Il valore nutritivo e medicinale della Eucaristia - Seconda Parte (2/2)

 Il valore nutritivo e medicinale della Eucaristia

Seconda Parte (2/2)

L’Eucaristia è alimento di vita eterna, che suppone l’anima in grazia

L’Eucaristia, come ci assicura il Signore, è necessaria per avere la vita eterna. Se non mangiamo il Corpo del Signore, non possiamo avere la vita eterna e non scampiamo dall’inferno. Dunque non basta il battesimo, non basta il sacramento della penitenza. Essi certo ci assicurano lo stato di grazia. Ma nell’adulto non sono sufficienti ad assicurare la vita eterna, se egli non si nutre anche del cibo eucaristico. È come il caso dell’adulto che conservasse l’igiene fisica, si guardasse dai pericoli per la salute, facesse ginnastica, si premunisse nei confronti di contagi e malattie e non si nutrisse. Sarebbero queste pratiche sufficienti a mantenerlo in vita?

Ma la grazia di quaggiù non è ancora la vita eterna del paradiso. Ne è solo la preparazione, la pregustazione e la condizione di possibilità. Ovviamente, il fedele battezzato e confessato che morisse prima di aver fatto la Comunione, andrebbe in paradiso, ma solo in forza delle precedenti Comunioni. Ovviamente, il bambino battezzato che morisse prima di aver raggiunto l’età della Santa Comunione, andrebbe in paradiso.  

Inoltre la comunione eucaristica è partecipazione all’offerta che Cristo fa di Se stesso al Padre per la remissione dei nostri peccati. Si suppone quindi che chi fa la Comunione abbia questa consapevolezza ed intenda unirsi alla Croce di Cristo per la salvezza propria e per quella del mondo.

Il concepire, quindi, l’Eucaristia, come fanno i protestanti, come semplice memoriale dell’ultima Cena senz’alcun legame col sacrificio espiativo della Croce e quindi senza dare a questo pasto sacro il significato di partecipazione alla passione di  Cristo in unione col suo sacrificio sacerdotale per la remissione dei peccati, non coglie il pieno significato e valore salvifico dell’Eucaristia e non è quindi abilitato a fare la Comunione.

Infatti Gesù, nel presentare il calice, dice: «questo è il mio sangue dell’Alleanza, versato per molti in remissione dei peccati» (Mt 26,28). È evidente il riferimento al sangue che avrebbe versato sulla croce il giorno dopo. Quindi nel momento dell’ultima Cena Gesù fa capire agli Apostoli due cose: prima, che cosa aveva inteso dire quando aveva detto che per avere la vita occorre mangiare la sua carne e, seconda, fa capire che Egli avrebbe offerto Se stesso sulla croce in sacrificio di espiazione per la remissione dei peccati. Quindi Egli, come aveva preconizzato Giovanni il Battista, era il vero Agnello che toglie i peccati del mondo.

Il limite di Lutero

Lutero accetta senz’altro il valore redentivo della Croce, e tuttavia, nel considerare l’episodio dell’ultima Cena, non si accorse che essa non fu una semplice cena pasquale commemorativa dell’Alleanza mosaica, ma fu l’istituzione della Nuova Alleanza nel sangue di Cristo, Agnello immolato per la remissione dei peccati, con relativa istituzione di un nuovo sacerdozio come partecipazione al Sacerdozio di Cristo e quindi di un nuovo rito, appunto il rito della Messa.

Lutero invece non si accorse che in quell’occasione Cristo funse da sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, offrendo il pane e il vino come sacrificio di Se stesso al Padre. Non s’accorse che con quel «fate questo in memoria di me» Gesù istituiva i Dodici come sacerdoti della Nuova Alleanza. Non s’accorse che quella Cena era la prima Messa.  

Non pensò inoltre a collegare la Cena col sacrificio della Croce e non capì che il gesto di Gesù di offrire ai suoi il pane e il vino consacrati era nel contempo e innanzitutto l’offerta del proprio corpo e del proprio sangue al Padre, come avrebbe fatto cruentemente sulla croce il giorno dopo.

