La vita eremitica

La vita eremitica

La vita eremitica è la vita di alcuni cristiani, i quali, per un dono straordinario della grazia divina, sono chiamati e si sentono chiamati a vivere in solitudine con Dio in Cristo in una pregustazione eccellente della visione beatifica, con frutti abbondantissimi di bene per il prossimo, quasi tutti nascosti e che appariranno solo in cielo, frutti che essi spargono a piene mani non per mezzo di opere esteriori, ma con l’offerta della propria vita nella solitudine, nel silenzio, nell’orazione, nel lavoro, nell’ascesi e nella penitenza, per il bene dei fratelli.

La loro vita è «nascosta con Cristo in Dio» (Col3,3). Tale vita nascosta è il segno esterno del fatto che essi praticano e gustano nascostamente nell’intimo dell’anima e nella solitudine della cella o del coro, una «sapienza nascosta, che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria» (I Cor 2,7). Imitano la vita nascosta di Cristo. Sono immersi nel Mistero e fanno tralucere il Mistero.

Essi vivono nel nascondimento per essere al riparo dalla tentazione all’esibizionismo e da quella di desiderare la stima da parte del mondo.  Il nascondimento infatti è un esercizio di umiltà, contro l’ambizione che ci spingerebbe a metterci in mostra per dominare e prevalere sugli altri. Gli eremiti sanno, come dice San Giovanni della Croce, che per trovare ciò che è nascosto, occorre a propria volta nascondersi.

Essi vivono un’eccellente comunione invisibile con la Chiesa invisibile sotto la guida del Vescovo del luogo, il quale, secondo San Tommaso, è il perfector, mentre il religioso è perfectus ab Episcopo, il quale non ha bisogno egli stesso di essere monaco, perché l’ufficio del perfezionatore gli viene dal carisma episcopale.

Lodevole pertanto è l’uso orientale di scegliere i Vescovi tra i monaci.  E da questa intima comunione nello Spirito Santo gli eremiti traggono luce e forza straordinarie per sovvenire ai bisogni spirituali, per offrire una parola sapienziale, per sollevare le sofferenze, per correggere i difetti, per risolvere i contrasti, per incrementare la santità, per estendere i confini della Chiesa visibile.

L’eremita ci ricorda che l’azione decisiva non è quella esteriore, ma quella interiore. Ci fa presente, come dice Sant’Agostino, che la verità è nella coscienza e non nell’esteriorità, che è occasione di vanagloria e di ipocrisia. L’eremita ci ricorda che il sapere, come dice San Tommaso, non è un atto palpabile al senso, ma operazione intima ed invisibile dell’intelletto. L’eremita ci ricorda che l’amore prima di esprimersi all’esterno, è un moto interiore della volontà, noto solo a Dio. L’eremita è l’uomo dell’invisibile, è per eccellenza quell’«uomo spirituale», del quale parla San Paolo (I Cor 2).

L’eremita, come dice Santa Teresa di Gesù Bambino, è nascosto nel cuore della Chiesa, così come il cuore è nascosto agli occhi di chi guarda la sagoma esterna del corpo, e a somiglianza del cuore promuove la vita dell’organismo, stimola i sentimenti del soggetto, ne anima le passioni, dirige gli intenti, spinge la volontà, eccita l’entusiasmo, suscita l’amore. Allo stesso modo l’eremita nel cuore della Chiesa svolge per la Chiesa e per l’umanità tutte queste funzioni vitali del cuore.

La vita eremitica, secondo San Tommaso, è la più elevata delle forme di vita religiosa[1] per il fatto che più di ogni altra esprime l’aspirazione all’unione con Dio e la realizzazione di tale unione per quanto è possibile nella vita presente. E cita Sant’Agostino: «sono più santi coloro che, sottratti alla vista degli uomini, non offrono ad alcuno l’accesso alla loro condizione di vita (nulli praebent ad se accessum), vivendo una vita di intensa orazione (viventes in magna intentione orationum[2]. Agostino non vuol dire che l’eremita impedisca di avvicinarsi a chi vorrebbe contattarlo, perché, al contrario, nessuno è più accogliente di lui, immerso com’è in quel Dio che tutti accoglie.

Egli piuttosto vuol dite che lo stato di vita dell’eremita è così elevato, che non consente ad altri di elevarsi a quel medesimo livello. Ma è chiaro che l’eremita, dall’alto della sua esperienza celeste, fa scendere parole celesti che illuminano, confortano, corroborano, consolano le anime e le stimolano, le guidano, rafforzano nella ricerca di Dio e le infiammano del suo amore.

