Note sulla
Dichiarazione congiunta
Un
ecumenismo che non corrisponde alle direttive del Concilio
Il 31
ottobre 1999 il Pontificio Consiglio per
la promozione dell’unità dei cristiani ha pubblicato una Dichiarazione congiunta tra la Chiesa
cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della
giustificazione.
Cominciamo
con l’osservare che il detto Pontificio Consiglio è certamente un organismo
della S.Sede, che quindi rappresenta la Chiesa cattolica, ma nonostante che esso
affronti delicati temi dottrinali, non è organo del Magistero o rappresentativo
del Magistero, e già questo fatto crea una certa perplessità. Infatti si può osservare
che questo organismo, pur facente parte della Curia Romana, ma esterno alle
Congregazioni ed ai Dicasteri, semplicemente consultivo, è privo di autorità dottrinale decisionale, benché
presieduto da un Cardinale, come il Card.Kurt Koch, coadiuvato da una
commissione cardinalizia.
Non possiamo dire, pertanto, che tale
organismo di secondo piano abbia una sufficiente autorità per dare una risposta
definitiva, sicura ed autorevole su di un tema di capitale importanza, qual è quello della Giustificazione, tema che costituisce,
come è noto da tutti gli storici[1],
il punto dogmatico fondamentale nel quale Lutero si è opposto alla Chiesa
cattolica, la principale materia di fede circa la quale il Concilio di Trento
ha corretto gli errori di Lutero, «l’unico punto o articolo o dottrina – a
detta dello stesso Lutero[2]- per la quale noi diventiamo o siamo detti cristiani».
Il documento sembrerebbe assicurare la tanto sospirata
convergenza fra cattolici e luterani su questo tema centrale della Giustificazione,
sicchè la secolare vertenza sembrerebbe finalmente risolta. Ma non è affatto
così. Come vedremo, purtroppo i luterani, salvo qualche piccolo passo verso Roma,
sono ancora fermi nei loro errori; e non solo, ma vorrebbero presentarli come
verità cattoliche.
Qual è dunque il valore dottrinale del documento? Lo si ricava
dalla denominazione dell’organo stesso, che lo ha emanato: «consiglio». Ha un
valore consultivo, non decisionale. Per
questo, è discutibile e contiene anzi dei difetti, come vedremo. La sua
autorità – contrariamente a quanto potrebbe apparire –, benché tratti di materie
di fede e si appelli alla «Chiesa cattolica», non è l’autorità della Chiesa, non è dottrina della Chiesa, cosa che
sarebbe avvenuta se avesse portato la firma del Papa o del Prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede o di qualche altro Dicastero o
Congregazione della Curia Romana.
Il Consiglio, infatti, dall’impressione che può dare, stando all’ambizioso
titolo del documento, sembra voler elevarsi a figurare come «Chiesa cattolica»,
mentre bisogna dire con franchezza che esso non coincide affatto tout court con la «Chiesa cattolica», ma
è solo una diramazione della Curia subordinata agli organi principali, ossia le Congregazioni e i Dicasteri.
Si nota altresì
nella Dichiarazione, come dimostreremo, che i luterani tentano di premere surretiziamente
sulla Chiesa cattolica, strumentalizzando il Consiglio, affinchè accetti le tesi di Lutero sulla sufficienza
della fede per la giustificazione, sulla giustificazione imputata,
sull’inutilità delle opere preparatorie alla giustificazione, sulla coesistenza
del peccato con la grazia e sulla gratuità della giustificazione senza il
merito. È evidente che i luterani non intendono l’ecumenismo nei termini che ho
citato dal Concilio.
Essi non sembrano
quindi sentirsi affatto, come è detto nell’Unitatis
redintegratio, una comunità separata
dalla Chiesa, in una comunione imperfetta con essa e chiamata ad entrare in
piena comunione con essa, togliendo o correggendo i propri errori («impedimenti»
e «lacune»), ma al contrario, come risulta dalla Dichiarazione congiunta, pare che essi continuino a ritenere che
sia la Chiesa ad essersi sbagliata nell’interpretare la dottrina paolina della
Giustificazione e che Lutero avesse ragione.
Infatti, se
da una parte dobbiamo riconoscere, nella Dichiarazione,
la timida ammissione dei luterani che la grazia giustifica non solo per imputazione,
ma realmente e che quindi il giustificato partecipa
realmente della giustizia di Cristo ed è interiormente e non solo nominalmente rinnovato, dall’altra dobbiamo purtroppo
constatare che la Commissione cattolica che ha redatto la Dichiarazione si è lasciata imprudentemente attribuire come
cattolica, come vedremo, la negazione
luterana del merito ed altri errori luterani.
