Da sempre Tu sei

 Da sempre Tu sei

Il problema di come parlare con Dio

 

Da sempre Tu sei

          Salmo 93,2

Occorre saper fare buon uso della parola «essere»

Un mio confratello panteista, del quale non faccio il nome, convinto di essere Dio o quanto meno un’apparizione empirica del Pensiero assoluto, contesta il significato della preghiera dicendo: se io sono Dio, che senso ha la preghiera? Dovrei pregare me stesso? E similmente per l’ateo la preghiera non ha senso: posso pregare una persona che non esiste? Ma esistono anche forme di teismo spurio che col pretesto di sottolineare il mistero di Dio si rifiutano di concepirlo come una persona alla quale noi possiamo essere simili, per cui non sappiamo più come parlare con Lui o come possiamo capire quello che ci dice.

Altri pensano che Dio non sia un ente personale distinto dal mondo e trascendente il mondo, ma semplicemente la Mente ordinatrice dell’universo, immanente allo stesso universo, che ne è la manifestazione fenomenica ed empirica.  Altri pensano che Dio non si può concepire come puro Spirito separato dalla materia, ma come spirito materializzato o materia spiritualizzata.

Altri hanno un concetto di persona limitato alla persona umana e per questo si rifiutano di pensare Dio come persona per timore di antropomorfismo. Sono quindi mossi da un’esigenza di spiritualità e di infinità, ma, incapaci di formare una nozione analogica di persona e di sostanza, finiscono per negare la possibilità di dialogare con Dio perdendosi in un agnosticismo oscurantista pseudomistico alla maniera di quello deriso da Hegel, la famosa «notte dove tutte le vacche sono nere».

Altri pensano che Dio sia semplicemente il supremo ideale della ragione, per cui non va considerato come un ente a noi esterno e trascendente col quale poter dialogare, perché sarebbe demenziale che noi ci mettessimo a colloquio con l’idea suprema della nostra ragione, che è un ente mentale astratto, dipendente dalla nostra ragione, principio ordinatore della nostra attività logica e raziocinatrice, quasi fosse un personaggio misterioso e divino col quale trattare con timore reverenziale circa le azioni da compiere per raggiungere la felicità eterna.

Altri, citando la fede cristiana, si dicono convinti che Dio ci parli e che dobbiamo credere a quello che ci dice. Essi però sono convinti che Egli ci dice o comanda cose assurde o scandalose per la nostra ragione, ma vere secondo la sua insindacabile ragione, per cui, se abbiamo fede in lui, dobbiamo crederle lo stesso.

Anche in questo caso è evidente che costoro, al di là della loro proclamata obbedienza a Cristo o al Padre celeste o allo Spirito Santo, in realtà non credono alla vera personalità di Dio, perché se ammettessero veramente Dio come un Tu personale, non farebbero simili discorsi insensati, giacchè un pregio stupendo della comunicazione interpersonale è precisamente la perfetta intesa nelle medesime verità.

La loro teoria, secondo la quale Dio ragiona in maniera opposta a come ragioniamo noi non è per nulla biblica o paolina, come vorrebbero darci ad intendere, ma è un pretesto sleale per violare il principio di non-contraddizione e fare della contraddizione la costituzione della realtà, della doppiezza la regola del pensare, della sofistica la regola del ragionare, dell’impostura la regola del dialogo, dell’equivoco la regola del parlare, della finzione e dell’ipocrisia la regola dell’agire.

Circa la problematica dell’esistenza di Dio e quindi di capire se è possibile un colloquio con Dio inteso come persona, è indispensabile chiarire alcune cose per aver la possibilità di trovare una soluzione. Innanzitutto bisogna saper far uso intelligente del verbo essere nelle sue persone e nei suoi tempi. Tutti sappiamo che cosa significa il verbo essere, giacchè lo usiamo fin da piccoli in tutti i nostri discorsi, qualunque cosa diciamo di intellegibile. Il verbo essere significa l’atto d’essere. D’altra parte tutti sappiamo spontaneamente e per conto nostro che cosa è l’essere. Come lo abbiamo capito? Imparando a parlare fin dall’infanzia. Infatti la parola essere è la copula del giudizio.   

Nessuno ci ha insegnato che cosa vuol dire questa parola, ma sentendo i discorsi dei nostri genitori, lo abbiamo capito da soli e noi a nostra volta abbiamo imparato ad usarla nel nostro parlare. San Tommaso a proposito di cosa significa la parola essere e di che cosa è l’essere dice molte cose interessanti[1], ma è chiaro che chi lo legge sa già che cosa è l’essere e non fa altro che trovare in quello che dice Tommaso le proprietà dell’essere che egli già conosce.

D’altra parte, non ha senso voler definire che cosa è l’essere o stabilire l’essenza dell’essere. Infatti nella definizione saremmo costretti ad usare la parola essere nella copula del giudizio, il che vuol dire che sappiamo già che cosa è l’essere, Quindi è inutile dare una definizione di qualcosa che sappiamo già che cosa è. Il che vuol dire che tutti naturalmente possediamo il concetto dell’essere, senza che nessuno ce lo abbia insegnato, senza averlo imparato o appreso da alcuno, ma ce lo siamo formati da soli e in esso tutti ci intendiamo, come dimostra la possibilità di comunicare tra noi nel linguaggio.

È vero che la metafisica dedica una speciale attenzione alla questione dell’essere, che certamente è oggetto primario delle sue considerazioni. Le luci che la metafisica ci dà sul concetto e l’essenza dell’essere sono molto utili, ma esse non fanno che confermare e irrobustire ciò che sull’essere sappiamo già sin dalla più tenera infanzia, quando abbiamo imparato a parlare e a giudicare.

Il concetto dell’essere serve per sapere chi è Dio

e come debbo dialogare con Lui

Circa il verbo essere, per quanto riguarda il nostro problema se e come possiamo dialogare con Dio, è fondamentale tenere in considerazione le prime tre persone singolari del presente del verbo essere: io sono, tu sei, egli è. Quando dico io sono, penso alla mia persona, a me che parlo con Dio. Ma penso anche al nome divino Io Sono.

