Il sacrificio di Abramo

 Il sacrificio di Abramo

Caro Bruno,

con questo articolo rispondo alle opinioni de La Civiltà Cattolica e di Gianfranco Ravasi, così come lei me le ha inviate il 30 giugno u.s.

Anonimo

La seguente sua sola affermazione mi ha lasciato perplesso:
“L’esegesi moderna ci dice che Abramo si era fatto lui l’idea che Dio volesse veramente il sacrificio del figlio perché appunto suggestionato dalle idee malsane di quei popoli crudeli”.
Eppure, il testo della Genesi, anche nell’ultima traduzione della CEI, non sembra favorire questa possibilità ermeneutica, ribadendo che “Dio mise alla prova Abramo”:
«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: "Abramo!". Rispose: "Eccomi!". Riprese: "Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò"» (Gen 22, 1-2)
Peraltro, uno dei libri storici dell’Antico Testamento, Giuditta, sembra confermare l’iniziativa divina nel mettere alla prova Abramo:
«Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano, suo zio materno. Certo, come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore, così ora non vuol fare vendetta di noi, ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli stanno vicino"» (Gdt 8, 26–27).
L’edizione 1973 della Bibbia, a cura de La Civiltà cattolica, Ancora editrice, così commentava:
«Il suo unico tesoro [di Abramo] è stato fino a questo punto la sua fede: e solo in virtù di questa, Dio lo ha benedetto. Adesso riceve l’ordine di sacrificare proprio la sua fede e la sua speranza, senza tuttavia lasciarle vacillare. Il fatto inspiegabile non è che Dio gli chieda il sacrificio di un figlio, anche se debba colpire duramente l’affetto paterno: in effetti la religiosità del paese ammetteva questa forma deplorevole di culto (Giudici 11, 30-39; 2Re 3, 27; 16,3; 21,6). Ciò che pare assurdo è di dover immolare proprio il motivo per cui era vissuto fino allora, quel figlio per cui Dio gli aveva chiesto il sacrificio di ogni altro bene. Dio in contraddizione? Si divertirebbe a torturare? Senza un’obiezione Abramo dice sì, e nel buio totale obbedisce. Le varie battute del racconto – innegabilmente a livello dell’arte – fanno sentire il dramma di quell’anima. “Dio provvederà!” Se prova è perché ama (cfr. Ebrei 11, 17-19). E Dio stesso ha provveduto la vittima per l’olocausto. L’ariete presentato ad Abramo era solo provvisorio. Un altro Padre ha realmente sacrificato il suo unico Figlio per amore degli uomini […] poi lo ha recuperato nella resurrezione […] L’epilogo dell’evento prepara una recisa condanna dell’uso cananeo di sacrificare i bambini (cfr. Deuteronomio 12, 29-31; 18, 10-12; Geremia 7, 31-33; 19, 1-13), ma soprattutto illustra l’epilogo di ogni vero sacrificio: Dio ridona ai suoi fedeli come frutto della loro fede quel dono gratuito al quale essi avevano rinunciato per preferire il Signore».
Lei ritiene, Padre Giovanni, che questo tipo di esegesi, assieme a quella di Ravasi (che riporto nel successivo commento), debba ormai essere abbandonata?

 

Anonimo

 