Mancano temi
essenziali
Sorprendente
è inoltre l’assenza nella Dichiarazione
di un riferimento al libero arbitrio, quando è notorio il contrasto della dottrina
cattolica, che richiede come condizione per la giustificazione il retto uso del
libero arbitrio e le opere buone, con la dottrina di Lutero, secondo il quale, come
è noto, tale retto uso è impossibile, perché l’arbitrio è schiavo del peccato e
sempre in stato di peccato, per cui il volere umano non fornisce alcuna collaborazione
al processo della giustificazione, la quale è totalmente gratuita e incondizionata,
in modo tale che il giustificato resta nel peccato e tuttavia è dichiarato
giusto; Dio non tiene conto del peccato grazie alla sola fede del credente di
essere perdonato, senza essere però realmente ed intimamente giusto, perchè il
peccato è «coperto» dalla giustizia di Cristo.
Ora, nella Dichiarazione non si fa parola di una
correzione di questi errori, contestati a Lutero sin dal Concilio di Trento, ma
si afferma che «la libertà che l’uomo possiede nei confronti degli uomini e
delle cose del mondo non è una libertà dalla quale possa derivare la sua
salvezza» (n.19). E per questo essa sarebbe inutilizzabile per la salvezza.
Il che è
falso, perchè l’esercizio del libero
arbitrio, che fa riferimento non solo al governo delle cose mondane, ma anche alla
scelta di Dio e di obbedire ai suoi comandi, secondo la dottrina del Concilio
di Trento (Denz.1554), è necessario alla salvezza, benché indubbiamente, senza il
soccorso della grazia, sia insufficiente e non possa non peccare. Per questo,
c’è da temere che, considerate le sullodate tesi di Lutero, da come si esprime
la Dichiarazione, il libero arbitrio nel
processo della giustificazione continui ad essere respinto.
Non c’è inoltre
neanche un accenno alla dottrina della predestinazione, che è il fondamento
della giustificazione. Al riguardo, vogliamo pensare che i luterani abbiano
abbandonato la dottrina della predestinazione alla dannazione, alla quale non si
fa nessun cenno. E difatti i luterani di oggi, sempre in conformità al loro concetto
della giustificazione per fede e senza meriti, hanno abbandonato quella orribile
eresia, che era già stata condannata dalla Chiesa nel sec.IX[3],
ma sono caduti in un’altra eresia di segno opposto, ossia la convinzione che
tutti si salvano, cosicchè, se prima pensavano che Dio castighi chi non lo
merita, adesso si limitano all’idea che Dio premia tutti senza che alcuno lo
meriti.
Ma sempre di
ingiustizia si tratta sotto parvenza di misericordia. Lutero risponde dicendo che
per Dio è giusto ciò che alla ragione sembra ingiusto. È vero. Ma ciò che è certamente ingiusto per la ragione, lo è
anche per Dio, creatore della ragione. Credere a una cosa del genere, non è
fede, ma bestemmia.
Un’altra
cosa che sorprende nella Dichiarazione,
un’altra grave lacuna è che non si dice se i luterani hanno corretto il loro concetto
della fede come certezza soggettiva nella
propria giustificazione e predestinazione, ed hanno accolto il vero concetto di
fede come presupposto alla giustificazione, ossia virtù soprannaturale, per la
quale, come insegna il Concilio di Trento (Denz.1526), crediamo esser veri i
misteri divini rivelatici da Cristo e proposti a credere dalla Chiesa sotto la
guida del Romano Pontefice. Questo silenzio purtroppo fa pensare che essi persistano
nel loro errore.
Cose già
note e giustapposizione di tesi contrarie
Il documento
contiene due serie di dichiarazioni: un gruppo di esse conferma punti d’accordo
da sempre noti: che la giustificazione è ottenuta dalla fede in Gesù Cristo,
che essa è frutto della redenzione ed è opera della misericordia divina, e
produce il perdono dei peccati, che essa dona la figliolanza divina e la
libertà dello Spirito e genera la carità, che la grazia della giustificazione
precede le opere buone e ne è il principio.