Lutero crede nel sacrificio di Cristo sulla croce per la remissione dei nostri peccati. Ma non si accorse che quell’unico Sacrificio divino, sufficiente da sé a lavare tutte le colpe del mondo, nel Giovedì Santo Gesù lo aveva già istituito, comandando ai suoi di fare quello che aveva fatto Lui, ossia ordinandoli sacerdoti della Nuova alleanza, abilitati a celebrare in modo incruento quel medesimo divino Sacrificio, in altre parole, a celebrare la Messa.

Comunione eucaristica vuol dire comunione di volontà fra quella del fedele e quella del Signore, che il fedele intende ricevere nel suo cuore. Ma se questi, trovandosi in stato di peccato mortale, ha con ciò stesso una volontà avversa a quella del Signore, che senso può avere il voler comunque fare la Comunione? Come fà a conciliare la sua volontà di restare attaccato al peccato con la volontà di accogliere nel suo cuore Colui che detesta quel peccato, al quale egli è attaccato e al quale non vuol rinunciare? Come può dire di voler esprimere con la Comunione il suo amore per Cristo, se nel contempo rinnega questo amore amando ciò che Cristo odia? Si può amare una persona amando e facendo ciò che essa odia e non vuole?

Dunque queste persone non vogliono fare la Comunione perché amano sinceramente Cristo e la propria salvezza, ma perché o non credono che il peccato che compiono sia veramente peccato gli occhi di Dio o perché vogliono fare la figura di amare Dio nonostante il loro peccato o perché credono di essere accolte da Dio nonostante il loro peccato.

Come sappiamo, a tantissimi, come gli atei o i non cristiani fare la Comunione non interessa assolutamente. Gli Ortodossi coltivano come noi il culto eucaristico; ma la comunicazione in sacris con loro, benché in linea di principio possibile, non è sempre cosa semplice, soprattutto per gli ostacoli da loro posti alla comunione con noi cattolici.

Quanto ai protestanti, purtroppo essi, benché coltivino la memoria della Cena del Signore e ricordino le parole del Signore sul pane e sul vino, non riconoscono la loro transustanziazione nel corpo e nel sangue del Signore, per cui essi mancano della fede di mangiare la carne e il sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino.

Gesù non dice: «questo pane è il mio corpo», perché non si può predicare una cosa di un’altra cosa, una sostanza di un’altra sostanza. È un discorso che non ha senso, perché invece di indicare le proprietà del soggetto, si mette un altro soggetto al posto del predicato.

Predico del soggetto del quale sto parlando non una proprietà del soggetto, come è mio dovere per farmi capire, ma introduco un altro soggetto come se questo potesse essere la proprietà o il predicato o l’essenza del soggetto del quale sto parlando.  Ma un conto è un soggetto e un conto sono le proprietà di quel soggetto.

Soggetto e predicato del giudizio devono essere due concetti sì diversi, ma che però di fatto si identificano nella realtà del soggetto del quale sto parlando. Solo così il giudizio fà conoscere e non è una semplice tautologia (il pane è il pane). Ma se nel predicato metto un altro soggetto, diverso (corpo), come pr esempio il pane che è diverso dal corpo, il soggetto di cui parlo si divide in due soggetti e non si capisce più di che cosa sto parlando (se del pane o del corpo). Non si può infatti attribuire ciò che appartiene ad una sostanza ciò che è proprio di un’altra sostanza.

Ora c’è da supporre che il Logos divino incarnato, creatore e ordinatore della ragione umana e della sua logica, sapesse far buon uso del linguaggio e delle sue regole logiche, sì da esser capace di fare discorsi sensati e di farsi capire in quello che intendeva dire, per quanto misterioso e soprannaturale fosse.

Così per esempio non posso dire Pietro è Paolo, ma semmai Pietro è Pietro e Paolo è Paolo. Per fare un discorso sensato e non confondere tra loro due soggetti diversi (pane e corpo), io devo predicare solo le proprietà di quella data cosa, di quel dato soggetto, siano esse sostanziali o siano accidentali. Ma non posso mettere nel predicato un soggetto diverso (corpo) da quello del quale sto parlando (pane). Un conto è il pane e un conto è il corpo di Cristo. Infatti Gesù non dice: «questo pane», ma «questo», ossia questa cosa (gr.tuto, lat.hoc, Mt26,26). Si tratta di ciò che il pane sta divenendo nella transustanziazione.

