemosina, nell’esempio che abbiamo fatto, l’elemosina con cui raggiungere questo fine. Questa volontà ha i suoi fini, ha i suoi scopi, se volete. Essa o è buona, e allora vuole lodare e onorare il Signore, oppure è cattiva, farisaica, ipocrita, eccetera. Quindi la volontà ha già i suoi fini.

Poi la ragion pratica presenta che cosa alla volontà? O il fine caritativo per le persone sante, che danno l’elemosina proprio per quel fine, per il quale dev’esser data, cioè per sollevare i poveri e per dare onore a Dio. Oppure anche per un fine perverso.

L’elemosina può essere usata nell’uno e nell’altro senso. Però il fine che l’elemosina avrà, il fine dell’operante, si trova nella volontà dell’agente, non nell’atto esterno stesso. Nell’atto esterno c’è l’oggetto che lo specifica, dare qualche bene temporale al poveretto, al bisognoso, e darlo nella concretezza delle circostanze in cui mi trovo, in questo plesso di elementi, direbbe Padre Fabro, anche se è una parola poco piacevole.

Insomma, questo insieme di oggetto o materia e circostanze, come lo chiama qui S.Tommaso, non è tanto oggetto della volontà quanto piuttosto della ragione. Cioè la ragione concepisce in qualche modo, questo mezzo, questo mezzo, cioè questa azione esterna come un qualche cosa con cui la volontà poi potrebbe conseguire il suo scopo. Certamente poi entra tramite la ragione anche la volontà. Non c’è nessun dubbio. Quindi, per esempio, la volontà perversa vuole servirsi dell’elemosina, atto esterno, per dare gloria al benefattore e via dicendo.

Quindi, conclude S.Tommaso, se si considera la bontà dell’atto esterno secondo l’apprensione della ragione, cioè secondo la rappresentazione della ragion pratica, allora la bontà dell’atto esterno precede la bontà dell’atto interiore della volontà. Quindi bisogna pensare non all’atto tutto intero. Notate bene. Perchè sennò ovviamente il fine precede sempre i mezzi.

Però pensate esclusivamente a ciò che è in questione. In questione non è tutto l’insieme, fine e mezzo per raggiungere il fine, cioè l’atto esterno con il quale l’agente vuole conseguire ciò che intende nell’atto interiore della volontà. E’ in questione solo l’atto esterno.

Ora, se si considera la rappresentazione della ragion pratica, in qualche modo l’atto esterno, prima è determinato dall’oggetto e dalle circostanze, e solo in un secondo tempo avrà anche il fine per cui sarà posto in atto. Quindi, come prima cosa, la ragione mi presenta l’atto per quello che è semplicemente. La ragione è sempre in qualche modo nunzia, messaggera della verità. Cioè il suo scopo è quello di rappresentare le cose. Quindi la ragione mi rappresenta l’atto esterno nella sua moralità intrinseca, quella moralità che spetta all’atto esterno, in quanto è esterno, cioè la moralità della materia e delle circostanze.

E poi, in un secondo momento, nell’uomo santo l’elemosina assumerà anche la caratteristica della lode di Dio; invece, nell’uomo perverso assumerà la caratteristica dell’ipocrisia. Ma prima la ragione considererà ciò che è l’elemosina in sè obiettivamente, senza, per così dire, il secondo fine. Vedete come lo stesso parlare popolare fa vedere la secondarietà del fine. Il secondo fine, agire per secondi fini. C’è il fine per così dire primario, il fine dell’opera, ciò che è insito nell’opera stessa, e questo precede nella considerazione della ragione, e poi si aggiunge il fine dell’operante.

Per quanto invece riguarda la esecuzione dell’opera, cioè il mettere in pratica, fin qui c’era la specificazione, che è dovuta alla ragione, che presenta l’oggetto specificante alla volontà. Quindi, in quest’ordine di specificazione, di presentazione razionale, il fine dell’opera precede e il fine dell’operante segue.

Al contrario, nell’esercizio dell’atto, sotto l’aspetto esistenziale, se volete, cioè nel mettere proprio in essere, mettere in atto, in pratica come si suol dire l’atto esterno, ebbene nell’ordine quindi dell’esecuzione, del conseguimento, il fine dell’operante precede e in dipendenza da esso viene appunto posto in atto il fine dell’opera, cioè per esempio, appunto l’elemosina, cioè l’atto esterno in sé.

