Gott mit uns - Le origini della dottrina del nazionalsocialismo - Quarta Parte (4/5)

 Gott mit uns

Le origini della dottrina del nazionalsocialismo

Quarta Parte (4/5)

Il nazionalsocialismo ha voluto fondare

una umanità superiore 

Il nazionalsocialismo comunque non è stata una semplice dottrina dello Stato, non è stata una semplice dottrina della Deutschland über alles del pangermanesimo ottocentesco, non è stata solo la visione della terra tedesca come la terra del Sacro, secondo la visione di Hölderlin, non è stata soltanto il risveglio dell’ancestrale crudeltà e anarchia degli antichi Germani e della loro bellicosa mitologia religiosa, che tanto preoccupò Tacito e per la quale Roma non riuscì mai a sottomettere i Germani,  ma è stata anche il progetto di una nuova e superiore umanità divina secondo il modello superomistico di Nietzsche.

Ha voluto essere una nuova umanità nei termini fissati da Nietzsche, che Hitler dichiarò suo maestro. Come infatti osserva Heidegger,

 

«Nietzsche assegna alla forma più alta di uomo il nome di “animale da preda” e vede l’uomo supremo come “magnifica bestia bionda che vaga bramosa di preda e di vittoria”»[1].

Questa superumanità, fondata dal nazionalsocialismo, fruisce, secondo Nietzsche, della «gaia scienza»,  che «danza nell’inferno»,  scienza della verità – secondo la visione di Schelling – non della verità che porta alla libertà, ma della verità fondata sulla libertà, autrice della «morte di Dio», «trasvalutatrice di tutti i valori», plasmatrice di se stessa alla maniera di Fichte, operatrice «al di là del bene e del male», e addirittura, come illustrò Heidegger, è stata la vera metafisica, la quale, basandosi sul cogito di Cartesio, attraverso l’idealismo tedesco, in Nietzsche ha finalmente capito che l’essere è l’eterno ritorno dell’uguale, l’«anello del ritorno», come dice Severino, simboleggiato dalla svastica, simbolo dell’eterno ciclo morte-vita; essere, che è volontà di potenza come affermazione della propria potenza, che fa filosofia «a colpi di martello»  e schiaccia senza pietà l’umanità inferiore.

Il nazismo non riconosce l’unità del genere umano, l’uguaglianza o la fratellanza umane, e quindi non riconosce una natura umana universale, oggettiva, fissa  e determinata, e quindi non riconosce una legge naturale e un diritto naturale vincolante per la legge positiva dello Stato, ma siccome lo Stato è divino ed esso stesso fonte della morale («Stato etico»), è lo stesso Führer, determinazione singola ed empirica della volontà dello Stato, come Volontà sussistente, Volontà di potenza, che decide del legittimo e dell’illegittimo nella condotta del cittadino.

Il nazismo pone l’umanità a due livelli o su due piani o strati, in modo simile agli gnostici, che distinguevano gli «spirituali» dagli «psichici» e dagli «ilici». Ora non è che ogni graduatoria od opposizione sia proibita. San Paolo distingue un «uomo carnale» da un «uomo spirituale»; distinguiamo i dotti dagli indotti, i sani dai malati, i giusti dagli empi, i giovani dagli anziani, senza che ciò possa impedire il passaggio dall’uno all’altro stato e la comune appartenenza di tutti alla medesima specie umana. Il difetto della accezione nazista sta nel porre fra le razze umane delle barriere invalicabili, ontologiche, come fra l’animale e l’uomo, per le quali il tedesco è per natura destinato a dominare il debole o l’inferiore o ad eliminarlo.

Come nella mentalità di Carl Schmitt, organizzatore del diritto statuale nazista, l’altro uomo è rigidamente diviso agli occhi dello Stato in amico e nemico[2]. Il principio evangelico dell’amore del nemico, già detestato da Nietzsche, è escluso. Nel nemico non c’è nulla di buono che possa essere recuperato, come fosse stato una malvagità sussistente. L’immagine di Dio anche nel nemico era totalmente ignorata. La misericordia è esclusa a favore di una libera manifestazione della propria potenza ed anzi è auspicata l’eliminazione dei più deboli sulla base della legge della selezione naturale di Darwin.

Manca d’altra nel nazista il senso del peccato e della colpa. Non dovendo render conto a Dio, e considerando la sua volontà come fonte della legge e del diritto, ritiene che tutto ciò che vuole è sempre giusto. Se cambia condotta non è per rimediare a un peccato commesso contro Dio e contro il prossimo, ma perchè così gli conviene per restare a galla o per aver successo.

Lo stesso Hitler così presenta il nuovo concetto di umanità in un discorso davanti al Reichstag il 30 gennaio 1937[3]:

 

«Dal punto di vista dei princìpi, al posto del concetto di individuo o del concetto di umanità, noi collochiamo l’idea del popolo, del popolo nato dal sangue che scorre nelle nostre vene e del suolo che ci ha visti nascere. Per la prima volta, forse, nella storia dell’umanità, si è proclamato in questo paese che di tutti i doveri che competono all’uomo, il più nobile e il più elevato consiste nel mantenere la razza che viene da Dio, … Dal punto di vista giuridico ne deriva la conclusione che è falsa la concezione secondo cui il diritto ha per scopo di assicurare e mantenere la protezione dell’individuo nella sua persona e nei suoi beni.

 

La rivoluzione nazionalsocialista ha dato al diritto e alla scienza giuridica un punto di partenza chiaro e senza equivoci: il vero compito della giustizia consiste nel conservare e nel difendere il popolo contro ogni elemento che si sottrae a questi obblighi nei riguardi della comunità o che porta pregiudizio agli interessi di quest’ultima». Per «popolo» naturalmente s’intende il popolo tedesco, il cui interesse quindi prevale su quello dell’«individuo», ossia della persona e della stessa umanità.

Si noti come combaciano con quanto dice qui Hitler le seguenti parole di Hegel sul popolo dominante, che naturalmente è il tedesco:

«Al popolo al quale compete il momento della  sua esistenza geografica ed antropologica come principio naturale, è demandata l’effettuazione del medesimo nel processo della sviluppantesi autocoscienza dello Spirito del mondo. Questo popolo è nella storia del mondo il popolo dominante, per questa epoca il popolo dominante»[4] .

Ed ugualmente bene si adattano a quanto dice Hitler sul diritto queste parole di Hegel:

«Il terreno del diritto è in genere l’elemento spirituale e suo prossimo luogo e punto di partenza la volontà, la quale è libera, così che la libertà costituisce la sua sostanza e la sua determinazione e il sistema del diritto è il regno della libertà realizzata, il mondo dello spirito prodotto movendo dallo spirito stesso, come una seconda natura. …

La volontà contiene l’elemento della pura indeterminatezza o della pura riflessione dell’io dentro di sé, nella quale è dissolta ogni limitazione, ogni contenuto immediatamente sussistente ad opera della natura, dei bisogni, desideri e impulsi o dato e determinato ad opera di chicchessia; l’infinità, priva di termini, dell’assoluta astrazione o universalità, il puro pensare se stesso»[5].

«La volontà essente in sé e per sé è veracemente infinita, poiché il suo oggetto è essa stessa, quindi il medesimo per essa non è un che di altro né termine, bensì essa in ciò è soltanto ritornata entro di sé. Essa è inoltre non mera possibilità, disposizione, facoltà (potentia), bensì il realmente-infinito (infinitum actu), poiché l’esserci del concetto, ovvero la sua esteriorità oggettiva, è l’interiorità stessa. … La volontà è vera o piuttosto è la verità stessa, poiché il suo determinare consiste nell’essere nel suo esserci (ossia nell’essere come cosa stante di fronte a sé) ciò che è il suo concetto, ovvero il puro concetto ha l’intuizione di se stesso per suo fine e realtà»[6].

Vediamo come in questo discorso sia assente qualunque riferimento al diritto naturale, sempre doveroso ogni volta che si dà una definizione del diritto e vediamo come anche queste parole di Hegel combaciano con quelle succitate di Hitler, che appunto esclude la legge morale naturale propria della natura umana.

 Occorre invece ricordare come afferma Pio XI nell’enciclica Mit brennender Sorge del 1937 contro il nazismo[7], che il diritto positivo, per essere giusto, dev’essere una determinazione del diritto naturale. La legge dello Stato dev’essere conforme alla legge naturale. Il governante ha diritto di comandare ciò che rientra nella legge naturale. La libera volontà non è fonte del diritto, ma va usata per determinare e comandare ciò che è giusto e per obbedire alla legge.

Il Führer appare come l’Io profondo, la Sostanza assoluta di ciascuno, sicchè ognuno si sente libero proprio nel suo assoggettarsi totale al Führer, giacchè la sua volontà è vista come la sostanza profonda della propria volontà. L’io, secondo il modulo idealista, si sdoppia nell’io empirico e nell’io trascendentale o assoluto. L’io come io empirico è totalmente ordinato allo Stato; lo Stato concretizzato nel Führer, corrisponde all’io trascendentale di ciascun individuo.

