Il desiderio di conoscere Dio

 Il desiderio di conoscere Dio

A chi interessa conoscere Dio?

Il desiderio di conoscere Dio dovrebbe essere l’aspirazione più profonda di noi tutti, perché Egli ci ha creati affinchè un giorno in paradiso arriviamo a vederlo svelatamente, faccia a faccia, per l’eternità. Ma se ci guardiamo attorno, fra gli stessi cattolici e fra gli stessi religiosi, che pur dovrebbero essere i più interessati alla ricerca di Dio, coloro che maggiormente si preoccupano di acquistare su Dio una scienza da insegnare agli ignoranti, di accumulare tesori e cibi da distribuire agli affamati, coloro che maggiormente dovrebbero saper incentivare questa ricerca e condurre in questa ricerca il prossimo, sono molto rari.

Molto rari sono questi maestri spirituali che hanno dedicato la loro vita a questa ricerca, e rari per non dire rarissimi sono coloro, anche tra i credenti, che si rivolgono a questi maestri per chiedere luce, guida, conforto e consiglio ed essere guidati in questa conoscenza, persone che interpellino o consultino o seguano questi maestri per soddisfare il loro desiderio della conoscenza di Dio e della visione beatifica dell’essenza divina.

Dalla conoscenza sorge l’amore. È evidente che a tanti non interessa conoscere Dio non solo perché non amano la verità, ma anche perchè a loro ripugna, a causa delle loro cattive tendenze, mettere in pratica quella volontà di Dio, che essi verrebbero conoscere conoscendo chi è Dio. Ma anche l’amore spinge a conoscere, sicché amore e conoscenza si causano a vicenda in una stupenda circolarità, che conduce lo spirito alla perfezione e alla santità.

La bellezza e la bontà divine attirano l’amore, e l’amore a sua volta, spinge a una migliore conoscenza. Dio sa farSi amare con i suoi svariatissimi benefìci. Certo sta all’uomo saperli riconoscere, esserGli grato e corrispondere a tanto amore. Soprattutto Dio si manifesta con la sua misericordia, tollerandoci nelle nostre debolezze, compassionandoci nelle nostre miserie e sofferenze, sollevandoci, consolandoci e perdonando in Cristo i nostri peccati.

Ci ripaga con giustizia secondo i nostri meriti, buoni o cattivi, facendoci capire il perché ci premia e perché ci castiga, donandoci oltre il merito e castigandoci meno di quanto meritiamo. Quando ci premia ci fa capire che ci dà più di quanto meritiamo e quando ci castiga ci fa capire che lo fa per amore.

La conoscenza e l’amore naturale di Dio preparano alla conoscenza di fede e alla carità. È impossibile arrivare alla fede, se non sulla base di una conoscenza naturale razionale di Dio, perché nella fede cristiana l’uomo che sa già che Dio esiste, lo ama e lo cerca, accoglie l’annuncio evangelico dell’apostolo che accompagna la sua testimonianza di carità con l’esibizione di convincenti prove o segni di credibilità del messaggio che ci trasmette.

Lo Spirito Santo con la sua grazia ispira nel cuore dell’evangelizzato una pia disponibilità a credere e – se il soggetto non fa resistenza - tocca e scalda il suo cuore, illumina la mente e muove la sua volontà ad assentire liberamente alla proposizione di fede.

La messa in pratica dei doveri cristiani grazie alle virtù teologali della fede, speranza e carità accende ulteriormente nell’anima in grazia, abitata dalla Santissima Trinità, il desiderio di conoscere Dio, adesso il Dio Trinitario.

E la

«ragione del credente – come dice il Concilio Vaticano I (Denz.3016) -, quando cerca con zelo, piamente e sobriamente, consegue, per dono di Dio, una qualche fruttuosissima intelligenza dei misteri, sia partendo dall’analogia con quelle cose che già naturalmente conosce, sia dal nesso dei misteri fra di loro e col fine ultimo dell’uomo: tuttavia essa non viene mai resa idonea a penetrarli alla maniera di quelle verità che costituiscono il suo proprio oggetto.

Infatti i misteri divini per la loro stessa natura oltrepassano talmente l’intelletto creato, che anche dopo essere stati rivelati ed aver accolto la fede, rimangono coperti dal velo della stessa fede e quasi avvolti da una certa quale caligine, finché in questa vita mortale “pellegriniamo lontani dal Signore; camminiamo infatti nella fede e non nella visione” (II Cor 5,6)».

L’ardore della carità, sotto l’influsso dei doni dello Spirito Santo, accende ulteriormente l’intelletto come «intelletto d’amore» in modo che le formule dogmatiche della fede o gli articoli della fede diventano fari luminosi proiettati sul mistero illuminandolo, per quanto è possibile al nostro intelletto. L’intelletto sente nel contempo di essere infinitamente trasceso dall’infinità del Mistero e di ciò immensamente gode, perché è la verifica che esso è effettivamente a contatto col Mistero.

L’intelletto unito all’amore e alla stessa emotività sensibile sperimenta nel suo intimo la dolcezza della presenza divina mediata dalla fede, ma immediata nella carità. «Caritas – dice San Tommaso – est de Eo, quem iam habetur». È questa l’esperienza mistica. Ma a chi interessa? Quanti la desiderano?