Quindi, tanto per restare in questo esempio, per quanto riguarda la rappresentazione razionale, l’uomo, santo o perverso che sia, vede sempre anzitutto, dalla parte della razionalità pratica, l’elemosina per quello che è in se stessa, così lucidamente la vede come è in sè, cioè un’azione benefica a favore del povero, in queste determinate circostanze.

Ebbene, poi però, dipenderà dalla sua volontà metterla in atto o no, volontà che a sua volta, è mossa dall’anima, lo abbiamo visto, psicologicamente. E’ importante questo aspetto. E’ la volontà che muove le facoltà all’esecuzione. Quindi, per quanto riguarda la messa in pratica, l’atto esterno deriverà dall’atto interiore, il quale atto interiore è specificato dal fine dell’operante.

Quindi, se a quell’uomo interessa veramente il fine dell’operante, con cui si connette l’opera particolare, l’atto esterno, allora metterà in pratica l’atto esterno. Per esempio, se una persona è molto devota di Dio, considerando ciò che è l’elemosina in sè e il suo valore spirituale, ovviamente si sentirà spronata a sollevare le miserie dei poveri.

Similmente una persona molto ipocrita, che ama farsi vedere, anch’essa si sentirà spronata per fini ben diversi a fare la stessa azione materialmente parlando, ma formalmente ovviamente la situazione morale è ben diversa.

Non pensate che S.Tommaso voglia qui in qualche modo ribaltare la situazione. Perchè a prima vista potrebbe quasi sembrare che in qualche modo l’opera esterna specificata dal fine prossimo preceda, per così dire, e poi segua solo il fine dell’operante, che invece, come abbiamo ben visto, è sempre la realtà più incisiva quella che fa dipendere da sè tutto il resto in moralibus.

Tutti i mezzi dipendono sempre dal fine. Pensate che qui si tratta non dell’atto umano nella sua integrità, per così dire, ma solamente dell’atto umano esterno. E S.Tommaso insiste su di una cosa molto importante. E cioè che l’atto umano esterno ha una moralità sua insita in esso e indipendente dai fini più o meno edificanti che ci mette la volontà.  

Di nuovo torna questo realismo tomistico, che trova quindi la sua controparte morale nel realismo epistemologico. Siccome S.Tommaso è convinto che noi non proiettiamo interiormente la verità nelle cose, ma riconosciamo le cose vere come sono in se stesse; similmente nell’agire umano, certamente ci sarà anche il rapportare il nostro agire esterno a dei fini, che conserviamo dentro di noi, nel segreto del nostro cuore, in pectore, come si dice.

Ma anzitutto sarà da considerare che ogni azione esterna, prima ancora di essere rapportata dall’agente al suo fine interiore, è già moralmente qualificata in se stessa. Non è quindi possibile dire: io ho voluto far bene, ho avuto tante, tante belle intenzioni; sì, mi è capitato di svaligiare una banca, ma ho voluto far bene. Non è possibile.

… Robin Hood allora …

Prego.

… Robin Hood non va bene …

            No! Robin Hood effettivamente non va bene. Così pure, ci sono altre cose, diciamo così, che fanno ancor più pensare. Per esempio, ho in mente la vicenda, che Dostoevskij narra in Delitto Castigo: vi ricorderete il fatto di quella ragazza che si prostituisce per salvare la famiglia praticamente dalla fame.

E certamente Dostoevskij fa vedere che ci sono veramente dei valori non indifferenti nell’anima di questa figliola, e non c’è dubbio perchè, notate bene che anche il peccato talvolta può essere occasionato[1]. Non per questo, mi raccomando, bisogna dare retta a Dostoevskij. Voglio dire che Dostoevskij non ha ragione in relazione all’articolo presente[2].

 Però, questa vicenda vi illustra bene il fatto che proprio in ogni peccato non c’è solo del male, ma c’è sempre anche qualche disposizione buona e spesso anche generosa. Quindi, quindi in questo caso descritto da Dostoevskij, c’è una notevolissima parte, umanamente e moralmente buona dell’atto interiore, del fine per il quale si agisce. Però ciò non toglie che l’atto esterno sia effettivamente abbominevole in sé. Prego

… nel caso per esempio dei Contras …

 

Carissimo, non stuzzicarmi. Va bene, figliolo mio? Non stuzzicarmi troppo. Perché tu sai che in materia politica sono abbastanza irascibile. Coraggio, dimmi, dimmi, caro, dimmi.