Dio stesso, come è noto, ha rivelato a Mosè la sua identità. Alla domanda fatta da Mosè di rivelargli il suo nome, ossia di dirgli Chi Egli sia, Dio ha risposto con due affermazioni facendo uso del verbo essere. Nella prima lo ha usato alla terza persona: Io sono Colui che È.

Nella seconda ha detto semplicemente: Io Sono. Non ha detto, come alcuni male intendono io sono con voi. Non ha detto io sono chi sono, quasi a nascondere la sua identità. Non ha detto io sono ciò che sono, perché questo è il semplice enunciato del principio di identità, che non vale solo per Dio, ma per ogni ente.  Non ha detto a Mosè io sono e non sono. Non gli ha detto io sono altro da quello che tu pensi che io sia. Non gli ha detto: non puoi sapere chi io sia. Non gli ha detto: io sono la volontà che vuole se stessa. Non gli ha detto: io sono il pensato che tu pensi. Non gli ha detto: io sono l’essere. Non gli ha detto: io sono l’esplicitazione ultima della tua autocoscienza. Non gli ha detto io coincido esattamente col concetto che tu hai di me. Non gli ha detto: io sono un prodotto del tuo pensiero. Non gli ha detto: io sono immanente in te.  Non gli ha detto: io sono il vertice ultimo della tua autotrascendenza. Non gli ha detto: io sono la sublimazione spirituale dell’evoluzione della materia.

Tutte queste cose sono false interpretazioni, che non corrispondono affatto a ciò che Dio ha veramente detto a Mosè. Chi invece ha compreso veramente e meglio di ogni altro teologo, tanto da essere raccomandato dalla Chiesa stessa[2], è stato San Tommaso d’Aquino, il quale ha capito che nelle affermazioni suddette Dio ha presentato se stesso non genericamente o astrattamente come essere, ma come lo stesso essere da sé sussistente, ipsum esse per se subsistens, quindi l’essere fatto persona, giacchè il sussistente spirituale è la persona.

In altre parole, Dio ha inteso rivelare a Mosè il suo essere, come dirà il Concilio Vaticano I, come «una singularis simplex omnino et incommutabilis substantia spiritualis» (Denz.3001). Perché l’ipsum esse è persona? Perché è una sostanza spirituale? Perché Dio non è composto di materia e forma, ma è purissima forma. Perchè ipsum esse vuol dire che Dio esiste da sé, quindi non perchè il suo essere sia causato, ma in ragione di se stesso, in forza della sua propria essenza. In altre parole, Dio è quell’ente la cui essenza è quella di esistere.

È quindi l’ente assolutamente necessario, che non può non esistere. Ogni altro ente è invece contingente, ossia non esiste per essenza, ma per partecipazione all’essere divino, che lo ha creato dal nulla. Mentre l’ente contingente non ha in sé la ragione sufficiente del suo essere, dato che può non essere, Dio è l’essere sussistente, in quanto non ha l’essere come fosse accidente della sua sostanza, ma il suo essere è la sua stessa sostanza, è l’essere, è essere per essenza, e quindi in Lui l’essere s’identifica con la sua stessa essenza.

L’essenza divina non è, come in noi, un poter-esser-tale, che si attua nell’esser-tale. Io posseggo un’essenza umana, che è il poter esser uomo. Il mio esistere è l’atto di questa potenza. Io sono uomo perché la mia essenza è il poter-esser-uomo. Ma l’essenza divina non è un poter essere attuato dall’essere. Dio è in atto tutto ciò che l’essere può essere. In Dio il possibile coincide con l’attuale. Non è l’atto di una potenza limitante l’essere, perché il suo essere è illimitato. E pertanto è puro atto d’essere senza potenza. In Lui l’essenza non fa da soggetto all’essere, ma siccome c’è solo l’essere, l’essere stesso fa la funzione di soggetto. È sussistente. Non è accidente ma sostanza. La sua essenza è il suo stesso essere.

Solo Dio può dire di Sé Io sono in un modo così assoluto, senza predicato nominale. Io posso dire di me stesso: io esisto, ma non io sono. Devo aggiungere, precisando, un predicato nominale che restringa l’infinita portata del significato della parola «sono». Per cui dirò: sono un uomo, sono un frate domenicano, sono un italiano, sono un sacerdote, sottintendendo che c’è un’infinità di cose che non sono, alle quali alludo con i predicati che mi attribuisco. Invece Dio è tutto, è tutte le perfezioni.

Nulla dell’essere è escluso dall’essere divino. Senza identificarsi con le cose, ciascuna delle quali Egli trascende infinitamente, e dalle quali è assolutamente distinto, altrimenti cadremmo nel panteismo, tutto l’essere che si trova in ogni cosa Egli lo contiene e precontiene idealmente e realmente, virtualmente ed eminentemente nella sua essenza divina per poterne essere causa.

Per questo sum del cogito cartesiano andrebbe tradotto io esisto e non io sono. Ma il guaio è che Cartesio stesso s’imbroglia col suo sum, pensando che esso dia la certezza che io esisto, ma sono certo solo della mia esistenza; che esistano le cose devo dimostrarlo. Ora è solo Dio che parte dalla certezza di se stesso, come unico esistente da sé ab aeterno in quanto le cose le crea lui e quindi non ha bisogno di fondare la certezza del sapere come noi basandosi sull’esperienza delle cose.

L’io sono di Cartesio cela quindi in sé la pretesa di autoidentificazione con l’Io Sono divino. E ciò sarà esplicitato da Fichte, quando appunto, rifacendosi al sum cartesiano e volendo darne l’interpretazione radicale, alla quale neppure Kant era giunto, sosterrà che non esiste una cosa in sé esterna all’io e indipendente dall’io, perchè la realtà non è creata da Dio, ma la pongo io opponendo al mio io il non-io.