Il predicato «è» (gr.estin, lat.est) significa l’indicazione della realtà e della sostanza del corpo di Cristo; è un predicato sostanziale ed essenziale, che dichiara o definisce che cosa è quella data cosa, che viene mostrata; è come se Gesù avesse detto, mostrando quello che sembrava pane: «ecco qui il mio corpo!».

Immaginiamo la somma sorpresa degli Apostoli a queste parole del tutto inaspettate. Ma certamente a loro saranno tornate in mente quelle sconvolgenti parole che Gesù aveva già in precedenza pronunciate, secondo le quali, per avere ls vita, occorreva mangiare la sua carne. Ebbene, ecco la la sua carne, sotto le specie di un’umilissima porzione di pane! Allora gli Apostoli capirono cosa vuol dire mangiare il corpo di Cristo.

Non furono più turbati e non pensarono affatto al cannibalismo, dato che mangiare una porzione di pane o di ciò che ai sensi appare pane è la cosa più normale di questo mondo, benché si fossero accorti che Gesù, con quel «prendete e mangiate», continuava più che mai ad offrire il suo corpo da mangiare, non però sotto le specie del corpo – cosa orribile -, ma sotto le specie del pane.

Quindi il pane consacrato in realtà, benché mantenesse le specie sensibili del pane, al momento delle parole hoc est corpus meum, non era più pane, ma era diventato il corpo del Signore. Non si trattava quindi di mangiare del pane, ma effettivamente, come Gesù aveva predetto, di mangiare la sua carne.

Errata è quindi l’interpretazione di Lutero: «io sono in questo pane». No, benché Gesù mostri qualcosa (hoc), che continua ad avere le apparenze sensibili del pane, quello che Gesù indica non è più pane, ma ciò che sta divenendo il suo corpo. La sostanza del pane si è mutata o convertita nella sostanza del suo corpo, ovviamente priva dei suoi accidenti sensibili, che appartengono solo al corpo glorioso di Cristo in cielo.

Quindi Gesù non è nel pane, ma ciò che appare come pane è in realtà il corpo di Gesù, celato sotto le apparenze del pane[1], similmente a come gli accidenti nascondono la sostanza. Essi però nel contempo solitamente la rivelano: se noi sentiamo il sapore del pane, diciamo: questo è pane. Non così invece avviene nell’Eucaristia. Sentiamo bensì il sapore del pane, ma sappiamo per fede che esso non rivela la sostanza del pane, ma che cela il corpo di Cristo.

Gesù è nel Tabernacolo

Per questo Gesù eucaristico è presente in tutti i tabernacoli del mondo. Non si tratta di ubiquità, che è un attributo divino. Non è il suo corpo moltiplicato, cosa assurda, ma è sempre il suo medesimo corpo glorioso che si rende presente sotto le specie eucaristiche, presente ovunque a modo di sostanza, e quindi libero da riferimenti o condizionamenti spaziali.

Occorre far presente, comunque, che, benché nell’Eucaristia restino solo le specie del pane, non è proibito parlare di Gesù eucaristico come «pane di vita». Gesù presenta se stesso come il «pane dal cielo» (Gv 6,32), il «pane di Dio, che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (v.33) «pane della vita» (v. 35). «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v.51).

Per questo la Chiesa parla di «pane eucaristico», «pane consacrato», mentre San Tommaso parla di «pane degli angeli». È chiaro che sono sensi metaforici per dire che il corpo di Cristo nutre a somiglianza del pane che nutre. E per questo si parla di «banchetto eucaristico».

Una volta che si sa chiaramente che l’ostia consacrata non è più pane, ma è Gesù stesso realmente, sostanzialmente e fisicamente presente fra noi, per esempio nel Tabernacolo, benché non contenuto dallo stesso Tabernacolo come un barattolo di marmellata nella credenza, quindi non racchiuso nello spazio o circoscritto dallo spazio, perché privo degli accidenti, che ne rendono possibile la collocazione nello spazio, si può parlare benissimo di  pane eucaristico e di Gesù nel Tabernacolo o «esposto» e farne l’oggetto di adorazione, parlandogli confidenzialmente, esattamente a come faremmo con una persona a noi cara, che ci ascolta e ci parla, e alla quale possiamo rivolgerci con tutta confidenza e davanti alla quale possiamo veramente effondere i sentimenti del nostro cuore, presentare i nostri problemi, esporre i nostri dubbi, manifestare le nostre pene ed angosce, certi di ottenere luce, conforto, guida e consolazione.