Purtroppo davanti a queste meraviglie molti restano completamente ciechi e freddi. Molti, mancando in essi l’interesse per sapere qual è il fine ultimo e il sommo bene dell’uomo, non arrivano a scoprire un Dio personale amabile e che ama l’uomo. L‘amore di Dio al di sopra di tutto, nel che soltanto l’uomo trova la sua felicità, o non viene apprezzato perché non si capisce come e perchè Dio è il sommo bene, oppure gli stimoli della carne, le attrattive del mondo e gli inganni degli uomini e di Satana fanno credere a molti che a Dio, che a loro sembra una idea astretta ed evanescente, quando proprio una fantasia o un’alienazione, siano preferibili molti altri beni di vario genere, da quelli più materiali a quelli spirituali, ma sempre prodotti dall’uomo e a misura d’uomo.

Benché il pensiero umano sia capace di autotrascendersi e mirare all’infinito, all’eterno, all’assoluto, molti si chiudono in interessi meramente umani di tipo personale o sociale, economici o edonistici, culturali o scientifici, artistici o politici, quando non cadono ancora più in basso in vizi carnali o non si gonfiano d’orgoglio e montano in superbia sfidando l’ira divina.

Costoro, come ogni essere umano, aspirano a un sommo bene e a un bene assoluto, ma, a causa della cecità e della malizia conseguenti al peccato originale e ai loro peccati, pongono il sommo bene e l’assoluto non in Dio ma nel mondo, nei propri interessi egoistici e nell’affermazione di sé stessi contro gli altri e al di sopra degli altri.

Inoltre, alla scoperta dell’esistenza di Dio come causa prima e creatore del mondo e dell’uomo, non può non seguire il desiderio di conoscere l’essenza di questa causa prima in se stessa e non solamente attraverso le creature.

La rivelazione cristiana viene incontro a questo desiderio, circa la cui soddisfazione la ragione naturale si rende conto che non è rigorosamente richiesta dalla soddisfazione delle sue esigenze naturali. Infatti la ragione nei confronti della conoscenza di Dio ha già per conto suo un nobile compito da svolgere, compiuto il quale può ritenersi soddisfatta.

Tuttavia essa ha in sé stessa la disponibilità, detta potentia oboedientialis, di essere elevata da Dio, tramite la fede, ad una conoscenza di Dio infinitamente superiore a quella della ragione.  Una volta che la mente, illuminata dalla fede ed elevata dalla grazia, impara da Cristo che il suo fine ultimo e la sua eterna felicità non stanno semplicemente nella conoscenza di Dio come creatore del mondo, ma nella visione celeste ed immediata della Santissima Trinità, allora quella che prima per la ragione era una semplice velleità condizionata dal fatto che Dio volesse concederla, visto che Dio stesso si impegna in tal senso, viene sentita come una vera esigenza, che, se non viene soddisfatta, fa sì che l’uomo manchi al suo fine e non raggiunga la beatitudine.

Coloro che su Dio sanno già tutto

Alcuni credono che Dio sia sperimentato originariamente, ineffabilmente e globalmente già all’inizio della vita spirituale, in modo inconscio, preconcettuale e quindi atematico.

La concettualizzazione dell’essenza di Dio avverrebbe successivamente a contatto col mondo delle cose e nella presa di coscienza del proprio io. Nascerebbero a questo punto le prove a posteriori dell’esistenza di Dio, per le quali Dio viene concepito come fosse una causa dei fenomeni, come un oggetto tra gli oggetti, seppure il massimo degli oggetti. Questo, però, secondo loro, non consentirebbe di raggiungere veramente Dio, che è puro Spirito e Persona, ma si fermerebbe nell’orizzonte del mondo e degli dèi pagani.

Per questo, secondo loro, questa concettualizzazione della natura divina con la distinzione dei vari attributi, fosse pure la concettualizzazione dogmatica o dell’articolo di fede, comporterebbe un coagulo o una parcellizzazione o una finitizzazione dell’esperienza originaria nella sua illimitatezza, per cui il concetto, che per costoro ha per oggetto solo fenomeni e cose finite – lo chiamano il «categoriale» - non sarebbe in grado di rappresentare il contenuto dell’esperienza di Dio, che per costoro è la sua rivelazione ineffabile e non concettualizzabile alla coscienza.

La fede per loro non è un atto di concettualizzazione e di assenso a contenuti intellegibili verbalizzati presi per veri e formulati in proposizioni, rivelati da Dio e mediati dalla dottrina della Chiesa, ma è un evento libero di incontro con Dio sperimentato nella coscienza.

Alcuni chiamano «trascendentale» questa ineffabile, originaria, potremmo dire mistica esperienza di Dio, intendendo per «trascendentale» non la proprietà delle nozioni che accompagnano la nozione metafisica dell’essere, ma trascendentale nel senso introdotto da Kant, e cioè «ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori»[1].

Kant si riferisce al contenuto dell’«io penso», che abbraccia a priori virtualmente la totalità e l’universalità delle conoscenze della ragion pura e quindi comprende anche Dio, come ideale della ragion pratica. Kant la chiama «trascendentale» perché trascende la categorizzazione dei fenomeni ed abbraccia aprioricamente, ossia immediatamente ed originariamente, prima della categorizzazione, tutto lo sconfinato orizzonte della pura ragione.

