La pace come effetto della vittoria sul nemico - Terza Parte (3/3)

  La pace come effetto della vittoria sul nemico

Terza Parte (3/3) 

 La pace si edifica con una paziente opera di mediazione fra le parti,

non col dar libero campo agli opposti estremismi

 La pace sociale, così come l’ho definita, non può essere effetto di una dottrina che ammetta come legittimo o inevitabile l’uso di un linguaggio ambiguo, o l’astenersi dal prender posizione fra due tesi opposte, quasi fossero parimenti accettabili, un atteggiamento tale da far supporre in chi lo pratica una qualche forma di insincerità, di disonestà o doppiezza morale, che ammetta la coesistenza e compossibilità dell’affermazione e della negazione, del sì e del no. 

Governanti che sono infetti da questa mentalità dialettica ed antinomica, alternano il decisionismo con l’astensionismo, l’imposizione arbitraria e violenta alla tolleranza dell’ingiustizia. Chi non è libero da un pensare polemico e divisivo non può certo considerarsi un costruttore di pace.

Succede infatti che costui, invece di impegnarsi con diligenza e discernimento nell’analisi e nella soluzione della controversie, lavorando così per la pace e la concordia, illuso che la sintesi sorga dal conflitto e richieda addirittura il conflitto, non tiene conto del pericolo che incombe sulla comunità e sulla stabilità del suo stesso potere, come dimostra la storia, la quale ci insegna che i governi che non stroncano sul nascere i fattori di dissoluzione e di  divisione,  quasi sempre essi si aggravano, e quando si cerca di correre ai ripari, è troppo tardi. Da qui lo scoppio delle sedizioni, delle rivoluzioni e delle guerre civili. Da qui il trionfo dell’anarchia con la conseguente dissoluzione della convivenza civile.

Il buon governo deve invece mediare con imparzialità fra le fazioni opposte, togliere le incompatibilità, facendo convergere le forze reciprocamente complementari verso il fine comune della società, sulla base del bene comune, comunemente condivisibile così da assicurare fra le parti un accordo stabile di fondo, pur nella libertà delle scelte particolari, nel momento in cui resta del tutto normale una dialettica politica che non metta in forse le basi della convivenza democratica, ma si limiti all’orizzonte che le compete, che è quello delle semplici opinioni e del contributo concreto, senza alcuna pretesa di edificare da sola la sintesi di competenza dei valori universali e del bene comune.

Certamente, dobbiamo dire che per ottenere la pace sociale occorre saper costruire una sintesi, nella quale gli elementi siano ordinati fra di loro attorno ad unico principio, senza giustapporre il positivo al negativo alla maniera hegeliana, cosa che non risolve niente,  bensì una sintesi che nell’una e nell’altra parte in conflitto sappia trovare il positivo in base a un concetto del bene comune e dei singoli, un concetto che astragga l’universale dal particolare, mentre sappia cogliere il concreto, per mostrare a tutti il valore universale o il bene comune, che sarà il punto di accordo e di convergenza, attorno al quale tutti devono raccogliersi ed unirsi e così soltanto il conflitto potrà essere tolto.

In tal modo infatti emerge agli occhi di tutti il principio della pace. Il conflitto, quindi, non va coperto con una falsa sintesi del sì e del no, ma va riconosciuto apertamente, lealmente e serenamente. Solo così può essere tolto mettendo in luce il vero contro il falso, il giusto contro l’ingiusto.

Il fautore di pace deve quindi fare da giudice fra le parti, evitando, in base ad un’accurata conoscenza della situazione, la parzialità e dando a ciascuno il suo, si tratti del rimprovero o si tratti della lode, si tratti di aggiungere o si tratti di togliere. Per unire gli estremi e fare da mediatore, deve stare al centro come punto di collegamento o in mezzo ad uguale distanza – in medio stat virtus -, senza dar mostra di propendere più verso l’una parte che verso l’altra, salvo che l’una sia più vicina al giusto dell’altra.