… i Contra …

Tu conosci bene la soluzione, caro Fra Giuseppe. Quindi tutto dipende da come si risponde alla domanda: è una insurrezione giusta, sì o no?

Noi sappiamo bene la risposta teoricamente.  In praxi è molto difficile giudicare, io non sono stato sul posto. Quindi non posso verificare e anche se ci fossi stato, avrei qualche perplessità morale.

E’ sicuro, come dice il nostro Dottore Angelico nel De regimine principum, che bisogna diffidare sempre da coloro che, quando fanno un attentato, si dichiarano prigionieri politici, nel senso che ovviamente ogni cittadino poco onesto, come prima cosa, proprio per la sua scarsa onestà, se la prende con lo Stato.

Quanto ha ragione il caro S.Tommaso in questa analisi della psicologia del cittadino poco onesto. Egli tende in qualche modo a proiettare la sua insufficienza, anche morale, sul bene comune. Quindi, se le cose vanno storte, non è colpa mia, ma è la colpa dello Stato. Quindi, naturalmente non basta che uno si proclami detentore degli interessi del popolo, perchè un’insurrezione, un moto certamente violento, sia in fondo buono e santo.

E’ però sicuro che esistono delle insurrezioni giuste. Di queste parla S.Tommaso, e ne parlò anche Pio XII rispetto all’insurrezione ungherese. Ne parla anche Paolo VI nella Populorum Progressio, che sarà commemorata adesso in questi giorni. In sostanza ormai si tratta di un patrimonio comune della Teologia Morale. E allora, vedete come di nuovo si differenzia un’azione, che di per sè diventa moralmente disonesta, se esercitata da un privato, da un’azione che viene coonestata, se esercitata dal potere pubblico.

In un caso ripugna alla ragione, ma non a quella soggettiva. Per esempio, io dico: a me non piace che le Brigate Rosse spargano del sangue. Certo, è sempre stomachevole. Però in qualche modo non è questione di gusti personali. Si tratta del fatto che il cittadino privato non ha quel potere, che invece ha chi rappresenta il bene comune.

Quindi la grossa questione è questa: per coonestare moralmente questi atti di violenza politica o di guerra civile, bisogna che il moto insurrezionale rappresenti veramente, al di là di ogni dubbio morale, la volontà della popolazione. Occorre cioè che, in qualche modo, la sovranità passi dal governo costituito ufficialmente, al moto insurrezionale. In quel senso, in quel caso effettivamente è lecito. Prego.

… ti ho fatto domanda … l’esempio che hai portato tu ... effettivamente chi sta per morire di fame …

No. Lì è diverso, mio caro. Bisogna, miei cari, che noi riconosciamo che su queste vicende della politica, non c’è sufficiente chiarezza. Perché al giorno d’oggi i nostri cari politici si possono ancora considerare dei moralizzatori? Non lo so. Comunque, si rendono troppo facile il lavoro.

Per esempio, i nostri aggiornati dicono semplicemente che uccidere è sempre illecito. Naturalmente saranno in buona fede. Per carità. Non ho sufficientemente approfondito le sottigliezze della morale politica. A me però pare che nell’Antico Testamento il Signore addirittura esorti a uccidere. Non so se mi spiego.

Quindi mi pare che sia abbastanza difficile mettere questo divieto assoluto di uccidere addirittura in rapporto con la stessa Parola di Dio. E sono delle scappatoie quelle che dicono che l’Antico Testamento è tutto un regime teocratico, perchè allora non si capisce come Dio, che è ovviamente somma bontà, possa ordinare la lapidazione, non come eccezione, ma ordinariamente proprio come norma, come una pena moralmente buona[3].

Quindi, con ogni probabilità la stessa Rivelazione Divina ci fa capire che il rapporto del singolo alla società è oggettivamente diverso dal rapporto che c’è tra il singolo e il singolo. Tale rapporto non dipende dall’arbitrio dell’uomo. Si distingueva benissimo chi è il detentore del bene pubblico, da colui che invece è il privato cittadino.