Questa è una preziosa lezione che ci danno tutti i Santi[2], e della quale purtroppo Lutero si privò col ridurre il pane eucaristico alla semplice funzione di cibo, per cui, cessata la mensa, Gesù lascia il pane e se ne torna al cielo. A questo punto sarebbe assurdo per Lutero adorare il pane avanzato.  Esso, avendo solo la funzione di esser segno della presenza di Cristo, una volta che questa presenza viene meno, può anche essere gettato.

I frutti della Santa Comunione

Dalla Santa Comunione ben fatta il fedele trae alimento prezioso per la propria vita di grazia, riceve nuova forza per affrontare le prove, sopportare le sofferenze, allontanare le tentazioni, guarire dai suoi difetti, sventare le insidie del demonio, elevare lo spirito a Dio, esser più docile alle iniziative dello Spirito Santo, incrementare l’amore per Dio e per i fratelli, essere consolato nell’afflizione, pregustare la gioia della vita futura.

San Tommaso canta mirabilmente in vari modi con perfetta precisione dogmatica, da par suo, l’utilità immensa e la dolcezza sublime ed ineffabile di questo Sacramento, nonchè la sua potenza vivificante. Citiamo alcuni passi tratti dall’ufficio divino del Corpus Domini, che ebbe da Papa Urbano IV il compito di scrivere e comprenderemo perché l’Aquinate ha tra i suoi titoli quello di Doctor Eucharisticus.

«O pretiosum et admirabile convivium, salutiferum et omni suavitate repletum! Quid enim hoc convivio pretiosius esse potest, in quo non carnes vitulorum et hircorum, ut olim in Lege, sed nobis sumendus proponitur Christus verus Deus? Quid hoc sacramento mirabilius? In ipso namque panis et vinum in Christi corpus et sanguinem substantialiter convertuntur. Ideoque Christus Deus et homo perfectus sub modici pani set vini specie continetur[3].

Suavitatem denique huius sacramenti nullus exprimere sufficit, per quod spiritualis dulcedo in suo fonte gustatur et recolitur memoria eius, quam in sua passione Christus ministravit, excellentissimae caritatis[4].

O sacrum convivium, in quo Christus sumitur, recolitur memoria passionis eius, mens impletur gratia et futurae gloriae nobis pignus datur!»[5]

Chi si accosta alla Santa Comunione deve sapere chi va a ricevere. Similmente l’amico che desidera incontrare l’amico, deve conoscerlo nella sua dignità e nelle irripetibili proprietà. Chi non sa per fede che il pane eucaristico non è pane, ma corpo del Signore e crede di nutrirsi di semplice pane, anche se Cristo è in esso presente, mostra di disprezzare Cristo abbassandone l’infinita dignità a quella di un semplice pezzetto di pane. Dunque offende Cristo. E dunque, come dice San Paolo, «mangia la propria condanna» (I Cor 11,29).

Il compito pastorale veramente urgente

Il compito pastorale oggi primario ed urgente non è quello di chiarire chi può fare la Comunione e chi non può, ma è quello ritornare alla consapevolezza di fede di che cosa succede nel pane e nel vino nel momento in cui il celebrante pronuncia le parole della consacrazione. Il Concilio di Trento lo ha chiarito definitivamente e dogmaticamente col famoso concetto della transustanziazione ovvero della «conversione di tutta la sostanza del pane e del vino in tutta la sostanza del corpo e del sangue del Signore» (Denz.1642)[6].

Al riguardo, un teologo come Andrea Grillo sostiene che la tesi della transustanziazione è una possibile interpretazione della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, ma non necessariamente l’unica, perché può essere affiancata dalla tesi dell’impanazione o consustanziazione avanzata da Lutero, della quale ho già parlato.