Inoltre S.Tommaso, seguendo l’insegnamento di S.Girolamo[3], precisa che è necessario che la vita solitaria sia preceduta e preparata dalla vita cenobitica, la quale educa alla vita sociale, dalla quale il monaco può essere esonerato solo se ha raggiunto un’alta perfezione, che gli consente di arrangiarsi da sè e di cavarsela da solo, cosa che richiede un alto equilibrio psichico ed una grande forza di carattere.

Ed è chiaro che anche nella solitudine più austera anche l’eremita sarà condizionato dalla comune natura umana, che gli chiederà un minimo di relazioni umane per la pratica liturgica o dei sacramenti, per la cura della salute o l’espletamento di qualche modesto lavoro, che può dargli anche da vivere, per non parlare dei pellegrini e dei visitatori. Egli infatti è un centro di attrazione per le anime, un rinomato ristorante dello spirito, dove tutti sanno che si mangia bene e si offrono piatti speciali.

Non bisogna scambiare infatti il ritiro nella solitudine eremitica con l’isolarsi dagli altri perché non si sanno intrattenere relazioni sociali, perché si pretende di fare a meno degli altri o ci si rifiuta a interessarsi degli altri.  Invece nessuno più dell’eremita ha l’umiltà di riconoscere quanto dipendiamo dal prossimo, soprattutto nel momento della malattia e della vecchiaia. Nessuno più di lui conosce i più profondi bisogni del prossimo, che sono il bisogno di trovare Dio e di essere salvati, mentre nessuno gli impedisce occasionalmente di uscire dall’eremo per andare incontro anche ad urgenti bisogni materiali, secondo la misura delle sue forze.

La parola eremita viene dal greco eremos, che significa calmo, sereno, tranquillo, pacifico. Nelle agitazioni del mondo e della Chiesa l’eremita è l’uomo della pace e della concordia. È eccellente segno precorritore, la primizia della futura pace messianica ed escatologica. La sua Parola sapiente e l’offerta della sua vita indicano le vie della pace e il superamento delle guerre.

La vita eremitica non fu del tutto ignorata dagli antichi Greci. Qualche bagliore di questa vita l’abbiamo nell’ideale dei cinici. Ricordiamo il famoso profondo detto: «lathe biosas», che significa vivi nascosto. Senonchè però i cinici intesero la vita solitaria come una forma di anarchica ed egoistica asocialità, che è quanto di più opposto si possa pensare alla vita monastica.

L’accusa di individualismo o di asocialità fatta già dagli antichi, dai materialisti e dagli edonisti alla vita monastica, l’accusa di essere un isolarsi dalla vita sociale sarà una costante della polemica occidentale materialista e comunista nei confronti della via monastica fino ai nostri giorni.

Un’accusa seria invece è quella che viene dall’esigenza umanistica e cristiana di aver stima per il corpo, per la donna e per il sesso. Nei primi secoli del cristianesimo, infatti, la vita monastica fu impostata in base alla prospettiva platonica della diffidenza per i sensi e della liberazione dell’anima dalla schiavitù delle passioni, come se la loro violenza fosse intrinseca e non accidentale alla sessualità e alla corporeità, come se la ribellione della carne allo spirito non fosse una semplice conseguenza del peccato originale. Ci si dimenticava che la volontà originaria di Dio era quella dell’armonia fra sesso e spirito e dell’unione fra uomo e donna.

Non c’è dubbio che le parole del Genesi «Non è bene che l’uomo sia solo. L’uomo si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne» si presentarono sin dai primi tempi del cristianesimo come una seria obiezione alla vita monastica. Già nell’Antico Testamento il rabbino o il sacerdote non parlavano direttamente alle donne, le quali dovevano essere istruite nella Parola di Dio solo dal marito. I discepoli del Signore, vedendo che Gesù stava a discorrere con una donna, si meravigliarono (Gv 4,27),

Ancor oggi al Monte Athos i monaci non parlano con donne, perché, come è noto, la loro presenza non è ammessa.  Tale usanza è senza dubbio troppo rigorista e denota quanto meno una visione arretrata della donna. Origene sarà l’erede platonizzante di questa mentalità rabbinica, le cui tracce si trovano anche in Paolo, laddove egli proibisce alle donne di parlare pubblicamente in chiesa.