Quindi, quell’azione che, se esercitata dal privato, materialmente parlando, è assolutamente disonesta, diventa diversa già sul piano materiale dell’azione esterna, se esercitata dal pubblico ufficiale. Se, per esempio, io mi prendo una vendetta, perchè mi fanno visita i rapinatori, e io li metto in fuga, mettiamo che io sia un orefice coraggioso. Per fortuna ci sono ancora alcuni, che hanno la doppietta nel retrobottega, e quindi difendono non solo i loro beni, ma anche in fondo, per una certa ridondanza, il bene comune, incutendo una salutare paura a questi, a questi birbanti.

Ebbene, se egli in qualche modo li mette già in fuga e poi però loro, mentre scappano, sono ancora oggetto delle sue attenzioni, tipo doppietta che spara ancora durante la fuga, certo questa è un’azione esteriore, per la quale un cittadino privato spara ad un altro cittadino privato, al di fuori del caso della necessità di tutelare praticamente quel bene, che è stato ingiustamente aggredito.

Allorchè nell’atto dell’aggressione, l’aggressore rinuncia al suo diritto di essere rispettato, se il proprietario, per esempio, che difende i suoi beni e anche implicitamente la sua vita dall’aggressione, uccide l’aggressore, non pecca assolutamente, proprio dalla parte dell’atto esterno e n. Non è solo in rapporto al fine.

E questo però non vale là dove non c’è più il cum moderamine inculpatae tutelae, cioè dove non c’è più l’atto di aggressione, dove insomma l’aggressore è stato ormai debellato. Se però i carabinieri si mettono all’inseguimento di quel tale, gli intimano l’alt, quello lì non si ferma, loro gli sparano e lo uccidono, non peccano, assolutamente, neanche per sogno.

E’ proprio di nuovo, per lo stesso oggetto insito nell’azione esterna, non per la intenzione pia del carabiniere di difendere lo Stato, ma per la bontà insita, diciamo, nella funzione sociale stessa del carabiniere, del tutore dell’ordine pubblico, tale funzione è appunto quella di difendere la convivenza pacifica dei cittadini.

Quindi, in questi casi del rapporto tra bene privato e bene comune, c’è una divergenza insita nell’oggetto stesso, cioè nel fine dell’opera, non nel fine dell’operante, che distingue proprio il caso di una violenza privata dal caso di una violenza pubblica. La difficoltà ovviamente si presenta c’è nelle situazioni insurrezionali.

Allora, tutta la domanda morale si riduce solo a chiedersi se il movimento insurrezionale è moralmente investito della sovranità oppure no. Se così è, allora per questo movimento diventa legittimo tutto quello o quasi che, potrebbe fare uno Stato in guerra, con un nemico esterno.

Invece un caso ovviamente come quello che ipotizzavo dal libro di Dostoevskij, è carico di tutta un’emotività in fondo convincente. Però, non c’è nessun dubbio che lì, dalla parte del fine prossimo c’è sempre e comunque disonestà. Cioè non c’è obiettivamente nell’ordine dei fini, diciamo così, immediati, un fine che potrebbe dare onestà a questa azione.

Nemmeno un fine sociale: non solo se la famiglia dovesse, mettiamo, morire di fame, ché poi la situazione non è mai così drammatica, ma anche se lo Stato dovesse essere salvato tramite un’azione disonesta di questo tipo, non sarebbe lecito. Questo pone un grosso problema per esempio riguardo ai servizi segreti. Quali sono i mezzi dei quali si possono, per tutelare il bene comune e quali invece sono i mezzi che sono loro vietati?

Per esempio, è chiaro che se non c’è guerra aperta, non è lecito che si ammazzi l’avversario. Mi pare che sia un mezzo illecito. Similmente così la prostituzione, largamente sfruttata in questo campo, ovviamente anche questa risulta sempre illecita, persino se la salvezza della patria da questo dovesse dipendere. Perché il bonum honestum, in sostanza, ha le sue esigenze. Quindi, nemmeno il bene pubblico potrebbe rendere onesta un’azione intrinsecamente disonesta. Però ci sono delle azioni che intrinsecamente sono disoneste, se poste da un cittadino privato; diventano invece intrinsecamente e obbiettivamente oneste, se poste da pubblici ufficiali in determinate circostanze.

In questo senso bisogna sempre tenere in buon conto quella che è la moralità scaturiente dall’oggetto stesso, che qualifica l’azione esterna. Non bisogna dire, insomma: all’esterno mi è capitato un incidente, però con le migliori intenzioni di questo mondo.  