È, secondo Kant, il modo del conoscere, vale dire il soggetto conoscente, che contiene già a priori in sé la forma trascendentale del conosciuto, Dio compreso. Per Kant non è la conoscenza sensibile che conduce all’autocoscienza, ma è autocoscienza originaria, che ordina a sé la conoscenza delle cose, il risultato della famosa «rivoluzione copernicana», per la quale «nei problemi della metafisica», e quindi della teologia, secondo Kant non ci si deve «regolare sugli oggetti», cioè non si deve partire dalla conoscenza delle cose sensibili, ma «sono gli oggetti che devono regolarsi sulla nostra conoscenza», vale a dire, dobbiamo affermare che il punto di partenza della nostra conoscenza, se vogliamo raggiungere la sua piena fondatezza e certezza, ossia se dev’essere «a priori» e indefinitamente aumentabile, non è la conoscenza degli oggetti sensibili, ma deve essere «una conoscenza a priori» - e questo è appunto il trascendentale fondato sull’io penso, che è il cogito cartesiano - «che stabilisce qualcosa relativamente agli oggetti» (categoriali, finiti) «prima che essi ci siano dati»[2].

L’esperienza atematica originaria di Dio, come sarà esplicitata da Hegel, è appunto l’oggetto di questo sapere trascendentale. In Kant, come in Cartesio, Dio è conosciuto a priori, ma solo come Idea di Dio. Ma allora vorrà dire che l’io è Dio, perché solo Dio può avere esperienza di Dio e solo Dio parte da Se stesso per volgersi al mondo categoriale da Lui creato. Solo il Figlio conosce il Padre. E noi chi siamo? Siamo il Figlio? Un conto infatti è dire che prima esiste Dio e poi esiste il mondo da Lui creato. E un conto è dire che io parto dalla conoscenza di Dio per conoscere le realtà del mondo.

Come mai l’io decade dall’esperienza di Dio, cioè dal trascendentale, alla concettualizzazione o categorizzazione di Dio? Abbiamo qui una specie di profanazione del dogma dell’Incarnazione o una razionalizzazione del dogma del peccato originale.

 Inoltre, se, come sostengono costoro, i concetti teologici finitizzano l’Infinito e sono quindi, come dice Rahner, degli «idoletti», come fa poi Rahner, partendo dalla comunicazione concettuale, a pretendere di ritrovare o tornare all’esperienza originaria atematica, ineffabile, mistica ed apriorica di Dio?

Se col concetto è impossibile conoscere Dio, in base a quale concetto di Dio Rahner afferma questa impossibilità? Infatti, quando egli ci parla di Dio e ci spiega che cosa intende con la parola «Dio» o attribuisce a Dio certe qualità o proprietà, evidentemente mostra di avere un concetto di Dio. E dunque nega quello che afferma nel momento in cui l’afferma. È serietà teoretica, questa? E come mai nonostante ciò piace a tanti? Che Dio è quello di Rahner?

Inoltre, come è possibile parlare di Dio nei concetti se Dio ineffabile? Come si possono usare i concetti per sostenere che non si può pensare a Dio nel concetto? Ha senso usare il concetto per negare il valore del concetto? Ha senso comunicare con gli altri per convincerli di sostenere che è impossibile comunicare su Dio nei concetti? Come è possibile fare come un Rahner, che ha scritto migliaia di pagine in cinquant’anni, nelle quali, pretendendo di far teologia, risulta che i concetti teologici non colgono la natura Dio e che quindi la teologia è impossibile? Che giudizio hanno quelli che seguono Rahner? Utilizzare i doni di Dio per volgerli contro Dio?

Kant non spiega perché e come l’io passa dal trascendentale al categoriale. Egli infatti inverte l’ordine della conoscenza umana, la quale in verità inizia col categoriale, mediante l’esperienza sensibile e si eleva al trascendentale e al divino allargando la ragione al massimo della sua intelligenza e capienza col concetto dell’essere ed applicando il principio di causalità.

Tornando alle nostre osservazioni iniziali, appare chiaro si direbbe che oggi sia molto di più la gente alla quale Dio non interessa o che segue superstizioni o teologie eterodosse, che non i predicatori e i pubblicisti cattolici della Parola di Dio, laici o ecclesiastici, e coloro che in vari modi e a vari livelli propongono, in fedeltà al Magistero della Chiesa e in comunione con essa e i suoi pastori, la conoscenza e l’approfondimento dei i misteri divini della salvezza.

Ovvero capita che folle di ingenui o di amici del mondo si mettano alla scuola di impostori e falsi maestri, pubblicizzati dal mondo, che li solleticano nei loro vizi, promettendo loro pace salvezza, e li guidano a un dio, che non è nè quello che sta nei cieli, ma è il dio di questo mondo, un dio che è l’assolutizzazione del loro io.

Quanto ai teologi, che dovrebbero essere i più dotti ed esperti in questa ricerca e nell’insegnamento che ne consegue, possiamo chiederci quanti guidano veramente le anime nella ricerca del vero Dio di Gesù Cristo e della Chiesa  o non piuttosto spesso capita che essi, trascurando il Magistero della Chiesa e le esigenze della sana ragione teoretica e morale, volendo fare gli originali, acquistarsi successo e discepoli, e soddisfare al loro esibizionismo,  strumentalizzati dai poteri economici, si creino una divinità per proprio conto, frutto della loro immaginazione e dei loro desideri mondani, al servizio di un falso dio sotto l’apparenza del Dio cristiano, un dio che non stimola veramente il prossimo ad abbracciare la via stretta della perfezione, ma che apre ad esso la via larga della perdizione.