Mancava ancora una seria riflessione su cosa implicasse il dogma cristiano della resurrezione del corpo e quindi del sesso maschile e femminile. Fu così che sorse Origene a sostenere che noi risorgeremo bensì col corpo, ma con un corpo talmente spiritualizzato da perdere i connotati della reciprocità sessuale.

La parola monaco viene dal greco monos, che significa uno, e quindi solo. L’ideale monastico si riassume nel detto di Paolo: «chi aderisce al Signore, forma con lui un solo spirito» (I Cor 6,16). Paolo contrappone tale unione a quella con una prostituta e cita le parole del Genesi: «i due saranno una sola carne». Ora è chiaro che se l’unione della quale parla Paolo è incompatibile con l’unione con Dio; invece le parole del Genesi si combinano benissimo con l’unione con Dio. Resta però il problema di come esse si possono combinare nel caso dell’eremita. Bisogna rispondere dicendo che la solitudine dell’eremita non dev’essere intesa in modo così rigoroso da escludere l’unione uomo-donna genesiaca, naturalmente intesa non in senso sessuale ma spirituale.

Aristotele aveva saggiamente avvertito che chi vive da solo o è un dio o è una bestia. O è un superuomo o è un asociale. L’uomo, dice Aristotele, è fatto per dare agli altri e per ricevere dagli altri. È solo Dio che è completamente autosufficiente e non ha bisogno di nessuno.  

La vita monastica non ha origini in Occidente, ma vi è giunta dall’Oriente indiano e tibetano attorno al sec. III. Ebbe una versione cristiana nei Padri del deserto ed una versione pagana nei seguaci di Plotino.  Memorabile è il suo detto dell’«uno che fugge verso l’Uno». Infatti l’Antico Testamento non conosce l’ideale monastico. Il ritiro nel deserto – vedi per esempio il profeta Osea – è solo un momento privilegiato d’incontro con Dio, ma non costituisce uno stato permanente di vita.

Solo col Nuovo Testamento, con San Giovanni Battista e con la Comunità di Qumran appare una vera e propria vita monastica, certo non ispirata dalla Bibbia; per cui, anche se non abbiamo prove dirette, siamo orientati a supporre che non sia sorta in modo autoctono, cosa di per sé non impossibile, ma potrebbe essersi trattato delle prime avvisaglie dell’influsso orientale. Questo influsso orientale, questo prestigio del monachesimo orientale nei confronti dell’Occidente sarà poi destinato a prolungarsi fino ai nostri giorni.

Dall’insegnamento di Cristo, considerando il radicalismo col quale Egli esige che lo seguiamo, si può certamente ricavare l’ideale eremitico, ma Cristo non ne parla esplicitamente, benchè nella sua vita abbia dato esempi di momenti di solitudine con Dio, soprattutto nella preghiera sacerdotale di Gv 17. San Gregorio Magno ritiene che l’«unico necessario» del quale Cristo parla in riferimento a Maria sorella di Marta, sia un riferimento alla vita contemplativa.

L’insegnamento di San Paolo sull’esperienza mistica, dono della sapienza ed effetto della contemplazione (I Cor 2), armonizza certamente con la vita monastica, vita essenzialmente contemplativa, anche se Paolo non ne parla espressamente, e si limita a ricordare un lungo periodo di solitudine passato in preparazione all’adempimento della sua missione apostolica.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 settembre 2022

 

 

L’eremita ci ricorda che l’azione decisiva non è quella esteriore, ma quella interiore. Ci fa presente, come dice Sant’Agostino, che la verità è nella coscienza e non nell’esteriorità, ci ricorda che il sapere, come dice San Tommaso, non è un atto palpabile al senso, ma operazione intima ed invisibile dell’intelletto.

 

L’eremita ci ricorda che l’amore prima di esprimersi all’esterno, è un moto interiore della volontà, noto solo a Dio. L’eremita è l’uomo dell’invisibile, è per eccellenza quell’«uomo spirituale», del quale parla San Paolo (I Cor 2).

L’eremita, come dice Santa Teresa di Gesù Bambino, è nascosto nel cuore della Chiesa, così come il cuore è nascosto agli occhi di chi guarda la sagoma esterna del corpo. Allo stesso modo l’eremita nel cuore della Chiesa svolge per la Chiesa e per l’umanità tutte le funzioni vitali del cuore.

