Il Dio dialettico - Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole inserire il male in Dio e scagionare l’uomo - Seconda Parte (2/4)

 

Il Dio dialettico

Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole

 inserire il male in Dio e scagionare l’uomo

 Seconda Parte (2/4)

 Il Dio peccatore di Von Balthasar

L’impresa di Von Balthasar si presenta grandiosa ed originale: una teologia della glorificazione di Dio, nella quale Dio appare nella categoria della bellezza, non una theologia gloriae contro la quale polemizzava Lutero, per la quale il teologo glorifica se stesso e non Dio.

E a questa teologia Lutero contrapponeva la theologia crucis di San Paolo. Infatti, come si esprime San Giovanni, la gloria di Cristo consiste proprio nella sua croce, nel suo sacrificio per la remissione dei peccati. Per essa Cristo ha vinto la morte mediante la sua morte.

Un documento significativo in questo senso, che si rifà a Von Balthasar, è l’articolo di Maurizio Cecchetti Con l’incarnazione Dio salverà la creazione, apparso su Avvenire del 3 febbraio scorso[1]. La cosa interessante di questa teologia è che vorrebbe parlare in nome di un Dio misericordioso che non castiga nessuno.

La cosa appare molto allettante, giacchè la prospettiva o l’eventualità di precipitare per sempre in un luogo di terribili e indicibili supplizi senza aver più la possibilità di liberarsene non attira nessuno. Nel contempo però potremmo chiederci: quanti sono, tra noi coloro che vedono in Dio il loro sommo bene e il fine ultimo della loro vita? Quanti sono coloro che tutto quello che fanno lo fanno in vista di raggiungere in cielo la beata visione di Dio? Quanti sono quelli che prendono sul serio i suoi comandamenti? Quanti sono quelli che sono pronti a lasciare tutto pur di non perdere Dio? Quanti sono coloro che al di sopra di tutto vogliono fare la volontà di Dio ed essere graditi a lui? Quanti sono quelli che, pentiti dei loro peccati, vogliono tornare a lui? Quanti sono quelli che non possono vivere senza la sua compagnia? Senza essere da Lui approvati? Quanti sono quelli che Gli chiedono aiuto nelle difficoltà? Quanti sono quelli che temono il giudizio divino e i suoi castighi e si convertono alle sue minacce e ai suoi avvertimenti?

Ebbene, teniamo presente che la pena dell’inferno non è altro che la conseguenza logica del rifiuto del sommo bene, di quel bene eterno per il quale siamo fatti e nel quale solo troviamo il senso ultimo della nostra vita e la nostra eterna felicità. È giusto Dio nel castigarci se noi disobbediamo a quei suoi comandamenti praticando soltanto i quali noi siamo liberati dalla sofferenza, dalla morte e da ogni male.

Coloro che ritengono che Dio non castiga nessuno credono di possedere il vero concetto della bontà divina rispetto a coloro che invece credono che Dio predestina al paradiso soltanto alcuni da Lui scelti, mentre giudica i ribelli meritevoli di condanna infliggendo a loro una pena eterna. 

Costoro che pensano in tal modo si ritengono evidentemente più misericordiosi di Gesù Cristo, il quale viceversa nel giorno del giudizio, dirà ad alcuni: «via da me, maledetti, nel fuoco eterno!». Costoro dovrebbero chiedersi se per caso nel loro modo di pensare c’è qualcosa che non va.

Il loro errore infatti sta nel credere che il punire sia un atto di malvagità, una crudeltà, un far violenza. Essi non si chiedono se possa esistere una punizione giusta e meritata. Per loro il punire come tale, ossia il far seguire al peccato una pena quale che sia è con ciò stesso una cosa ingiusta, mancanza di bontà e di misericordia.

Ma d’altra parte, se la sofferenza non viene da Dio, se non ce la manda Lui, se non la accogliamo fiduciosamente dalle sue mani paterne, se non sappiamo riconoscere in essa il castigo divino del peccato originale e dei nostri peccati, un’occasione offertaci da Dio per espiare in Cristo le nostre colpe, diventando figli di Dio, considerando che a nulla valgono i nostri mezzi umani per liberarci dalla sofferenza, quale risposta migliore al perché della sofferenza di quella che ci viene dalla fede cristiana, una risposta ragionevole e luminosa, benché velata dal mistero, una risposta che ci fa intravedere al fondo di essa un mistero d’amore divino, una risposta tale da consolare il nostro animo affranto e smarrito, una risposta tale da darci la forza di contrastarla con speranza, da trasformarla a nostro vantaggio e darci pazienza e serenità?