Viceversa, il rischio del metodo dell’opposizione polare proposto da Guardini è quello che il giudice o il governante debba limitarsi a edificare una «sintesi» che non sarebbe altro  che la giustapposizione o pari legittimità dei due poli opposti, per la quale non è deciso con certezza da che parte sta il vero e il giusto, ma i due opposti stanno assieme alla pari, per cui l’unica cosa da fare alla fine sarebbe la semplice registrazione e legittimazione di questa conflittualità in base a una concezione della dinamica sociale sul modello del Cusano come coincidentia oppositorum.

Ora, bisogna vedere che cosa s’intende per «opposizione». C’è infatti un’opposizione che fa capo alla relazione e questa non reca alcun pregiudizio alla pace sociale, ma ne è anzi un normale presupposto, trattandosi infatti di nient’altro che delle relazioni sociali.

Esiste inoltre un’opposizione tra due persone che comporta complementarità reciproca, come per esempio l’opposizione fra uomo e donna. Guardini, fra gli esempi delle opposizioni polari pone anche questo. E qui la sua concezione è certamente accettabile. Ma qui evidentemente la dialettica non c’entra niente. La dialettica non riguarda la natura delle cose, ma le leggi del nostro pensiero. La dialettica si riferisce all’incertezza del nostro pensare. La natura non ha nulla di incerto, ma in se stessa è determinata e certa in forza della divina provvidenza. Il divenire della natura è un passare dell’ente dalla potenza all’atto; il moto dialettico è un succedersi di pensieri concepiti dalla nostra volontà ed organizzati dalla ragione. Si vede che Guardini è sotto l’influsso dell’idealismo.

Inoltre, se l’opposizione la s’intende come tensione fra due forze incompatibili, sul modello di quello che ho detto sopra, alla maniera di Guardini, allora bisogna dire che questo tipo di opposti non comporta nessuna coincidenza, nessuna convergenza, nessun accordo e nessuna identità, ma inimicizia ed esclusione reciproca, il che non ha niente a che vedere con la pace, ma significa guerra, violenza, contraddizione, divisione, vendetta, estremismo, faziosità, odio e conflitto irresolubile.

Non si può certo escludere in una società sana e pacifica una certa dialettica e l’esercizio di un’opposizione costruttiva. Il partito di opposizione è normale in qualunque democrazia. La dialettica non è altro che l’arte di argomentare in modo probabile limitandosi a formare semplici opinioni, che possono del tutto lecitamente essere in contrasto con opinioni opposte.

Ma un conto è la legittimazione del contrasto, della tensione e del conflitto perché non si crede alla possibilità di distinguere il vero dal falso e il giusto dall’ingiusto, per cui si mettono assume il sì e il no, e un conto è la modestia di chi, incerto circa gli argomenti che adduce, esprime la sua opinione ammettendo di poter sbagliare trattandosi di affari contingenti che non mettono in gioco i valori assoluti. Da qui la saggia regola di Sant’Agostino: in dubiis libertas, in necessariis unitas, in omnibus caritas. La dialettica non fornisce criteri saldi e sicuri per regolare l’ordine sociale, ma per questo occorre la scienza morale e soprattutto la teologia morale.

La pace è compatibile col pluralismo e il contrasto delle opinioni, non con l’elevazione della dialettica a norma assoluta della convivenza civile, cosa che produrrebbe uno stato di guerra permanente di tutti contro tutti, quell’homo homini lupus di infausta memoria hobbesiana.

Con ciò l’errore contrario sarebbe il pacifismo utopistico alla Rousseau, il quale, ignaro delle conseguenze del peccato originale, crede che sia possibile con un atto di buona volontà cessare dal far guerra come si può smettere l’abitudine di alzarsi da letto alle 7 per alzarsi alle 8.