Immagini da Internet:
- Un eremita in un monastero della Moldavia
- Eremita, Salomon Konninck

[1] Sum. Theol., II-II, q.188, a.8.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

14 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli:
    È molto bello e stimolante, questo articolo sulla vita eremitica.
    Non so se quello che commenterò ora sarà di qualche utilità, ma almeno prendilo come un aneddoto curioso.
    Il fatto di aver ricordato quanto disse sant'Agostino, interpretandolo nel senso che "Agostino non vuol dire che l’eremita impedisca di avvicinarsi a chi vorrebbe contattarlo, perché, al contrario, nessuno è più accogliente di lui, immerso com’è in quel Dio che tutti accoglie", mi ha ricordato un aneddoto raccontato da Thomas Merton nel suo diario, "The Sign of Jonas".
    Merton chiese al suo abate al monastero de Getsemani se qualche monaco cistercense, a quel tempo, avesse ricevuto il permesso di diventare eremita, e con grande sorpresa di Merton, l'abate rispose di sì. Proprio uno dei monaci del Getsemani, scomparso da tempo, era stato eremita in montagna per molti anni. Merton scrive: "Al suo eremo vennero molte persone, da miglia intorno, per consultarlo sui loro problemi spirituali. E questo... lo spinse a tornare al Getsemani, il cui monastero prima non aveva trovato sufficientemente silenzioso". (!)

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    1. Caro Pierino,
      l’accoglienza della quale parla Sant’Agostino, non va intesa tanto in senso fisico, come potrebbe essere quella del gestore di un ristorante, ma si tratta di un lavoro interiore dello spirito dell’eremita, il quale, illuminato dal Signore, ha la capacità di comprendere a fondo i problemi spirituali degli altri, senza che questi necessariamente vengano fisicamente al suo eremo, e tuttavia gli accoglie nella sua mente elaborando parole di saggezza, che eventualmente o trasmette agli interessati oppure comunica direttamente a Dio nella preghiera.

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  2. Comprendo che quelle stesse tracce della mentalità rabbinica contro la partecipazione delle donne alla vita della comunità religiosa in condizioni di parità con la partecipazione degli uomini, le cui tracce si trovano in San Paolo, e i cui platonizzanti eredi sono stati Origene ed Evagrio Ponticuo, potrebbe essere ricondotto anche all'attuale opposizione del tradizionalismo cattolico alla partecipazione delle donne ai ministeri della liturgia (lettorato, accolitato, ecc.). Significa non distinguere in san Paolo cos'è la Parola di Dio e le idee dell'hagiografo, cioè non distinguere cosa è Tradizione (Rivelazione) e tradizioni umane o contesto culturale.

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  3. Probabilmente quello che sto per dire non ha assolutamente nulla a che fare con l'argomento. Ma il "necessario" delle parole di Gesù "l'unica cosa necessaria", con tutto il significato di ciò che è "necessario", e la gravità e la serietà di ciò che è "necessario", mi danno oggi un significato profondo di ciò che l'anziano Papa Benedetto XVI ha appena scritto in questi giorni del Concilio Vaticano II, che "si è rivelato non solo significativo, ma necessario".

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    1. Caro Silvano,
      il necessario di cui parla Gesù ha un carattere di assolutezza, perché rifiutandolo mettiamo in gioco la nostra salvezza, mentre il necessario del quale parla Papa Benedetto lo si può considerare piuttosto relativo, nel senso che, se il Concilio non ci fosse stato, non credo che la Chiesa ne avrebbe avuto grave danno.
      Tuttavia riconosco che, sotto Pio XII, c’erano dei grossi pericoli che il Papa aveva denunciato nell’enciclica Humani Generis ed esistevano diversi difetti nella Chiesa ai quali il Concilio avrebbe rimediato, come per esempio una eccessiva chiusura nei confronti del pensiero moderno, una liturgia troppo clericale, una eccessiva distanza dai fratelli separati, una eccessiva severità nella condanna degli errori.
      Per questi motivi l’indizione del Concilio è stata una cosa provvidenziale e se non proprio assolutamente necessaria, quanto meno opportuna e molto utile per una riforma della Chiesa. Infatti il Concilio ha dato delle indicazioni che hanno effettivamente corretto i suddetti difetti e ha dato un impulso rinnovatore alla vita della Chiesa.