La teologia di Von Balthasar, che pone l’origine del male nonché la tragedia della morte e del peccato in associazione col mistero dell’Incarnazione e della Redenzione nel cuore stesso del mistero trinitario, quasi a costituirne l’essenza, alla maniera di Hegel, ci porta a domandarci se o quanto egli accetti il creazionismo e il realismo biblici, come lo troviamo per esempio in un San Tommaso; ci chiediamo se e quanto egli accetti, col concetto di un mondo prodotto dalla volontà divina esterno a Dio, col bene e il male che vi abita e quindi un inferno e un paradiso come mondi esterni a Dio,  e quanto invece il mondo del bene e del male, del paradiso e dell’inferno non siano interni alla stessa essenza divina alla maniera di Hegel. Confondendo gli inferi con l’inferno, Von Balthasar sostiene che Cristo discese all’inferno portando con sé l’umanità per condurla in paradiso.

In realtà la «teodrammatica» balthasariana fa pensare che Von Balthasar propenda più per Hegel che per San Tommaso, se non avessimo i suoi scritti agiografici e di mistica, che controbilanciano e fanno invece pensare alla concezione ortodossa della distinzione fra Dio e il mondo, che scagiona quindi Dio dalla colpa del male e la addossa, come è doveroso, soltanto al mondo.

Ma l’ambiguità resta e occorre fare uno sforzo per interpretare in senso cattolico, Siamo però incoraggiati in ciò dalla critica che Von Balthasar fa al panteismo hegeliano di Rahner. Ma prima di affrontare direttamente Von Balthasar, vediamo i precedenti storici della concezione dialettica di Dio. Siamo condotti alla Kabbala.  

Il Dio della Kabbala va contro se stesso per riconciliarsi con sé

Siamo abituati a considerare la Kabbala come un qualcosa che non meriti alcuna considerazione, un insieme di scritti astrusi e stravaganti, intricati e incomprensibili, tanto che il termine «cabala» è popolarmente sinonimo di «intrigo» o «imbroglio». Che cosa diremmo se nella Kabbala, che significa «tradizione», trovassimo le idee degli gnostici, di Scoto Eriugena, di un Nicolò Cusano, dei pensatori del Rinascimento, di Giordano Bruno, della massoneria esoterica, di Fichte e di Hegel?

In realtà la Kabbala non è altro che un filone di pensiero ebraico, nato nei primi secoli prima di Cristo, che sempre ha accompagnato la storia del pensiero rabbinico, in un continuo confronto-scontro dialettico a contatto con la Scrittura e al contempo con altri motivi platonici, manichei e misterici pagani, dove vedute profonde si accompagnano con a idee assurde. Per questo la Kabbala, per il suo fascino esoterico e indubbio interesse teologico, non ha mai mancato di lasciare traccia periodicamente nella storia del pensiero filosofico europeo e cristiano.

Uno degli interessi fondamentali della Kabbala è l’origine del male e la sua redenzione (tikkùn). Alla ricerca della causa e dell’origine del male e della liberazione dal male, essa, però, stravolge il significato del racconto del peccato originale, vede nel serpente un liberatore e in Dio un tiranno.

Essa concentra l’attenzione alla storia della creazione e del peccato originale e sulla funzione del serpente, che rappresenta il demonio in rapporto all’idea di Dio. Nella Kabbala Dio non si definisce solo con la categoria dell’essere ma anche del non-essere, non solo con la categoria del bene, ma anche del male, non solo del vero ma anche del falso, non solo la vita ma anche la morte, per cui il demonio, benché menzognero e omicida, è ministro di Dio e appare anche come Dio. Il demonio non è solo opposto a Dio ma anche suo collaboratore. L’uomo non appare solo come creatura, ma anche come dotato di poteri divini.

La Kabbala non distingue l’ira divina come volontà di punire dalla volontà malvagia. Identifica il male di pena col male di colpa. Ne viene la conseguenza che per togliere il peccato e attuare la redenzione non occorre il male di pena, la sofferenza, ma il male di colpa, il peccato. Non è la sofferenza che toglie il peccato, come espiazione del peccato, ma è lo stesso peccato che toglie il peccato.