 

Nel presente stato di natura decaduta

per ottenere la pace occorre la virtù della fortezza

 

Forgeranno le loro spade in falci:

un popolo non alzerà più la spada

         contro un altro popolo,

                                                                                   non si eserciteranno più nell’arte della guerra

Is 2, 4

Dio ha creato l’uomo dotato di un apparato psicofisico atto ad aggredire agenti nocivi e a difendersi da essi. Nello stato di natura decaduta gli uomini, senza aver perso del tutto l’inclinazione all’amore e all’aiuto reciproco, impronta in loro della volontà del Creatore, posseggono una tendenza per superbia a sopraffarsi o ad opprimersi a vicenda, per individualismo ad isolarsi e a dividersi gli uni dagli altri, a maltrattare e a dominare gli uni sugli altri, mossi dall’avarizia a derubarsi e a nuocersi a vicenda fino ad arrivare, mossi dall’odio, dalla vendetta o dall’invidia ad atti di crudeltà e all’omicidio.

Così nascono le controversie, le polemiche, i litigi, le contese, le guerre, le stragi. Il desiderio e il bisogno della pace, della concordia, della comunione non è scomparso, ma spesso queste istanze vengono concepite in modo sbagliato, cosicchè, a causa del disaccordo su quali sono le condizioni per vivere in pace, si finisce per farsi la guerra. Condizione indispensabile per evitare la guerra è quindi accordarsi su qual è la vera pace, come la si ottiene e come la si conserva, cose delle quali sto trattando in questo articolo.

Esistono fra noi uomini pacifici e uomini aggressivi e bellicosi. C’è chi sa che cosa è la pace e si adopera a conservarla in se stesso e a promuoverla nel suo ambiente sociale. C’è invece chi è preso da quelle cattive inclinazioni di cui sopra, che spingono a muover guerra al prossimo in modo organizzato, popolo contro popolo, nazione contro nazione. Ecco allora che i pacifici, i quali, se non fossero disturbati, vivrebbero in pace con tutti, essere obbligati a difendersi dagli aggressori e a chi muove loro guerra. Dunque il far guerra nella vita presente è una dura necessità se i pacifici vogliono vivere in pace.

La guerra è dunque un’azione collettiva organizzata avente lo scopo di vincere un nemico parimenti organizzato per la guerra. La guerra è un’azione ordinata dalla pubblica autorità nell’interesse dello Stato o della nazione che muove guerra. In tal modo non chiamiamo guerra ma semmai sedizione o insurrezione un’azione collettiva armata all’interno di uno Stato o contro il governo o contro una certa classe di cittadini. Siccome si tratta di un’azione umana collettiva volontaria, il guerreggiare pone il problema del significato morale della guerra. Ora, quando si tratta di atti morali nei confronti degli altri, la virtù umana che ha competenza in questo campo è la virtù della giustizia.

Ora sappiamo tutti che il guerreggiare comporta l’uccisione del nemico e la distruzione di infrastrutture militari e a volte anche civili. Sorge subito allora il problema della liceità della guerra, stante il comandamento divino di non uccidere e non danneggiare le proprietà del prossimo. La risposta la conosciamo: quando non è possibile ad uno Stato far rispettare da parte di un altro Stato diritti vitali imprescindibili, o quando uno Stato è aggredito ingiustamente da un altro Stato, è lecito allo Stato offeso rivendicare o difendere il proprio diritto con l’uso moderato della forza militare.

Uso moderato vuol dire: 1. che le forze armate devono esser sufficienti per far sperare le vittoria; 2. Le forze militari devono essere usate nel rispetto dei diritti umani mirando unicamente alla neutralizzazione delle forze nemiche e alla soppressione del nemico solo che ciò sia strettamente necessario a neutralizzare la sua offensiva; 3. Esse vanno usate sotto la direzione delle virtù della temperanza, della giustizia, della lealtà, della misericordia, della prudenza, dell’obbedienza, del coraggio, della pazienza, evitando assolutamente ogni forma di crudeltà, di ira sfrenata, di ruberia, di razzia, di strage, di violenza, mentre, come osserva San Tommaso, non sono proibite le insidie[1].