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  4. Gentile Padre,

    Le segnalo la pubblicazione della recente istruzione della fu Congregazione (ora Dicastero) per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica intitolata LA FORMA DI VITA EREMITICA NELLA CHIESA PARTICOLARE "PONAM IN DESERTO VIAM (IS, 43,19)". ORIENTAMENTI. La Sede Apostolica ha infatti deciso di legiferare, o meglio di offrire degli orientamenti, in un ambito che aveva evidentemente bisogno di qualche linea guida, vista l'ampiezza (provvidenziale?) del fenomeno eremitico e la sua ricchezza interna.

    Cordialità,

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      la ringrazio vivamente per questa segnalazione, che fa riferimento ad un intervento più che opportuno della Santa Sede circa una questione come quella della vita eremitica, che è di grande importanza per la vita della Chiesa e il bene stesso della società.

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  5. Caro Padre,

    Forse potrà aiutarmi lei a comprendere. Nel documento citato (LA FORMA DI VITA EREMITICA NELLA CHIESA PARTICOLARE "PONAM IN DESERTO VIAM (IS, 43,19)". ORIENTAMENTI) si dice che gli eremiti di voti pubblici e solenni sono riconosciuti nello stato consacrato. Io ho l'impressione che nei vari atti di magistero non sempre sia chiaro se esiste una distinzione sostanziale e giuridica fra il termine "consacrato" e il termine "religioso". Qui si usa il primo, e va bene. Ma per esempio, le vergini consacrate sono consacrate senza essere religiose, però in quel caso si è soliti spiegare che esse non sono religiose perché non professano dei voti pubblici e solenni. Ma in presenza di voti pubblici e solenni, è quindi possibile parlare sempre e comunque di "religiosi" in senso proprio? Un'altro caso è quello dei membri di società di vita apostolica, che non professano giuridicamente dei voti religiosi eppure sono comunemente chiamati religiosi, pur essendo da questi distinti ad normam iuris. Quindi per concludere, un eremita di voti solenni (non appartenente ad un istituto) può anch'egli considerarsi "religioso" oltre che "consacrato"? Riuscirebbe ad illuminarmi in materia?

    Suo in Cristo,

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      la questione che lei mi pone ha un aspetto teologico ed un aspetto giuridico: un aspetto che riguarda la teologia morale, in base alla quale abbiamo lo stato religioso, del quale parla Cristo nel Vangelo. Esso comporta l’osservanza di una regola, approvata dalla Chiesa, e la pratica dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza.
      In base alla teologia morale si può dire senz’altro che un religioso è un consacrato, nel senso che si consacra totalmente a Dio rinunciando al mondo, in vista di un miglior servizio al prossimo in una più stretta unione con Dio.
      Tuttavia la vita religiosa o consacrata ha anche un aspetto giuridico, perché i religiosi obbediscono alla Chiesa secondo una particolare regola di perfezione, che è approvata dall’autorità ecclesiastica, che può essere diocesana o pontificia.
      Parlando qui di consacrazione, uso un concetto riferito alla vita religiosa, che è più stretto di quello ampio col quale si usa parlare di consacrazione battesimale.
      Per quanto riguarda lo stato di eremita, esso non prevede voti solenni, perché la vocazione eremitica storicamente è sorta molto prima dell’istituzione dei voti solenni. Essa piuttosto è caratterizzata dal fatto che una persona consacrata di vita cenobitica, per esempio appartenente ad una comunità monastica, avverte questa vocazione e col permesso del superiore intraprende a realizzarla. Il superiore normalmente può essere o il vescovo o il superiore della comunità di provenienza.
      Come osserva San Tommaso, secondo una antichissima tradizione sia in Oriente che in Occidente, si fa presente che la vita eremitica è difficilissima, per cui già Aristotele diceva che chi vive da solo o è un dio o è una “bestia”, cioè un individuo asociale. Ciò vuol dire che una vita eremitica può essere autentica solo se emerge da una precedente pratica esemplare di vita comune.
      Per quanto poi riguarda le distinzioni relative alle varie specie di voti religiosi, questo è un campo proprio dei canonisti, un campo che non è il mio, perché io sono un teologo.
      Per questo, se lei desidera chiarimenti su questa materia, bisogna che lei si rivolga a un canonista della vita religiosa. Può per esempio consultare il Padre Bruno Esposito ( https://www.padrebruno.com/ ).