Occorre dunque non pareggiare il nostro io sono all’Io Sono divino. Il nostro io non può invadere tutto il campo dell’essere. Il tu sei e l’egli è non possono essere delle dépendances o delle succursali del nostro io, sia pur chiamato con nomi altisonanti, come pensiero puro o autocoscienza o Io trascendentale o soggettività assoluta o cose del genere, ma dobbiamo avere la modestia di riconoscere che il nostro io è creato da Dio, per cui l’uso della seconda e della terza persona del verbo essere dev’essere regolato non in rapporto al nostro io,  quasi che noi siamo i creatori della realtà, ma per significare un tu e un egli, sia umano che divino, che esistono indipendentemente dal mio io e da ciò che il mio io pensa.  

Il fatto che il nome divino sia Io Sono non toglie che spessissimo nella Scrittura Dio o Cristo aggiungano all’io sono o all’Egli è attributi divini: Io sono Dio e non ce n’è altri, o sono il Signore, io sono la via, la verità e la vita, Io sono la luce del mondo, io sono il buon pastore, io sono la resurrezione e la vita …. Questi attributi ci aiutano a capire chi è Dio, sicchè il nostro intelletto, che si smarrisce davanti al puro essere, trova qualche appiglio per la sua limitata comprensione, benché fra gli attributi divini, ricavati dalle proprietà del nostro spirito, dove essi sono realmente distinti, vi sia solo una distinzione di ragione, considerata la semplicissima essenza divina, non composta neppure di essenza ed essere.

Quando dico tu sei mi rivolgo a Dio come persona e gli parlo. Gli esprimo i miei sentimenti, i miei dubbi, i miei desideri, le mie speranze, le mie difficoltà, le mie sofferenze, le mie angosce, le mie paure, le mie gioie. Lo interrogo su cosa devo fare, Gli chiedo consiglio e luce, Gli chiedo di sostenermi e difendermi dai miei nemici, di saper accettare le prove, di scovare le insidie del demonio, di saper comprendere e perdonare, di ispirarmi un sincero pentimento. Gli chiedo se sono in grazia, se le colpe che sento sono vere o solo apparenti, se è contento di me o ha qualcosa di cui rimproverami, se ho peccati da scontare. Gli esprimo il mio amore, la mia fiducia, la mia gratitudine, le mie suppliche, la mia lode, il mio desiderio di vederLo. Gli formulo promesse, buoni propositi, rinnovata volontà di obbedirGli. Mi pongo in ascolto. È tutta la tematica dei Salmi.

La terza persona mi serve per sapere e pensare a chi è Dio. Mi serve per parlare di Dio, per costruire la teologia, quindi per stabilire gli attributi divini. È l’indagine razionale di fede sul mistero di Dio col sussidio della filosofia, della Sacra Scrittura, della Tradizione, del Magistero della Chiesa, dei Dottori e dei Santi, un’indagine che non è mai finita, che frutta sempre nuove scoperte per tutto il corso della storia.

Parlo di Dio per istruire chi non lo conosce, comunicare le mie scoperte, per invogliare alla ricerca di Dio, per suscitare interesse sul problema di Dio, per scuotere e stimolare le coscienze addormentate nei piaceri del mondo, per risolvere dubbi o chiarire cose che riguardano l’esistenza di Dio, la sua natura, le sue opere, il suo rapporto con noi.

A tal riguardo devo valermi della conoscenza di Dio che ho acquistato con la mia ragione e con la fede, possibilmente corroborata dalla teologia, con i miei studi e con lo stesso esercizio della carità verso Dio e verso il prossimo, col superamento delle prove e l’accettazione della Croce, così che io possa essere in grado di rivolgermi a Lui e di sapere con chi parlo, che cosa posso dirGli,  che cosa posso domandarGli, come devo ascoltarLo e che cosa posso attendermi da Lui.

Dio ipsum esse vuol dire che Dio è persona

Dio ipsum esse vuol dire che Dio è spirito, Dio è persona. Infatti le potenze della persona, l’intelletto e la volontà sono immateriali e superano infinitamente le prestazioni dell’attività della sostanza materiale. Ma perché Dio è spirito, è persona? Perché è il creatore degli enti corporei e spirituali. Dio è persona perché il creare possiamo paragonarlo all’operare dell’artista. Egli concepisce un’idea, il che è effetto della sua facoltà intellettuale e movendo la sua volontà, decide di realizzarla creando un’opera d’arte. Similmente noi immaginiamo Dio come persona sapientissima e onnipotente, dotata d’intelletto e di volontà, creatrice ed ordinatrice dell’universo. Come un artista conserva ed ha cura della sua opera, così comprendiamo che Dio conserva il creato nell’esistenza, tanto che se dovesse sospendere quest’azione conservatrice, il creato cadrebbe nel nulla.

Ma Dio ha creato anche gli angeli e crea continuante sempre nuovi uomini e donne, che accrescono continuamente il numero degli individui umani, mentre il numero degli angeli non aumenta perché, secondo la narrazione biblica sono stati creati tutti all’inizio della creazione del mondo (Gen 1,3). Essi sono esseri celesti, ai quali si riferisce la creazione del cielo (Gen 1,1).

Dunque Dio crea delle persone a sua immagine e somiglianza, persone, le quali, a differenza dei viventi inferiori e della natura inanimata, governati da Dio secondo leggi immutabili, sono capaci di autogoverno e di autodeterminarsi liberamente nel loro agire, enti personali, quindi, a Lui somiglianti non solo perchè partecipi in modo limitato di quell’essere che Egli è illimitatamente, nell’unico Atto del suo Essere, ma anche di quell’intendere e volere, che Egli possiede, anzi che Egli è; sicchè in Dio, a differenza di noi, nei quali l’essere è distinto dall’intendere e dal volere, essere, pensiero e azione s’identificano nell’unità semplicissima del suo essere.