San Tommaso pone l’atto più specifico della virtù di fortezza in relazione al pericolo di morte nel quale incorre il soldato in guerra, supponendo una guerra giusta[2]. E parlando del martirio lo paragona alla morte eroica del soldato citando San Cipriano che chiama i martiri «militi fortissimi»[3]. Questo vuol dire che occorre esser cauti a paragonare la guerra a un orribile crimine. Certamente essa è una drammatica realtà di quaggiù, che non esisterà più in paradiso, mentre potremmo considerarla eternamente istituzionalizzata l’inferno nell’odio che i dannati avranno fra di loro e verso Dio. Ma dobbiamo riconoscere il fatto innegabile da sempre riconosciuto che in occasione delle guerre gli uomini possono dar prova delle massime virtù come dei vizi peggiori. Sottrarsi al servizio militare, se ciò può esser fatto senza grave rischio, può esser saggio in una guerra ingiusta. Ma chi per vigliaccheria si sottrae al dovere di difendere la patria in pericolo, magari con la scusa della non-violenza, non è certo degno di lode.

Tuttavia, la cosa notevolissima che tutti sanno ormai dai tempi dell’era atomica, è il fatto che l’esistenza di armamenti nucleari dei quali sono dotati gli Stati più potenti del mondo, pone oggi la questione della liceità dell’uso seppur ufficiale delle forze armate e per conseguenza ha fatto sorgere un concetto di guerra o si dà al termine «guerra» un senso negativo di condanna senza appello, come se si trattasse di un atto intrinsecamente criminoso o insensato. Questo è il linguaggio usato dal Papa, benché egli naturalmente continui ad ammettere per legittima difesa l’uso delle forze armate.

È chiaro altresì che ciò non deve creare nei membri delle forze armate e delle forze dell’ordine il minimo senso di disagio morale, mentre al contrario deve continuare ad andare ad esse tutta la nostra ammirazione e il nostro onore per il prezioso servizio che esse rendono al bene comune a rischio della loro stessa vita. E resta comunque il fatto che, scansato il rischio dell’uso delle armi atomiche, quello delle armi tradizionali resta sempre necessario conformemente alle finalità lecite alle quali ho fatto cenno sopra. 

I conflitti e le guerre avvengono quando i contendenti sostengono due tesi opposte, circa le quali ognuno dei due pretende di avere ragione, per cui esige dall’altro che la metta in pratica o la prenda per vera. La prima esigenza riguarda le guerre politiche, come per esempio una contesa per il possesso delle fonti di energia, il bisogno di uno spazio vitale, la liberazione di un popolo oppresso, la difesa della patria da un’invasione nemica, la sete di dominio su di un altro popolo, il rispetto di un precedente patto che promette l’intervento in soccorso dell’alleato invaso dal nemico ed altri motivi; la seconda, le guerre di religione, come la volontà di diffondere una religione contro la diffusione di un’altra o la scontro fra due religioni per il primato sul territorio .

Se uno dei due contendenti non accetta la tesi dell’altro con la persuasione, per obbligarlo ad accettarla il primo passa all’uso della forza militare, ossia gli muove guerra con la ovvia speranza di vincerlo. La vittoria sul nemico è calcolata come conferma della bontà della tesi in nome della quale il vincitore ha vinto.

Tuttavia è chiaro che all’origine delle guerre c’è un problema di verità: chi ha ragione e chi ha torto? O hanno torto tutti e due? È impossibile invece che, se si contraddicono, abbiano ragione entrambi, per la contraddizione che non lo consente. Eppure è proprio qui che si apre lo spazio per l’opportunismo e per il doppio gioco.

La teoria guardiniana dell’opposizione polare o della dialettica degli opposti, al verificarsi di una contesa o una controversia che oppone due tesi che si escludono a vicenda, non dà al giudice la facoltà di valutare dopo attento esame da che parte sta il diritto, ma, supponendo nell’autorità competente la volontà di assicurare pace e concordia,  è portata a concepire la pace sociale non come risultato pratico della messa in opera della tesi del contendente che ha ragione, ma come effetto del dominio del più forte.