Il giudizio che i farisei danno dell’operato di Gesù: «in nome di Beelzebub scaccia i demòni» (Mt 12,24s) riflette questo principio kabbalistico, presente anche nel detto popolare: diavolo scaccia diavolo. Questo principio apparirà chiarissimo nel sec. XVII sia con Jakob Böhme che col mistico ebreo sedicente Messia Scebbatai Zevi. Questo principio ritorna in Hegel, un ammiratore di Böhme. Si tratta di quella che Hegel chiama la «potenza del negativo» come molla della dialettica. Un negativo che è ad un tempo negazione concettuale, male di pena e male di colpa.

Il Dio di Lutero predestina sia al paradiso che all’inferno

È interessante come Lutero nel narrarci le sue lotte spirituali, ci parla sempre e solo del suo rapporto con Dio e col demonio e non parla mai del suo angelo custode, che invece ha in realtà nella vita cristiana una funzione essenziale per aiutarci a sventare le insidie del demonio e per conoscere la volontà di Dio.

Lutero è tanto impressionato dalla potenza illusionista di Satana, che arriva a dire che a volte Dio gli appare come demonio e a volte il demonio gli appare come Dio. Viene in mente il genio maligno del quale parla Cartesio.     

Come è noto, Lutero sostiene la predestinazione sia alla salvezza che alla dannazione, ma senza che il nostro libero arbitrio abbia alcuna parte. Se il peccatore pecca, la colpa è di Dio e se il giusto si salva il merito è di Dio.

Inoltre, come si sa, il Dio di Lutero non cancella il peccato, ma lo copre, cosicchè esso resta, ma così da non essere più considerato come peccato: diventa una cosa normale. Dunque abbiamo un Dio che legalizza il peccato. Non stupiamoci se Lutero arriva a dire che Dio è la causa stessa del peccato. Ma non è questo un chiamare bene il male? In tal modo il Dio di Lutero viene a legalizzare il peccato come fosse giustizia.

Così in Lutero il peccato è perdonato senza pentimento, che per lui impossibile, perché per lui il peccato è strutturale alla condotta umana. Così la grazia convive col peccato: simul justus et peccator. È vero che Lutero vorrebbe riferirsi alla concupiscenza, che effettivamente è una tendenza al peccato. Ma Lutero, come gli rimprovera il Concilio di Trento, confonde il peccato con la concupiscenza, per cui vorrebbe che come la concupiscenza è scusata perchè è una condizione propria dello stato di natura decaduta, vorrebbe che fosse scusato anche il peccato per poter continuare a peccare senza rimorsi di coscienza.

Lutero distingue il paradiso dall’inferno. Ci sono i beati e ci sono i dannati. Tuttavia, come è noto, egli nega i meriti soprannaturali e la funzione salvifica del libero arbitrio. Non va in paradiso chi sceglie Dio, ma chi è scelto da Dio. Non va all’inferno chi è contro Dio, ma colui che Dio manda all’inferno.

La beatitudine non è il premio per chi lo ha meritato in base alle opere buone; la pena eterna non è il giusto castigo meritato per aver disobbedito ai comandamenti. I beati non sanno perché sono in paradiso e i dannati non sanno perché sono all’inferno.

Dio non salva e non condanna in base a criteri umanamente verificabili precedentemente fatti conoscere all’uomo, fissati e concordati con lui, cosicchè al momento del rendiconto al termine del lavoro, l’uomo possa sapere perché è stato salvato o perchè è stato condannato, e verificare così la lealtà di Dio nel rispettare i patti[2].

Lutero prende a pretesto la sovrana misteriosa volontà di Dio, per sostenere irragionevolmente che Dio salva o condanna non si sa per quale motivo, anzi contro ogni ragionevole aspettativa e in contrasto con quanto aveva pattuìto, come se Egli fosse libero dal principio di non-contraddizione, quando in realtà è Lui stesso che lo ha fondato con l’opera della creazione, quasi agisse e pensasse senza un ideale, ma solo in base alla sua  insindacabile onnipotente volontà e in base al suo solo volubile arbitrio senza dover dar ragione a nessuno di quello che fa e sceglie.

Ora è evidente che a noi non è concesso giudicare quello che fa Dio, magari per disapprovare il suo operato o perché Egli debba render conto a noi, perché al contrario siamo noi che dobbiamo render conto a lui. Ciò che invece è concesso a noi persone intelligenti, per sua stessa volontà, è il capire il perché dei premi e dei castighi che Egli assegna a ciascuno senza la pretesa di sapere perchè ha scelto quello e non questo per premiare quello e non questo. Un conto è il perchè di quella data scelta divina e un conto è la giustificazione speculativa del motivo ragionevole della scelta. Il primo lo sa solo Dio; il secondo lo possiamo comprendere anche noi per renderci conto della sua lealtà, giustizia, misericordia e fedeltà ai patti.