Come dice Hegel: io ho

«la coscienza che il mio interesse sostanziale e particolare è preservato e contenuto nell’interesse e nel fine di un altro (qui dello Stato), siccome nel rapporto a me come individuo, con la qual cosa appunto questo altro non è immediatamente un altro per me e io in questa coscienza sono libero»[8].

Il contributo di Alfred Rosenberg

Il principale creatore dichiarato ed esplicito della dottrina nazionalsocialista dopo Hitler è Alfred Rosenberg col suo libro Il mito del XX secolo. Traiamo qui alcune notizie da wikipedia, che riportano alcune parole dell’autore.

«Oggi sorge una nuova fede: il mito del sangue. Una fede che, con il sangue, salvaguarda l’essenza divina dell’uomo; una fede basata sull’evidenza che il sangue nordico rappresenta il mistero che spossessa e sostituisce gli antichi sacramenti. … Il mito del XX secolo è il mito del sangue che scatena, sotto il segno della croce uncinata, la rivoluzione razzista mondiale; è il risveglio dell’anima razziale che, alla fine di un lungo sonno, conclude vittoriosamente il caos razziale. … Il diritto non è uno schema esangue più di quanto non lo sia la religione o l’arte, ma è eternamente legato a un sangue determinato con il quale esso appare o dispare»[9].

«Oggi Gesù appare a noi come Signore [Herr] sicuro di sé, nel migliore e più alto significato della parola. È la sua vita che per le genti germaniche acquista significato, non la sua morte tormentata, che è l'immagine sua tra i popoli delle Alpi e del Mediterraneo. Il potente vendicatore, incollerito [Zurnende] nel tempio, l'uomo che trascinava i suoi seguaci, è l'ideale che oggi scaturisce risplendente dai Vangeli, non l'agnello sacrificale dei profeti ebraici, non il crocifisso.»

Rosenberg erigeva Gesù a superuomo, simbolo della razza ariana. In particolare ne esaltava gli aspetti della vita nei quali, secondo i Vangeli, aveva manifestato opposizione nei confronti delle istituzioni ebraiche. Non va tuttavia dimenticato che, nel pensiero di Rosenberg, Gesù non era figlio di Dio, né risorse dai morti (Rosenberg le definisce "leggende"). In pratica, la figura di Gesù viene privata di ogni attributo divino e messianico e viene accostata alle figure di grandi pensatori come Confucio o Meister Eckhart. A Gesù si riconosce il merito di aver superato la frattura "siriaco-etrusco-giudaica" tra umano e divino, in ciò mostrando perfetta sintonia con il panteismo propagandato dal nazionalsocialismo, ostile all'idea di un Dio personale (il concetto di "Provvidenza" per il nazismo è infatti completamente diverso da quello del monoteismo giudaico, cristiano ed islamico).

Nonostante la diffusione del libro (paragonabile a quella del Mein Kampf), le reazioni degli altri gerarchi furono per la maggior parte negative. Molti sottolinearono il conflitto che si sarebbe venuto a creare con gli ambienti cattolici e protestanti, in quanto Rosenberg si opponeva tenacemente a entrambe le religioni, mentre la maggior parte dei gerarchi era seguace di una o dell'altra. Goebbels si rivelò particolarmente critico nei confronti dell'opera e del suo autore, per il quale coniò la locuzione fast Rosenberg (quasi Rosenberg), al fine di indicare qualcuno “quasi in grado di diventare un filosofo, un giornalista o un politico, ma solo quasi”.

Hitler stesso, che intendeva apparire come l'unico in grado di salvaguardare il cristianesimo dall'ateismo comunista, definì il libro “illogico e derivativo”, ma allo stesso tempo assicurò a Rosenberg che si trattava di un libro “molto intelligente”. L'atteggiamento del partito nazista verso "Il mito del XX secolo" fu ambivalente: mentre da un lato le dottrine di Rosenberg erano state dichiarate un'opera privata dal valore non ufficiale, dall'altro quest'ultime venivano invece largamente propagandate dai giornali e dalle associazioni naziste.

Il Vaticano prese le distanze da Rosenberg. Il 7 febbraio 1934 L'Osservatore Romano pubblicò un articolo in cui informava che il libro di Rosenberg era stato messo all'Indice, in quanto «mostra disprezzo per tutti i dogmi della Chiesa cattolica, cioè i fondamenti stessi della religione cristiana e li respinge completamente. Sostiene la necessità di fondare una nuova religione o una chiesa germanica e proclama il principio: "Oggi si sta svegliando una nuova fede, il mito del sangue, la fede nel difendere con il sangue l'essenza divina dell'uomo".

Rosenberg, tra l'altro, si era già distaccato dalle Chiese tradizionali nel 1933 richiedendo, con un atto ufficiale (Kirchenaustritt), che il suo nominativo venisse cancellato dagli elenchi dei battezzati nella chiesa cattolica. Nonostante le varie controversie inerenti al libro, l'apporto ideologico di Rosenberg alla dottrina nazionalsocialista rimane comunque di primaria importanza».

La visione heideggeriana del nazionalsocialismo

La mente che ha concepito il nazismo in senso spirituale e metafisico è stato Heidegger. Egli vede il nazionalsocialismo non tanto come una dottrina politica, o dello Stato, come aveva fatto Schmitt, o religiosa, come aveva fatto Rosenberg, e ancora meno come la teorizzazione del primato della razza ariana, quanto piuttosto come il destino spirituale della Germania come rivelatrice all’umanità del senso dell’essere. Per questo egli sottolinea la spiritualità del nazismo. Egli parla di «nazionalsocialismo spirituale»[10], di «missione spirituale»[11], di «mondo spirituale»[12], di «nobiltà spirituale»[13], del «fronte invisibile della Germania spirituale»[14].

È qui che Heidegger si separa da Rosenberg, che invece dà più importanza al fattore biologistico, e che riuscì più gradito al regime; ed è a questo punto che Heidegger rivendica una concezione più profonda, metafisica, quella a suo giudizio autentica, rivelatrice dell’essere nel senso nietzscheano, che non quella degli stessi gerarchi del Partito, ingolfati, al dire di Heidegger, nella «cura» e nell’«esistenza inautentica».

Egli restò freddo nei confronti dell’antisemitismo. È stato dimostrato che non disse mai una parola a suo favore ed ebbe anche amici ebrei come Husserl ed Hannah Arendt. Per lui la questione ebraica non era una questione di razza, ma una questione spirituale. Non teneva affatto lontano Ebrei che si avvicinavano alle sue idee.

E così Heidegger, deluso per l’interpretazione grossolana della spiritualità nazista,  dette le dimissioni da Rettore dell’Università di Friburgo appena un anno dopo averlo assunto ed aver fatto il famoso discorso inaugurale, nel quale faceva le lodi del nazismo. Ciò non gl’impedì di mantenere la sua idea del nazismo come rivelatore dell’essere.

Secondo Heidegger l’Eterno per il nazista esiste, ma non è l’Eterno del cristianesimo. È lo Spirito assoluto di Hegel, il Gott mit uns, anche se è sempre misto al tempo, è sempre nella storia. Ma anche la storia è eterna, perché è storia di Dio. Qui abbiamo l’eterno ritorno. Dio è per essenza col mondo, nel mondo e per il mondo. Come dice Hegel: «senza il mondo, Dio non è Dio».

Il significato nazista della morte

Nel nazismo la vita è strettamente collegata alla morte. La vita è nella morte e la morte è nella vita. Vale il detto massonico kein Leben ohne Tode, kein Tode ohne Leben. La vita produce la morte; la morte produce la vita. È una concezione cosmologica ciclica di eterna alternanza, che prende spunto dall’alternarsi delle stagioni e dei cicli astrali, già presente sia nell’antichità occidentale che in quella orientale, ed è rappresentata dal simbolo sanscrito della svastica o dalla Dea Sciva, che dà la vita e la morte.

Ad essa corrisponde in Occidente Pachamama. Corrisponde anche alla dialettica hegeliana: il positivo produce il negativo; il negativo produce il positivo. Severino parla dell’«anello del ritorno». È l’eterno ritorno di Nietzsche.

Nella visione nazista, dunque, pare a tutta prima non esserci posto per la sopravvivenza dell’anima o per la vita eterna. E così pure pare mancare l’idea del crescere, dell’aumentare, dell’avanzare, del migliorare, del progredire. Ma non è così. C’è l’una e l’altra idea, ma occorre saperla trovare e capire come il nazismo la intende.