Invece l’altro
gruppo di dichiarazioni non presenta un vera concordia o convergenza tra cattolici e luterani, come
sembrerebbe promettere l’aggettivo «congiunta» apposto alla Dichiarazione, ma presenta una semplice giustapposizione
delle tesi, dove si lascia il contrasto fra di esse e addirittura si presentano
come cattoliche posizioni luterane, come per esempio la negazione dei meriti,
come vedremo. Tutto ciò non è certo il segno di un metodo rigoroso e leale.
Un altro serio
rilievo: bisogna ricordare che le conclusioni delle delegazioni o
rappresentanze cattoliche nei dialoghi ecumenici devono essere in consonanza con le direttive conciliari dell’Unitatis redintegratio, in particolare
laddove il Concilio ricorda che nel passato «comunità non piccole si sono
staccate dalla comunione con la Chiesa cattolica» (n.3) e che sono rimaste
«costituite in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa
cattolica» (ibid.).
In esse
«impedimenti non pochi e talvolta proprio gravi si oppongono alla piena comunione
ecclesiastica, al superamento dei quali tende appunto il movimento ecumenico»
(ibid.). In queste comunità sono presenti «elementi e beni, dai quali la stessa
Chiesa cattolica è edificata e vivificata» (ibid.). Tra questi, «alcuni, anzi
parecchi e segnalati possono trovarsi fuori dei confini visibili della Chiesa
cattolica. .... Tutte queste cose, che provengono da Cristo e a Lui conducono,
giustamente appartengono all’unica Chiesa di Cristo» (ibid.), che è la Chiesa cattolica.
«Perciò le stesse Chiese e comunità separate,
quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza, non sono
affatto spoglie di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non
ricusa di servirsi di esse come di elementi di salvezza, il cui valore deriva
dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa
cattolica» (ibid.).
Infatti «al solo
collegio apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti
i beni della Nuova Alleanza, per costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra,
al quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche
modo appartengono al popolo di Dio» (ibid.).
Il vero
compito dell’ecumenismo
Dunque, alla
Chiesa cattolica, madre di tutti i credenti in Cristo, spetta chiamare ed incorporare
a sé o di incentivare o stimolare o favorire «la piena comunione con sé di tutti
quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio». Ora, tra costoro
indubbiamente ci sono i luterani. L’ecumenismo con i luterani richiede dunque
che la Chiesa esorti ad entrare nel suo seno tutti questi fratelli che si sono
separati da lei, eredi di quelle comunità, che nel passato si sono staccate
dalla Chiesa «non senza colpa di uomini da entrambe le parti» (ibid.).
Ma perché
questa nobilissima finalità si realizzi, che è lo scopo ultimo e supremo
dell’ecumenismo, occorre evidentemente che i fratelli luterani, sotto l’impulso
dello Spirito Santo, che è Spirito di verità, di conversione, di
riconciliazione e di comunione, si riconoscano in quelle «comunità non piccole
che si sono staccate dalla comunione con la Chiesa cattolica» (n.3) e che sono
rimaste «costituite in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa
cattolica» (ibid.).
Occorre altresì
che essi o per autonoma iniziativa o perchè esortati ed aiutati dai cattolici,
sopperiscano a quelle «carenze» e tolgano gli «impedimenti non pochi e talvolta
proprio gravi che si oppongono alla piena comunione ecclesiastica», il che
equivale a dire che devono correggere gli errori di Lutero già a suo tempo
segnalati da Papa Leone X nella Bolla Exsurge
Domine del 1520 e dal Concilio di Trento, e successivamente dalla critica
cattolica fino ai nostri giorni.
I luterani
dovrebbero insomma rendersi conto una buona volta che se riguardo a quei punti
di dottrina e di dogmatica dove Lutero è rimasto cattolico, avranno sempre il consenso
di noi cattolici, qualunque loro tentativo di persuadere i cattolici ad abbracciare
gli errori di Lutero è contrario al vero
ecumenismo ed è destinato al fallimento.
I luterani non si devono illudere che un giorno il Papa
possa diventare luterano, ma piuttosto ascoltare gli inviti dei cattolici ad
abbracciare nel cattolicesimo, come dice l’Unitatis
redintegratio, la pienezza della verità. Il fatto che Papa Francesco sia così
benevolo ed accogliente nei loro confronti non devono interpretarlo come se
avesse dubbi sul suo cattolicesimo, ma come paterna attesa e fervente speranza del
realizzarsi di quanto è auspicato dall’Unitatis
redintegraio.
