La concezione idealistica del soggetto umano - Prima Parte (1/4)

 La concezione idealistica del soggetto umano

Prima Parte (1/4)

                                                                    Dovrà avvenire l’apostasia

e dovrà essere rivelato l’uomo iniquo,

                                                                                  il figlio della perdizione,

colui che si contrappone e s’innalza

                                                                                               fino a sedere nel tempio di Dio,

  additando se stesso come Dio.

II Ts 2, 3-4

 

L’impresa dell’idealismo 

Dai tempi del peccato originale l’uomo ha sempre aspirato ad autodivinizzarsi facendo a meno di Dio, attribuendo a sé ciò che appartiene a Dio o abbassando Dio al livello di un uomo o di un idolo fatto dall’uomo. Chiara testimonianza di ciò l’antichissima sapienza indiana per la quale l’uomo è un Dio che non sa di esserlo: lezione del sapiente, il guru, è quella di rendere il discepolo cosciente di ciò.

Un barlume di questa concezione del pensare e del vivere la si trova già in quelle che si possono considerare le antiche origini dell’idealismo, ossia nell’identificazione parmenidea del pensare con l’essere[1]. Che cosa è del resto l’idolatria tanto detestata dai profeti biblici se non la pretesa umana di costruire Dio con le proprie mani, così da vantarci di essere noi stessi a produrre il nostro dio?

Che cosa è il Dio degli gnostici del sec. III e idealisti dell’800 se non un’immaginazione spropositata della grandezza umana, parto della propria mente megalomane ed egocentrica? Chi è lo gnostico se non un idealista in nuce voglioso di dominare sui meschini ed ingenui realisti, che non vedono al di là del proprio naso e prendono per cose esterne quelle idee che sono il prodotto dell’Io trascendentale?

È vero che l’idealismo può essere messo in qualche modo in rapporto con la dottrina platonica dell’Idea; ma questa non è, come pensano gli idealisti, un prodotto della mente umana fine a se stesso, quasi primo oggetto del sapere. Al contrario, l’Idea platonica preesiste ab aeterno alla mente umana finita e fallibile, è da essa indipendente e niente affatto oggetto primo ed ultimo del sapere, ma è realtà divina e trascendente, vero e pieno essere (to pantelòs on), modello e criterio di perfezione e guida dell’azione.

Già per Platone la mente umana produce bensì immagini, imitazioni, simboli, partecipazioni e rappresentazioni (eidos, eikòn, mèthexis, mimesis) dell’Idea (Idea), ma puramente funzionali all’Idea e mezzi fallibili od opinabili per conoscerla. Noi parleremmo dei concetti. Invece l’idealista, a cominciare da Cartesio, prende l’idea nel senso di un ente mentale o intramentale originariamente (a priori) compresente all’intelletto, non ottenuto dall’intelletto col passare dalla potenza all’atto, non vera rappresentazione di una cosa esterna, ma come sedicente rappresentazione, della quale però non ci si deve fidare a priori e la cui veridicità dev’essere verificata e dimostrata dall’esame dei contenuti del cogito cartesiano.

Ma la sottile astuzia del diavolo è stata quella di volgere in senso idealistico la stessa dottrina cristiana dell’Incarnazione prospettando l’uomo che diviene Dio e Dio che diviene uomo. Si è giunti a confondere il Logos divino con la ragione umana. Le prime avvisaglie di questa empia operazione le abbiamo già nel Medioevo, benché per adesso espresse da uomini di fede e di virtù, come Giovanni Scoto Eriugena nel sec. IX e Meister Eckhart nel sec. XIII-XIV.

Le basi ideologiche di questa aberrante e fascinosa adulterazione del mistero di Cristo e della concezione cristiana dell’uomo furono poste in Europa occidentale nei secc. XVI-XVII da due cristiani di eccezionale ingegno e straordinario potere fascinatore, l’uno nel porre la base razionale, l’altro quella di fede, rispettivamente Cartesio e Lutero.