Indubbiamente masse enormi di persone sono pressate dai bisogni materiali di ogni genere, da quelli della povertà e della salute a quelli del pane quotidiano, del lavoro, dell’istruzione, della casa, del vicinato, dell’ambiente sociale e familiare nel quale vivono.

Possono costoro avere tempo per dedicarsi alla conoscenza di Dio? Per farsi domande su Dio? Per seguire qualche maestro? Per la buona lettura? Per avere una guida sacerdotale? Dobbiamo pensare di sì, giacché la loro stessa situazione nella quale si trovano, i problemi e le sofferenze che devono affrontare giustificano più che mai la necessità che costoro abbiano salde convinzioni su Dio, sì da confidare nella sua provvidenza, nell’adempimento quotidiano dei loro doveri cristiani.

I cattolici formati da Rahner

Sono perfetti farisei. Per loro la teologia non si basa sui concetti, ma sull’esperienza atematica preconcettuale di Dio presente almeno inconsciamente in tutti. La morale non si basa sul concetto della legge naturale, ma sulla libertà e creatività della persona. Non la verità ha il primato sulla coscienza, ma la coscienza ha il primato sulla verità. Non l’agire è l’applicazione del sapere, ma il sapere sorge nell’agire. L’atto concreto non è applicazione ma superamento della legge. Non esiste una vita eterna dopo la morte, ma nel momento della morte. Non c’è un altro mondo dopo questo, ma questo è il solo mondo esistente: o troviamo qui la felicità  o siamo dei falliti. 

Per loro Dio non può essere concepito nei dogmi o negli articoli del Credo, ma può essere solo sperimentato come Mistero assoluto ineffabile ed innominabile. Non esistono concetti universali, immutabili ed assoluti, ma ogni concetto è relativo, mutevole e soggettivo. I concetti teologici sono solo modelli immaginari o simboli indicatori del Mistero, ma non ci danno un concetto del Mistero. Tutti si salvano perché l’uomo è essenzialmente orientato a Dio e Dio è pura misericordia che vuol salvare tutti.

Lo stile morale dei farisei non è la limpidezza, la lealtà e la coerenza, ma la doppiezza, l’astuzia e l’opportunismo.  La loro dottrina non riflette il magistero della Chiesa, ma quella dei teologi di grido. La loro pratica religiosa non è sincera ma finta, non sorge dall’interiorità, ma è semplice pratica esteriore. Non nasce da un insopprimibile bisogno dello spirito, ma è lo scotto da pagare per figurare di essere nella Chiesa, come fa colui che per salire in autobus paga il biglietto.

Per questo essi non sono nella Chiesa per la salvezza della loro anima, perché non credono nell’immortalità dell’anima e perchè non sono intimamente convinti che fuori della Chiesa non ci sia salvezza, ma considerano la Chiesa come una società terrena come un’altra, nella quale, se si è furbi, si può fare fortuna.

E di fatto essi non credono affatto nella Chiesa come inizio della Gerusalemme celeste, ma solo come ambiente meramente umano e terreno, culturale, sociale, politico ed economico tale da poter garantir loro benessere, fama e prestigio sociale, godimenti mondani, influsso politico, affermazione di sé, appoggio nei potenti, successo tra i fedeli e forse anche guadagni e piaceri.

Non hanno timore di Dio, ma degli uomini. Non tengono alla gloria che viene da Dio, ma a quella che viene dagli uomini. Fanno di nascosto quello che non farebbero pubblicamente per non essere biasimati. Sono tradizionalisti in ambiente tradizionalista e modernisti in ambiente modernista. Garantiscono, assicurano e promettono a chiunque grazia, salvezza e felicità incondizionate perché Dio è buono e misericordioso. Secondo loro non si conquista il paradiso per averlo meritato con le opere, ma solo per grazia, altrimenti la grazia non sarebbe grazia.

Coloro che usano la parola «Dio» a sproposito 

Non tutti coloro che usano la parola «Dio» o parlano di Dio, fossero anche teologi fecondissimi di pubblicazioni teologiche, la usano a proposito e quindi pensano e parlano del vero Dio, ma contravvengono al Secondo Comandamento «Non nominare il Nome di Dio invano». Essi danno un’idea errata di Dio e invece di indirizzare la gente a Dio, l’indirizzano verso l’idolatria.

Usano la parola «Dio» non perché credano veramente in Dio – si vede da come si comportano, dai loro discorsi e dai loro interessi nel quotidiano -, ma per convenienza, per convenzione e per abitudine, trovandosi a vivere in un ambiente cattolico, che consente loro di esplicare le loro capacità umane, nel quale psicologicamente si trovano a proprio agio, dal quale ottengono vantaggi materiali, sostentamento economico e riconoscimento sociale.

Così succede che il vizio di molti non è quello di non credere in Dio, ma è quello di non metterlo alla cima dei loro pensieri e dei loro desideri. Un Dio che non è al di sopra del mondo, ma semplicemente una bene tra gli altri, ora da usare ora da non usare a seconda delle convenienze, non può essere il vero Dio, ma è un idolo. Vizio diffuso è la doppiezza, il barcamenarsi fra il sì e il no e il pretendere di servire due padroni.