Questo invece il commento di Gianfranco Ravasi, tratto da “Il racconto del cielo”, Mondadori, 1995:
«[…] siamo di fronte al tema della fede “nuda”, che non ha altri appoggi se non nella Parola trascendente. Fede che conosce, però, il baratro dell’oscurità, che brancola alla ricerca di un senso, che si scontra col mistero. Fede ricondotta al suo stadio più puro: il terribile cammino silenzioso di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede. È un percorso tenebroso e combattuto, accompagnato solo da quell’iniziale, implacabile comando: “Prendi tuo figlio…”. Poi il silenzio […]
Fin dove si arriverà? Si crea una tensione spasmodica che verrà squarciata e risolta dal grido di Dio che spezza finalmente il suo silenzio […] Solo Lui poteva in quel momento trattenere Abramo dalla sua fede obbediente e disperata. La fede è ora ricondotta al suo stadio più puro, assoluto e tragico, essendo priva di alcun appoggio umano, razionale e religioso.
Eppure una logica c’è: come figlio carnale Isacco doveva morire perché Abramo rinunciasse anche al sostegno della sua paternità e non avesse neppure le ragioni della carne e del sangue per credere nella promessa, ma solo quelle della parola divina. Per questo Dio lo invita alla distruzione del legame umano paterno-filiale. Abramo, dopo la prova, riceve Isacco non più come figlio ma in quanto “promessa” divina, grazia pura e assoluta […]
“Abramo credette e non dubitò” scrive Kierkegaard in Timore e tremore “credette quello che era in contraddizione con la ragione” […]
È proprio attraverso la paradossale spogliazione della morale, della ragione, degli affetti e della razionalità della fede che Isacco si manifesta come parola divina purissima, promessa di Dio incarnata. Il figlio della carne e del sangue scompare idealmente sul Moria, Abramo deve rinunciare a lui; quello che, scendendo dal monte, lo accompagnerà non sarà più un semplice erede o un figlio di Sara, sia pure avuto in modo prodigioso, sarà invece un figlio-dono, sarà il vero figlio “promesso”. Per riceverlo, però, il patriarca ha dovuto affondare il coltello nella sua paternità. Solo rinunciando a tutto, nel giorno tempestoso della prova, si ottiene tutto, come ripeterà anche Gesù introducendo la legge del perdere per trovare, del lasciare per ricevere (Lc 18,28-30) […]
“Venerabile padre Abramo, quando sei tornato a casa dal monte Moria” continua Kierkegaard “tu avevi guadagnato ogni cosa e conservato Isacco” […] L’obbedienza della fede alla fine dona pace e rivela che dietro il volto apparentemente crudele di Dio si cela un progetto non di morte ma di vita e di grazia. La citata Lettera agli Ebrei, che svolge il tema in chiave cristologica, giungerà ad affermare che Abramo offrì suo figlio perché era certo “che Dio è capace di far risorgere anche dai morti e per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Eb 11,19)».

 

Caro Bruno,

come mio solito rispondo punto per punto.

Opinione de La Civiltà Cattolica


1) L’edizione 1973 della Bibbia, a cura de La Civiltà cattolica, Ancora editrice, così commentava:


«Il suo unico tesoro [di Abramo] è stato fino a questo punto la sua fede: e solo in virtù di questa, Dio lo ha benedetto. Adesso riceve l’ordine di sacrificare proprio la sua fede e la sua speranza, senza tuttavia lasciarle vacillare.

L’affermare che Dio chiede ad Abramo di sacrificare la sua fede non ha senso, perché la fede è assoluta verità e certezza, basata sulla divina rivelazione. Ciò che Abramo ritiene in buona fede di dover fare non è di sacrificare la sua fede, ma di sacrificare suo figlio, in nome della sua fede.

Ma che fede è quella di Abramo? È una fede sincera, ma purtroppo Abramo, probabilmente suggestionato dall’esistenza dei sacrifici umani, sul momento non si rende conto che Dio non può assolutamente volere sacrifici umani, perché lo stesso Salmo 40, 9-10 afferma: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine,
e non vedere la tomba”.
Il che vuol dire che l’uomo da solo non può riscattare se stesso.

Quindi implicitamente è suggerito un sacrificio divino, perché solo questo può essere sufficiente ad espiare il peccato dell’uomo e a dare soddisfazione a Dio. E naturalmente questo sacrificio sarà quello del Figlio di Dio Incarnato.

Abramo non riceve assolutamente l’ordine di sacrificare la sua fede, ma di agire in nome della fede, e per questo Abramo è il modello del credente e il padre di tutti i credenti.

Quindi Abramo, credendo di dovere sacrificare il figlio, non pecca contro la fede, perché era in buona fede, cioè non pecca contro la proibizione dei sacrifici umani, una proibizione che era accolta per fede. Vedi il Salmo 40,9-10. Infatti in buona fede scambia per volontà di Dio quella che non era affatto volontà divina.

Allora, in che senso Abramo è modello del credente? Non per il contenuto di ciò che ha ritenuto di dover fare per fede, ma per la sincerità dello stesso atto di fede in Dio. Ma, appena si è accorto che quella non era la volontà divina, perché l’angelo di Dio l’ha fermato, noi oggi diremmo perché la sua coscienza si è svegliata, ha fatto un atto di grande umiltà cambiando immediatamente idea, perché si è accorto con grande sollievo che stava sbagliando. Ha capito quel era la vera volontà di Dio e l’ha immediatamente messa in pratica sacrificando l’ariete.