Un altro articolo è quello che distingue la duplice moralità. Fa vedere come la moralità dell’atto esterno è parzialmente autonoma rispetto alla moralità dell’atto interiore. Quindi non tutta la moralità dell’atto esterno dipende da quella dell’atto interiore. Insomma nell’atto esterno c’è un qualcosa di proprio, che si sottrae alla bontà del fine, che qualifica l’atto interno.

Quindi, nell’atto umano complessivo globale ci sono queste due moralità: la moralità dell’atto esterno, che deriva dalla materia e dalle circostanze; e la moralità dell’atto interno che deriva dal fine dell’operante. S.Tommaso di nuovo fa ricorso al suo prediletto assioma bonum ex causa integra, malum ex quocumque defectu. E quindi dice che certamente, se è buono il fine dell’operante e si esercita nella materia dovuta e nell’ambito delle dovute circostanze, tutto l’atto umano risulterà buono e onesto. Però, basta che una sola di queste fonti di moralità sia corrotta, perchè tutto l’atto umano sia cattivo.

Quindi, bisogna che siano corrette le circostanze, che sia corretta la materia dell’atto e che sia corretto il fine per il quale si agisce. Come è un’azione moralmente corrotta quella di dare l’elemosina, atto esterno buono, per un motivo interiore disordinato, per esempio vanagloria, così è altrettanto disordinato fare un’azione esteriormente sbagliata, per esempio prostituirsi, con un fine buono, assicurare il bene economico della famiglia.

Quindi, in sostanza, bisogna che sia buono tutto, che siano buone le circostanze, la materia e il fine. E qui vedete che non tutta la moralità dell’atto complessivo dipende dalla sola volontà. Non basta volere. Bisogna volere e agire bene. Cioè bisogna che la volontà, che è motrice delle facoltà, a livello dell’azione, muova a un’azione esterna, che a sua volta sia buona. Quindi bisogna che tutto sia in una armonia del bene, cioè che sia buona sia la volontà interiore che l’atto esterno, che essa pone in atto.

La moralità dell’atto interiore ed esterno coincidono in una sola moralità dell’atto umano. Quindi in fondo nella moralità dei due atti, per quanto sia una, l’una però non è del tutto riducibile all’altra. E’ quello che S.Tommaso vuol dire in questo articolo. Abbiamo visto infatti come l’atto esterno ha una sua moralità insita, interna, che gli è propria e che non è riducibile alla volontà. Tuttavia sempre avviene che una moralità è ordinata all’altra.

Quindi, in ogni atto umano complessivo, in cui c’è un risvolto interno ed esterno, in ogni atto umano composto da una parte interna e da una esterna, c’è sempre un ordine, tra l’una e l’altra moralità. E ovviamente il fine prossimo, nell’ordine finalistico, è sottoposto al regime del fine remoto. Quindi, vedete che la volontà, l’atto interiore, fa dipendere da sè l’atto esterno con la sua moralità più particolare.

Quindi, per esempio, l’uomo santo vuole appunto dare lode a Dio. Questo è il suo fine remoto. Poi ci pensa: come posso onorare il Signore? Non so, tramite digiuni, tramite preghiere, tramite elemosine? Siamo in Quaresima, sono cose buone, quindi, da ricordarsi. Ebbene, in qualche modo l’uomo santo mura anzitutto al fine remoto, lodare Dio, e poi a questo fine remoto ordina ovviamente dei fini particolari, che poi qualificano il suo agire esterno: le diverse penitenze, i benefici elargiti al prossimo, e via dicendo.

Quindi, in qualche modo la moralità dell’atto esterno, per quanto sia consistente, tuttavia è fatta dipendere dall’atto interiore. Quest’ultimo fa dipendere da sè la moralità dell’atto esterno. E qui però possono verificarsi due casi. E S.Tommaso fa un esempio, che esula, diciamo così, largamente dalla morale, però illustra bene questa vicenda

Si tratta cioè, dell’esempio, a cui spesso ricorre, della medicina amara. Dice che in fondo, se uno vuole guarire, è in grado di assumere anche delle medicine amare. Di per sè non trova nessuna bontà nella medicina, Così pure, un’operazione chirurgica è sempre un fastidio.