E il Creatore di uno spirito finito e contingente non può che essere uno spirito infinito, necessario, eterno ed assoluto. Dunque Dio è persona, è un Tu al quale possiamo parlare, è un Tu che ci parla. E qui col termine «persona» ovviamente non intendiamo la Persona trinitaria, dato di fede, che è relazione sussistente e non sostanza, ma intendiamo quella substantia spiritualis, dato di ragione, della quale parla il Concilio Vaticano I.

Il rapporto dell’uomo con Dio comincia con l’esercizio della ragione, la quale si interroga sulle cause delle cose e giunge alla conclusione che esiste una causa prima, che è Dio. Qui il verbo essere è usato alla terza persona e corrisponde al linguaggio della scienza, della filosofia e della teologia. La conclusione è che Dio è l’ipsum Esse per Se subsistens.

Ma a questo punto l’intelletto desidera vedere l’essenza della causa prima. Esso si accorge che questa causa, questo ente sommo e primo scoperto dalla ragione è un ente personale, perché è il creatore del mondo dei corpi e degli spiriti, e per creare occorre intelletto e volontà. Ma il soggetto che possiede intelletto e volontà è la persona. E dunque Dio è persona. A questo punto cominciamo ad usare il verbo essere alla seconda persona, perché ci accorgiamo che, se Dio è persona, allora è possibile parlargli e che Egli ci parli. Ecco nascere il dialogo fra l’uomo e Dio.

Come immaginare la personalità divina? Come posso immaginarmi la possibilità di vedere l’essenza divina? Sento che Dio è la sorgente della mia beatitudine ed anzi ne sono convinto perché mi ha creato «come un prodigio» (Sal 139,14).

È vero che Egli solo può dire di Se stesso Io sono, perché solo Lui è l’essere perfettissimo, altissimo, immenso, assoluto, infinito ed eterno, essere sussistente e fatto persona. Ma anch’io posso dire io sono, benché, se io sono, lo sono da Lui e grazie a Lui. Egli è il mio sommo bene e in Lui trovo la mia felicità eterna. Egli mi ha promesso la vita eterna, se osservo i suoi comandamenti. Dunque osservando i suoi comandanti arriverò a vederlo faccia a faccia in cielo, a vedere direttamente la sua essenza, ad incontrarLo per un’unione d’amore che durerà in eterno.

L’iniziale rapporto conoscitivo per il quale ho scoperto l’esistenza di Dio come causa prima del mondo e mio creatore, si è trasformato così in un dialogo d’amore simile a quello fra un uomo e una donna, come suggerisce il Cantico dei Cantici. E come gli amanti desiderano vedersi ed unirsi, così io desidero vedere Dio e unirmi con Lui, certo di trovare in ciò la mia beatitudine. Lo scopo finale del dialogo con Dio è dunque quello dell’unione con Dio in cielo.

Naturalmente nel caso della visione beatifica l’oggetto del vedere non sarà un corpo maschile o femminile, ma una persona o uno spirito infinito eterno ed assoluto, assolutamente privo di materia, qual è Dio. Riesco a vedere la realtà spirituale? Riesco a concepirla? Ne ho un’idea? So che cosa è? Ne provo gusto? La amo? La desidero? So metterla in pratica? So parlarne? Capisco quando me ne parlano? So parlare con lei? So veramente che cosa è la persona? So di essere animato da uno spirito? Ne ho coscienza?

Sono tutte domande, alle quali non è facile rispondere, perché noi, benché persone animate da un’anima spirituale, capaci di intendere, di pensare, di ragionare e di volere, abbiamo esperienza di ciò che è spirituale solo mediante i sensi esterni ed interni e possiamo comprendere le manifestazioni sensibili della sostanza spirituale, cioè della persona nostra, altrui, angelica e divina, e non sperimentiamo lo spirituale in modo immediato se non come dato di coscienza. Facciamo fatica ad esprimere le nostre esperienze spirituali, facciamo fatica a capire i discorsi spirituali e filosofici. L’attrattiva delle realtà materiali spesso ci seduce.

Eppure sappiamo distinguere il buono dal cattivo spirito, lo spirito impuro dallo Spirito Santo, la buona dalla cattiva coscienza, il vero dal falso, le buone dalle cattive intenzioni, il peccato dalla giustizia, Cristo da Beliar. Ma siamo così stolti da usare del nostro spirito per negare l’esistenza dello spirito; in nome della verità neghiamo l’esistenza della verità; usiamo il pensiero per falsare la natura del pensiero; in nome di ragionamenti sofistici neghiamo il valore della ragione; formiamo concetti per negare il valore del concetto; usiamo del libero arbitrio per negare l’esistenza del libero arbitrio e così via. Sappiamo bene che cosa è lo spirito e con lo spirito disprezziamo e soffochiamo lo spirito.

Eppure sentiamo la gioia spirituale, sentiamo quanto essa è superiore al piacere fisico, proviamo la sete della verità e della giustizia, il gusto per la virtù, il piacere di pensare il vero e di amare il bene,  proviamo la pace della coscienza, il pentimento per i nostri peccati,  il desiderio di vedere Dio. E che cosa sono tutti questi nostri atti psicologici se non il segno che noi sappiamo bene che cosa è la realtà spirituale?

Come e a qual fine si attua il dialogo

Il dialogo con Dio assomiglia a quello interumano, in particolare è paragonato dalla Bibbia al dialogo fra due innamorati[3]. Per questo Cristo si presenta come «sposo». È chiaro che questa immagine conviene al suo rapporto con la donna e non con il maschio. Infatti l’immagine dello sposo corrisponde a una cultura della superiorità del maschio, come sappiamo essere tutte le culture antiche. In Israele il marito era chiamato baal, cioè «signore» dalla moglie.

Per questo l’immagine di Cristo sposo non vuol evocare tanto la mascolinità di Cristo, quanto il fatto della sua signoria. Oggi, pertanto, in un clima sociale ed ecclesiale di parità fra uomo e donna, in cui non ha più senso parlare dello sposo -signore, non si dovrebbe a mio avviso più calcare la mano su quella immagine ormai superata di Cristo sposo, dato che il sesso non c’entra. Penso per esempio alla spiritualità della Religiosa «sposa di Cristo». Per la Suora basta dire Gesù è Signore, senza tirar fuori l’immagine dello sposo, che fa pensare ad un’intimità sessuale del tutto fuori luogo.