2) Il fatto inspiegabile non è che Dio gli chieda il sacrificio di un figlio, anche se debba colpire duramente l’affetto paterno: in effetti la religiosità del paese ammetteva questa forma deplorevole di culto (Giudici 11, 30-39; 2Re 3, 27; 16,3; 21,6). Ciò che pare assurdo è di dover immolare proprio il motivo per cui era vissuto fino allora, quel figlio per cui Dio gli aveva chiesto il sacrificio di ogni altro bene. Dio in contraddizione? Si divertirebbe a torturare? Senza un’obiezione Abramo dice sì, e nel buio totale obbedisce. Le varie battute del racconto – innegabilmente a livello dell’arte – fanno sentire il dramma di quell’anima. “Dio provvederà!” Se prova è perché ama (cfr. Ebrei 11, 17-19).

Rispondo che in realtà Dio non chiede affatto ad Abramo di sacrificare suo figlio, ma è Abramo, il quale, influenzato dalla presenza di sacrifici umani in Israele, si inganna credendo in buona fede che tale comando gli venga da Dio.

Ma ecco che sul momento di uccidere il figlio, Abramo viene veramente illuminato da Dio e capisce con assoluta certezza che Dio non vuole il sacrificio di suo figlio.

Potremmo porci questa domanda. Ma, allora, Abramo è stato ingannato dal demonio, che è un abile ingannatore? Secondo me, Abramo si è sbagliato o si è confuso a causa di una insufficiente conoscenza della sapienza divina e quindi si è imbrogliato da sé con la sua fantasia e cultura del tempo. Ricordiamoci che Abramo era appena uscito da una terra dove si praticava l’idolatria. Egli ha avuto sì l’intuizione che Dio è uno solo, però in quel momento lì aveva di Dio un’idea piuttosto inadeguata, l’idea di un Dio arbitrario, che in qualche modo possiamo ritrovare nel concetto islamico di Dio.

Ipotizzare che Dio si sia contradetto non ha senso, ma semplicemente è successo che Abramo, che prima non aveva capito e credeva di aver capito, all’apparizione dell’angelo di Dio capisce e accoglie il messaggio divino, supera la sua fantasia e conosce la verità, che cosa veramente Dio vuole.

Quindi, non è Dio che si contraddice, ma è Abramo che si contraddice, seppure involontariamente, in quanto inizialmente era in buona fede. Abramo, accogliendo il grande messaggio dell’angelo di Dio, accoglie nella fede in modo definitivo la vera volontà di Dio, che si sarebbe manifestata a suo tempo col sacrificio del proprio Figlio.

3) E Dio stesso ha provveduto la vittima per l’olocausto. L’ariete presentato ad Abramo era solo provvisorio. Un altro Padre ha realmente sacrificato il suo unico Figlio per amore degli uomini […] poi lo ha recuperato nella resurrezione […] L’epilogo dell’evento prepara una recisa condanna dell’uso cananeo di sacrificare i bambini (cfr. Deuteronomio 12, 29-31; 18, 10-12; Geremia 7, 31-33; 19, 1-13), ma soprattutto illustra l’epilogo di ogni vero sacrificio: Dio ridona ai suoi fedeli come frutto della loro fede quel dono gratuito al quale essi avevano rinunciato per preferire il Signore».

Questo discorso lo approvo senz’altro. In particolare sono d’accordo che Abramo viene provato da Dio nella fede e supera una prova terribile e angosciosa.

 

Opinione di Gianfranco Ravasi

Caro Bruno, rispondo all’opinione del card. Ravasi.

4) Questo invece il commento di Gianfranco Ravasi, tratto da “Il racconto del cielo”, Mondadori, 1995:


«[…] siamo di fronte al tema della fede “nuda”, che non ha altri appoggi se non nella Parola trascendente. Fede che conosce, però, il baratro dell’oscurità, che brancola alla ricerca di un senso, che si scontra col mistero. Fede ricondotta al suo stadio più puro: il terribile cammino silenzioso di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede. È un percorso tenebroso e combattuto, accompagnato solo da quell’iniziale, implacabile comando: “Prendi tuo figlio…”. Poi il silenzio […]

Fin dove si arriverà? Si crea una tensione spasmodica che verrà squarciata e risolta dal grido di Dio che spezza finalmente il suo silenzio

Tralascio questa prima parte, che è fatta bene. Passo invece a trattare la parte problematica.