È da notare inoltre
che il Concilio non parla di «ritorno» dei fratelli, ma di ingresso nella Chiesa cattolica e a ragion veduta. Coloro infatti
che, nati in ambiente luterano, sono stati educati secondo la fede luterana,
non devono tornare, ma entrare nella comunità cattolica, alla quale non hanno
mai appartenuto. Se i invece consideriamo le comunità luterane, che, al dire
del Concilio sono comunità che si sono staccate dalla Chiesa, allora possiamo a
buon diritto parlare di ritorno, come hanno fatto i Papi fino a Pio XI con
l’enciclica Mortalium animos del 1928.
Infine, un
difetto di metodo. La questione ecumenica non è tanto il problema di come avvicinare
posizioni lontane o contrastanti su piede di parità, come può essere per
esempio quello di riconciliare tra di loro marito e moglie, o di riavvicinare
le due metà di una nazione in guerra civile o di un tutto che si è infranto,
per ricomporre l’unità. Questa è una maniera sbagliata o quanto meno
insufficiente di concepire l’ecumenismo.
E così pure
purtroppo fa la Dichiarazione. Più
che di unità sarebbe meglio parlare di unione. La Chiesa non può non essere
una; invece i suoi figli possono essere divisi o disuniti: tra di loro può
mancare l’unione. Se una setta si separa dalla Chiesa, non è che chi è rimasto nella
Chiesa formi con la setta una metà di Chiesa, mentre la setta sarebbe l’altra
metà. La Chiesa resta una ed è la setta che deve riconciliarsi con la Chiesa.
Il problema
proprio e caratteristico dell’ecumenismo non è tanto quello della carità,
dell’unità o dell’armonia, quanto quello della verità: sapere chi ha ragione e chi
ha torto. Cerchiamo pure l’unità, ma sulla base della verità. Sull’errore non
si costruisce l’unità. Lutero stesso fece
una questione di verità. Riteneva,
contro il Papa, di aver capito lui la dottrina paolina della giustificazione.
Certamente
l’ecumenismo mira a soddisfare il voto di Cristo: che i fratelli siano una cosa
sola. Ma come possono essere una cosa sola se non nell’unica verità? Nell’una fides? Le divisioni alle quali
l’ecumenismo si sforza di rimediare, non sono tanto gli odi reciproci, quanto piuttosto
la divisione tra chi si trova nella verità e chi è nell’errore, operando affinchè
chi è nell’errore giunga alla conoscenza della verità. Questa è l’attività propria
ed essenziale dell’ecumenismo.
Come emerge chiaramente dall’Unitatis redintegratio, la Chiesa, nelle
sue attività ecumeniche, non si avverte come se fosse divisa, ma una. Se si può
parlare di divisioni nella Chiesa, queste riguardano i cristiani, ma non la Chiesa,
la cui unità è conservata dallo Spirito Santo. L’ecumenismo, quindi, non è ricomporre
una Chiesa andata in frantumi, come se fosse divisa per esempio fra cattolici e
luterani, ma è chiamare i fratelli separati alla comunione con la Madre.
Occorre pertanto vedere le cose diversamente.
In realtà, la Chiesa, nei confronti dei fratelli separati dev’essere paragonata
a una madre, che è stata abbandonata da alcuni figli, o all’evangelico padre
del figliol prodigo o al pastore alla ricerca della pecorella smarrita. La
conoscenza reciproca, la verifica delle verità possedute in comune,
l’apprezzamento delle diversità, la collaborazione nelle opere della giustizia
e della carità, il confronto delle opinioni, il reciproco perdono, l’invocazione
dello Spirito Santo, le preghiere fatte in comune, la comune testimonianza
cristiana data al mondo fino al martirio sono tutte cose buone ed ottime. Ma
tutto è inutile se i cattolici non invitano al banchetto della verità e gli
invitati si rifiutano.
Un’ultima
osservazione generale. Nel documento parla evidentemente a nome del Consiglio un
gruppo di esperti, che si qualifica come «cattolico» («noi cattolici») e che
chiaramente, con fare esorbitante, vuol
presentarsi tout court come la
«Chiesa cattolica».
Senonchè,
come vedremo dall’esame di vari punti della Dichiarazione,
ci accorgeremo che certe asserzioni, che essi fanno passare per cattoliche e
concordate con i luterani, non rispecchiano
affatto la dottrina della Chiesa in merito, ma ripetono gli errori di
Lutero.