Nella visione nazista c’è qualcosa che perennemente sorge, si corrompe, passa e ritorna. E questo è l’avvenimento mondano e fisico. E c’è qualcosa, l’Eterno, lo Spirito, il superuomo, che va oltre per non passare più e non retrocedere nell’umano. L’individuo umano muore, ma nel morire si eternizza. Tale è il superuomo, tale è il tedesco, tale è la razza ariana o, come la chiama Nietzsche, la «razza dei Signori». Questa è l’escatologia di Nietzsche.

Dio invece non è morto per rivivere, ma è morto per sempre. L’Anticristo nietzscheano ha ucciso Cristo[15]. Questo è il progresso. Il superuomo, il nazista è il vero Dio definitivo ed immortale, che supera e soppianta il vecchio Dio cristiano, e che resta sommo ed eterno, sia pur sempre nella ruota del divenire e nell’«amor Fati», come dice Nietzsche, ossia nell’accettazione gioiosa della sofferenza e della morte (la «gaia scienza»). Il segreto per essere immortali e pur immersi nella ruota del divenire lo suggerisce il panteismo indiano. Leggiamo questo testo molto interessante e significativo della filosofia indiana:

«Nell’instancabile, sterminata ruota di Brahman, vaga, trepido, l’individuale perché e finché sente il Signore della ruota (chakravarti) come altro da lui; ma nel momento in cui si riconosce in quell’Io che eternamente volge la ruota, egli immediatamente realizza la pace dell’immortalità»[16]. Ecco l’amor Fati di Nietzsche.

Nonostante il ritorno della vita, la morte sembra non darsi mai per vinta. La vita pare non trionfare.  Ciò che sale, sembra tornare a scendere. Si torna sempre ad essere ciò che si è stati. Ma in realtà non è così. Dal superuomo non si torna indietro. La nuova umanità di Rosenberg non invecchia. Il Dio morto non risorge. Ma esiste, come dice Heidegger, il «Dio divino»: è il superuomo, è il popolo tedesco, il Sacro di Hölderlin[17].

La morte, secondo il nazismo, è l’atto morale supremo, è l’effetto della suprema e definitiva decisione della libertà. L’evento della morte non va considerato una triste necessità causata dalla corruzione della materia, alla quale occorre rassegnarsi, ma va vista come un obiettivo morale, effetto di una decisione della volontà, una meta di perfezione decisiva e di libertà.

Non che il nazismo voglia fare un’apologia del suicidio, che però non è del tutto escluso, ma nel senso che nel momento in cui si presenta l’occasione del morire, l’uomo deve approfittarne per compiere nel morire l’atto della sua suprema libertà. Ciò è chiarito bene da Rahner, il quale riprende la tesi heideggeriana, ispirata a Nietzsche e fatta propria dall’etica nazista. Vediamo infatti prima che cosa dice Heidegger e poi l’esplicitazione rahneriana.

In Essere e tempo Heidegger si ferma a lungo su questa volontà di morte, propria e altrui, che egli chiama «essere-per-la-morte» (sein zum Tode). Sembra che la morte sia lo scopo dell’esistenza. E difatti è così perché per Heidegger il morire è

«la possibilità dell’esistenza autentica»[18]. «La morte è la possibilità più propria dell’Esserci. L’Essere per essa apre all’Esserci il poter-essere più proprio nel quale ne va pienamente dell’essere dell’Esserci»[19]. «Ciò che caratterizza l’essere-per-la-morte autenticamente progettato sul piano esistenziale, può essere riassunto così: l’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nello stesso Si e, sottraendolo fino in fondo al prendente cura avente cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: la libertà per la morte»[20].

Rahner:

«La morte è per sua natura compimento personale di sè». «Nella morte … l’anima raggiunge il compimento della sua autogenerazione». «La morte … è attivo portarsi-a-compimento, generazione crescente e comprovante il risultato della vita e totale prendersi-in-possesso della persona, è un aver-realizzato-se-stessi e pienezza della realtà personale attuata liberamente»[21].

Certo anche nel cristianesimo esiste il concetto del morire fatto proprio dalla volontà, ma non per un morboso amore per la morte, bensì come atto di virtù e di supremo amore per Dio e per il prossimo. Anche Cristo parla del «chicco di grano», che per portar frutto, deve morire (Gv 12,24), solo che qui non è la morte come tale che sia produttiva; non si tratta di morire per il gusto di morire, ma di morire con Cristo e per Cristo, per lo stesso motivo per il quale Cristo ha voluto morire, ossia in nome della vita e per la vita, giacchè il Dio cristiano non è il Dio dei morti, ma dei vivi.

Pertanto nel cristianesimo il morire come tale resta sempre in se stesso un male di pena, che però viene trasformato in un bene salvifico, se la morte è accettata in unione con la morte sacrificale ed espiativa di Cristo.

In tal senso la morte può essere addirittura cercata, come fa il martire. Ma in Heidegger la morte è apprezzata in se stessa e per se stessa in quanto morte, come se in se stessa fosse un bene e addirittura il massimo bene che pone l’uomo definitivamente nell’esistenza autentica. In questo senso, come spiega Rahner, la vita eterna non è dopo la morte, ma nella morte.

Da notare come Heidegger caratterizza con l’«angoscia» (Angst) questo «essere-per-la-morte» e ne ha ben donde. Nella spiritualità di Heidegger non c’è spazio per la beatitudine. E così pure Rahner non ci dice nulla della visione beatifica, delle gioie del paradiso e dell’eterna pace dell’anima liberata da ogni male di pena e di colpa.

In sostanza, abbiamo qui con Heidegger e con Rahner quello che Nietzsche chiama «amor Fati», con espressione di evidente intonazione pagana, amore che definisce addirittura l’esistenza umana, la morte non voluta nel senso cristiano dell’espiazione o riparazione in Cristo, ma proprio voluta per se stessa, e che si esprime eminentemente nella mistica nazista della guerra.  

Del resto già Hegel aveva teorizzato la guerra come legge dialettica del progresso storico e della purificazione dei popoli. Nell’etica nazista l’omicidio diventa una legge della vita, seppur mascherato sotto il pretesto della difesa nazionale. La vita è impossibile senza la lotta e la vittoria su di un nemico. O tu uccidi lui, o lui uccide te. Mors tua, vita mea.

L’etica nazista non conosce conciliazione dei contrari e armonia fra i diversi. Il diverso è il nemico. L’amico deve essere identico. È di tipo dialettico. L’altro è, come in Fichte, il «non-io». Lo stesso avviene nella dialettica hegeliana, che Hegel prende da Fichte. Il conflitto diventa istituzionale, passa nel diritto con Carl Schmitt. L’omicidio è coperto dalla la ragion di Stato. È legalizzato sotto le apparenze del dovere o il pretesto dell’obbedienza. I criminali nazisti a Norimberga credevano di potersi giustificare adducendo il motivo che avevano obbedito ai superiori. 

Fine Parte Quarta

P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 15 agosto 2021
Memoria di Santa Teresa Benedetta della Croce.
Martire, Patrona d’Europa e Dottore della Chiesa
 

Rosenberg erigeva Gesù a superuomo, simbolo della razza ariana. In particolare ne esaltava gli aspetti della vita nei quali, secondo i Vangeli, aveva manifestato opposizione nei confronti delle istituzioni ebraiche. Non va tuttavia dimenticato che, nel pensiero di Rosenberg, Gesù non era figlio di Dio, né risorse dai morti (Rosenberg le definisce "leggende"). In pratica, la figura di Gesù viene privata di ogni attributo divino e messianico e viene accostata alle figure di grandi pensatori come Confucio o Meister Eckhart.

Rosenberg, tra l'altro, si era già distaccato dalle Chiese tradizionali nel 1933 richiedendo, con un atto ufficiale (Kirchenaustritt), che il suo nominativo venisse cancellato dagli elenchi dei battezzati nella chiesa cattolica.

 

 

Nella mentalità di Carl Schmitt, organizzatore del diritto statuale nazista, l’altro uomo è rigidamente diviso agli occhi dello Stato in amico e nemico. Il principio evangelico dell’amore del nemico, già detestato da Nietzsche, è escluso. Nel nemico non c’è nulla di buono che possa essere recuperato, come fosse stato una malvagità sussistente. 

L’immagine di Dio anche nel nemico era totalmente ignorata. La misericordia è esclusa a favore di una libera manifestazione della propria potenza ed anzi è auspicata l’eliminazione dei più deboli sulla base della legge della selezione naturale di Darwin.

 
 
 
 

[1] Cit. da Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 1994, p.428.

[2] Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 2017, pp.108, 113, 128, 134, 138, 147.

[3] Cit.da Maritain, Il mistero d’Israele ed altri saggi, Morcelliana, Brescia 1964, p.127.

[4] Ibid., p.267.

[5] Ibid., pp.27-28.

[6] Ibid., p.39.