5)  Solo Dio poteva in quel momento trattenere Abramo dalla sua fede obbediente e disperata. La fede è ora ricondotta al suo stadio più puro, assoluto e tragico, essendo priva di alcun appoggio umano, razionale e religioso.

Osservo che qui purtroppo il card. Ravasi qualifica la fede con aggettivi che non le convengono, parlando di fede disperata, tragica e priva di qualunque appoggio umano razionale e religioso. Si sente qui l’influsso luterano.


6) Eppure una logica c’è: come figlio carnale Isacco doveva morire perché Abramo rinunciasse anche al sostegno della sua paternità e non avesse neppure le ragioni della carne e del sangue per credere nella promessa, ma solo quelle della parola divina. Per questo Dio lo invita alla distruzione del legame umano paterno-filiale.

Qui chiaramente si nota il difetto luterano di sostituire la grazia alla natura, quando invece la grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la perfeziona, così come analogamente la fede suppone la ragione e la eleva a comprendere i misteri superiori alla ragione.

L’idea di un Dio che inviti alla distruzione del legame umano paterno e filiale, è una idea ripugnante, che nulla ha a che vedere con il vero Dio biblico, che è Padre e Principio di ogni paternità, che è Vita e Principio di ogni vita. Qui purtroppo Ravasi, forse senza rendersene conto, viene praticamente a legittimare la pratica del sacrificio umano, che in realtà era detestata dai profeti di Israele.

7) Abramo, dopo la prova, riceve Isacco non più come figlio ma in quanto “promessa” divina, grazia pura e assoluta […]
“Abramo credette e non dubitò” scrive Kierkegaard in Timore e tremore “credette quello che era in contraddizione con la ragione” […]

Osservo che non c’è da stupirsi che Kierkegaard luterano parli di una fede, che è in contraddizione con la ragione, ma meraviglia alquanto che un famoso esegeta cattolico si lasci confondere su di un punto così fondamentale della dottrina cattolica.


8) È proprio attraverso la paradossale spogliazione della morale, della ragione, degli affetti e della razionalità della fede che Isacco si manifesta come parola divina purissima, promessa di Dio incarnata. Il figlio della carne e del sangue scompare idealmente sul Moria, Abramo deve rinunciare a lui; quello che, scendendo dal monte, lo accompagnerà non sarà più un semplice erede o un figlio di Sara, sia pure avuto in modo prodigioso, sarà invece un figlio-dono, sarà il vero figlio “promesso”. Per riceverlo, però, il patriarca ha dovuto affondare il coltello nella sua paternità.

Bisogna dire che la Parola di Dio, che suscita la fede, non ha nulla a che vedere con una “spogliazione della morale, della ragione, degli affetti e della razionalità”, ma tutt’al contrario suppone, fonda, consacra, purifica ed eleva la morale, la ragione, gli affetti e la razionalità.

Altra falsa contrapposizione, di sapore luterano, è quella che Ravasi fa tra il figlio Isacco, avuto da Sara, e lo stesso figlio, in quanto dono di Dio, quasi a contrapporre ancora una volta la natura alla grazia, dimenticando che Isacco è una creatura in carne ed ossa e non un essere spirituale, che viene dal cielo alla maniera gnostica.

9) Solo rinunciando a tutto, nel giorno tempestoso della prova, si ottiene tutto, come ripeterà anche Gesù introducendo la legge del perdere per trovare, del lasciare per ricevere (Lc 18,28-30) […]
“Venerabile padre Abramo, quando sei tornato a casa dal monte Moria” continua Kierkegaard “tu avevi guadagnato ogni cosa e conservato Isacco” […] L’obbedienza della fede alla fine dona pace e rivela che dietro il volto apparentemente crudele di Dio si cela un progetto non di morte ma di vita e di grazia.

Qui Ravasi cade in un grosso equivoco. La rinuncia appunto, della quale parla il Signore, non ha nulla a che vedere con un gesto di distruzione della natura, cosa che dal punto di vista morale si presenta come un vero e proprio crimine, ma significa semplicemente che noi dobbiamo dedicarci a Dio anima e corpo con tutte le nostre forze, affrontando tutti i sacrifici e le rinunce necessari per conseguire questo scopo.

È vero che l’obbedienza della fede dona pace ed è vero che Dio in certe circostanze può apparire crudele, come probabilmente è apparso ad Abramo, ma il fatto è che Ravasi, con la sua descrizione del sacrificio di Abramo, presenta un Dio veramente crudele, che vuole un sacrificio umano.