Non è infrequente il caso di cattolici che credono di poter ad un tempo servire Dio e il mondo. Col pretesto che il mondo in sé è buono, è creato da Dio e che Cristo ha dato la sua vita per la salvezza del mondo, essi concepiscono il mondo con la sua corruzione come un assoluto accanto a Dio e ora servono Dio, ora servono il mondo, come a loro aggrada.

A base di questo atteggiamento c’è il mettere la propria felicità non nel contemplare e adorare Dio, partendo dal mondo ed usando il mondo, ma il desiderio di dominare, possedere e trasformare il mondo. È il progetto di Cartesio, del quale così parla il Maritain:

 

«Dans le Discours de la Méthode[3] Descartes oppose la nouvelle philosophie à l’ancienne en ceci que l’ancienne était spéculative, et que la nouvelle  sera “pratique”, et nous rendra “comme maîtres et possesseurs de la nature”. Dans les Principes il répresente la philosophie ou la science comme un arbre dont les racines sont la Métaphysique, le tronc, la Physique, et les branches la Médecine, la Mécanique et la Morale: la Métaphysique ne fait donc que fixer au sol l’arbre de la science et commencer l’élaboration de la sève. Le fruit, - l’ultime délectable, selon le mot des anciens – c’est aux sciences pratiques que nous le demandrons. Le reversement cartésiaen consiste donc à faire de la métaphysique la première partie et non plus la dernière, le début et non plus le terme, la base et non plus le sommet de la philosophie»[4]. 

Questo programma troverà un’ulteriore conferma nella famosa Tesi XI su Feuerbach di Karl Marx, dove è detto: «I filosofi hanno finora cercato di contemplare il mondo. Ora, quello che importa è trasformarlo». È chiaro che il Cartesio cattolico continua ad ammettere Dio come Signore della natura. Tuttavia vediamo come questo suo orientamento ponga il fine dell’uomo non nella contemplazione di Dio ma nel dominio sulla natura. Ciò comporterà uno sdoppiamento del fine dell’uomo: il Cartesio cattolico manterrà come fine la visione beatifica; il Cartesio filosofo porrà il fine dell’uomo nella prassi trasformatrice del mondo. 

In Marx questa tendenza prassistica arriverà al culmine perché il dominatore del mondo non è più Dio, che non esiste, ma è l’uomo. Chiaramente anche per Marx come per il cristiano non si tratta di fare del mondo un idolo da contemplare. È vero che dovere dell’uomo è trasformare il mondo e assoggettarlo a sè. L’errore di Marx, come è noto, è quello di trascurare che l’uomo può dominare il mondo solo in quanto creatura di Dio, la quale ha per fine ultimo la contemplazione di Dio, raggiunta mediante l’utilizzo del mondo.

Il problema dell’essenza di Dio

Se Dio, come oggi pensano in molti, non ha un’essenza in Se stesso, che sia da noi intellegibile o conoscibile e quindi concettualizzabile, è lo stesso che dire che per noi Dio non esiste, per cui la falsa mistica dell’apofatismo assoluto o del Mistero totalmente ignoto (l’àghnoston degli gnostici o l’«Inconoscibile» dei modernisti, del quale parla S.Pio X[5]) viene a coincidere con l’ateismo.

Dio quindi, come ogni realtà, non può non avere un’essenza. Essa anzi coincide col suo essere. L’essenza di Dio è quella di essere. Il suo essere è la sua stessa essenza. Noi dunque, se Dio è conoscibile, dobbiamo dire che il nostro intelletto, il cui oggetto è l’essenza delle cose, può concepire l’essenza di Dio per analogia con le creature. Conosciamo l’essenza di Dio facendo uso del concetto dell’essere e diciamo: Dio è lo stesso Essere sussistente. Possiamo predicare di Lui, in analogia con le creature e partendo dagli effetti, molte proprietà essenziali ed operative. 

Noi definiamo una cosa determinando una differenza in un genere più vasto del definito. Per esempio, diciamo che l’uomo è un animale ragionevole collocando l’uomo nel più vasto genere animale e restringendo il genere «animale» con l’attribuirgli la razionalità. Ma l’essenza divina non può essere la differenza di un genere, perché essa abbraccia tutti i generi. Tuttavia possiamo utilizzare suppletivamente la categoria dell’essere divisa in alcune coppie di differenze, come per esempio essere finito-essere infinito, essere relativo-essere assoluto, essere necessario-essere contingente, essere mutabile-essere immutabile, essere increato-essere creato ed applicarle per distinguere Dio dal mondo. Qui l’essere può fungere da genere.

C’è inoltre da considerare che, come insegna il Concilio Vaticano I, Dio è «una singularis  simplex omnino et incommutabilis substantia spiritualis»[6]. Il che vuol dire che l’essenza di Dio non è semplicemente un’essenza specifica, ma è congiuntamente un’essenza[H1]  individuale, e precisante una persona, s’intende dal punto di vista della teologia. 

Ora la questione della conoscenza di Dio si aggrava per noi perché, anche ammesso e non concesso che noi quaggiù possiamo conoscere l’essenza propria di Dio, qui non basta conoscere la sua essenza individuale, ma, trattandosi di una Persona, dovremmo possedere la capacità di intuire la sua essenza in quanto Egli è quella persona, irripetibile ed inconfondibile con altre. 