Occorre infatti tener presente che qui il rapporto con Dio è mediato dall’umanità di Cristo, giacchè è chiaro che Dio non ha sesso, per cui la visione beatifica dell’essenza divina, che è il fine della nostra vita definito come dogma di fede da Benedetto XII nel 1336[4], è completamente estranea a immagini sessuali, essendo puramente e solamente intellegibile, esente da qualunque aspetto sensibile.

Il che non esclude affatto dalla visione beatifica la visione di Cristo Verbo incarnato, ma anzi entra essenzialmente nella visione beatifica, benchè non sia citato nel dogma. Del resto il dogma non parla neppure della visione del Mistero trinitario, ma esso fu motivato solo dalla preoccupazione di affermare la visione beatifica immediatamente dopo la morte e respingere la teoria di Gregorio Palamas[5] della visione non dell’essenza divina, ma della grazia divina.

Tuttavia le immagini sessuali nel dialogo con Dio e nella prospettiva dell’unione beatifica con Dio possono avere un ruolo positivo, considerando il fatto che, se è vero che siamo chiamati ad un amore spirituale soprattutto con Dio, Dio ci ha creati maschio e femmina ed è per il tramite del nostro sesso e nelle modalità del nostro sesso che noi esercitiamo le nostre funzioni spirituali dell’intelletto e della volontà e quindi possiamo colloquiare con Dio in vista dell’unione beatifica. Ecco allora l’importanza della devozione alla Beata Vergine Maria soprattutto per noi maschi.

Come alla donna corrisponde la mascolinità di Cristo, così a noi maschi corrisponde la femminilità di Maria[6]. Al riguardo è da notare che se esiste indubbiamente una tradizione di devozione femminile alla Madonna, essa è motivata comprensibilmente dal fatto che la donna trova in Maria il modello della sua femminilità, ma è altrettanto da notare – e ciò pure è del tutto comprensibile -  che l’interpretazione della figura della Madonna come via di salvezza e come Janua caeli è soprattutto caratteristica della pietà mariana maschile come per esempio in San Bernardo, San Domenico, il Beato Reginaldo d’Orléans, San Francesco, il Beato Giovanni Duns Scoto, il Beato Enrico Susone,  San Pio V, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, San Giovanni Bosco, il Beato John Henry Newman,  San Massimiliano Kolbe, San Giovanni Paolo II.

Se uno vuole imparare come avviene questo dialogo fra Dio e l’uomo non ha che da imparare leggendo la Scrittura. In tutta la letteratura religiosa dell’umanità non si riscontra una documentazione così ricca e di così alto valore sapienziale come quella che si raccoglie nella sacra Scrittura, nella quale troviamo molteplici forme di dialogo fra Dio e l’uomo, che culminano nel dialogo fra Cristo e il Padre nello Spirito Santo e una concezione dell’uomo e di Dio di una tale perfezione, che non si riscontra in nessun’altra letteratura religiosa dell’umanità.

La Sacra Scrittura è la documentazione di un dialogo fra Dio e l’uomo, fra Dio e Israele durato millenni.  Questo dialogo continua più che mai grazie al mistero dell’Incarnazione, per il quale in Cristo uomo-Dio il dialogo fra Dio e l’uomo assurge a una perfezione insuperabile, avvenendo all’interno della medesima Persona del Figlio. E il cristiano, figlio di Dio, partecipa dell’intimità dell’uomo Gesù col Padre celeste. Lo Spirito Santo, Spirito di comunione e di comunicazione, inabitante nel cristiano in grazia insieme col Padre e col Figlio, consente al cristiano un colloquio dolcissimo con la stessa Santissima Trinità.

Il dialogo fra Dio e l’uomo presenta una forma che lascia attonita la nostra ragione, la quale a tutta prima non riesce a capire come esso sia possibile, data l’immensa differenza fra l’essere umano e l’essere divino, fra il pensare umano e il pensare divino, fra il parlare umano e il parlare divino, l’agire umano e l’agire divino. 

In Dio infatti essere, pensare, parlare ed agire si identificano nell’ipsum Esse divino. Nell’uomo l’essere è realmente distinto dal pensare, dall’agire e dal parlare. L’uomo è un soggetto dotato della potenza di pensare, agire e parlare, potenza che ora si attua, ora non si attua. Queste potenze si attuano progressivamente nel tempo, soggette all’errore, all’imperfezione e al peccato. Invece, l’oggetto del pensare, agire e parlare divino è Dio stesso. L’oggetto del pensare, agire e parlare umano è una serie di obbiettivi limitati, seppure relazionabili a Dio.

Dio dall’eternità ha ideato, progettato e deciso la sorte di tutti gli uomini dall’inizio della storia dell’umanità fino alla fine, ossia la Parusia di Cristo. Da sempre Egli conosce e ha deciso il numero degli eletti ovvero dei predestinati e, cosa ancor più stupefacente, Egli in un unico atto eterno che è Egli stesso, dall’eternità ci pensa, esercita su di noi la sua volontà e pronuncia la sua parola, un unico atto d’essere coincidente col suo atto di pensare, di volere  e di parlare. Dio infatti proferisce un’unica Parola eterna dall’eternità e per l’eternità, che è il Logos, il Figlio incarnatosi nel tempo in Gesù Cristo, il quale nel tempo ci ha parlato nel nome del Padre e ci illumina col suo Spirito.

Questa Parola eterna, però, ci si è rivelata nel corso dei secoli per mezzo dei profeti e continuerà a rivelarsi fino alla fine della storia per mezzo della Chiesa. In tal modo l’eterno di Dio si incontra col tempo degli uomini e avviene un dialogo fra Dio e noi per mezzo dei suoi rappresentanti e l’umanità.