Invece nella visione luterana della predestinazione non si salva la saggezza, bontà, la ragionevolezza, la coerenza e lealtà di questa sua volontà. Viene fuori un Dio crudele, infedele, inaffidabile, sleale, volubile. E questo secondo Lutero sarebbe il Dio della «fede». Ora Dio è certo imprevedibile circa le sue scelte future, ma possiamo prevedere con certezza già adesso che sarà fedele ai patti.

 Occorre inoltre ricordare che per Lutero Dio non salva muovendo la volontà dell’uomo all’opera buona, ma, come l’antico Fato pagano, per un suo insindacabile decreto indipendentemente da quello che fa l’uomo, in bene come in male, è libero di premiare il malvagio e castigare il giusto.

Se uno è predestinato all’inferno non serve a niente che compia le opere buone. Se uno è predestinato al paradiso, può fare tutti peccati o ciò che vuole, che va in paradiso. Dio manda all’inferno anche se l’uomo avesse obbedito a tutti i comandamenti e lo manda in paradiso anche se avesse disobbedito a tutti, perché lo fa non per castigare per le cattive opere e per premiare per le buone, ma solo perchè Egli vuole così. Per salvarsi basta credere di essere salvati.

Lutero trascura quelle parabole nelle quali gli operai verificano la giustizia del compenso dato dal padrone pattuito in precedenza in base al contratto di lavoro e trascura l’avvertimento di Cristo che noi possiamo salvarci solo se osserviamo i comandamenti. Infatti per Lutero chi obbedisce ai comandamenti, ammesso che sia possibile, non può aver certa speranza di andare un paradiso. Chi disobbedisce ai comandamenti, può esser certo di salvarsi lo stesso; basta che abbia fede nella misericordia di Dio.

L’uomo è innocente, mentre Dio è malvagio.

All’inizio del suo iter spirituale, da giovane monaco, Lutero provava in se stesso contrastanti ed angoscianti sentimenti: da una parte si sentiva sempre invincibilmente in colpa davanti a Dio, nonostante tutta la buona volontà nell’obbedirGli. Aveva la sensazione di essere invincibilmente falso e di possedere una volontà invincibilmente cattiva.

Ma dall’altra parte si sentiva ingiustamente accusato e rimproverato da un Dio che lo incolpava di colpe che non aveva, senza mai riuscire a far chiarezza e a trovare la verità in questo terribile problema.

Lutero, sperimentando la propria fragilità e la forza della concupiscenza, si era fatto la convinzione che fosse impossibile mettere in pratica la legge divina. Nel contempo si sentiva rimproverato da Dio e minacciato di eterno castigo per la sua disobbedienza. Egli si convinse pertanto che la giustizia punitrice di Dio nei suoi confronti fosse una crudeltà e una reale ingiustizia, perché voleva punire uno per la sua semplice fragilità.

Per questo, nella convinzione di non poter render buona la sua volontà col pentirsi, giudicava inutile chiedere perdono a Dio col proposito di correggersi. D’altra parte il fatto che Dio volesse punirlo lo giudicava una crudeltà e una ingiustizia in Dio, in quanto volontà di punire uno che non riesce a mettere in pratica la legge.

Cominciò col credere che un Dio che castiga non può essere un Dio buono, non può essere il vero Dio. La vera giustizia divina non può essere che la sua misericordia. Il Dio misericordioso, così pensò Lutero, non chiede all’uomo peccatore di compiere un bene che non riesce a fare, soprassiede alla sua legge, non chiede di correggersi, ma copre i suoi falli, non ci bada, non glie li rimprovera, ma li tollera, gli chiede solo di aver fiducia nella sua misericordia, lo accetta così com’è, lo giustifica anche se non è giusto, lo solleva dalla sua miseria, lo consola, non lo castiga e gli fa dono della sua grazia.

Quindi, per Lutero, il perdono divino non è la cancellazione del peccato a seguito del pentimento del peccatore, perché pentirsi è impossibile e inutile, in quanto la volontà resta invincibilmente cattiva. Pertanto il peccatore riceve la grazia anche se continua peccare e così diventa il peccatore giusto pur restando peccatore, non solo inclinato a peccare, il che è inevitabile, ma proprio in stato di peccato, perché per Lutero anche l’atto del peccare è inevitabile. L’unico atto di buona volontà, che può fare, opzione fondamentale decisiva per la salvezza, al di là degli inutili atti del libero arbitrio, è quello di credere che comunque Dio lo salverà.