[7] Cit. da Maritain, Il mistero d’Israele, op.cit., p.127. Nel medesimo libro a p.125-126 Maritain riporta la condanna degli errori del nazismo fatta dalla Congregazione dei Seminari ed università il 13 aprile 1938.

[8] Ibid., p.205.

[9] Il mistero d’Israele, op. cit., p.125.

[10] Andrea Colombo, I maledetti. Dalla parte sbagliata della storia, Edizioni Lindau, Torino 2017, p.68.

[11] Ibid., p.64.

[12] Ibid.

[13] Ibid., p.66.

[14] Ibid., p.68.

[15] Vedi il mio articolo L’ANTICRISTO IN NIETZSCHE E NELLA BIBBIA, Sacra Doctrina, 6,1998,  pp.77-134.

[16] Cit. da Julius Evola, Saggi sull’idealismo magico, Edizioni Mediterranee, Roma 206, p.108.

[17] Cf M.Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi Edizioni, Milano 1994.

[18] Essere e tempo, Longanesi & C., Milano 1976, p.319.

[19] Ibid., p.320.

[20] Ibid., p.323.

[21] Cf il mio Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona,2009, pp. 211-212.

 

26 commenti:

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  2. Gent.mo p. Cavalcoli, nell'articolo qui sopra lei scrive:

    «Il difetto della accezione nazista sta nel porre fra le razze umane delle barriere invalicabili, ontologiche, come fra l’animale e l’uomo, per le quali il tedesco è per natura destinato a dominare il debole o l’inferiore o ad eliminarlo.

    Come nella mentalità di Carl Schmitt, organizzatore del diritto statuale nazista, l’altro uomo è rigidamente diviso agli occhi dello Stato in amico e nemico[2]. Il principio evangelico dell’amore del nemico, già detestato da Nietzsche, è escluso. Nel nemico non c’è nulla di buono che possa essere recuperato, come fosse stato una malvagità sussistente. L’immagine di Dio anche nel nemico era totalmente ignorata. La misericordia è esclusa a favore di una libera manifestazione della propria potenza ed anzi è auspicata l’eliminazione dei più deboli sulla base della legge della selezione naturale di Darwin».

    Ciò che lei dice di Carl Schmitt non è supportato da alcunché né nell'unico testo da lei citato né altrove (né in una quale che sia altrimenti inattingibile, ma senz'altro inappellabile e pregiudizievole, sua "mentalità") ed anzi lei così altera in maniera infamante non solo il pensiero di Schmitt ma le sue aperte intenzioni argomentative. A breve titolo di esempio lei in nota cita sei pagine del testo schmittiano (ma nessun passo diretto) elencando le prime due nella 108 e 113, sorvolando stranamente le intercorrenti 111 e 112 che le avrebbero dovuto fornire il riferimento esplicito a cui avrebbe dovuto tenere fede nel merito. Le riporto il passo da lei ignorato con evidente noncuranza, e che certo poco si presta a fare di C. Schmitt un "giurista nazista".

    «Il nemico è l'hostis, non l'inimicus in senso ampio, il πολέμιος non l'ἐχθρός. La lingua tedesca, come altre, non distingue fra «nemico» privato e politico, cosicché sono possibili, in tal campo, molti fraintendimenti ed aberrazioni. Il citatissimo passo che dice «amate i vostri nemici» (Matteo 5, 44; Luca 6, 27) recita «diligite inimicos vestros», «ἀγαπᾶτε τοὺς ἐχθροὺϛ ὺμῶν», e non «diligite hostes vestros». Nella lotta millenaria fra Cristianità ed Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l'Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi. Non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha senso amare il proprio «nemico», cioè il proprio avversario. Quel passo della Bibbia riguarda la contrapposizione politica ancor meno di quanto non voglia eliminare le distinzioni di buono e cattivo, di bello e brutto. Esso soprattutto non comanda che si debbano amare i nemici del popolo e che li si debba sostenere contro di esso.»

    Affermazioni che, come può agevolmente constatare (cfr. Summa, IIa IIae, q. 11. art. 39), non credo San Tommaso avrebbe riprovato, a meno che non voglia sostenere che nei confronti degli eretici (ex parte quidem ipsorum est peccatum per quod meruerunt non solum ab Ecclesia per excommunicationem separari, sed etiam per mortem a mundo excludi.) anche il Dottore Angelico, insieme con la Chiesa che «[...] aliorum saluti providet [...]» (ibid.), mancasse di scienza e carità.

    Mi perdonerà se le faccio notare, da quanto riportato, che C. Schmitt sembrerebbe più colpevole di essere un teorico politico cattolico pre-conciliare (cronologicamente più apparentato a San Tommaso) che un nazista alla Rosenberg (lei sembra ignorare difatti e per altro verso le vicende personali che coinvolsero Schmitt dal 1936 al '37, quando fu proprio Rosenberg a decretarne dispregiativamente l'estraneità al nazismo, facendolo screditare come "papista" nella rivista ufficiale delle SS. Da quanto ne so Carl Schmitt professò sempre la fede cattolica). Personalmente mi permetterei di ricordarle che invece più spesso è proprio la mistificazione intellettuale a tradire invariabilmente quell'odio che, spregiudicatamente praticato, usa celarsi dietro le parole che vorrebbero riprovarlo.

    Un cordiale saluto in Cristo.

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    1. Caro Johannes,
      non ho difficoltà a riconoscere la differenza tra l’hostis e l’inimicus.
      Posso essere d’accordo che Schimtt, parlando di nemici dello Stato, non si riferisce a persone che odiano lo Stato, ma a persone che sono un pericolo per lo Stato e neppure sostiene che queste persone devono essere odiate. Tuttavia Schimtt sostiene che questo nemico deve essere distrutto.
      Il mio sospetto è che questo quadro giuridico, formulato da Schimtt, possa essere servito per la eliminazione degli Ebrei. A quanto mi risulta, Schmitt non nomina gli Ebrei. Tuttavia si può ben capire come un simile principio sia stato utilizzato dai Nazisti.
      Per quanto riguarda il passo del Vangelo, so benissimo che qui si tratta dell’inimicus, e non dell’hostis. Infatti è un principio notorio della etica naturale e cristiana il dovere di difendersi dal nemico dello Stato, il che costituisce il principio della guerra giusta. Viceversa il nemico, del quale parla il Vangelo, va amato, non in quanto nemico, ma in quanto anche nel nemico ci sono dei lati buoni, che pertanto sono amabili.
      Per quanto riguarda la mia interpretazione di Schmitt, francamente non ho capito in che cosa l’avrei frainteso. Non ho pregiudizi nei suoi confronti, ed anzi sarei contento di essermi sbagliato. Tuttavia la pregherei di spiegarmi meglio in che cosa mi sono sbagliato.
      Riguardo al brano che lei mi cita, lo conoscevo, ma non l’ho citato, perché non serviva a dimostrare la mia tesi, in quanto mi è sembrato in contradizione con il brano che ho citato. Lei mi dirà: perché non ha citato le parole che ha taciuto? Appunto perché erano condivisibili, mentre io ho voluto mettere in luce la tesi contraria di Schmitt, che le contraddice.

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  3. Gent.mo p. Cavalcoli.

    La ringrazio della cortese risposta (perdoni l'eventuale prolissità di questa mia, divisa in 2 parti).

    Il punto è che Schmitt non fu mai nazista, se non materialmente in quanto iscritto al partito perché anticomunista o per mero opportunismo (l'antologia a cura di Cantimori nel '35 fu pubblicata senza il consenso dell'autore e Schmitt ebbe direttamente a lamentarsene con il curatore a partire dal titolo).

    Nella distinzione amico/nemico egli non ammette alcuna differenza di natura (come invece in realtà, e come anche da lei sostenuto, avviene nell'ideologia nazista). E la contrapposizione tra amico e nemico non intende edulcorare in maniera dotta una contrapposizione gerarchica «fra le razze umane», né quindi tanto meno porre tra di esse «delle barriere invalicabili, ontologiche, come fra l’animale e l’uomo, per le quali il tedesco è per natura destinato a dominare il debole o l’inferiore o ad eliminarlo» (qui la matrice narrativa correrebbe piuttosto al mitologema formulato dall'ex monaco J.L. von Liebenfels e alla sua «Teozoologia»). Schmitt non è, come lei sostiene (non citando invero direttamente alcun brano), un pensatore di «mentalità» razzista; per lui i gruppi umani si distinguono tra loro in virtù di componenti storico-socio-culturali, e la differenza razziale è una differenza accidentale indubbiamente reale (di certo psichicamente e culturalmente incidente, sebbene non ontologicamente gerarchizzante) specificante una medesima natura umana che ha sempre però concretezza storico-culturale. L'identità della «stirpe», che per Schmitt determina la «collettività creatrice del diritto», significa la «discendenza etnica» rispetto la quale il complesso razza è solo una delle componenti materiali disposizionali. (Ciò, a ben vedere, anche in quel «Stato, movimento, popolo» del '33 che può essere considerato il testo più «compromettente» da questo punto di visita, e non certamente «Il concetto del politico»). Per Schmitt, colui che fa parte di una tale collettività lo fa appunto «esistenzialmente», non esclusivamente o essenzialmente per via biologica: si tratta cioè di una determinazione esistenziale, di un «condizionamento» formale della natura, e non viceversa. Ammesso e non concesso come deprecabile un siffatto «razzismo» schmittiano, tale sarebbe allora anche quello espresso p. es. da un Pietro Palazzini nel «Dizionario cattolico di Teologia morale» (1962), in cui non si intende affatto disconoscere nemmeno l'esistenza di un reale processo di differenziazione psichica, mediato culturalmente, coincidente con quello genetico, un processo cioè di realizzazione concreta dell'uomo e dei popoli ma che, come in Schmitt, non stabilisce alcuna superiorità ontologica tra di essi; né troverei ciò contraddire certe implicazioni della metafisica dell'actus essendi tomistico rispetto lo sviluppo dell'ente concreto riesposta da ultimo dal p. C. Fabro.