Quanto ad Abramo, come ho detto, se in un primo tempo ha come un cedimento involontario nei confronti delle divinità crudeli dei popoli circonvicini, una volta illuminato dall’angelo di Dio capisce perfettamente che Dio, nella sua infinita bontà e misericordia, non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

10) La citata Lettera agli Ebrei, che svolge il tema in chiave cristologica, giungerà ad affermare che Abramo offrì suo figlio perché era certo “che Dio è capace di far risorgere anche dai morti e per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Eb 11,19)».

Non ho dubbi che Abramo fosse convinto che Dio può fare risorgere da morte. Tuttavia resta il fatto che Abramo si era ingannato sul conto di Dio e viene illuminato dall’angelo di Dio.

Io credo che la fede nella resurrezione dei morti abbia giocato nell’esperienza di Abramo, ma non nel senso che Abramo intendesse in un primo tempo di dover uccidere il figlio, sapendo che Dio avrebbe potuto resuscitarlo, perché questo sarebbe un pensiero ipocrita e un tentare Dio.

Resta pertanto il fatto che, a prescindere dalla fede nella resurrezione, Abramo si è ingannato, altrimenti Dio, per mezzo dell’angelo, non lo avrebbe distolto dal fare quello che stava per fare per un malinteso, perché ad Abramo pareva che Dio gli avesse comandato di fare ciò che in realtà non voleva che facesse.

È vero che Abramo in qualche modo aveva rinunciato a suo figlio ed è vero che lo ha riavuto, tuttavia, da come sono andate le cose, si capisce che la rinuncia a suo figlio era stata fatta in un modo obiettivamente distorto, anche se Abramo era in buona fede.

11) Lei ritiene, Padre Giovanni, che questo tipo di esegesi, assieme a quella di Ravasi (che riporto nel successivo commento), debba ormai essere abbandonata?

Ritengo che questi tipi di esegesi siano superati per il fatto che essa presentano un Dio volontarista ed arbitrario, per non dire quasi un Dio crudele, un concetto di Dio piuttosto primitivo, che ritroviamo in qualche modo anche nel Dio islamico.

Invece, la nuova esegesi presenta un Dio che tiene assolutamente alla vita dell’uomo e quindi un Dio perfettamente coerente, che in ogni caso vuole la vita dell’uomo, anche quando permette la morte, che del resto è il castigo del peccato.

Se Dio dà un valore salvifico alla morte dell’uomo, questo uomo non è un puro uomo, ma è un uomo che è Dio, il Figlio di Dio, il quale, con la sua potenza divina, può trasformare la morte nella vita.

Altro aspetto positivo di questa nuova esegesi è data dal fatto che essa è una netta proclamazione del diritto alla libertà religiosa, nel senso del rispetto della buona fede, anche se il soggetto oggettivamente sbaglia.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 02 luglio 2022

 

 

Ciò che Abramo ritiene in buona fede di dover fare non è di sacrificare la sua fede, ma di sacrificare suo figlio, in nome della sua fede.




Abramo, probabilmente suggestionato dall’esistenza dei sacrifici umani, sul momento non si rende conto che Dio non può assolutamente volere sacrifici umani, perché lo stesso Salmo 40, 9-10 afferma: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine,
e non vedere la tomba”.
Il che vuol dire che l’uomo da solo non può riscattare se stesso.



Immagini da Internet:
- Il sacrificio di Abramo, del Veronese
- David Teniers il giovane, sec. XVII