Noi fatichiamo a rispondere a domande come: chi è stato Leopardi? Chi è stato Manzoni? Chi sono io? Chi sei tu? Noi che siamo semplici creature. Figuriamoci la difficoltà ed anzi l’impossibilità del nostro intelletto di vedere o intuire quaggiù la personalità divina, se non siamo illuminati dal lumen gloriae! Solo in paradiso potremo sapere visivamente e riconoscere intuitivamente chi è il Padre, chi è il Figlio e chi è lo Spirito Santo.

Infatti l’essenza divina trascende talmente la capacità del nostro intelletto, che naturalmente nella sua ultima differenza non possiamo né conoscerla né definirla e ci rimane ignota[7]. Ci viene svelata dalla Rivelazione e avremo la possibilità di vederla immediatamente in paradiso nella sua struttura Trinitaria, ma anche lì essa continuerà a superare infinitamente la limitatezza del nostro intelletto.

Bene dice pertanto il Concilio Vaticano I, quando insegna che il vero Mistero divino ci illumina soprattutto con la Rivelazione, se no che rivelazione è quella che non rivela niente? E neppure essa, come credeva Hegel rivela tutto. Ebbene il Concilio ci insegna che

«La ragione illuminata dalla fede, quando indaga con sollecitudine,  pietà e sobrietà, consegue per un dono divino una qualche fruttuosissima intelligenza dei misteri»[8]. 

Quindi, dicendo che il concetto teologico o dogmatico coglie «qualcosa» del Mistero, il Concilio viene a dire che noi attingiamo realmente ed oggettivamente il Mistero così com’è, ma, data la limitatezza della nostra creaturale comprensione, arriviamo solo ad un certo limite di comprensione, limite che può essere continuamente allargato col progresso della teologia e del dogma, ma mai tolto, per cui al di là di questo limite c‘è ancora un’infinità di intellegibilità, che noi non potremo mai scandagliare o abbracciare e che solo Dio comprende esaustivamente cioè infinitamente.

Solo l’Infinito può comprendere totalmente e infinitamente l’Infinito. Il finito Lo può comprendere, ma solo finitamente. Non però che ne possiamo comprendere una parte, sicché ne resti fuori l’altra parte, perché il mistero è semplice e indivisibile. Il «qualcosa» (aliquam intelligentiam) del Concilio significa tutto il mistero, perché o si coglie tutto o non si coglie niente, ma tutto solo imperfettamente e non totalmente (totus sed non totaliter). 

La teoria dell’inconoscibilità di Dio nasce da una dottrina sbagliata del concetto, come se il concetto potesse avere per oggetto solo il finito e non l’infinito. E invece dobbiamo dire che, nonostante la finitezza del nostro modo di concepire e la limitatezza di quanto la nostra ragione, anche illuminata dalla fede, può capire del mistero di Dio, ebbene, come insegna il Concilio Vaticano I, non è impossibile farsi un concetto di Dio a certe opportune condizioni. Occorre però precisare che cosa in generale si deve intendere per «concetto»[9]. Che cosa è il concetto? 

Il concetto è una rappresentazione formata dalla nostra mente, per mezzo della quale e nella quale esprimiamo ciò che dell’essenza del reale abbiamo compreso. Secondo la fede, Dio Padre stesso fa procedere da Se stesso un Concetto di Se stesso, che è il Logos ovvero il Figlio. Nel concetto che ci formiamo di Dio noi ci rappresentiamo l’infinito divino.

Il concetto ha qui effettivamente questo contenuto; se no, sarebbe impossibile per noi conoscere Dio e l’ateismo sarebbe inevitabile. Solo che noi, benché possiamo sapere che Dio è infinito, dato che la capienza del nostro concetto è finita, succede che tutto quello che possiamo e dobbiamo fare è conoscere finitamente l’Infinito divino, perché per conoscerlo infinitamente, bisognerebbe essere Dio, essere il Logos. Ma non c’è bisogno di essere Dio per conoscere Dio. Lo si può conoscere nel modo suddetto. Ed Egli sa farSi riconoscere da noi. 

A questo proposito dobbiamo far presente il rischio dell’idolatria, che è causata dall’attribuire qualità o proprietà o potenze che non Gli convengono. Da qui il concetto del Dio mutabile, passibile, identico al mondo, alla storia e all’uomo, oscuro, tenebroso, incoerente, contradditorio, irrazionale, sperimentabile, inconoscibile, inintellegibile, non concettualizzabile, alla mercé dell’uomo, inerte, impotente, permissivo, ingiusto, protettore dei malfattori, soggetto al male. 

 

Coloro che compiono opere buone a vantaggio degli altri per esibizionismo

e coloro che inconsciamente servono Dio sovvenendo al prossimo

Il desiderio di conoscere Dio può essere implicito e nascosto nelle opere di carità fraterna, giustizia e misericordia. È un desiderio implicato nell’amore. Qui l’uomo amando disinteressatamente, lealmente e virtuosamente il prossimo, senza utilitarismi, ripiegamenti egoistici ed esibizionistici, ma avvertendo l’assolutezza del dovere morale, che suppone la coscienza dell’esistenza di Dio, come già aveva intuìto Kant, ama implicitamente Dio e congiuntamente mostra di desiderare di conoscere Dio, perché non lo amerebbe, se avendolo almeno implicitamente conosciuto ed essendo rimasto attratto dalla sua bontà, non fosse almeno implicitamente incitato a conoscerLo meglio. 