Non penso proprio che ci sia un paziente, a meno che non sia un malade imaginaire, che si compiace effettivamente di essere curato. Insomma, all’infuori dell’ipocondria, tuttavia penso che ogni altro uomo correttamente disposto si rifiuterà di per sé, di sottoporsi a delle operazioni chirurgiche o a medicine amare e difficili, eccetera.

Quindi, non scorge nessuna bontà nel mezzo. Però scorge una grande bontà nel fine, cioè nella sua guarigione. E quindi, in qualche modo, tutto il bene si trova non nel mezzo, ma solo ed unicamente nella guarigione. Tutto il bene di quell’azione, che il paziente vuole, sottoponendosi all’operazione per avere la guarigione, tutto il bene c’è solo dalla parte della guarigione.

Ovviamente si parla non del bene fisico, ma del bene nell’intenzione del paziente. Cioè, il paziente, nella sua intenzione, non scorge alcun bene nell’operazione chirurgica, ma tutto il bene lo vede solo nella sua guarigione e ha ragione a considerare così le cose.  

Però, osserva S.Tommaso, e se succedesse che una medicina, benchè ahimè succeda abbastanza di rado, avesse anche un sapore gradevole? Che cosa ci sarebbe?  ci sarebbe una duplice bontà. Ci sarebbe la bontà della guarigione, ovviamente, ma anche la bontà intrinseca della medicina. Quindi, uno proprio così sarebbe portato a usare della medicina anche al di fuori della necessità di guarire.

Questo esempio, che ovviamente vale quel che vale, illustra bene la situazione, che invece è molto importante e cioè la situazione degli atti umani che sono al limite atti indifferenti nella loro consistenza di atto esterno e quindi indifferenti per quanto riguarda la materia e per quanto riguarda le circostanze. Fare una passeggiata in circostanze dovute è sempre una cosa indifferente.

In queste azioni, come abbiamo già visto, tutto dipenderà dal fine dell’operante. Se uno agisce per curare la sua salute, l’azione sarà moralmente onesta; ma se uno agisce per andare a trovare i suoi complici a svaligiare una banca, evidentemente la passeggiatina risulterà, come dire, un po’ meno salutare, almeno nel senso morale della parola.

Quindi in sostanza ci sono delle azioni che in partenza, come la medicina amara, che non possiede in sè nulla di buono, non possiedono in sè nessuna qualifica morale, non sono nè buone nè cattive. Cioè la ragion pratica non può rappresentare l’azione esterna nè come buona nè come cattiva, la lascia in specie indifferente. E lì tutta la moralità ovviamente deriva unicamente dall’atto interiore, cioè dalla volontà e dal fine, per il quale la volontà dell’agente appunto agisce.

Nel caso invece, in cui c’è nell’atto esterno una moralità propria, ovviamente le due moralità si distingueranno l’una dall’altra, anche se l’una dipenderà dall’altra, cioè la moralità dell’atto esterno in qualche modo sarà avvolta dalla moralità dell’atto interiore. Quindi, in questo caso effettivamente c’è una moralità insita anche nell’atto esterno, irriducibile a quella sola dell’atto interiore. E quindi l’unico atto, moralmente fatto di due parti, quasi di forma e di materia, direbbe S.Tommaso, per analogia con il sinolo, non trova una analogia migliore di quella.

Ebbene, la parte formale, quella dominante, è data dall’atto interiore della volontà, dal fine. E la parte materiale, ciò che quasi per ridondanza riceve questa moralità interiore, è appunto l’atto esterno con la sua moralità estrinseca, che sono appunto la materia e le circostanze.

Questo, per quanto riguarda il rapporto della duplice moralità o meglio delle due componenti dell’unica moralità dell’atto umano. Un’altra domanda, abbastanza vexata quaestio, è questa: se l’atto esterno aggiunga una certa moralità all’atto interiore. Abbiamo visto che l’atto interno fa dipendere da sé l’atto esterno, con la sua moralità. Quindi l’intenzione dell’agente ridonda sull’azione esterna che pone. Per esempio, mettiamo che un uomo abbia una grande intensità dell’amore di Dio e faccia poi l’elemosina per amore di Dio.

Ebbene, l’atto intrinsecamente buono di elemosina è tutto pervaso, come imbevuto, imbibitus dicono gli Scolastici, tutto come pervaso e permeato da questa moralità dell’intenzione interiore dell’agente. Quindi si potrebbe quasi dire che le due moralità si fondono in un’unica moralità come il composto di materia e forma, forma che dà adito appunto in qualche modo ad un’unica sostanza. Quindi l’atto umano è sostanzialmente uno quanto alla sua moralità, però con questa dualità di dimensioni, la dimensione dell’atto esterno e quella dominante dell’atto interno.