Chi sono allora
in realtà costoro? Dobbiamo dedurre, con molto dispiacere. che si tratta di un gruppo
di criptoluterani, che è riuscito ad infiltrarsi nel Consiglio, ma senza il possesso
delle dovute qualifiche richieste e senza condividere le finalità dell’Unitatis redintegratio, anzi per operare
clandestinamente al fine di far passare come cattolicesimo gli errori di Lutero.
Un’astuta quanto vana per non dire ridicola manovra per luteranizzare la S.Sede dall’interno.
C’è invece
da compiacersi per il fatto che nella Dichiarazione
si riconosce che il cristiano «partecipa» (n.15) della giustizia di Cristo ed
attua sotto l’impulso della fede e della grazia un «rinnovamento della condotta
di vita» (nn.23,24 e 26), il che fa pensare ad un abbandono della tesi luterana
che il giustificato continua a trovarsi in uno stato di peccato, e sembra il
riconoscimento della reale purificazione e liberazione interiore dal peccato e
di una reale giustizia intrinseca, e non solo imputata, assicurata dalla grazia
al giustificato. Ci fa piacere altresì leggere anche al n.31, che «i comandamenti
di Dio rimangono in vigore per il giustificato», memori della teoria di Lutero,
condannata dal Concilio di Trento (Denz.1570), che il cristiano è dispensato
dall’osservanza dei comandamenti.
Osservazioni
Vediamo
adesso quali osservazioni possiamo fare alla Dichiarazione.
Al n.10
viene citato S.Paolo: «Per questa grazia
siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene
dalle opere» (Ef 2,8-9). Questo passo sembrerebbe prestarsi alla dottrina di
Lutero della giustificazione gratuita senza le opere. Nel commentare questo
passo, S.Tommaso osserva che S.Paolo esclude che la fede salvifica provenga
dalle opere in primo luogo per escludere che «il credere si risolva in un atto
del nostro libero arbitrio»[4];
non tuttavia perché voglia negare la
funzione del libero arbitrio; esso occorre, ma «non basta all’atto di fede»
(ibid.); ed in secondo luogo per escludere che «la fede ci sia data per il
merito di opere precedenti» (ibid.).
Al n.15:
«Insieme confessiamo che non in base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo
della grazia, e nella fede nell’opera salvifica di Cristo noi siamo accettati
da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci
abilita e ci chiama a compiere le buone opere».
Qui non si
chiarisce di quali meriti si tratta, perché se pensiamo ai meriti naturali,
l’asserto è vero. È chiaro che un merito naturale non può meritare una
condizione di vita soprannaturale. Ma se pensiamo ai meriti soprannaturali
delle virtù teologali, effetto della grazia giustificante, allora è falso che non
meritiamo di essere accettati da Dio e di ricevere lo Spirito Santo. Ai meriti
soprannaturali, che conseguono l’infusione della grazia, è riservata, come dice
la Lettera agli Ebrei citata dal
Concilio di Trento (Denz.1545), «una grande ricompensa» (Eb 10,35). Le cose suddette,
dunque, noi cattolici non le confessiamo insieme con i luterani, ma al
contrario le rifiutiamo, così come ha fatto il Concilio di Trento nel c.16 del Decreto sulla giustificazione.
Al n.17 si
dice: «Noi, in quanto peccatori, dobbiamo la nostra vita nuova soltanto alla
misericordia di Dio, che perdona e che fa nuove tutte le cose, misericordia che
noi possiamo ricevere soltanto come dono della fede, ma che non possiamo
meritare mai e in nessun modo».
Questa
dichiarazione è presentata come condivisa da noi cattolici, ma non mi pare che sia
possibile, perché di nuovo viene negato il merito soprannaturale come nella
tesi precedente. Infatti, Dio non ci fa misericordia e non ci perdona, se non
siamo pentiti dei nostri peccati, pentimento che indubbiamente è causato
dall’azione della grazia, ma che in se stesso è atto del libero arbitrio e
costituisce quindi un’opera meritoria appunto della divina misericordia.
Al n.19 si
presenta come convinzione comune ai luterani ed a noi cattolici il seguente
asserto: «la giustificazione avviene soltanto per opera della grazia». Invece è
proprio su questo tema che si dà l’errore dei luterani e si pretende affibbiare
anche a noi il loro errore. Rispondiamo dunque dicendo, che la giustificazione
è opera ad un tempo e della grazia che prende l’iniziativa, e del libero
arbitrio mosso dalla grazia. Ma una volta in grazia, il soggetto può meritare
un aumento della grazia.