È interessante la comune ostilità di Lutero e di Cartesio nei confronti di Aristotele, il primo in nome della fede, il secondo in nome della ragione, ponendosi così in contrasto col Magistero della Chiesa, il quale, già dai tempi del Concilio di Calcedonia aveva assunto nel dogma concetti aristotelici, e questo atteggiamento si era rafforzato a seguito del suggerimento fatto dai Domenicani alla Chiesa nel sec. XIII di utilizzare Aristotele nell’interpretazione delle verità di fede. La Chiesa aveva accettato e nei Concili da quello di Viennes del 1312 al Vaticano II ritroviamo nella dogmatica la presenza di concetti aristotelici adattati alle esigenze della fede. Viceversa, il Magistero della Chiesa si guarda bene dall’utilizzo dei concetti dell’idealismo ed anzi li condanna[2]

Lutero e Cartesio propongono invece un ritorno al coscienzialismo agostiniano, ma con un accento fortemente soggettivista: Lutero in opposizione alla Chiesa visibile, Cartesio in opposizione all’esperienza sensibile, per un’interiorità intimistica che sin dall’inizio ha tutto il sapore di un esasperato egocentrismo.

Convinzione comune agli idealisti già presente virtualmente in questi due grandi personaggi della storia dell’Europa occidentale, è che il realista, attaccato ai sensi e incapace di elevarsi all’autocoscienza cartesiana o di scendere negli abissi preconcettuali ed esperienziali della fede, abbia l’ingenuità o la presunzione di credere che le cose e il suo stesso io esistano per conto loro, al di fuori del suo pensare, in se stessi, indipendentemente e prima di lui, per cui la loro esistenza dev’essere spiegata da un Dio extramentale, trascendente e creatore, mentre in realtà, secondo loro,  il mondo esterno e Dio stesso esistono in noi originariamente (immanentismo) o non sono che l’effetto del pensiero come atto del nostro Io originario, abissale, preconcettuale e profondo, res cogitans, Io del quale, nel pensare comune e volgare, che sarebbe quello del realista, nella superficialità cangiante ed effimera del quotidiano, non abbiamo consapevolezza, ma che il filosofo, che per l’idealista  è egli stesso, possessore della scienza assoluta (gnosi), s’incarica di svelargli per mezzo dell’introspezione, per mostrargli la sua infinita dignità di Io o Soggetto assoluto ed eterno, ben oltre le vane apparenze dell’io o soggetto empirico e mortale.

Per gli idealisti il realismo, che vuol ricavare il sapere dal contatto con una realtà esterna, è vana illusione, è un sapere soggettivo nel senso deteriore della parola. L’oggettività nel senso realista è per loro impossibile, oltre che deprecabile, perché secondo loro non si dà un oggetto esistente prima e indipendentemente dal soggetto e presupposto al soggetto come esistente in sé, ma l’oggetto è il prodotto del soggetto.

Per l’idealista ciò che al realista sembra esistente fuori del suo io è in realtà prodotto dal suo stesso io nella dimensione originaria dell’Io assoluto o, come egli dice, del «puro pensiero». Il soggetto concorre (Kant) alla formazione dell’oggetto o lo produce nella sua totalità (Fichte)  o s’identifica con l’oggetto (Schelling) o è il concetto dell’oggetto (Hegel). Non l’idea deve adeguarsi al reale, ma è il reale ad essere l’effetto dell’idea.

È bene ricordare che l’idealismo cartesiano sin dal suo sorgere fu confutato dai realisti, soprattutto i teologi domenicani tomisti, come per esempio Giovanni di San Tommaso, e lungo il corso dei secoli seguenti i realisti fino ad oggi hanno seguìto passo passo l’evoluzione del cartesianismo vieppiù manifestante la sua anima panteista ed atea.

Troppo lungo sarebbe qui fare l’elenco degli autori. Essi soprattutto a partire dalla fine dell’800, hanno altresì iniziato ad opporre alla falsa critica della conoscenza di matrice cartesiano-kantiana, una critica autenticamente fondata e rigorosamente dimostrata.