Ora occorre osservare che Grillo suppone la confusine tra di loro di due generi diversi di comprensione intellettuale: la spiegazione o conoscenza argomentata ed oggettiva con l’interpretazione soggettiva.

Il conoscere o sapere ha per oggetto un fatto o una realtà o un processo ontologico, del quale occorre comprendere o definire la natura e le cause; invece l’interpretazione ha il compito di far comprendere, chiarire o spiegare il significato di un prodotto del pensiero: il linguaggio, il messaggio orale o scritto, la dottrina di qualcuno, una lingua, un comportamento morale, un fatto umano, un discorso, un testo letterario, un’opera d’arte, un segnale, un simbolo, un mito, un racconto.

Si conoscono le cose, la natura che ci circonda, il creato, le opere di Dio, chi è l’uomo, qual’ è la legge morale, chi è Dio, chi sono gli angeli, che cosa è la Chiesa, che cosa sono i sacramenti, qual è l’origine e il destino dell’umanità. Ora la questione di quello che succede al momento della consacrazione delle oblate non è una questione di interpretare, ma di sapere.

Le interpretazioni possono essere molte ed incerte, come le opinioni. Il sapere o conoscere, invece, con le sue motivazioni, ha quel dato oggetto preciso e non altri, un oggetto univoco, certo e fondato: o è vero o è errato. Il conoscere spiega come stanno le cose. L’interpretare presenta un certo punto di vista, compatibile con altri, eventualmente rivedibile ed incerto. Esiste certo l’interpretazione giusta, che esclude altre ad essa contrarie. Ma allora essa imita il sapere e non può che essere una sola e determinata. L’interpretazione ha un ventaglio di possibilità. L’oggetto del sapere è quello e basta.

In base a quanto detto, è chiaro che a proposito di ciò che avviene al momento della consacrazione, trattandosi di un fatto oggettivo, preciso, reale e soprannaturale e non della mera espressione di un pensare umano o di un atto umano, non si tratta di interpretare, ma di sapere. Non si tratta della possibilità di diverse interpretazioni, ma di sapere, determinare, spiegare, chiarire, descrivere, esporre o definire che cosa succede, che cosa fà Dio in quel momento servendosi del potere del sacerdote.

In questa circostanza il Concilio di Trento ha definito infallibilmente ed univocamente, con certezza di fede, proprio contro Lutero, che cosa succede al momento della consacrazione. Quindi non ha senso la tesi di Grillo, che pretenderebbe di affiancare la spiegazione di Lutero a quella del Concilio. Occorre invece dire che la spiegazione data dal Concilio è quella vera, mentre quella di Lutero è falsa.

Il Concilio parla di «sostanza del pane e del vino» e di «sostanza del corpo e del sangue». Sostanza in che senso? Non in senso strettamente filosofico, ma in senso volgare e corrente e tuttavia con riferimento filosofico. Sostanza in senso filosofico è l’ente individuale completo sussistente, pura forma se è spirituale; composto di materia e forma sostanziale, se è sostanza materiale.

Sotto questo punto di vista il pane, in quanto artefatto, non è una sostanza naturale, ma un aggregato di sostanze naturali biologiche sbriciolate, un impasto dotato di una forma accidentale imposta alla materia dal fornaio, che ha fatto il pane. Qui «sostanza del pane» significa semplicemente il pane, certo con i suoi accidenti di colore, sapore, odore, peso e dimensioni. Tuttavia il mistero eucaristico comporta la separazione del pane dai suoi accidenti: restano gli accidenti, mentre la sostanza del pane si è convertita nella sostanza del corpo del Signore.

E quando il Concilio dice «sostanza del corpo del Signore», col termine «corpo» si riferisce al corpo animato di Cristo, giacchè il corpo umano vivente è sostanza materiale non per conto suo, come credeva Cartesio, ma solo in quanto materia prima informata dall’anima razionale.

E se il Concilio sottintende gli accidenti della sostanza del corpo, accidenti presenti nel corpo di Cristo in cielo, si tratta degli accidenti fisici del composto umano, anima e corpo, di Gesù Cristo. Nell’Eucaristia l’anima di Gesù è presente per concomitanza, così come la forma sostanziale che anima il corpo umano, lo accompagna a formare con lui un’unica sostanza composta, la natura umana di quel dato individuo, dato che il corpo separatamente dall’anima non sarebbe più corpo umano, ma cadavere.