Se infatti
la giustificazione ha per effetto la liberazione dal peccato e il conferimento
della grazia, e se evidentemente il soggetto del peccato e della giustizia è il
libero arbitrio, bisognerà bene che il libero arbitrio, seppur mosso dalla
grazia, compia questo mutamento o passaggio dallo stato di peccato allo stato
di grazia. Da qui la necessità che il libero arbitrio agisca come fattore
essenziale della giustificazione, benchè in sottordine rispetto all’azione
della grazia.
Al n.20 si
dà una spiegazione della cooperazione dell’uomo all’azione della grazia, della
quale parla S.Paolo (I Cor 3,9 e II Cor 6,1), che la svuota del suo senso,
trasformandola in «effetto della grazia». Ora l’effetto della grazia è grazia;
ma qui si tratta di natura, non di grazia. La collaborazione umana della quale
parla S.Paolo è evidentemente atto del libero arbitrio, anche se questo atto è
certamente mosso dalla grazia. È quel
«volere ed operare» che Dio suscita in noi (Fil 2,12-3) e che conduce dal
peccato alla grazia, ossia attuando il processo della giustificazione.
Al n.22:
«Insieme confessiamo che Dio perdona per grazia il peccato dell’uomo e che
quando l’uomo partecipa a Cristo nella fede, Dio non gli imputa il suo peccato
e fa agire in lui un amore attivo mediante lo Spirito Santo».
Anche qui
gli amici luterani vorrebbero coinvolgere noi cattolici nel ben noto errore di
Lutero, per il quale, per essere perdonati e giustificati da Dio è sufficiente
aver fede in Cristo di essere perdonati, ma i peccati non sono cancellati, ma solo
non più «imputati». Restano, ma il Padre fa come se non ci fossero, guardando
alla giustizia di Cristo.
Se dunque il
peccato resta, che senso ha il parlare dello Spirito Santo che suscita nell’uomo
un «amore attivo»? Si sa che Lutero ammetteva ed apprezzava le «buone opere» come
frutto della fede e della grazia, ma se il peccato non è tolto, che opere buone
sono? Non è proprio quell’ipocrisia che Lutero dice di voler far scomparire?
Come fa
notare il Concilio di Trento (Denz.1515), Lutero confondeva l’atto del peccato o lo stato di peccato con la concupiscenza. Questa sì che dura per tutta
la vita come inclinazione a peccare. Ma
essa può momentaneamente di volta in volta essere bloccata col pentimento del peccato
commesso e cancellato, anche se poi successivamente essa torna a farsi sentire
e così via per tutta la vita. Tuttavia, come dice il Concilio di Trento, la
concupiscenza di per sé non è peccato,
benché tenti al peccato. Ciò vuol dire che se la volontà cade in peccato, essa,
sotto l’impulso della grazia, può
immediatamente tornare buona e liberarsi dalla colpa commessa.
Al n.23 si
cita una tesi luterana ma senza alcun cenno di critica: «i luterani vogliono
affermare che la giustificazione è svincolata dalla cooperazione umana e non
dipende neppure dagli effetti di rinnovamento della vita che la grazia ha
nell’uomo». Questa tesi dimostra purtroppo che i luterani, nonostante il riferimento
al «rinnovamento della vita», continuano a ignorare il fatto che la giustificazione
non è affatto «svincolata dalla cooperazione umana», ma al contrario è
condizionata da essa, come insegna S.Agostino: «Chi ti crea senza di te, non ti
salva senza di te».
Al n.25 si
enuncia una tesi che è introdotta da un «assieme confessiamo»; ma poi ci accorgeremo
che in realtà è un errore luterano: «la fede è attiva nell’amore e per questo
motivo il cristiano non può e non deve restare inoperoso. Tuttavia, la giustificazione
non si fonda né si guadagna con tutto ciò che precede e segue nell’uomo il libero
dono della fede».
In questa
visuale la fede produce la buona azione e rende il cristiano operoso. Bene. Inutilità
delle opere in ordine alla giustificazione non vuol dire quietismo. E qui
Lutero ha ragione. Ma come la fede è operosa? Proprio perchè le sue opere
«guadagnano» la giustificazione e questa si fonda anche sulle opere fatte in grazia.
Le opere,
invece, per Lutero, ci sono e ci devono essere, ma non sono meritorie della giustificazione. Dunque non concorrono alla
sua produzione. Nessuna collaborazione del libero arbitrio con la grazia. E siamo
sempre daccapo. Ma su ciò il cattolico non può essere d’accordo, come sappiamo bene.