Il punto sul quale i realisti insistono è che l’oggetto immediato del sapere non è, come crede Cartesio, l’idea o l’io o il proprio esistere, ma è la quidditas rei materialis, dalla quale l’intelletto, inizialmente vuoto di conoscenze (tabula rasa) parte per elevarsi per astrazione e per partecipazione alla conoscenza analogica della res spiritualis creata e divina, percepita nell’orizzonte della nozione analogica trascendentale dell’essere. Probabilmente Hegel, quando poneva l’inizio del sapere nel nulla, pensa alla tabula rasa di Aristotele, solo che questi non si sognava neppure di far partire dal nulla anche l’essere, come invece ha voluto fare Hegel confondendo il sapere con l’essere.

Inoltre, per il realista il trascendentale non è l’io, ma la proprietà dell’ente, di ogni ente, finito o infinito che sia: l’essere uno, qualcosa, vero, buono e bello. Per l’idealista invece il primo oggetto non è il reale sensibile esterno all’atto del sapere; esso non trascende il sapere, ma è l’ideato, il saputo, il pensato. il consaputo; è l’idea della cosa (Cartesio), è il medesimo oggetto: il fenomeno della cosa in sé (Kant); è l’Io (Fichte), è il Soggetto (Schelling), è il concetto (Hegel).

L’idealismo nel suo sviluppo storico

si è impigliato in errori sempre più gravi

e in difficoltà inestricabili 

Occorre però osservare che il metodo cartesiano, proprio degli idealisti, cade in contraddizione con se stesso nel voler confutare il realismo, quando invece il realismo, essendo l’esercizio normale del pensiero e il criterio della verità, non può non essere usato dallo stesso idealista nel momento in cui vorrebbe confutarlo per sostenere la supposta verità dell’idealismo.

Per questo non occorre confutare l’idealista, perché egli si confuta da solo. Infatti per poter sostenere come vera la sua tesi, l’idealista nel momento in cui esprime il suo pensiero, non può non ritenerlo vero e quindi non applicare il principio dell’adaequatio intellectus et rei, che è precisamente il principio di quel realismo che vorrebbe confutare.

La tesi quindi di Bontadini che l’idealismo è inconfutabile, è del tutto inconsistente. Ma la cosa triste è che gli idealisti sono così sicuri di se stessi, che anche il metterli davanti alle loro responsabilità mostrando loro che cadono in contraddizione con se stessi purtroppo non serve a nulla. Il loro errore di fondo è la confusione dell’essere col pensiero. Per loro l’oggetto del pensiero non è l’essere distinto dal pensiero, come l’intenzionale è distinto dal reale o l’idea dalla realtà, ma è lo stesso pensiero sussistente, res cogitans, inteso come essere o essere pensato, pensiero che non può essere trasceso dall’essere, ma che ingloba tutto l’essere. In altre parole: oggetto del mio pensare non sono le cose, ma sono le idee. Nelle idee si risolve tutta la realtà. E se le cose reclamano o non quadrano con le idee, peggio per le cose, perché la verità non la decidono le cose, ma la decide il pensante con le sue idee.

Bontadini ha ragione nell’accusare Cartesio di dualismo gnoseologico. Senonchè però il vero dualismo erroneo non è l’ammissione di un essere esterno al pensiero; questo non è dualismo, ma la sana dualità del realismo, la quale in Cartesio nonostante tutto resta. Il dualismo scettico e biasimevole, pur presente in Cartesio, è l’abisso che egli irragionevolmente e pregiudizialmente scava fra il senso e il sensibile, cosicchè il primo raggiunge il secondo non grazie alla sua natura, ma in forza di una rivelazione divina presente nel cogito.

Secondo gli idealisti Cartesio avrebbe fatto fare alla filosofia un poderoso balzo in avanti, consentendole di raggiungere la certezza critica e il vero fondamento ed inizio del sapere, avrebbe fatto raggiungere all’umanità l’età adulta al di là delle ingenue e puerili convinzioni del medioevo schiavo dei pregiudizi e delle fantasticherie.

I luterani, dal canto loro, trovarono in Cartesio un alleato, nonostante lo smaccato razionalismo di quest’ultimo. Ma quello che piaceva di Cartesio ai luterani fu il concetto cartesiano dell’io e dell’autocoscienza direttamente e insindacabilmente illuminata da Dio. Questo stesso tema si trovava già in Lutero e per questo l’idealismo tedesco è nato dalla congiunzione del soggettivismo di Lutero col cogito Cartesio.