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  6. Caro Padre,
    Grazie della risposta e del riferimento, ma soprattutto grasie del suo tempo. Lei dice che la vita eremitica "è caratterizzata dal fatto che una persona consacrata di vita cenobitica, per esempio appartenente ad una comunità monastica, avverte questa vocazione e col permesso del superiore intraprende a realizzarla". Questo è vero per i religiosi appartenenti ad istituti di vita religiosa o monastici che decidono di intraprendere questa via. Tuttavia il canone 603 del CIC e l'istruzione del Dicastero sopra citato prevedono anche l'esistenza di persone non dipendenti da istituti religiosi, che si legano con voto o altro vincolo sacro al Vescovo diocesano, il quale ne approva la regola e vigila a che essa sia osservata. L'istruzione specifica che tale vincolo può (ma non necessariamente deve) prendere la forma giuridica di un voto pubblico e solenne, e che in tal caso (e solo in questo, mi pare di poter inferire) l'eremita è da considerarsi a pieno titolo un consacrato. La mia domanda si riferiva a questa seconda categoria di eremiti, non religiosi in quanto non appartenenti ad un istituto ma comunque consacrati, che ricadono, mi pare, in una sorta di terra di nessuno. Mi rivolgerò, come Lei mi consiglia, al Rev. P. Esposito. Ancora grazie per il suo tempo e la sua disponiblità!

    In Cristo,

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      non sapevo di questa possibilità di vita eremitica accessibile a persone non inserite in istituti religiosi. D’altra parte non mi meraviglio di questa novità, che testimonia della maternità della Chiesa, la quale nel corso della storia allarga le sue braccia a categorie sempre più ampie di persone.
      Infatti, come ho detto in precedenza, fino a questo nuovo provvedimento della Chiesa, l’accesso alla vita eremitica era possibile solo a persone provenienti dalla vita religiosa cenobitica o monastica.
      In ogni caso bisogna confermare il principio che per poter accedere alla vita eremitica occorre prima essere esercitati in modo eccellente nella vita comune o sociale, si tratti o non si tratti di un istituto religioso.
      Per quanto riguarda l’aspetto giuridico, ribadisco il consiglio di rivolgersi a un canonista.

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  7. Caro Padre Cavalcoli,
    estremamente interessanti le sue solide argomentazioni sul fatto che nessuno dovrebbe poter accedere alla vita eremitica senza aver dato prova di capacità alla vita cenobitica o almeno alla normale vita sociale. Altrimenti personalità con caratteristiche patologiche (il "dio" e la "bestia" di Aristotele) potrebbero entrare pericolosamente nella vita eremitica.
    Ora, permettetemi di aggiungere un nesso tra quel vostro ragionamento e la questione scottante della possibilità per le persone con tendenze omosessuali di entrare nei Seminari e nelle Case di Formazione Religiosa ( si intende, conducendo una vita di impegno santificante, cioè di ascesi e di controllo delle sue tendenze). Sappiamo benissimo che papa Francesco ha chiesto di non ammettere in Seminario questa classe di persone. Al riguardo, un buon argomento, parallelamente al suo sulla vita eremitica, potrebbe essere così formulato: l'accesso alla vita sacerdotale celibe non può essere concesso a una persona che non dia prove attendibili di rinunciare all'amore sessuale con una donna.

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    1. Caro Silvano,
      il parallelo che lei fa tra l’eventuale aspirante alla vita eremitica e uno al sacerdozio è certamente valido, anche se i contesti sono differenti.
      La proposta che lei fa che gli addetti alla formazione seminaristica svolgano una attenta verifica circa l’attitudine o la disponibilità del candidato di impegnarsi nella pratica del celibato è indubbiamente pienamente sensata.
      Semmai si tratterà di chiarire come fare questa verifica. In passato il giovane era tenuto troppo lontano da contatti con donne. Il Concilio Vaticano II, sottolineando la reciprocità spirituale e psicologica tra uomo e donna, ha corretto una visione della donna insufficientemente rispettosa della sua dignità, per cui ritengo che l’educatore debba saper formare al celibato abituando il giovane ad un moderato contatto col sesso femminile, che sappia dosare e alternare con prudenza il momento della separazione e il momento dell’incontro.
      Questo indirizzo promosso dal Concilio sta creando una situazione sociale ed ecclesiale che vede la presenza dell’elemento femminile anche all’interno degli organismi della Santa Sede, per cui è necessario che il giovane, futuro sacerdote, sia abituato a trattare con la donna in maniera più appropriata in conformità al ruolo più importante svolto oggi dalla donna, sempre mantenendo ovviamente quelle precauzioni che sono rese necessarie dall’attuale stato di natura decaduta.

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