Dunque è un inganno far passare per cattoliche queste idee.
Al n.27 si
afferma che «secondo il modo di comprendere cattolico, il rinnovamento della
vita mediante la grazia giustificante esclude ogni contributo alla
giustificazione, di cui l’uomo potrebbe vantarsi davanti a Dio (Rm 3,27)». La Dichiarazione rimanda alla Lettera ai Romani, dove S.Paolo afferma
che l’uomo, per essere giustificato, non può vantare davanti a Dio meriti di
opere buone. Il vanto infatti è escluso dalla «legge della fede», per la quale
«l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere».
Eppure, come
osserva S.Tommaso, qui Paolo non intende affatto «escludere ogni contributo
alla giustificazione», perché tale contributo sono proprio le buone opere,
naturalmente «non opere precedenti, ma conseguenti la giustificazione»[5].
Il che vuol dire, secondo la vera concezione cattolica, che la giustificazione
è sì soprattutto effetto gratuito della grazia, ma nel contempo e inscindibilmente
è merito e conquista delle buone opere. È vero che anche Lutero ammette che le
opere conseguono alla giustificazione, ma escludendo che siano meritorie,
toglie ad esse il necessario ed essenziale contributo che danno alla
giustificazione.
Al n.29
troviamo una vana difesa del famoso simul
iustus et peccator, spiegata nei seguenti termini: «il cristiano è del
tutto giusto, poiché Dio, attraverso la Parola e il sacramento gli perdona i
peccati e gli accorda la giustizia di Cristo, che egli fa propria nella fede e che
lo rende giusto in Cristo davanti a Dio. Tuttavia, guardando a se stesso egli
riconosce, per mezzo della legge, di rimanere al tempo stesso del tutto
peccatore, poiché in lui abita ancora il peccato».
Qui dobbiamo
notare due gravi falsità. La prima è la possibilità che l’uomo, nella vita
presente, sia «del tutto giusto». Questa infatti è solo la condizione dei
beati. Quaggiù può esistere solo una graduale maturazione della giustizia, ma
non la sua pienezza. La seconda è addirittura un’assurdità, e cioè che un uomo
possa essere «del tutto peccatore», espressione che lascia intendere che non si
comprenda cosa significhi «essere peccatore».
L’esser peccatore
non è una condizione esistenziale nociva che possa corrompere più o meno un soggetto, così che essa possa distruggerlo
in parte o del tutto. Per questo, non ha senso parlare di peccatore in parte o
di peccatore in toto. Certo si può
essere più o meno peccatori, si può essere molto o gravemente peccatori, ma è impossibile
che uno sia totalmente peccatore, come se in lui non sia rimasto nulla di
buono, come se fosse un peccato sussistente o fatto persona.
Se l’esser persona coincidesse con l’essere
peccatore, invano parleremmo di salvezza dell’uomo. In realtà, per quanto uno
sia peccatore e privo della grazia, è sempre capace di compiere atti buoni,
anche se insufficienti per la salvezza. Si sente qui l’idea luterana della
corruzione totale della natura umana conseguente al peccato originale.
Il peccato non
è una sostanza, ma un accidente, che non può corrompere tutta la sostanza umana,
così come il male non può distruggere totalmente il suo soggetto. Per questo il
peccato può essere tolto salvando la sostanza, ossia la persona umana. Un conto
è il malato e un conto la malattia. Se il malato coincidesse con la malattia,
per togliere la malattia, bisognerebbe uccidere il malato.
Non può
esistere, quindi, un uomo totalmente e sostanzialmente cattivo, perché il male
non è una sostanza, ma una carenza accidentale di bene, che suppone il soggetto
della medesima carenza. È qui il difetto della concezione luterana del peccato
e della natura corrotta dal peccato. Abbiamo una traccia di manicheismo. Ed evidentemente
siamo al di fuori dello stesso cristianesimo, oltre che da una sana metafisica.
La verità è
che il cristiano nella vita presente percorre, con le sue forze e sotto
l’impulso della grazia, un cammino di liberazione progressiva dalla tendenza a
peccare e di rafforzamento progressivo nella pratica del bene. Resta certo peccatore,
ma non nel senso di trovarsi sempre in stato di peccato, ma in quanto è affetto
dalla concupiscenza, mentre nel contempo, ha sempre la possibilità, tutte le volte
che pecca, di risorgere, per proseguire il cammino, fino alla totale liberazione,
che non è di questa vita, ma della futura vita dei beati.