    «Il nemico è perciò definito non da un connotato etico, estetico o di valore, ma da una situazione esistenziale: è colui che vive una situazione altra rispetto alla mia e non a questa riducibile, è esterno ad essa, estraneo» (Michele Nicoletti, «Trascendenza e potere», Brescia 1990, p. 263; v. pp. 391-393. Un testo che ha fatto scuola in Italia tra tutti gli studiosi accreditati di Schmitt).

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  4. Il «nemico» in Schmitt non è infatti qualcosa che «deve» essere di per sé immancabilmente distrutto, giacché verrebbe parimenti negata anche la possibilità dell'ontogenesi dell'«amico», ma semplicemente «riconosciuto» come tale, ovvero dinamicamente contrapposto nel suo concreto contenuto storico, di modo da consentire una delimitazione foriera di reciproco sviluppo vitale. Amico e nemico sono correlativi, si implicano dialetticamente a vicenda, non si escludono, pena il loro simultaneo decadere: «Se la relazione amico-nemico deve valere logicamente come una "differenza", l'amico e il nemico devono differenziarsi, non possono essere solamente diversi; altrimenti tra essi vi sarebbe una pura diversificazione. Ma se essi si differenziano, la loro relazione è dialettica: ciò significa una differenziazione di sé nel campo degli amici. L' "amico" è allora il concetto generale che ingloba tutto; contiene se stesso, ossia l'amico, in quanto generale e il suo contrario, il nemico, in quanto specifico» (citazione da J. Schickel, "Vorbemerkung", in ibid. p. 266 in nota). «Da ciò si vede come al centro del criterio del politico per Schmitt non vi sia il "nemico", ma l' ''unità politica"». (ibid, p. 265).

    È ciò che la natura del politico impone di riconoscere, a prescindere da quale che sia orientamento di stampo «liberale», che invece, intendendo rimuovere in politica - alla «maniera essenzialista» - la legittimità della contrapposizione, nega la legittimità assiologica dell'avversario e considera, stavolta impoliticamente, il nemico mai in realtà venuto meno, tout court un «nemico dell'umanità». Nei confronti degli ebrei Schmitt mantenne infatti sia una discriminante tipicamente cattolica, ma del tutto conforme a quel fondamentale orientamento realista che non ha mai prestato il fianco né storicamente né argomentativamente ad alcuna utilizzazione omicidiaria o sterminazionista, (sebbene non senza ragione potesse considerarsi consentanea di un giudizio che li definisse esistenzialmente/formalmente «perfidi» e colpevoli del peccato di deicidio); sia, coerentemente, una discriminate di natura politica: «Essi [quegli autori ebrei] furono [...] un importante fermento di dissoluzione degli ordinamenti concreti spazialmente determinati». Ciò fu quanto venne contestato dei suoi scritti allo Schmitt prigioniero nelle carceri del Tribunale di Norimberga, che poi si vide costretto a rilasciare non trovando da imputargli alcuna prova (né potevano essercene) di una sua collaborazione alle politiche di guerra e di sterminio naziste.

    Credo che la verità sia che nella Germania del '33 si potesse ancora pensare e auspicare di trovare in campo cattolico punti di contatto e dare una direzione costruttiva ad un governo politico nazionalista legalmente eletto (sebbene Schmitt si fosse già prima dell'elezione dichiarato contrario al NSDAP) e che non aveva ancora manifestata la sua disperata e perversa natura chiliastica. Ciò è dimostrato dallo stesso Reichskonkordat a firma di Eugenio Pacelli per conto di Pio XI - nonostante le croci uncinate sventolassero ed effigiassero i doppiopetti già da anni - datato al 1933, mentre la «Mit brennender Sorge» è proprio del 1937, guardacaso lo stesso anno in cui Schmitt, oramai scoperto e ostracizzato da Rosenberg tramite le SS rischiò per un pelo l'eliminazione fisica.

    La saluto ancora in Cristo.

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    1. Caro Johannes,
      prendo atto del fatto che Schmitt non fosse razzista antisemita. Tuttavia temo che il suo concetto di nemico dello Stato, secondo quel passo di Schmitt che lei stesso cita, ossia «il nemico è definito non da un connotato etico, estetico o di valore, ma da una situazione esistenziale: è colui che vive una situazione altra rispetto alla mia e non a questa riducibile, è esterno ad essa, estraneo», potesse prestarsi ad essere applicato agli Ebrei presenti nel suolo tedesco, in quanto, stando ad un concetto moralmente accettabile di nemico, non è ammissibile concepirlo come “definito non da un connotato etico, estetico o di valore, ma da una situazione esistenziale: è colui che vive una situazione altra rispetto alla mia e non a questa riducibile, è esterno ad essa, estraneo”, un concetto inaccettabile proprio per il fatto che in questa definizione è espressamente esclusa la connotazione etica, necessaria invece per giustificare eticamente l’essenza legittima del nemico.

      Moralmente, uno Stato non può parlare di “nemico” se non inquadrandolo in categorie morali, se vuol evitare la barbarie e l’immoralità. Il limitarsi a parlare di “situazione esistenziale altra rispetto alla mia e non a questa riducibile, è esterno ad essa, estraneo” non dà alcun fondamento giuridico e morale ad uno Stato per parlare legittimamente di nemico dello Stato e giustificare di conseguenza l’uso della forza o un’azione bellica nei suoi confronti.

      Ma questo è solo un aspetto dell’errata concezione schmittiana del nemico. La cosa ancora più grave è la sua assunzione del concetto hegeliano del nemico dello Stato, come dice lo stesso Hegel approvato da Schmitt: “il nemico è la differenza etica (intesa nell’“eternità del popolo”), un estraneo da NEGARE NELLA SUA TOTALITA’ (Le categorie del politico, p.147).

      In questa visione allucinante Schmitt non avrà pensato agli Ebrei, ma come non avrà offerto ad Hitler una parvenza giuridica al suo folle progetto criminale? E del resto, se Schmitt fu citato a Norimberga, un motivo ci sarà stato. Se egli ne è uscito assolto, il motivo probabilmente è dato dal fatto che egli con la sua teoria del nemico non pensava agli Ebrei.

      Ma come non poteva accorgersi della facilità con la quale il concetto hegeliano del nemico poteva essere strumentalizzato i chiave antisemita? Se è uscito assolto, credo lo si debba, oltre che alla sua eccezionale abilità avvocatesca, anche alla fama internazionale della quale godeva, nonchè alla benevolenza dei giudici, i quali probabilmente ravvisarono nella sua condotta l’effetto dell’umana fragilità davanti alla tirannide, un atteggiamento ben diverso dal fanatismo esagitato nazista di un Rosenberg, giustamente giustiziato, mentre Schmitt fu assolto.

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  5. 1. Mi perdoni, ma dire che «Il nemico è [...] definito non da un connotato etico, estetico o di valore, ma da una situazione esistenziale» significa né più né meno dire che il nemico non può essere definito come l'incarnazione del male, del brutto e della negatività. Gli va cioè riconosciuta una pariteticità dialettica di confronto, o come dire, mi passi oramai un'espressione terra terra, «l'onore delle armi». È noto Schmitt si considerasse l'ultimo esponente dello jus publicum europaeum, ovvero dell'ordinamento politico uscito dalla Pace di Vestfalia (quella del cuius regio eius religio). E poi la citazione non è da Schmitt ma, come opportunamente segnalato, da un passo del volume di M. Nicoletti...