Adesso invece S.Tommaso si chiede se proprio la consistenza dell’atto esterno è tale da modificare la globalità della moralità dell’atto umano, cioè se l’atto esterno si aggiunge a quello interno. E qui direi quasi che ciò esula dall’analogia con il sinolo di materia e di forma[4]. Perchè la materia, se ci pensate bene, non è che aggiunga un contenuto alla forma; ma l’essenza è tutta determinata dalla forma. La materia aggiunge solo un principio individuante, che frantuma la forma in tanti sostrati numericamente distinti.

Invece qui S.Tommaso tende a dire che la parte materiale dell’atto umano, cioè l’atto esterno, costutuisce proprio un’aggiunta all’atto interiore. Comunque lo vedremo poi. Adesso, dobbiamo vedere, secondo la distinzione tomistica, sia dalla parte dell’atto interno, se l’atto può essere modificato dall’atto esterno, sia poi dalla parte dell’atto esterno, se l’atto aggiunga qualche cosa di nuovo all’atto interno.

Per ora riposatevi durante i vostri ben meritati cinque minuti.

Fine Prima Parte

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 23 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 9 febbraio 2017
 


Tutti i mezzi dipendono sempre dal fine. Pensate che qui si tratta non dell’atto umano nella sua integrità, per così dire, ma solamente dell’atto umano esterno. E S.Tommaso insiste su di una cosa molto importante. E cioè che l’atto umano esterno ha una moralità sua insita in esso e indipendente dai fini più o meno edificanti che ci mette la volontà.  

Di nuovo torna questo realismo tomistico, che trova quindi la sua controparte morale nel realismo epistemologico. Siccome S.Tommaso è convinto che noi non proiettiamo interiormente la verità nelle cose, ma riconosciamo le cose vere come sono in se stesse; similmente nell’agire umano, certamente ci sarà anche il rapportare il nostro agire esterno a dei fini, che conserviamo dentro di noi, nel segreto del nostro cuore, in pectore, come si dice. Ma anzitutto sarà da considerare che ogni azione esterna, prima ancora di essere rapportata dall’agente al suo fine interiore, è già moralmente qualificata in se stessa. Non è quindi possibile dire: io ho voluto far bene, ho avuto tante, tante belle intenzioni; sì, mi è capitato di svaligiare una banca, ma ho voluto far bene. Non è possibile.


Quindi, bisogna che siano corrette le circostanze, che sia corretta la materia dell’atto e che sia corretto il fine per il quale si agisce. Come è un’azione moralmente corrotta quella di dare l’elemosina, atto esterno buono, per un motivo interiore disordinato, per esempio vanagloria, così è altrettanto disordinato fare un’azione esteriormente sbagliata, per esempio prostituirsi, con un fine buono, assicurare il bene economico della famiglia.

Quindi, in sostanza, bisogna che sia buono tutto, che siano buone le circostanze, la materia e il fine. E qui vedete che non tutta la moralità dell’atto complessivo dipende dalla sola volontà. Non basta volere. Bisogna volere e agire bene. Cioè bisogna che la volontà, che è motrice delle facoltà, a livello dell’azione, muova a un’azione esterna, che a sua volta sia buona. Quindi bisogna che tutto sia in una armonia del bene, cioè che sia buona sia la volontà interiore che l’atto esterno, che essa pone in atto. 

Immagini: Padre Tomas Tyn, ospite delle Suore Domenicane di Santa Caterina (Bologna)


[1] Cioè qui il peccato non è voluto di per sé, ma per un fine buono.

[2] Di S.Tommaso.

[3] Indubbiamente a quei tempi c’era in buona fede la convinzione diffusa che simili punizioni fossero volute da Dio. Ma occorre distinguere nell’etica biblica le leggi divine, come tali, assolute ed immutabili, da quella legislazione mosaica, creduta anch’essa immutabile, che viene in buona fede associata a quelle leggi assolute, senza rendersi conto del naturale progresso della coscienza morale, basato appunto sulla esplicitazione delle esigenze dei princìpi assoluti nel corso della storia.

[4] Si tratta dell’atto umano.

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