Senza il dialogo con Dio il dialogo col prossimo è falso

Il dialogo fra Dio e l’uomo deve costituire la trama di fondo, l’alimento e lo scopo del dialogo fra gli uomini. Un dialogo interumano non motivato dal dialogo con Dio e non fondato su di esso, senza riferimento al dialogo con Dio o addirittura in opposizione al dialogo con Dio, un dialogo con gli uomini che non sorga dal dialogo con Dio e che non abbia per sottofondo il dialogo con Dio, che non abbia  lo scopo di condurli a Dio e di trovare in esso un incentivo per dialogare con Dio, non è un vero dialogo, ma chiacchiera inutile, narcisismo, discorso vuoto, un menare il can per l’aia, vano cicaleccio, perdita di tempo, distrazione da Dio, sofisticheria, futilità. insulsaggine, blaterare noioso, sciocca spiritosaggine, maldicenza e occasione di peccato. Esiste oggi la mania della comunicazione per non comunicare niente. Si è perduta la percezione di come possiamo comunicare nel silenzio e nella solitudine. La comunione dei santi non richiede il telefonino o il computer o la televisione; eppure è molto più profonda di quella che realizziamo con questi mezzi.

Esiste un dialogo inconcludente che è come il girare a vuoto delle ruote di una auto senza catene sul ghiaccio. Esiste un dialogo fatto di salamelecchi, un dialogo per mostrare quante cose si sanno, un dialogo per imbrogliare gli altri, per lisciarli, per sedurli. Molti incontri ecumenici purtroppo hanno questi difetti. Si risolvono in cerimonie esteriori dove tutto resta come prima.

Quanto più numerosi sono i sorrisi e gli abbracci, tanto meno sono i segni di un vero progresso dottrinale e morale verso l’unità, come è evidente dai risultati, che non producono nessuna conversione, nessuna correzione degli errori, nessun avvicinamento alla Chiesa cattolica, ma semmai lo scandalo di cattolici che continuano a chiamarsi cattolici, ma sono diventati modernisti o luterani od ortodossi o calvinisti o valdesi o massoni o marxisti o panteisti o sincretisti. Sempre si fa questione di carità, di diversità o di pluralismo e mai di verità e di errore, di correzione o confutazione.

Il panteista e l’ateo dialogano solo con se stessi

Tanto il panteista che l’ateo divinizzano l’uomo: il panteista divinizza l’io considerandolo il principio della comunità delle persone («intersoggettività»): l’ateo divinizza l’io come membro dell’umanità («coscienza di classe»). Il panteista ha percezione del valore dello spirito e tuttavia lo immerge nella carne. Egli è quindi generalmente un idealista attirato dai peccati spirituali, senza però disdegnare quelli carnali. Viceversa l’ateo tiene in modo assoluto alla propria volontà, e nel voler godere dei piaceri carnali, e prova fastidio per le realtà spirituali.

Tanto il panteista che l’ateo rifiutano il dialogo con Dio: il panteista rifiuta un Dio trascendente creatore della realtà esterna e del proprio io, giacchè ritiene che sia l’io a porre se stesso e l’esistenza del mondo. L’idealista pone Dio stesso, un Dio-pensato-da-lui, nell’orizzonte di pensiero del suo io. Quindi non c’è bisogno di un Dio creatore del cielo e della terra. A ciò pensa già l’io del panteista. Quanto agli altri uomini, per l’idealista, chi sono? Proiezioni mentali del suo io. Deve dunque considerare gli altri come persone a lui esterne, esistenti indipendentemente da lui? Per nulla! Le altre persone sono sue idee poste da lui. Al massimo, quindi, il panteista dibatte con le sue idee. Dio è un Dio reale, trascendente il suo pensiero? Per nulla: Dio esiste in quanto pensato da lui.

Quanto all’ateo, è chiaro che per lui non ha senso dialogare con un ente che non esiste, un ente immaginario, il quale, come dice Feuerbach[7], non è altro che il trasferimento in un immaginario onnipotente soggetto celeste delle qualità e potenze dell’uomo, delle quali l’uomo infelice non osa far uso perché scoraggiato dalla constatazione delle sue miserie e dei suoi fallimenti e perché oppresso dalla malvagità degli altri, in vana attesa di una inesistente ed altrettanto immaginaria eterna consolazione celeste delle sofferenze della vita presente, consolazione inventata da chi l’opprime al fin di mantenere il suo potere su di lui.

Osserviamo adesso che la solidarietà umana è un grande valore, l’ingegno umano produce meraviglie, il pensiero umano concepisce l’eterno, l’infinito, l’assoluto, l’umanità progredisce nella scienza e nella tecnica, l’uomo sta diventando sempre più signore della natura, la medicina fa continui progressi, il mondo si sta organizzando in un’unica comunità internazionale.

Eppure con la guerra in Ucraina siamo sull’orlo della terza ed ultima guerra mondiale. La miseria, la sofferenza, l’ingiustizia, l’oppressione dell’uomo sull’uomo, il fondamentalismo, l’individualismo l’imperialismo, il razzismo, il nazionalismo, le epidemie, i terremoti, la malattia, la fame, la morte esistono ancora. Allora? Che cosa significa tutto ciò?

Da dove trarre le ragioni e le forze per la solidarietà, per lottare contro le ingiustizie? Per interessarmi dei poveri? Dalla coscienza? Ma la mia coscienza decide lei ciò che è bene e ciò che è male e quindi rende conto solo a se stessa. Ognuno decide per conto proprio. Essa stessa, come Io trascendentale, è l’assoluto. Nessun Dio c’è al di là di me. Non c’è un Dio che mi obblighi e al quale io debba render conto per non andare all’inferno.

La fratellanza? Ma non abbiamo un padre comune, perché il Dio trascendente della Bibbia non c’è più, è morto, come dice Nietzsche. Io, cioè il mio io trascendentale ha preso il suo posto. Pertanto mi domando: chi me lo fa fare?