Certamente qui non siamo di fronte ad un episodio come quello di Marta e Maria, dove appaiono chiaramente da una parte la volontà cosciente ed esplicita di Maria di ascoltare e contemplare Gesù e dall’altra la preferenza data da Gesù all’amore contemplativo di Maria rispetto all’amore operativo di Marta per Gesù, che si esprime nell’amore premuroso verso Gesù uomo. Per cui Marta è certamente simbolo del desiderio implicito di cui sopra di vedere Dio, desiderio non esplicitato come invece lo è in Maria, ma nascosto nell’esercizio dell’amore del prossimo, nella fattispecie Gesù stesso.

Questo desiderio implicito può e deve essere presente anche nella collaborazione fra credenti ed atei per la realizzazione della giustizia sociale e il bene dell’uomo in obbiettivi oggettivamente onesti ed occasionali. Esso è cosa possibile, buona e doverosa, ma entro limiti molto ristretti e sempre esposta alla possibilità di rottura per l’inaffidabilità dell’etica atea. Infatti l’ateismo ha nella sua essenza la tendenza e il proposito di operare il bene dell’uomo non sulla base della legge divina, ma sulla base dell’arbitrio della volontà umana. Per questo la sua azione non è stabile nel bene, ma opera ora per il bene se l’uomo fa ciò che è conforme alla legge divina ed opera per il male, se l’uomo vuole essere legge a sé stesso.

È dunque possibile una conoscenza implicita di Dio celata sotto una giusta stima della dignità umana, stima che conduce ad una prassi di carità, di giustizia e di misericordia. Questa conoscenza di Dio implicita nell’operare può nascondersi sotto un apparente ateismo.

L’uomo che opera per il prossimo in base a questa conoscenza, supponendo che sia accompagnata da una retta conoscenza dei doveri verso il prossimo, può non essere consapevole di operare per Cristo, ma di fatto opera per Cristo e – come narra lo stesso Vangelo in Mt 25 - viene reso consapevole di ciò da Cristo stesso nel momento del Giudizio divino, per cui riceve il premio eterno.

Ricordiamo però che l’ateo, in quanto non tiene Dio davanti ai suoi occhi, può bensì beneficare il prossimo limitatamente ai suoi bisogni materiali. Ma non è in grado di capire ed apprezzare quelli spirituali ed anzi, a causa del suo ateismo, li ostacola e li osteggia recando danno al prossimo circa la salvezza della sua anima. Occorre sempre ricordare che l’ateo, per quanto bene possa fare al prossimo, non benefica il prossimo per amor di Dio, per cui tutte le opere che fa non gli giovano per la sua salvezza, come ci ricorda San Paolo:

«E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (I Cor 13,3)».

L’ateo, magari dotato di buon cuore, agisce però solo per una sua personale decisione, autonoma rispetto alla volontà di Dio, una scelta di calcolo, che gli arreca vantaggi e che può sempre revocare, se vede che non gli conviene. Chè se invece uno, anche senza un pensiero esplicito di Dio, agisse con totale buona fede, onestà e disinteresse, nel rispetto della legge morale, allora non sarebbe più ateo ma indirizzato a Dio, anche senza averne piena coscienza e forse credendosi ateo, vittima involontaria di un falso concetto di Dio.

C’è da notare, inoltre, che l’ateo dispone, nell’esercizio dell’amore del prossimo, di criteri di giudizio e di forze morali precarie e molto inferiori a quelle delle quali dispone il credente in Dio, fornito di una migliore obbedienza all’etica naturale e dello stato di grazia di figlio di Dio.

La solita mitica figura, cara alla tradizione atea romagnola, dell’ateo generoso e disinteressato, amico e benefattore dei poveri, contrapposto all’uomo di chiesa bacchettone, oscurantista ed egoista, è uno stereotipo che ha fatto scuola per generazioni dall’’800 di Pio IX sino alla rivoluzione del ’68, ma, a parte un pizzico di verità che si trova in tutti gli errori, è un’immaginazione sostanzialmente sviante perché è un controsenso: se Dio è principio di ogni bene e di ogni virtù, da dove l’ateo, peccatore come tutti, bisognoso lui per primo di essere convertito e salvato da Cristo, dovrebbe ricavare la forza soprannaturale necessaria per poter realizzare in pienezza il bene proprio  e quello degli altri?

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 30 dicembre 2020


 

l’amore spinge a conoscere, sicché amore e conoscenza si causano a vicenda in una stupenda circolarità, che conduce lo spirito alla perfezione e alla santità

L'Adorazione dei Magi - Andrea Mantegna, databile al 1497-1500 circa e conservato nel Getty Museum di Los Angeles 

(immagine da internet)

1 Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.58.

[2] Critica della ragion pura, op.cit. , p.21.

[3] Cf Discorso sul metodo, a cura di Gustavo Bontadini, La Scuola Editrice, Brescia 1957, p.109.

[4] Le songe de Descartes, Buchet-Chastel, Paris 1932, pp.130-131.

[5] Enciclica Pascendi n.11.

[6] Denz.3001.