Ancora al
n.29, esponendo la posizione luterana senza criticarla, e quindi sembrando
approvarla, il documento afferma che «grazie ai meriti di Cristo, il potere
assoggettante del peccato è vinto. Non è più un peccato che “domina” il
cristiano, poiché esso è “dominato” mediante Cristo, al quale il giustificato è
unito nella fede».
E invece qui
occorre osservare che il peccato non è un misterioso personaggio cattivo, che convive
con noi, tale da poterci dominare o essere dominato, così da scaricare su di
lui le nostre colpe, benché Paolo si esprima in modo da far pensare ad una cosa
del genere (Rm 7, 20-23). Le cose stanno ben diversamente: la «schiavitù del peccato»
(Rm 7,14), della quale parla S.Paolo, non vuol dire, come credeva Lutero, che siamo
sempre costretti a peccare e che noi abbiamo perduto il libero arbitrio. Dopo
il peccato originale, noi conserviamo, invece, benché indebolito, come dice il
Concilio di Trento (Denz.1555), il libero arbitrio. Solo che senza la grazia
non riusciamo a compiere atti utili alla salvezza.
Il peccato non
è un soggetto che agisce in noi nostro malgrado, ma è un atto volontario, che
proviene e dipende da noi, e che sta a noi fare o non fare. E se l’abbiamo
fatto, possiamo rimediarvi con un atto
della virtù contraria. Il peccato
non dev’essere dominato, ma distrutto, annullato, cancellato. Sono
le passioni che devono essere dominate e moderate. Il peccato è un atto, una
macchia che ogni volta va cancellata grazie al pentimento ed alla misericordia
divina. Ma la piena vittoria sul peccato è solo della vita futura.
Ancora al
n.29 un altro gravissimo errore, sempre su questa linea ormai ben nota: «affermando
che il giustificato è anche peccatore e che la sua opposizione a Dio è un vero
e proprio peccato, i luterani con ciò non negano che egli, nonostante il
peccato, non sia separato da Dio in Cristo». Qui si raggiunge il culmine dell’assurdo:
l’opposizione a Dio è da una parte un «vero e proprio peccato»; ma dall’altra,
«nonostante il peccato, il cristiano non è separato da Dio in Cristo». Si ha la
sensazione di essere presi in giro.
Infine al
n.39 si parla della «vita eterna come “salario” immeritato nel senso del
compimento della promessa di Dio ai credenti». Vorremmo che, se vale ancora il
principio di non-contraddizione, i redattori della Dichiarazione ci spiegassero che cosa intendono per «salario
immeritato».
Conclusione
La domanda
che ci poniamo è la seguente: l’ecumenismo è stato una benedizione celeste, che
da tempo era auspicata ed attesa da grandi teologi come il Maritain, lo
Journet, il Daniélou e il Congar. Esso è stato avviato da quel grande Papa che
fu S.Giovanni XXIII col Concilio Vaticano II, e da allora ha suscitato
numerosissime iniziative in tutto il mondo a tutti i livelli: dagli incontri privati
ai convegni internazionali, dai contatti fra chiese sorelle e di interi episcopati,
dagli incontri pontifici alle regolari attività della S.Sede.
Che frutti ha
portato? Bisogna distinguere. L’ecumenismo autentico, che ha messo in pratica
le direttive del Concilio, ha condotto tanti fratelli separati a guardare a
Roma con interesse, rispetto e speranza; quello invece frutto di oscure
manovre, come questa infelice e ingannevole Dichiarazione
congiunta, intralcia e fuorvia il vero cammino verso l’unità.
P.Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
2 luglio 2019
[1]
Cf R. Lemonnyer, Voce “Justification”,
DThC VIII/2, col. 2042 : “On sait … que la doctrine de la justification
est le point essentiel de divergence entre catholiques et protestants”.
[2] Cit.da C.Boyer, Luther. Sa doctrine, Presses de
l’Université Grégorienne, Rome, p.127.
[3] Eresia del monaco Godescalco (Gottschalk) condannata nel Sinodo di
Quierzy (Cassiciacum) dell’853.
Ricompare con Jan Hus nel sec.XV, al quale Lutero esplicitamente si ispira.
[4] Super epistulas S.Pauli lectura, Edizioni Marietti Torino-Roma
1953, vol.II, c.II, lect.III, n.95, p.25.
[5] Super epistulas S.Pauli lectura, Edizione Marietti, Roma-Torino
1953, vol.I, c.III, lect.IV,n.317, p.56.
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