Dato infatti che Guardini concepisce la vita sociale come coesistenza dialettica della tensione fra gli avversari o coincidenza degli opposti, il giudice suddetto non si preoccuperà di esaminare e discernere con cura chi ha ragione e da che parte sta il diritto, ma si accontenterà di destreggiarsi slealmente fra i due contendenti senza prender posizione, facendo appello magari i vantaggi del «pluralismo», della «diversità» e della «libertà».

Ora non c’è dubbio che l’autorità deve proteggere con ogni cura questi valori. Ma lo sbaglio della visione guardiniana è quello di relativizzare ciò che è assoluto, di soggettivizzare ciò che è oggettivo e di parlare di dialettica là dove dovrebbe funzionare il discernimento morale fra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male.

Come sappiamo, il Vangelo propone un metodo prezioso per assicurare in caso di conflitto la pace almeno in colui che subisce il torto. Si tratta del famoso precetto dell’amore per il nemico, che consiste nel congiungere l’apprezzamento per i lati buoni del nemico con la pazienza nel sopportarlo. 

Occorre però distinguere questo magnanimo atteggiamento di mitezza dalla cosiddetta teoria della non-violenza predicata da Gandhi[4]. Essa può avere un aspetto valido in quanto può essere ricondotta alla pazienza predicata dal Vangelo, la quale però ha ragion d’essere nei casi in cui il nemico sia troppo forte per poterlo ridurre alla ragione con la forza, giacchè, se la cosa è possibile, va fatta, anche a rischio della propria vita.

Entra in gioco qui la virtù del coraggio militare, grazie al quale la vittoria sul nemico ha come effetto la pace del vincitore che ha rivendicato il suo diritto e la soggezione del nemico, reso in grado di non più nuocere. Al riguardo occorre ricordare l’utilità della giusta ira come ingrediente della virtù di fortezza e mezzo psicologico per ottenere la vittoria. Far ricorso alla mitezza o alla pazienza, quando è l’uso della gusta ira che è necessario per assicurare giustizia e pace non è saggezza, non è carità, ma è vigliaccheria e infingardaggine.

Occorre altresì distinguere accuratamente la giusta ira dall’ira viziosa, che è uno dei sette vizi capitali. Ancora più ridicolo sarebbe qui il parlare di misericordia. Essa va usata verso gli oppressi, non verso gli oppressori. E se non si pratica la giusta ira verso gli oppressori, vuol dire che non si ha pietà e non si vuol render giustizia agli oppressi.

Il pacifismo di Guardini degli opposti polari e della polarità dialettica, leggittimatrice delle «tensioni», rischia di dar ragione tanto agli oppressi che agli oppressori e di aver pietà degli uni degli altri. Dio fa piovere sui buoni e sui cattivi non perché non sappia distinguere i buoni dai cattivi, ma perché tutti quaggiù dobbiamo accogliere la pioggia della sua grazia.

Questa è motivata dall’odio e dal rancore. Invece la giusta ira è espressione della giustizia e della carità. E torna qui l’amore per il nemico. Il soldato cristiano che uccide il nemico in guerra non lo fa per odio al nemico per amore e con amore della persona del nemico, alla quale augura la salvezza, mentre è logico che odi e voglia bloccare l’azione malvagia del nemico distruttrice della pace.

Aggiungiamo pertanto a questo punto che la visione cristiana della storia dell’umanità, così come appare dalla Scrittura, contempla la narrazione di un combattimento incessante fra le forze del bene e quelle del male, fra Cristo e Beliar. Cristo è venuto a donarci la sua pace, ma nel contempo ad armarci nella lotta contro il potere delle tenebre.

Certo il suo regno non è di questo mondo, per cui i suoi servi non usano le armi, ma, come lascia capire Cristo stesso, coloro che operano per questo mondo le devono usare (Gv 18,36). Le controversie devono di norma essere risolte pacificamente, mediante il dialogo, le trattative e la persuasione. È cosa saggia anche sopportarlo o almeno limitare i danni che fa.