[7] Cf J.Maritain, «Ce que Dieu est» in Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Bruges 1959, pp.827-843.

[8] Denz.3016.

[9] Cf J.Maritain, A propos du concept, in Les degrés du savoir, Desclé de Brouwer, Bruges1959, pp.819; cf l’estratto della mia tesi di dottorato in teologia del1984 all’Angelicum di Roma: Potere e limiti della concettualizzazione in Il giudizio per affinità nel dono della sapienza, Bologna 1987.


 [H1]di

2 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    c’è solo una proposizione del suo discorso che mi lascia perplesso:
    “È impossibile arrivare alla fede, se non sulla base di una conoscenza naturale razionale di Dio, perché nella fede cristiana l’uomo che sa già che Dio esiste, lo ama e lo cerca, accoglie l’annuncio evangelico dell’apostolo che accompagna la sua testimonianza di carità con l’esibizione di convincenti prove o segni di credibilità del messaggio che ci trasmette”.
    Affermare l’impossibilità di giungere alla fede cristiana, se prima non si sia pervenuti ad una conoscenza naturale razionale di Dio, sembra in contrasto con le testimonianze di non pochi atei che hanno sperimentato una conversione improvvisa.
    Fu il caso, ad esempio, del giornalista e scrittore, accademico di Francia, André Frossard, cresciuto in una famiglia marxista, che nel suo libro “Dio esiste, io l’ho incontrato”, descrivendo la giornata della sua vita, iniziata da ateo e conclusa da battezzato cattolico, scrive:
    “È l’8 luglio una magnifica estate. Per la sera ho un appuntamento con una tedeschina bionda... Non credo a niente. A ogni modo, se credessi all’esistenza di una verità, i preti sarebbero gli ultimi ai quali andrei a chiederla. Non provo infine alcuna curiosità per le cose di religione che ritengo di un’altra epoca.” Verso sera André è assieme a un amico. Questi entra in una chiesetta. André, inizialmente, preferisce aspettarlo fuori. Ma l’amico sembra non tornare più. Allora André decide di entrare. Si trova di fronte a “cose” mai viste: un altare, il Santissimo Sacramento esposto in alto tra fiori e candele accese. Per caso fissa una candela: la seconda a sinistra della croce. Continua a raccontare: “Dapprima mi vengono suggerite queste parole: “Vita spirituale”. Le ho sentite come se fossero state pronunciate accanto a me sottovoce da una Persona che io non vedo ancora. Non dico che il Cielo si apre. Non si apre, ma si slancia, s’innalza silenziosa folgorazione, da quella insospettabile cappella nella quale si trovava misteriosamente rinchiuso... Un mondo, un altro mondo d’uno splendore e di una densità che rimandano di molto il nostro mondo fra le ombre fragili dei sogni irrealizzati. Questo mondo è la Realtà, la Verità: la vedo dalla sponda oscura su cui sono ancora trattenuto. C’è un ordine nell’universo e alla sommità c’è Dio, l’evidenza di Dio, l’evidenza fatta presenza, fatta Persona di Colui che un istante prima avrei negato. Colui che i cristiani chiamano “Padre nostro” e nel quale sento tutta la dolcezza, una dolcezza attiva, sconvolgente, al di là di ogni violenza, capace di infrangere la pietra più dura e, più duro della pietra, il cuore umano […] L’irruzione di Dio, straripante, totale, s’accompagna con una gioia che non è altro che l’esultanza del salvato, la gioia del naufrago raccolto in tempo...”
    Casi come questo, in cui l’irruzione inaspettata della Grazia annichilisce l’iniziale ateismo, rammentandoci le parole dell’angelo alla Vergine “A Dio nulla è impossibile”, sono da considerare nel novero delle rivelazioni private, comunque eccezioni alla regola che non si possa arrivare alla fede non possedendo prima una conoscenza naturale razionale di Dio?

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    1. Caro Bruno, nell'individuo adulto, che usa la ragione, esiste, almeno implicitamente, la conoscenza dell'esistenza di Dio, che sorge da un ragionamento implicito, per il quale la ragione, constatando l'effetto, è portata logicamente alla affermazione della causa. Si tratta di quella conoscenza implicita di Dio, della quale parla il Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium n. 16, arrivando a dire che questa conoscenza implicita è salvifica, anche se non viene esplicitata. Il fatto che qui si tratti di un processo razionale non esclude affatto che la ragione sia illuminata dalla grazia. Discorso diverso invece è quello relativo alla fede in Cristo, fede che presuppone necessariamente che si sappia già che Dio esiste, perché questa fede ci dice che Cristo è Dio, per cui nell'ipotesi che uno non sapesse che Dio esiste, non capirebbe il senso della proposizione, ma, anche avendo compreso il senso di proposizione, non è ancora detto che il soggetto sia giunto alla fede. Perchè essa nasca nel suo cuore, occorre una nuova grazia, che solleciti la volontà ad aderire all'annuncio del predicatore, il quale rende credibile il suo messaggio esibendo prove di credibilità e dando una testimonianza di carità. L'esprerienza di Frossard si limita alla scoperta di Dio Padre, ma non accenna ancora a Gesù Cristo. Dico questo perchè già i pii pagani credevano in una paternità divina, ovviamente distinta da quella paternità che ci è rivelata da Gesù Cristo.

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