 Fu una convivenza non facile, ma gli idealisti trovarono un compromesso adattando il concetto di ragione al fideismo luterano con riferimento ad un’unica categoria: quella dell’intuizione o dell’esperienza o della visione interiore. Così quella ragione che in Kant è ancora la ragione umana raziocinante, in Hegel diventa la Ragione, divina per essenza, rivelazione dell’Assoluto, mentre alla stessa categoria dell’intuire o del sentire Lutero aveva ridotto il concetto di fede, non più sapere mediato come è la fede nella concezione cattolica, ma sapere immediato della Parola di Dio.

Lutero è indubbiamente un realista, fortemente attaccato al realismo biblico. Ma l’attaccamento al suo io, che lo portò a rompere i ponti con la Chiesa visibile romana, lo avvicina all’egocentrismo cartesiano, scettico davanti alla realtà esterna, e certo soltanto del suo io.

Da cinque secoli ormai è operante questa rifondazione del sapere filosofico, che fu avviata da Cartesio, che va sotto il nome di idealismo, il quale, col famoso Discorso sul Metodo di Cartesio propone a suo dire contro il realismo il metodo sicuro per la conquista della verità in tutte le scienze autoproclamandosi da secoli la «filosofia moderna», mentre il realismo sarebbe vecchio e superato, per cui chi si attarda nel realismo sarebbe rimasto indietro nel progresso del sapere.

Alcuni grandi pensatori, soprattutto filosofi tedeschi, come sappiamo, si sono succeduti in questi cinque secoli, quasi passandosi la staffetta l’un l’altro, da Lutero a Cartesio a Kant a Fichte a Schelling ad Hegel fino ad Heidegger. In questa impresa di elevare il soggetto umano a soggetto divino, la parte eseguita dall’idealismo si è chiusa con Hegel, il quale ha chiuso l’essere nell’idea. Ma dopo Hegel, nel secolo scorso, un altro grande filosofo tedesco ha compreso che in questa opera di edificazione dell’umanesimo esistenziale, nelle possibili conseguenze che si possono trarre dal cogito cartesiano, c’era ancora un passo da compiere, quello veramente conclusivo: la scelta della morte come momento decisivo della libertà e dell’esistenza autentica, in base al principio della finitezza e della temporalità dell’essere, per cui l’essere, che è l’essere umano,  non è per la vita, ma per la morte (sein zum Tode)[3]; e siccome l’uomo è l’essere-lì (Da-sein) dell’essere, il progetto (Entwurf) o la trascendenza (Transzendenz), nei quali consiste l’essenza del’uomo come essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein), cura (Sorge), angoscia (Angst) e gettatezza (Geworfenheit), l’autocoscienza (Selbstbewusstsein) è preesistenza intesa come precomprensione (Vorvertändnis)[4], precedente quindi il concetto e intesa come evento (Ereignis) o vissuto (Erlebnis) o esperienza (Erfahrung) o rivelazione (Offenbarung) dell’essere (seyn) identico al nulla (Nicht), oltre l’ente (seiende).

In tal modo, come in Nietzsche, l’essere viene ad identificarsi col volere[5], per cui si esplicita il significato volontaristico del cogito cartesiano. Ma, posto che l’essere è nulla, ecco che l’uomo assolutizza se stesso come affermazione del nulla. Da notare che questo nulla, per Heidegger è il sacro[6] e il divino o, come egli dice, il «Dio divino»[7].

In tal modo l’umanità, divisa oggi in due blocchi contrapposti escludentisi a vicenda, come la res cogitans e la res extensa di Cartesio, è giunta nelle condizioni di sopprimere se stessa mediante l’uso delle armi atomiche. Vanamente i due blocchi, schiavi della medesima supponenza idealista-heideggeriana, tentano trattative diplomatiche ed ecumeniche inconcludenti alla Kasper come la ghiandola pineale di cartesiana memoria. Ci vuole ben altro per trovare la pace e l’armonia. Occorre abbandonare la boria e la ybris idealista e tornare all’umiltà e allo spirito di fratellanza propria del realismo.