P. Giovanni Cavalcoli 

Fontanellato, 7 febbraio 2023

 

Solo Dio può dire di Sé Io sono in un modo così assoluto, senza predicato nominale. Io posso dire di me stesso: io esisto, ma non io sono. Invece Dio è tutto, è tutte le perfezioni.

Nulla dell’essere è escluso dall’essere divino. 

Senza identificarsi con le cose, ciascuna delle quali Egli trascende infinitamente, e dalle quali è assolutamente distinto, altrimenti cadremmo nel panteismo, tutto l’essere che si trova in ogni cosa Egli lo contiene e precontiene idealmente e realmente, virtualmente ed eminentemente nella sua essenza divina per poterne essere causa.


Dio ha creato anche gli angeli e crea continuante sempre nuovi uomini e donne, che accrescono continuamente il numero degli individui umani

Il rapporto dell’uomo con Dio comincia con l’esercizio della ragione, la quale si interroga sulle cause delle cose e giunge alla conclusione che esiste una causa prima, che è Dio. La conclusione è che Dio è l’ipsum Esse per Se subsistens.

Ma a questo punto l’intelletto desidera vedere l’essenza della causa prima.

Nella Sacra Scrittura troviamo molteplici forme di dialogo fra Dio e l’uomo, che culminano nel dialogo fra Cristo e il Padre nello Spirito Santo e una concezione dell’uomo e di Dio di una tale perfezione, che non si riscontra in nessun’altra letteratura religiosa dell’umanità.

Il dialogo fra Dio e l’uomo presenta una forma che lascia attonita la nostra ragione, la quale a tutta prima non riesce a capire come esso sia possibile, data l’immensa differenza fra l’essere umano e l’essere divino, fra il pensare umano e il pensare divino, fra il parlare umano e il parlare divino, l’agire umano e l’agire divino. 

Il dialogo fra Dio e l’uomo deve costituire la trama di fondo, l’alimento e lo scopo del dialogo fra gli uomini.

Immahini da Internet:
- Fanciulla in preghiera, pittore del sec. XIX
- Ragazza in preghiera, Vincenzo Irolli
- L’Angelus, Jean-François Millet

[1] C. Fabro. Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, pp.103-133.

[2] Vedi per esempio la nozione di Dio come Atto puro di essere nelle XXIV tesi tomiste approvate dalla Chiesa, nel libro di Padre Guido Mattiussi,SJ dallo stesso titolo, a cura della Pontificia Università Gregoriana, roma 1947.

[3] Il Cantico dei Cantici.

[4] Denz.1000; cf Andrea Vaccari, Il dogma del paradiso, Pontificia Università Lateranense, Roma 2005.

[5] Vladimir Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, Edizioni EDB, Bologna 2013.

[6] Vedi per esempio il delizioso canto mariano: «Andrò a veder Maria in cielo patria mia, andrò a veder Maria, mia gioia e mio amor! Al ciel, al ciel, al ciel andrò a vederla un dì!».

[7] Feuerbach, Opere, Edizioni Laterza,Bari 1965.

6 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    è molto pregevole, direi illuminante la sua interpretazione della teofania del Sinai (Esodo 3,1-15) che mostra la stretta connessione tra il sacro testo veterotestamentario e la definizione cui approderà San Tommaso, per cui Dio, è per sé stesso l’ipsum esse subsistens.

    Al contrario mi risulta un po’ forzata, se non a tratti fantasiosa, l’interpretazione che il teologo Piero Coda fornisce sulla prima auto definizione che Dio dà in risposta alla richiesta di Mosé:

    «Nel testo si tenta poi una spiegazione etimologica del nome Jhwh, ricollegandolo alla radice del verbo hajah, che significa essere, vivere: per cui Jhwh viene interpretato attraverso l‘espressione “ ’ehjeh asher ‘ehjeh” = Io sono colui che sono e sarò con te (occorre aggiungere questo riferimento al futuro sia perché si tratta di una promessa, sia perché il verbo hajah ha una connotazione dinamica).
    Ma il significato pieno e autentico di questo nome […] lo si può desumere dall’intero contesto […] Jhwh è il Dio dell’esodo e dell’alleanza, che manifesta il suo essere proprio attraverso questo suo portentoso agire a favore di Israele […]
    La traduzione greca dei LXX, “egó eimín o ón”, in quanto presuppone il concetto greco di essere – un concetto più naturalistico e cosmologico che storico salvifico e personalistico – non riesce a esprimere il contenuto pieno del termine ebraico.
    Una traduzione più esatta potrebbe essere: “Io sono colui che è e sarà con te per liberarti, perché pienamente e stabilmente Io sono colui che é”. In altri termini, la stabilità e fedeltà di Dio nell’alleanza col suo popolo e la sua onnipotenza nella liberazione sono segno della sua stabilità sovrana e assoluta di vita e di essere, di cui Dio gode appunto perché è Dio. Inoltre […] vengono anche rivelate a Mosè e a Israele l’unicità di Dio, la sua efficacia e potenza unica (superiore agli dèi dell’Egitto), e la sua trascendenza […]
    Un altro elemento fondamentale, che è contenuto nella rivelazione del nome di Dio come Jhwh, è che Israele riconosce che il Dio dei padri non è un Dio del passato, ma del presente e del futuro […]
    L’espressione “Io sono colui che sono” indica anche un certo sottrarsi di Jhwh alla “presa” della comprensione umana. Dio si rivela, dice il suo nome (che, come ricordiamo, non aveva voluto dire a Giacobbe), ma, allo stesso tempo, si sottrae, resta sovranamente libero e trascendente»
    (P.Coda, Dio Uno e Trino, San Paolo, 1993, pag. 35-37).