    2. Riguardo Hegel, in tutta onestà, non riesco a comprendere a quale tipo di «approvazione» si riferisca: quella di Hegel è ivi esplicitamente detta «una» delle definizioni di nemico (non «la», come lei argomenta) e la citazione ha difatti rilievo critico. Obiettivamente a me pare che il senso della citazione hegeliana fatta da Schmitt sia un altro, ovvero quello che proprio questi (se mai ce ne fosse stato bisogno) si premura di rendere esplicito solo qualche riga dopo: «Resta un problema aperto stabilire quanto a lungo lo spirito di Hegel abbia realmente risieduto a Berlino. [...] mentre Hegel si muoveva verso Mosca, attraverso Karl Marx e Lenin. Là il suo metodo dialettico provò la sua forza concreta in un nuovo concetto concreto di nemico [la "novità" sta cioè nella determinazione prassica del metodo teorico - nota mia], quello del nemico di classe, e lo stesso metodo dialettico si mutò come tutto il resto [...] in un' "arma" di questa lotta». Qui Schmitt è apertamente negativo in merito alla reale portata dell'ascendente tedesco ed europeo della filosofia hegeliana, e lo dice espressamente antesignano della rivoluzione bolscevica. La teoria del «nemico» hegeliana è cioè giudicata nientemeno che l'antecedente teorico della guerra civile di classe! Può bene vedere con quale simpatia un anticomunista come Schmitt potesse accreditare Hegel quale progenitore di Lenin.

    Il riferimento politico fondamentale per Schmitt è difatti Hobbes, che Schmitt usa proprio per criticare l'unilateralità del concetto hegeliano di nemico: «In Hobbes, un pensatore davvero grande e sistematico, la concezione "pessimistica" dell'uomo, la sua esatta comprensione che proprio la convinzione, presente nelle due parti antagoniste, di essere nel buono, nel giusto e nel vero provoca le ostilità più violente, e alla fine addirittura il bellum di tutti contro tutti, devono essere intese non come parti di una fantasia paurosa e sconvolta, e neanche solo come filosofia di una società borghese fondata sulla libera "concorrenza", ma come i presupposti elementari di un sistema di pensiero specificamente politico» (Concetto del politico, pp. 140-150).

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  6. 3. Riguardo la benevolenza dei giudici del cosiddetto «Tribunale militare "internazionale" di Norimberga» nei confronti di Schmitt - tenuto in segregazione per più di un anno senza un capo di accusa, e poi ammesso al processo in semplice veste di testimone - preferirei non pronunciarmi. Fatto sta che fu presieduto da un inglese e un francese (i due stati che bombardarono i profughi civili dell'est ripiegati a Dresda nel '45 a puro scopo "terroristico", come scrisse Churchill), un americano (il cui paese sganciò a guerra già vinta due testate nucleari su due città giapponesi di sole donne, vecchi e bambini a maggioranza cattolica) e un sovietico (il cui paese, per dirne solo una, nei primi anni '30 mise a morte per fame più di cinque milioni di civili ucraini). Perdoni l'ironia, ma con un tale pedigree, chi dubiterebbe che non fossero mossi da equanimi istinti di benevolenza nei confronti dei nemici? Bene fecero comunque a processare i nazisti - sebbene sarebbe stato meglio l'avesse fatto un tribunale realmente internazionale - ma niente ci sarebbe stato di male che anche loro sedessero tra gli imputati.

    4. Lei infine parla, con intenti che invero non mi sembrerebbero proprio encomiastici, di una «eccezionale abilità avvocatesca» di Carl Schmitt (con tutto il rispetto per gli avvocati). Mi segnalerebbe però gentilmente la fonte da cui ha tratto della carriera forense di quello che mi risulta essere sempre stato un giurista accademico?

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  7. * al punto 2. il riferimento per la citazione su Hobbes è «pp. 149-150».

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    1. Caro Johannes,
      perchè uno Stato dichiari a buon diritto nemica una collettività umana interna allo Stato, occorre che il suo essere nemica non sia qualificato da una semplice situazione esistenziale di incompatibilità, ma occorre un motivo ragionevole, cioè una valida qualificazione etica. Solo in questo caso lo Stato può aver ragione di combattere questa collettività. Ma quand’anche esso avesse tale ragione, in nessun caso uno Stato può avere il diritto di sterminarla fisicamente. Ora, il concetto hegeliano di "nemico", che Schmitt assume, prevede proprio questa possibilità. Infatti la dialettica hegeliana è basata esattamente sull’esclusione reciproca delle due polarità dialettiche (amico-nemico), che vengono ridotte alle categorie dell’essere e del non-essere, le quali evidentemente si escludono a vicenda. Applicando questo principio alla condotta dello Stato, ne viene che se uno Stato giudica nemica una collettività esistente all’interno dello Stato, ha diritto di sterminarla. Ora questo è un procedimento contrario al più elementare senso di umanità, che dice che il nemico dello Stato, per quanto dannoso allo Stato, è pur sempre una collettività di persone umane, la cui vita è sacra, per cui la giusta condotta da tenere nei suoi confronti può essere solo la difesa, l’assoggettamento o la tolleranza, ma mai la distruzione fisica, lecita solo nel caso della pena di morte per l’individuo nocivo al bene comune.
      Anche l’approvazione data da Schmitt alla concezione di Hobbes non fa che aggravare la posizione di Schmitt. Riprendo infatti la sua stessa citazione: «In Hobbes, un pensatore davvero grande e sistematico, la concezione "pessimistica" dell’uomo, la sua esatta comprensione che proprio la convinzione, presente nelle due parti antagoniste, di essere nel buono, nel giusto e nel vero provoca le ostilità più violente, e alla fine addirittura il bellum di tutti contro tutti, devono essere intese non come parti di una fantasia paurosa e sconvolta, e neanche solo come filosofia di una società borghese fondata sulla libera "concorrenza", ma come i presupposti elementari di un sistema di pensiero specificamente politico».

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    2. Ora tutto ciò dimostra che anche qui Schmitt non afferra quel concetto di nemico dello Stato che autorizza moralmente e giuridicamente uno Stato a procedere contro di lui e men che meno lo autorizza a sterminarlo. E qual è questo concetto? L’ho detto e ripetuto: lo Stato deve usare come criterio per giudicare nemica una formazione umana residente all’interno del territorio dello Stato non una qualunque non meglio definita ripugnanza esistenziale, ma il fatto che oggettivamente, comprovato da prove certe, la suddetta formazione danneggia gravemente i legittimi interessi dello Stato, fino a metterne in pericolo l’esistenza. Occorre dunque un criterio etico e non semplicemente volontaristico o esistenziale, che può nascondere motivazioni abominevoli, come fu l’antiebraismo nazista.
      Hobbes infatti si basa su di una duplice convinzione erronea: 1. l’idea che gli uomini si odiano per natura ("homo homini lupus"), il che invece è solo conseguenza del peccato originale, mentre in realtà ha ragione Aristotele nel dire che l’uomo è naturalmente un vivente sociale (zoon politikòn), principio oggi fortemente ribadito dal Papa con la sua predicazione sulla fratellanza umana; 2. Hobbes si fonda su di una concezione soggettivistica del conoscere, per cui due opinioni opposte possono essere entrambe vere. Ne viene la conclusione che nella guerra fra Hitler e gli Alleati, siccome l’uno e gli altri erano convinti di avere ragione, non è possibile stabilire da che parte fosse la ragione e il torto. Così Hitler fa la figura di aver avuto ragione altrettanto bene quanto le democrazie che lo hanno combattuto. Dove va a finire qui la giustizia? Il diritto? La legge? La morale? Il vero e il falso? Il torto e la ragione? Il bene e il male? Tutto allora, come in Hegel, si contraddice con tutto, e si risolve nella contraddizione insanabile, nella violenza, nell’arbitrio e nel diritto del più forte. La croce uncinata o svastica era appunto il simbolo di questa inesorabile ed insuperabile ciclicità di amico-nemico ovvero di vita-morte-vita-morte. Come tutto ciò non avrebbe fatto comodo ad Hitler?