4 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    innanzitutto, desidero vivamente ringraziarla per l’attenzione e la considerazione che riserva ai miei commenti, come spunti per suoi ulteriori approfondimenti e delucidazioni.
    Mi consenta però di continuare a rimanere perplesso dinanzi alla nuova esegesi del sacrificio abramitico, che lei intende propugnare.
    Riconosco e faccio tesoro di taluni limiti e difetti che lei ha riscontrato nei testi de La Civiltà cattolica e del teologo (all’epoca presbitero) Gianfranco Ravasi.
    E tuttavia, a mio modesto parere, continuano a sussistere almeno sei considerazioni che depongono a favore della tradizione interpretazione del sacrificio del figlio Isacco, come iniziativa di Dio per mettere alla prova la fede di suo padre Abramo:
    1) In molteplici brani della Sacra Scrittura, determinati pensieri umani, vengono esplicitamente descritti, per l’appunto come pensieri generatisi nel soggetto umano, o come sogni, o come fantasie, o come deliri dovuti a disperazione o follia, o anche come inganni satanici. Insomma, mi sembra lecito dedurne che, in tali numerosi casi, ciò non sia dovuto solo alle peculiarità artistico-comunicative degli autori umani, ma si possa, anche in questo aspetto, leggervi un’ispirazione divina. Ebbene ciò non è avvenuto nel brano della Genesi in oggetto, ove non è scritto “Abramo pensò / sognò / immaginò / si era convinto che… Dio gli volesse metterlo alla prova chiedendogli il sacrificio di Isacco”, ma è scritto “Dio mise alla prova Abramo e gli disse […] "Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco […] e offrilo in olocausto”. La frase è lapidaria: il soggetto è inequivocabilmente Dio, non le supposizioni di Abramo. Perché dunque lo Spirito Santo non avrebbe ispirato l’autore (o gli autori) umani della Genesi, affinché fosse chiaro che si trattava di un autoinganno di Abramo? E perché lo Spirito Santo avrebbe lasciato che, nel corso di tanti secoli, Padri della Chiesa, santi, dottori della Chiesa ed anche i pontefici, compresi gli ultimi, continuassero ad ingannarsi su un fatto di questa portata?
    2) Nel proseguo del racconto biblico, anche il successivo intervento dell’angelo del Signore ferma sì la mano di Abramo, ma con ciò non esplicita, non dichiara che ciò non fosse stato richiesto, a suo tempo, da Dio, non suona di rimprovero verso Abramo, per aver creduto possibile che Dio gli avesse chiesto un siffatto sacrificio: “Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”. Dunque, l’angelo-voce di Dio conferma che la disponibilità di Abramo a sacrificare il figlio viene giudicata conferma del suo timor di Dio, cioè della sua fede. E particolarmente significativo è quel “non mi hai rifiutato tuo figlio” ove, se la traduzione a cura della CEI è corretta, il verbo rifiutare non può che significare “non voler accettare, dare, concedere” quanto è stato richiesto da qualcun Altro rispetto al non rifiutante Abramo. Dunque, anche l’intervento dell’angelo conferma che la richiesta divina di offrire Isacco in olocausto, non è stata parto esclusivo della mente di Abramo suggestionata da usanze cananee dell’epoca, ma Dio vi ha avuto parte precisa.

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  2. 3) La tradizionale interpretazione del sacrificio di Abramo, come descritta da Genesi, trova corrispondenza, e dunque conferma, in altri testi della Scrittura. Ho già citato il libro di Giuditta (8, 26–27): «Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco […] come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore”. Che senso avrebbe questa invocazione, se la prova fatta passare ad Abramo e Isacco fosse nata da un erroneo convincimento di Abramo stesso, e non invece dall’intento divino di voler appunto “saggiare il loro cuore”? Ma anche nel Nuovo Testamento troviamo corrispondenza e conferma alla tradizionale interpretazione del sacrificio abramitico. Nella Lettera di Giacomo, in cui si sottolinea quanto sia importante che alla fede seguano le opere, altrimenti ≪la fede senza le opere è morta≫ (Gc 2,26), Giacomo indica come esempio Abramo il quale, dimostrandosi pronto a sacrificare il figlio secondo la richiesta di Dio, ≪ credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio ≫ (Gc 2,23).
    4) Anche nel magistero dei due ultimi pontefici, l’interpretazione del sacrificio abramitico è quella tradizionale. Papa Benedetto XVI in un’omelia del 4 marzo 2012 (https://www.vatican.va/content/benedict-vi/it/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120304_torrino.html ) disse:
    «Ma un giorno Abramo riceve da Dio il comando di offrirlo in sacrificio. L’anziano patriarca si trova di fronte alla prospettiva di un sacrificio che per lui, padre, è certamente il più grande che si possa immaginare. Tuttavia non esita neppure un istante e, dopo aver preparato il necessario, parte insieme ad Isacco per il luogo stabilito […] Abramo si fida totalmente di Dio, da essere disposto anche a sacrificare il proprio figlio e, con il figlio, il futuro, perché senza figlio la promessa della terra era niente, finisce nel niente. E sacrificando il figlio sacrifica se stesso, tutto il suo futuro, tutta la promessa. È realmente un atto di fede radicalissimo. In questo momento viene fermato da un ordine dall’alto: Dio non vuole la morte, ma la vita, il vero sacrificio non dà morte, ma è la vita e l’obbedienza di Abramo è diventa fonte di una immensa benedizione fino ad oggi».
    Dunque, per Benedetto XVI, è Dio che comanda ad Abramo il sacrificio di Isacco, e la fede di Abramo è tanto grande che si dispone ad obbedire a un comando così doloroso, e questa sua obbedienza sarà “fonte di una immensa benedizione fino ad oggi”.
    Nel corso di un’udienza generale, il 19 dicembre sempre del 2012 (https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20121219.html), Benedetto XVI ritornò sul tema con le seguenti parole:
    «Il cammino di fede di Abramo comprende il momento di gioia per il dono del figlio Isacco, ma anche il momento dell’oscurità, quando deve salire sul monte Moria per compiere un gesto paradossale: Dio gli chiede di sacrificare il figlio che gli ha appena donato. Sul monte l’angelo gli ordina: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito» (Gen 22,12); la piena fiducia di Abramo nel Dio fedele alle promesse non viene meno anche quando la sua parola è misteriosa ed è difficile, quasi impossibile, da accogliere. Così è per Maria, la sua fede vive la gioia dell’Annunciazione, ma passa anche attraverso il buio della crocifissione del Figlio, per poter giungere fino alla luce della Risurrezione».
    Anche in questo caso, la richiesta di sacrificare il proprio figlio, non viene giudicata da Benedetto XVI come un autoinganno di Abramo, ma come parola di Dio per quanto “misteriosa […] difficile, quasi impossibile, da accogliere”.