Ma se il nemico si ostina nella pratica dell’ingiustizia o muove guerra, è dovere, per chi ha le forze sufficienti e l’autorità per farlo, e non c’è rischio di un aggravarsi dei mali, fermarlo con l’uso delle armi affinchè cessi di fare il male o per liberare gli oppressi dalla sua tirannide o per riottenere territori da lui occupati o beni da lui rubati o per difendersi dalla sua aggressione e ricacciarlo nel suo territorio.

Il cristiano, dunque, è sempre nella pace almeno interiormente, ed è in pace con tutti, anche con chi lo fa soffrire e lo odia, in quanto è unito a Cristo, e fruisce del dono dello Spirito Santo, ma nel contempo è sempre in guerra contro il peccato, contro i «desideri della carne che fanno guerra all’anima» (I Pt 2.11), conduce una battaglia che non è «contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni  astrali (en uranòis)» (Ef 6,12),  combatte col Cavaliere apocalittico, assalito  dalla «Bestia, dai re della terra con i loro eserciti radunati per muover guerra contro Colui che è seduto sul cavallo e contro il suo esercito» (Ap 19,19). Vince con Cristo e nella beatitudine celeste vede la sconfitta degli empi, come dice il Salmo:

 

«La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte, né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno.  Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra; ma nulla ti potrà colpire. Solo che tu guardi con i tuoi occhi, vedrai il castigo degli empi. Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora, non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda. Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno, perché non inciampi nella pietra il tuo piede. Camminerai si aspidi e vipere, schiaccerai leoni e draghi» (90, 5-13).

Guardini pensa che la sua teoria degli opposti polari potrebbe risolvere tutte le controversie e i dissensi col semplice dialogo. Dice egli infatti:

«L’essenza di questo procedimento consiste nel fatto che l’altro non appare come un avversario, ma come un “opposto polare” e i due punti di vista, tesi e antitesi, vengono portati all’unità. … La dottrina dell’“opposizione polare” è la teoria di quel contrasto che avviene non attraverso una lotta con un nemico, ma grazie alla sintesi di una tensione feconda, ossia grazie alla costruzione dell’unità concreta»[5].

Questa visione di Guardini suppone evidentemente una concezione della società e dell’umanità per la quale la pace e la concordia si possono sempre realizzare con chiunque per mezzo del dialogo e della persuasione, senza che occorra ottenerla attraverso una lotta con un nemico. Suppone evidentemente che tutti gli uomini siano di buona volontà o, se non ce l’hanno, possano esser persuasi ad averla. Non occorre quindi che alcuno sia obbligato con la forza a rispettare l’ordine sociale. Non ci sarà bisogno di uccidere nemici che mettono in pericolo il bene comune. Ma tutti si persuaderanno a vivere in pace nel compimento dei propri doveri e nel rispetto dei diritti altrui.

Secondo questa visuale tutti i contrasti e i conflitti non dividono l’umanità, come è indicato dall’Apocalisse e risulta dal senso umano comune,  in chi è al servizio del male e in chi serve il bene, sicchè la pace possa essere raggiunta solo con la vittoria militare dei buoni sui malvagi, ma riflettono solo polarità opposte sostanzialmente risolvibili in reciproche complementarità o comunque tensioni polari innocue, solo che si voglia praticare un dialogo che tenga conto di questi presupposti.  

Stupisce alquanto in un teologo peraltro di valore come Guardini l’enorme ingenuità di questa visione totalmente irrealistica ed ignara dell’esistenza in tutti noi nella vita presente di una tendenza alla malvagità, la quale è bensì frenata nei buoni, ma è purtroppo soddisfatta nei malvagi. Per questo, se l’opera persuasiva mediante mezzi pacifici resta sempre per tutti il dovere preliminare, l’uso delle armi si rende necessario nei casi in cui il nemico non sia riducibile pacificamente a miti consigli. Ora la lotta al nemico si propone appunto come scopo il conseguimento di quella pace sociale, che il nemico turba con la sua azione malvagia.