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    3. Rimango pertanto nella convinzione che obbiettivamente la teoria schmittiana del nemico dello Stato e del modo di procedere nei suoi confronti (la distruzione totale), con le premesse gnoseologiche (il soggettivismo), comportamentali ("ripugnanza esistenziale") ed antropologiche ("homo homini lupus"), che ne sono alla base, anche se al di là o contro le intenzioni di Schmitt, si poteva prestare come giustificazione nazista dello sterminio degli Ebrei.
      Prendo atto del fatto che Schmitt fosse anticomunista e la cosa mi fa piacere e anche del fatto che avesse capito che il concetto marxista di nemico di classe derivi dal concetto hegeliano dialettico di nemico dello Stato. Ma tanto più allora mi stupisce come Schmitt abbia potuto assumere la concezione hegeliana.
      Riguardo al Tribunale di Norimberga, convengo che rispecchi la fragilità della giustizia umana. Tuttavia sappiamo come è umano che solitamente ad un’azione violenta corrisponda una reazione violenta di segno opposto. Se Hitler non avesse scatenato la sua folle impresa, non avremmo avuto la reazione degli Alleati e non avremmo avuto Norimberga. Se Hegel invece di concepire il nemico alla stregua degli antichi germanici, avesse seguito il concetto tomista del bellum justum, non avremmo avuto né il comunismo né il nazismo, né Hitler né Stalin, né i 5 milioni di ucraini uccisi né Nagasaki né Hiroshima, né i campi di sterminio nazisti.
      Riguardo poi a quella che ho chiamato "abilità avvocatesca" di Schmitt, intendevo fargli una lode e riferirmi al fatto che, benchè non fosse un avvocato di professione, seppe abilissimamente difendersi da solo e tutto sommato ne sono contento e credo che abbia meritato l’assoluzione dall’accusa di essere stato il giurista del nazismo e per conseguenza fu scagionato dall’accusa di aver favorito lo sterminio degli Ebrei.

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  8. 1. Gentile padre, Hobbes potrà senz'altro non piacere, ma questa di uno Schmitt "hegeliano" è, come sopra mostrato, una sua convinzione non corroborata da alcunché: Schmitt non assume il concetto hegeliano di «nemico» (cfr. punto 2. della mia precedente riposta) e il riferimento a Hobbes è ciò che definitivamente lo avvalora. L'empirismo e "materialismo" hobbesiano (per cui non vale la dicotonomia occasionalista tra una res cogitans e res extensa) è storicamente la grande alternativa (e antitesi) all'indirizzo cartesiano e soggettivo-spiritualistia che sostiene anche l'idealismo hegeliano e, negli effetti, corrisponde ad un certo recupero del sostanzialismo antico (ma sarebbe un lungo discorso...). Oltre ciò Schmitt è pensatore autonomo e il riferimento a Hobbes non lo appiattisce ad una sua scolastica (ma occorrerebbe essere almeno ermeneuticamente ben disposti a discuterne). Le critiche ad Hegel non colgono niente della filosofia politica schmittiana.

    2. Lei insiste, com'è suo diritto, nel ripete le sue personali convinzioni, ma non cita alcun luogo dove Schmitt parli di «sterminio» o di «distruzione totale». Quando invece tutta la sua filosofia politica è in via di principio un riconoscimento del nemico (cosa che annosamente manca in Hegel) e del conflitto come immanente possibilità ultima del confronto, cioè l'ultima ratio mediante la quale il confronto passerebbe sul piano dei mezzi di prevalsa (sempre che le controparti decidano per il confronto bellico) e che occorre tener presente, in sintonia con la saggezza, nient'affatto nazista, che recitava «si vis pacem, para bellum».

    Come scrive A. Caracciolo, profondo conoscitore di Schmitt, confrontandosi con critiche come la sua: «in queste critiche sfugge in genere la distinzione fra la virtualità del conflitto, sempre possibile e soggetto a cause imponderabili, e la sua concreta perseguibilità e desiderabilità, quasi ci si muovesse in una sorta di estetica della guerra atta ad inebriare i popoli suscitando in essi gli istinti più bestiali. [...] Secondo il criterio del politico, che dimostra così la sua attualità, l'elemento psicologico esistenziale dell'ostilità prescinde dal mezzo bellico [...]. La ricerca della pace per nulla estranea alla teoria deve pertanto basarsi su strumenti politici, non tecnico-militari». Veda lei se poi sia stata innanzitutto politica la via perseguita dagli Alleati nella conduzione delle cose di guerra - che lei giustifica - in nome di una legge di potenza che eccede persino la misura della lex talionis.

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    1. 1.
      Rispondo col dire che l’assunzione schmittiana del concetto hegeliano del nemico si ricava facilmente da queste parole laudative: «Hegel resta sempre politico nel senso più pieno del termine. … Il geniale scritto giovanile Die Verfassung Deutschlands è una documentazione … della verità filosofica secondo cui tutto lo Spirito è presente e contemporaneo. … Questo è l’hic Rhodus di Hegel e la purezza di una filosofia che non si abbandona a fabbricare trappole intellettuali…. Di natura specificamente politica è la sua dialettica del pensiero concreto. L’espressione della conversione della quantità in qualità ha un chiaro significato politico ed è una manifestazione del punto culminate del politico. … Hegel ha infine proposto una definizione del nemico … non in senso morale, ma dal punto di vista della vita assoluta. … Il nemico è UN ESTRANEO DA NEGARE NELLA SUA TOTALITA’ ESISTENZIALE» (Le categorie del politico, pp.146-147). Che vuol dire?

      Hegel, poi, nei Lineamenti di filosofia del diritto (Grundlinien der Philosophie des Rechts), al §358, 4, spiega qual è il nemico mortale del popolo tedesco: è il popolo ebraico, perché, col suo Dio trascendente, si oppone alla riconciliazione che il «regno germanico» cristiano ha operato fra Dio e l’uomo, rendendo Dio immanente all’uomo («Gott mit uns»).

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    2. 2.
      La vera alternativa all’antropologia dualistica cartesiana non è quella hobbesiana, ma quella tomista, che spiega ad un tempo l’unione anima-corpo e il fatto della malvagità umana: la prima non come unione di due res, ma della forma sostanziale (anima spirituale) con la materia corporea e la seconda, la malvagità umana non come uno stato di natura, ma come una condizione accidentale e penale di miseria conseguente al peccato originale, escludendo peraltro anche la concezione opposta rousseauiana della bontà naturale dell’uomo che ignora le conseguenze del peccato originale.
      La simpatia per Hobbes di Schmitt è chiaramente risultante dalla citazione schmittiana di Hobbes che ho fatto nelle mie precedenti risposte.

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  10. 3. La «differenza esistenziale» non è «ripugnanza» (termine dall'indubbia accezione negativa ed ignoto, per quanto riscontro, nel lessico schmittiano) ma discrimine di eterogeneità normativa, di finalità differenti che non possono che confliggere, condizionatamente, nel perseguimento di interessi via via più divergenti. Criterio che, suffragato argomentativamente da Schmitt, ha, da Paolo IV a Pio V, sempre giustificato nell'Europa della Cristianità la delimitazione preventiva di aree intra-statali in cui dovessero vivere quei gruppi umani che, a ragione, si ritenevano culturalmente incompatibili con lo Stato cristiano ospitante. Ma, come le dicevo, ciò non ha mai prestato il fianco ad alcuna volontà omicidiaria o sterminazionista, né quindi vedo perché dovrebbe farlo nel caso del cattolico Schmitt.

    La neutralizzazione etica del conflitto ha proprio come scopo evitare la sua esacerbazione, così come p. es. accaduto durante le guerre di religione del XVI e XVII secolo (di cui la tristemente celebre Notte di San Bartolomeo, celebrata da Gregorio XIII, è solo uno degli episodi più salienti) in cui mai mancarono «valide qualificazioni etiche» dell'avversario, messe in campo tra i belligeranti, tali da protrarre indefessamente per le piazze d'Europa un conflitto civile senza quartiere, sanguinosissimo, per un secolo intero. La riduzione del conflitto a ragioni "materiali" (conservazione del corpo ed espansione della vita) ha principalmente come scopo che questo non degeneri nel massacro indiscriminato e irrefrenabile a causa di convinzioni e giudizi inappellabili. Ma ciò non esclude, in verità, la possibilità di riferimenti fondativi ultimi di un certo tipo neanche in Hobbes (assenti però in Hegel, cfr. nota 53 de "Il concetto del politico"). Difatti se non di tutti è la fede, e la volontà che segue legittimamente i dettami della coscienza erronea non è moralmente cattiva (Summa, Ia IIae, q. 19, art. 5), ciò che ad extra mitiga la punizione ed accende l'urgenza del proselitismo mediante l'impetrazione di grazie e l'oratoria sacra, ab intra impone la salvaguardia dell'integrità del vero e l'ordine della compagine sociale.

    4. Difatti, lei mi insegna, perché il peccato originale non pregiudichi una condotta umana conforme alla umana natura decaduta, occorre un lavacro sovrannaturale e non di certo una filosofia pagana, nemmeno specificamente aristotelica. Hobbes avrà erroneamente suffragato le sue considerazioni politiche con del materialismo empirista, ma ha dalla sua il non aver di certo voluto ignorare cristianamente la concretezza storica fin troppo corrente ed attiva del male morale (attributo della natura lapsa che, di nuovo, non può essere risolta hegelianamente a pura negatività logica e morale) e che sarebbe irresponsabilità dimenticare per coltivare puerili o mistificanti fantasie umanitaristiche alla maniera di un lessinghiano «Nathan il saggio».

    Rinnovandole i miei più cordiali saluti in Cristo, la riverisco.
    Viva Gesù, viva Maria!