I concetti di sostanza e accidente sono concetti spontanei, intuitivi ed universali della ragione naturale, noti a tutti. Sostanza è qualcosa che sussiste in sé e da sé; accidente è qualcosa che inerisce alla sostanza. Solo l’intelletto coglie la sostanza, che è anche l’essenza della cosa. La sostanza resta nascosta ai sensi, i quali la colgono implicitamente cogliendo gli accidenti, che sono le manifestazioni sensibili della sostanza.

La transustanziazione è una delle tre espressioni dell’azione divina che fa passare la creatura dal non-essere all’essere, essendo le altre due la creazione e la trasformazione. Nel creare Dio fa passare la creatura dal non-essere assoluto all’essere: nella trasformazione fa passare una materia dal non essere soggetta ad una data forma all’essere soggetta ad un’altra forma.

Nella transustanziazione Dio fa passare un’intera sostanza composta di materia e forma dal non-essere quella data sostanza all’essere un’altra sostanza. Da notare che mentre la natura può operare la trasformazione, il creare e il transustanziare è opera esclusiva dell’onnipotenza divina, perché mentre la trasformazione presuppone all’agente l’esistenza della materia da trasformare ed egli ha solo il potere di cambiar forma alla materia, per esempio produrre il pane e il vino, negli altri due casi l’effetto può essere ottenuto solo dall’onnipotenza divina, la quale o crea la sostanza dal nulla o ha un tale dominio sulla sostanza, da convertirla totalmente in un’altra.  È questo il caso della transustanziazione.

Da notare che questo atto divino non comporta, come potrebbe sembrare, un annullamento della sostanza del pane e del vino e una loro sostituzione col corpo e col sangue del Signore, ma Dio muta la loro sostanza nel senso di convertirla in una sostanza totalmente diversa senza togliere o creare l’essere, ma mutando totalmente l’essere, cosa che può fare evidentemente solo Dio, Signore assoluto dell’essere.

Così Dio produce una sostanza materiale senza gli accidenti: il corpo e il sangue di Cristo, e gli accidenti di un corpo, il pane e il sangue, senza la sostanza, ma sostentando Egli stesso quegli accidenti nel sussistere. O meraviglia dell’onnipotenza divina! Dio che da una parte rende il corpo e il sangue del suo Figlio incarnato pura sostanza, benché materiale, a somiglianza del suo Essere purissima Sostanza senza accidenti. E dall’altra, si degna Lui, il sostentatore dell’universo, degli uomini, degli angeli, del paradiso, del purgatorio e dell’inferno, di sostenere nel sussistere gli umilissimi accidenti di un corpo e di un sangue, che però appartengono alla natura umana del suo amatissimo Figlio, al fine di nutrirci con questo corpo e con questo sangue perchè partecipassimo della vita divina del Figlio Incarnato per tutta l’eternità.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 24 giugno 2021

 


Gesù non dice: «questo pane è il mio corpo», perché non si può predicare una cosa di un’altra cosa, una sostanza di un’altra sostanza.

C’è da supporre che il Logos divino incarnato, creatore e ordinatore della ragione umana e della sua logica, sapesse far buon uso del linguaggio e delle sue regole logiche, sì da esser capace di fare discorsi sensati e di farsi capire in quello che intendeva dire, per quanto misterioso e soprannaturale fosse.

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[1] Jesum, quem velatum nunc aspicio, dice S.Tommaso.

[2] Vedi per esempio la lezione che ci viene dal Venerabile Pio Giocondo Lorgna, OP: PADRE LORGNA: SACERDOZIO, EUCARISTIA E VITA, Sacra Doctrina, 6, 1988, pp.696-739.

[3] Ufficio divino del Corpus Domini, in Opuscula Theologica, Marietti, Torino-Roma 1954, p.277.

[4] Ibid.

[5] Ibid., p.280.

[6] Vedi la dotta esposizione del significato della transustanziazione fatta da Padre Tomas Tyn nelle sue conferenze del 1987 all’Istituto Tincani di Bologna.

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