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    1. Caro Bruno,
      in Es 3,14 Dio risponde alla domanda di Mosè che chiede a Dio qual è il suo nome, ossia desidera conoscere la sua identità. Desidera sapere da Dio come Egli definisce se stesso. Desidera quindi sapere chi è Dio e qual è la sua natura. Come vedremo, Coda, nella sua interpretazione, aggiunge arbitrariamente cose che non ci sono nel senso vero della risposta che Dio dà a Mosè.
      C’è da dire anzitutto che la risposta «Io sono colui che sono» è grammaticalmente scorretta, perché al pronome colui che deve seguire la terza persona e non la prima. Infatti io non dico, per esempio, io sono colui che ti ho telefonato, ma colui che ti ha telefonato.
      La traduzione esatta qui è: Io sono colui che è. Questa risposta è chiarita dall’espressione immediatamente seguente: Io Sono.
      Nella sua risposta quindi Dio risponde esattamente a quanto Mosè chiede: gli dice semplicemente chi è. Quindi la traduzione di Coda è una pura invenzione sua. Che Dio sia con noi e che ci promette di essere con noi sono cose che Dio ci dice in altre occasioni e le condiziona peraltro al fatto che noi osserviamo i suoi comandamenti. Ma non le dice qui.
      Coda sbaglia nel tradurre anche per un altro motivo: Dio non è per sua essenza un Dio con noi, ma un Dio che esiste dall’eternità prima di noi, indipendentemente da noi, senza che nella sua infinita perfezione abbia bisogno di noi, non finalizzato a noi ma solo a se stesso, essendo Egli stesso il fine di ogni cosa. Pertanto Dio non è relativo a noi, ma noi siamo relativi a Lui, perché l’Assoluto è lui e non siamo noi l’essere assoluto.
      Per questo, Dio potrebbe esistere benissimo anche senza di noi, mentre noi non possiamo esistere senza di Lui. Noi esistiamo da un tempo finito; Egli esiste dall’eternità. Egli ci ha creati non per una necessità della sua essenza, perché altrimenti non sarebbe stato abbastanza Dio, o sarebbe mancato qualcosa alla sua essenza. Dio è autosufficientissimo da sé, basta a se stesso, senza aver bisogno di essere completato o perfezionato da alcuna creatura. Egli ci ha creati solo per puro amore con un liberissimo atto della sua volontà infinitamente buona.
      Che quindi Dio si prenda cura di noi, che provveda sapientissimamente e amorevolmente alla nostra salvezza, ciò è verissimo e ce lo ha dimostrato dandoci suo Figlio, il quale, pur essendo nostro Signore, è stato fra noi a nostro servizio, fino a dare il suo sangue in sacrificio per la remissione dei nostri peccati. Ma se Dio in Cristo ha voluto abbassarsi in questo modo, è solo allo scopo che noi, rispondendo all’amore con l’amore, serviamo Lui e ci ordiniamo a Lui come a nostro Dio, giacchè non è Lui ad esistere per noi, ma siamo noi che dobbiamo esistere per Lui. L’Assoluto è Lui, non siamo noi.

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    2. Che Dio manifesti il suo essere attraverso i prodigi che compie per noi, è vero, ma è falso asserire che la traduzione dei LXX supponga un concetto naturalistico, cosmologico e non personalistico dell’essere. O on significa esattamente: colui che è l’ente. Questa traduzione non ha la perfezione, che viene dal tradurre con colui che è, perché l’ente, propriamente è qualunque cosa; ogni cosa è un ente, per cui dire che Dio è l’ente non caratterizza sufficientemente la sua peculiare essenza. Invece il puro e semplice predicato è esprime propriamente l’essenza divina, che consiste nello stesso puro ed infinito atto d’essere, mentre l’atto d’essere della creatura è atto d’essere di un’essenza finita, distinta dal suo essere. Viceversa, l’essenza divina è il suo stesso essere, Dio è essere per essenza. Questo ha voluto dire Dio a Mosè.
      Nella traduzione dei LXX si può tuttavia sottintendere: colui che è l’ente per eccellenza e allora saremmo a posto. Dio infatti è il primo e sommo ente, l’Altissimo, come dice la Scrittura.
      I LXX nel tradurre non hanno affatto pensato al concetto greco di essere, ma a quello biblico, che certamente non è di orientamento cosmologico, ma personalistico. Tuttavia non dimentichiamo che per Aristotele Dio, che è l’ente primo e supremo, è persona, perchè lo concepisce come autocoscienza assoluta («Pensiero del Pensiero»).

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    3. (Una traduzione più esatta potrebbe essere: “Io sono colui che è e sarà con te per liberarti, perché pienamente e stabilmente Io sono colui che é”.)

      Qui Coda fa marcia indietro, smentisce quello che ha detto prima e si mette sul solco della verità. Infatti è vero che se Dio è immutabile, stabile, onnipotente, fedele e provvidente, ciò dipende dal fatto che Egli è colui che è, lo stesso essere per sé sussistente, essere infinito, eterno, perfettissimo ed assoluto, essere senza predicati perché il suo predicato è semplicemente quello di essere.

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    4. (Un altro elemento fondamentale, che è contenuto nella rivelazione del nome di Dio come Jhwh, è che Israele riconosce…).

      Questo è giusto, perché è chiaro che l’essere eterno non diviene, non evolve, non muta, non è condizionato o limitato dal tempo.

      (L’espressione “Io sono colui che sono” indica anche un certo sottrarsi di Jhwh alla “presa” della comprensione umana.)

      È chiaro che dicendo «Io Sono», Dio si offre sì alla nostra intelligenza fatta per conoscere gli enti e l’ente come oggetto della nostra intelligenza, ma un Oggetto dal contenuto infinito, che oltrepassa infinitamente la nostra finita capacità di comprendere, per cui, se è vero che lo potremo vedere in cielo faccia a faccia, sì da restarne beati in eterno, tuttavia resterà per noi in Lui un margine di infinito mistero, che testimonia della sua trascendenza, ma che nel contempo sarà oggetto della nostra adorazione in una beata ignoranza.

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  2. La ringrazio Padre Giovanni, gli aspetti non condivisibili delle affermazioni di Coda, da lei sapientemente evidenziati, corrispondono proprio a quelle affermazioni del teologo piemontese che avevo trovato poco fondate.

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