Questa è quella che Lutero credette di cogliere essere la verità risolutiva del suo dramma interiore nella famosa «esperienza della torre» del 1514-1515, allorchè gli parve di avere una visione di Cristo stesso che lo rassicurava e gli prometteva di salvarlo dispensandolo dall’osservanza dei comandamenti, e chiedendogli semplicemente fermissima fede e fiducia nella sua misericordia e che lo avrebbe salvato. Da qui nasce la famosa triade luterana del sola gratia (senza le opere e i meriti), sola fides (senza la ragione) e sola Scriptura (senza il Magistero della Chiesa).

Lutero riprende la tesi eretica di Marcione secondo la quale il Dio dell’Antico Testamento, il Dio celeste è un Dio punitore e crudele, terribile, inavvicinabile e dispotico, mentre il Dio cristiano, il Dio incarnato è il Dio vicino, il Dio umano del perdono, della dolcezza, della compassione, della misericordia e della tenerezza.

Lutero affetta di voler combattere la superbia e di promuovere l’umiltà, ma in realtà promuove un falso concetto di umiltà che sottende la superbia e scambia per superbia l’umiltà. Come avviene questo capovolgimento? Egli parte con l’accusare giustamente di superbia chi vuol vantare davanti a Dio il merito delle sue buone opere.

È interessante inoltre come nella spiritualità luterana sia presente, come azione nei confronti dell’uomo nel suo rapporto con Dio, solo l’azione di Dio e quella del demonio.  E siccome Lutero nega il libero arbitrio, l’uomo viene ad esser sempre mosso o da Dio o dal demonio. Manca del tutto in Lutero il rapporto con l’angelo custode, che invece è necessario come mediatore del rapporto con Cristo.

Lo Spirito Santo è l’ispiratore delle missioni più importanti, nelle grandi occasioni e negli eventi personali e comunitari straordinari. La Madonna è mediatrice universale per tutti. I Santi sono gli intercessori per i carismi dei quali ciascuno è dotato, nei quali essi sono di esempio. Invece l’angelo custode è il mediatore per i bisogni ordinari della vita quotidiano propria di ciascuna singola persona nella sua singolarità e in particolare per la lotta contro il demonio.

Infatti l’angelo custode avverte e smaschera le insidie del demonio. È vero che Lutero ammette la guida dello Spirito Santo, ma egli ne approfitta slealmente per sottrarsi all’obbedienza alla Chiesa, che pure è guidata dallo Spirito Santo meglio di quanto sia guidato il singolo cristiano.

Accade così nella vita spirituale di Lutero una polarizzazione unilaterale fra Dio e Satana; l’anima, non soccorsa dall’angelo custode, è esposta all’inganno di Satana, che appare sotto sembianze divine[3], sicchè il rischio è quello di scambiare Dio col demonio. Questo tema è già presente nella Kabbala.

Fine Seconda Parte (2/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 febbraio 2024


L’impresa di Von Balthasar si presenta grandiosa ed originale: una teologia della glorificazione di Dio, nella quale Dio appare nella categoria della bellezza, non una theologia gloriae contro la quale polemizzava Lutero, per la quale il teologo glorifica se stesso e non Dio.

E a questa teologia Lutero contrapponeva la theologia crucis di San Paolo. Infatti, come si esprime San Giovanni, la gloria di Cristo consiste proprio nella sua croce, nel suo sacrificio per la remissione dei peccati. Per essa Cristo ha vinto la morte mediante la sua morte.

Un documento significativo in questo senso, che si rifà a Von Balthasar, è l’articolo di Maurizio Cecchetti Con l’incarnazione Dio salverà la creazione, apparso su Avvenire del 3 febbraio scorso. La cosa interessante di questa teologia è che vorrebbe parlare in nome di un Dio misericordioso che non castiga nessuno. 


Immagine da Internet: “Agnus Dei” (1635-1640), Francisco de Zurbaran


[2] Il famoso romanzo di Franz Kafka, «Il processo», fa un efficace ritratto nella sua angosciante configurazione, dell’allucinante ed assurda concezione luterana del giudizio divino.

[3] C ‘è motivo di sospettare che lo «Spirito» del quale parla Hegel, che egli non qualifica mai come santo e che peraltro chiama «spirito del mondo» (Weltgeist), non sia in realtà Dio ma il demonio.


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