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  3. 5) Papa Francesco, nell’Angelus del 22 dicembre 2013 (https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2013/documents/papa-francesco_angelus_20131222.html), disse:
    «E il Vangelo dice: «Poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Questa breve frase riassume un vero e proprio dramma interiore, se pensiamo all’amore che Giuseppe aveva per Maria! Ma anche in una tale circostanza, Giuseppe intende fare la volontà di Dio e decide, sicuramente con gran dolore, di congedare Maria in segreto. Bisogna meditare su queste parole, per capire quale sia stata la prova che Giuseppe ha dovuto sostenere nei giorni che hanno preceduto la nascita di Gesù. Una prova simile a quella del sacrificio di Abramo, quando Dio gli chiese il figlio Isacco (cfr Gen 22): rinunciare alla cosa più preziosa, alla persona più amata. Ma, come nel caso di Abramo, il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa, una via di amore e di felicità: «Giuseppe – gli dice – non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20) ».
    Dunque, Papa Francesco dichiara che la prova che Dio ha chiesto ad Abramo era proprio per trovare la fede che cercava, sino a che punto potesse spingersi, nelle opere, la fede di Abramo.
    Infine, nell’udienza generale del 3 giugno di appena due anni fa (https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200603_udienza-generale.html), Papa Francesco è tornato sul tema dicendo:
    «Così Abramo diventa familiare di Dio, capace anche di discutere con Lui, ma sempre fedele. Parla con Dio e discute. Fino alla prova suprema, quando Dio gli chiede di sacrificare proprio il figlio Isacco, il figlio della vecchiaia, l'unico erede. Qui Abramo vive la fede come un dramma, come un camminare a tentoni nella notte, sotto un cielo privo questa volta di stelle. E tante succede anche a noi, di camminare nel buio, ma con la fede. Dio stesso fermerà la mano di Abramo già pronta a colpire, perché ha visto la sua disponibilità veramente totale (cfr Gen 22,1-19)».
    6) In ultimo, penso che l’accettazione della nuova interpretazione del sacrificio di Abramo, che lei ha perorato, dovrebbe avere conseguenze anche sul piano liturgico.
    La sequenza “Lauda Sion”, attribuita, se non erro a san Tommaso, che si prega in occasione della ricorrenza del Corpus Domini, recita:
    «In figuris praesignatur,

    cum Isaac immolatur,

    agnus Paschae deputatur,

    datur manna patribus».
    (“Con i simboli è annunziato,
    in Isacco dato a morte,
    nell’agnello della Pasqua,
    nella manna data ai padri”).
    Come potrebbe ancora essere pregata, la messa a morte di Isacco, quale simbolo preannunciante il sacrificio del Figlio divino, se si era trattato di un autoinganno di Abramo?

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