Per questo l’Apocalisse (19, 11-2) presenta Cristo come un supremo condottiero che guida l’esercito dei buoni alla sconfitta dei cattivi col risultato di dare all’umanità predestinata alla salvezza l’agognata pace con l’assoggettamento dei malvagi nel carcere eterno dell’inferno.

Oggi l’umanità su questa terra si trova ancora nello stato di natura decaduta e tuttavia redenta da Cristo. Ma quanti tra di noi accolgono il Principe della pace, che tuttavia ci comanda di prendere la spada per la sconfitta del nemico della pace? Certamente, si tratta innanzitutto di un combattimento spirituale dello spirito contro la carne ed è la spada della Parola «contro i dardi infuocati del maligno» (Ef 6,16).

Ma continua il dovere anche del combattimento nei termini dell’uso di armi che non mettano a repentaglio la sopravvivenza della stessa umanità. La controffensiva ucraina sarà in grado di obbligare i Russi a ritirare le loro truppe? I Russi abitanti in Ucraina hanno speranza di veder riconosciuti i loro diritti? Gli ortodossi russi si decideranno a entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica? Il cammino della pace si è fermato o avanzerà o retrocederà? Siamo vicini all’apostasia finale e ai dolori che precederanno la Parusia allorchè Cristo condurrà la Chiesa alla vittoria? Sono domande gravissime, alle quali per adesso nessuno sa dare risposta. Solo Dio conosce la risposta. Siamo sul ciglio del baratro, ma anche alle soglie del paradiso.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 maggio 2023

San Tommaso pone l’atto più specifico della virtù di fortezza in relazione al pericolo di morte nel quale incorre il soldato in guerra, supponendo una guerra giusta. E parlando del martirio lo paragona alla morte eroica del soldato, citando San Cipriano che chiama i martiri «militi fortissimi».

Dobbiamo riconoscere il fatto innegabile da sempre riconosciuto che in occasione delle guerre gli uomini possono dar prova delle massime virtù come dei vizi peggiori.

L’esistenza di armamenti nucleari, dei quali sono dotati gli Stati più potenti del mondo, pone oggi la questione della liceità dell’uso seppur ufficiale delle forze armate e per conseguenza ha fatto sorgere un concetto di guerra o si dà al termine «guerra» un senso negativo di condanna senza appello, come se si trattasse di un atto intrinsecamente criminoso o insensato. Questo è il linguaggio usato dal Papa, benché egli naturalmente continui ad ammettere per legittima difesa l’uso delle forze armate.

Oggi l’umanità su questa terra si trova ancora nello stato di natura decaduta e tuttavia redenta da Cristo. Ma quanti tra di noi accolgono il Principe della pace, che tuttavia ci comanda di prendere la spada per la sconfitta del nemico della pace? Certamente, si tratta innanzitutto di un combattimento spirituale dello spirito contro la carne ed è la spada della Parola «contro i dardi infuocati del maligno» (Ef 6,16).

Ma continua il dovere anche del combattimento nei termini dell’uso di armi che non mettano a repentaglio la sopravvivenza della stessa umanità.

Immagini da Internet:
- San Martino di Tours, Jean-Victor Schnetz 
- San Michele Arcangelo, Antonio Maria Viani
 

[1] Sum.Theol.,II-II, q.40, a.3.

[2] Ibid., II-II, q.123, a.3.

[3] Ibid., q.124, a.2.

[4] J.Maritain, La dottrina del «satiagraha» esposta da Gandhi, in Strutture politiche e libertà, Morcelliana, Brescia 1968, pp.163-170.

[5] Cit.da Hannah-Barbara Gerl-Falkovitz, Romano Guardini. La vita e l’opera,Morcelliana, Brescia 2018, p.306.


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