Dobbiamo una buona volta renderci conto dei disastri che sono conseguiti per avere imboccato una via sbagliata e attingere a «cisterne screpolate» (Ger 2,13), come il Magistero della Chiesa[8] e i buoni teologi ci stanno avvertendo da secoli e bisogna quindi che torniamo sui nostri passi per vedere da dove e quando abbiamo cominciato a uscire dal retto sentiero, illusi di costruire la nostra grandezza. Evidentemente gli uomini non sanno imparare le lezioni della storia, riconoscere l’implicito nell’esplicito e dagli effetti risalire alle cause.

Abbiamo cominciato con Cartesio. Siamo stati stregati da Cartesio. Cartesio ha approfittato della nostra dabbenaggine e pigrizia mentale non per illuminare il cammino ma per illuderci di essere superintelligenti e per farsi della pubblicità.  È stato un maestro di gnosticismo scettico.

Occorre quindi urgentemente ritornare al punto da dove è iniziata la deviazione. È stato il punto di partenza cartesiano, per cui occorre sostituirlo con quello giusto, che avevamo stoltamente abbandonato. Occorre cioè riprendere la strada giusta e avanzare su quella.

Bisogna che ci convinciamo, una buona volta, dopo le terribili esperienze delle due guerre mondiali del secolo corso, che Cartesio non ha fatto progredire la filosofia, non ha fondato nessuna «filosofia moderna», ma l’ha fatta regredire – a parte il bagliore delle intuizioni di Parmenide - ai primi rozzi tentativi scettici e materialisti dei presocratici e dell’uomo preistorico. La strada giusta è quella del realismo. Non l’idea ma la realtà è l’oggetto del sapere.

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 15 giugno 2022


È vero che l’idealismo può essere messo in qualche modo in rapporto con la dottrina platonica dell’Idea; ma questa non è, come pensano gli idealisti, un prodotto della mente umana fine a se stesso, quasi primo oggetto del sapere. Al contrario, l’Idea platonica preesiste ab aeterno alla mente umana finita e fallibile, è da essa indipendente e niente affatto oggetto primo ed ultimo del sapere, ma è realtà divina e trascendente, vero e pieno essere (to pantelòs on), modello e criterio di perfezione e guida dell’azione.

Per Platone la mente umana produce bensì immagini, imitazioni, simboli, partecipazioni e rappresentazioni (eidos, eikòn, mèthexis, mimesis) dell’Idea (Idea), ma puramente funzionali all’Idea e mezzi fallibili od opinabili per conoscerla. Noi parleremmo dei concetti. 

Invece l’idealista, a cominciare da Cartesio, prende l’idea nel senso di un ente mentale o intramentale originariamente (a priori) compresente all’intelletto, non ottenuto dall’intelletto col passare dalla potenza all’atto, non vera rappresentazione di una cosa esterna, ma come sedicente rappresentazione, della quale però non ci si deve fidare a priori e la cui veridicità dev’essere verificata e dimostrata dall’esame dei contenuti del cogito cartesiano.

Immagini da Internet


[1] To autò to noein kai to einai. È possibile tuttavia che Parmenide abbia voluto semplicemente affermare ciò che avviene nel nostro intelletto quando conosciamo la verità e cioè che ciò che noi pensiamo è ciò stesso che è fuori di noi. Altrimenti, se fosse altra cosa, saremmo nell’errore.

[2] È interessante come Papa Francesco in un recente incontro con un gruppo di Gesuiti, abbia ribadito il sostegno al realismo contro l’idealismo. Cf https://www.laciviltacattolica.it/articolo/papa-francesco-in-conversazione-con-i-direttori-delle-riviste-culturali-europee-dei-gesuiti/

[3] Cf Essere e tempo, Longanesi&C., Milano 1976, pp.317,319-321, 323.

[4] Cf Kant et le problème de la métaphysique, Editions Gallimard, Paris 1953, pp.73, 76, 98, 129, 282, 283.

[5] Cf Nietzsche, Adelphi Edizioni 2013.

[6] Cf di Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi Edizioni, Milano 1988.

[7] Cf la Lettera sull’umanesimo.

[8] Già nel 1663 il Sant’Offizio mise all’Indice le opere di Cartesio, ma non è servito a nulla.

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