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    1. 3.
      Non ho difficoltà a riconoscere che Schmitt non auspicò lo sterminio degli Ebrei. Questo l’ho già detto e lo ripeto e va certamente a suo onore. Ma egli ha avuto l’imprudenza o l’opportunismo di ammettere, come ho dimostrato, una concezione del nemico, che poteva essere intesa come avallo dello sterminio degli Ebrei. Quanto ad Hegel, Hegel certo non esclude la riconciliazione col nemico, anche se essa è di tipo dialettico, ossia non come appianamento, ma come «superamento» (Uberwindung) del conflitto. Tuttavia, la dialettica non assicura una vera riconciliazione, perché mantiene la contraddizione, senza la quale la dialettica non esiste. Il fondamento della vera riconciliazione e di una vera pace, non è una concezione equivoca dell’essere, come quella hegeliana, ma è la concezione analogica dell’essere della Bibbia e di S.Tommaso.

      Prendo atto con soddisfazione dell’accettazione di Schmitt del principio di diritto romano si vis pacem, para bellum. Ma resta sempre la simultanea accettazione del principio dialettico hegeliano, di cui sopra.

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    2. 4.
      Non giungo ad accusare il concetto schmittiano del nemico di essere dettato da un gusto sadico della guerra per la guerra; e tuttavia, parlare di un «elemento psicologico esistenziale» non basta a fugare l’impressione che il motivo dell’essere nemico non sia predicabile in categorie concettuali di carattere morale, giuste o sbagliate che siano, ma è solo perchè il nemico contrasta con tendenze esistenziali concrete, come potrebbe accadere al bufalo che sente istintivamente ostilità per il leone.

      Se viene meno la ragione, prevale l’istinto o l’emozione o la passione. Allora viene spontaneo usare il termine «ripugnanza», anche se la parola non ricorre in Schmitt. Ma c’è il concetto. E qui sta l’errore di Schmitt, che porta a considerare nemico chi non abbiamo ragione di considerarlo tale, ma è nemico solo perchè ci è antipatico, è urtante, non combacia con i nostri gusti, non ci piace, o comunque non ci va di considerarlo amico: un atteggiamento di evidente immaturità psichica e morale, che ben si adatta a fondare e a spiegare il fanatismo e la crudeltà dei nazisti.

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    3. 5.
      Ho già spiegato perché ho usato il termine ripugnanza. E comunque, per considerare legittimamente un popolo come nemico, non basta l’«eterogeneità normativa», o il conflitto o diversità di fini o d’interessi. Occorre avanzare ragioni giuridicamente e moralmente valide ed oggettive per essere nemici di quel dato nemico. Ed occorre che uno Stato dimostri con argomenti ragionevoli davanti alla comunità internazionale perché ritiene un dato popolo come suo nemico. E se ha ragione contro quel nemico, è chiaro che quel nemico dovrà aver torto contro di lui, giacchè non è possibile che una cosa sia giusta e ingiusta allo stesso tempo. Se una cosa è oggettivamente giusta o sbagliata, non può esserlo solo per me, ma deve esserlo anche per te. Schmitt non è assolutamente chiaro e ragionevole su ciò, getta fumo negli occhi e dà spazio a pensare non alla dinamica della conflittualità umana, ma a quella del mondo animale. Come meravigliarsi che sia stato utilizzato dai nazisti?
      I Papi hanno sempre motivato l’isolamento territoriale degli Ebrei con ragioni sia di difesa da parte loro contro azioni antisemitiche e sia per limitare il loro proselitismo. I Papi inoltre, custodi infallibili di un’etica oggettiva ed universale rivelata da Dio, hanno gravi ed oggettive ragioni per procedere contro gli eretici.
      Resta certo il ben noto fatto storico durato secoli della pena di morte per gli eretici, nella quale noi Domenicani siamo stati implicati. Ma anche in questi casi estremi, sempre la Chiesa si è preoccupata di motivare giuridicamente la sua severità e se gli eretici sono nemici della Chiesa, la Chiesa oggi più che mai non li considera nemici, ma fratelli da salvare.
      Siamo qui le mille miglia lontani dal concepire un nemico dello Stato sulla base dell’«incompatibilità esistenziale» e di una gnoseologia soggettivista o relativista come quella di Hobbes, fatta propria da Schmitt, per la quale due nemici mossi da idee opposte fra loro possono entrambi avere ragione.

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    4. 6.
      Sulla strage della Notte di S.Bartolomeo Gregorio XIII fu in un primo tempo male informato, ma la deplorò severissimamente quando appurò la verità. Ovviamente condivido il principio tomista ed evangelico dell’innocenza della coscienza erronea, da Lei giustamente invocato e che oggi la Chiesa rispetta più che mai col diritto civile alla libertà religiosa. Per il resto sono d’accordo con Lei.

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    5. 7.
      Non mi risulta che la dottrina hobbesiana della tendenza egoistica e bellicosa dell’uomo derivi dalla dottrina del peccato originale; al contrario, Hobbes la vede insita nella natura dell’uomo come tale, per cui egli respinge la concezione aristotelica dell’uomo come animale socievole aperto al bene comune, dottrina in perfetta linea con la Scrittura, che si concilia con quella del peccato originale, perché per la Scrittura l’uomo è stato creato socievole e aperto al bene comune, per cui, contrariamente a quanto pensava Lutero, il peccato originale ha certamente indebolito quella tendenza naturale, ma non l’ha completamente distrutta. Per questo, se nella vita presente, stante questa tendenza egoistica dell’uomo, la guerra può avere ancora una ragion d’essere come difesa del bene comune o vittoria sulle formazioni umane contrarie al bene dello Stato o della società, ciò non giustifica un’ostilità sistematica, nella quale la pace è solo il risultato dell’accordo degli egoismi individuali.

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  11. Nico De Federicis, cultore (hegeliano) accademico della materia, in un articolo scientifico in cui fa il punto della questione del rapporto tra Hegel e Schmitt, alla luce della bibliografia e delle argomentazioni fondamentali, ribadisce nel merito quanto segue :«Schmitt non è fedele né allo spirito, né alla lettera hegeliana; egli da un lato occulta completamente l’articolazione dialettica interna all’eticità, lasciando al suo posto un concetto della sfera politica come una totalità indifferenziata, dall’altro non tiene nella giusta considerazione il fatto che, nell’associare il proprio concetto dello Stato ad un «organismo», Hegel intendeva riferirsi allo spirito del popolo, cioè ad un’entità razionale e non etnica. Al contrario, nella definizione schmittiana l’elemento etnico irrompe con estrema forza, perché l’essenza della totalità statale è riferita all’idea di un popolo concepito nel suo profondo radicamento politico. [...] la concezione schmittiana dello Stato dev’essere considerata irriducibile alla concezione statale propria della tradizione filosofico-politica idealistica [...]» (De Federicis, N. (2000), La presenza di Hegel nella filosofia politica di Gentile e Schmitt, Filosofia politica, 3, 465-488; pp. 470-471). In altre parole, sostenere l'esistenza operante in Schmitt delle nozioni idealistiche che articolano la dottrina politica statuale hegeliana è tesi destituita di qualsiasi fondamento scientifico (come dimostra più che a sufficienza l'articolo citato al quale rinvio - ma del resto, aggiungerei, già il primo capitolo di "Teologia politica" si chiudeva significativamente con una encomiastica citazione da Kierkegaard).

    Citare un autore, accreditandone degli aspetti anche centrali, non significa evidentemente condividerne le soluzioni, né giustificare la posizione che quelli occupano rispetto agli interessi dell'impianto generale. Così facendo anche Tommaso avrebbe dovuto subire la giusta condanna delle tesi ritenute eretiche, perché incompatibili con la fede cattolica, formulate da Aristotele (e sommatesi nell'averroismo). Non è poi possibile pretendere obiettività di argomentazioni quando volontariamente si intende disconoscere il senso (addirittura esplicitato) del giudizio espresso da Schmitt sul significato teorico-storico complessivo della dialettica hegeliana.

    Un'ultima nota. Il senso del rimando alla dottrina tomista della coscienza erronea voleva essere quello della «tolleranza religiosa» (per cui, "schmittianamente", la positiva repressione non è sempre un dovere, cfr. Pio XII, "Ci riesce" [1953]), non del «diritto alla libertà religiosa», cosa che non mi sembra tomisticamente accettabile proprio in virtù della indubbia imputabilità e punibilità degli eretici «ex parte quidem ipsorum» (IIa, IIae, q. 11. art. 5).

    Con l'augurio che questa discussione sia stata in qualche modo proficua, le porgo un cordiale saluto in Cristo.

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    1. Caro Johannes,
      il punto della nostra discussione è se il concetto di nemico dello Stato in Schmitt si presta ad essere utilizzato da uno Stato, qual è stato lo Stato nazista, fondato non sul diritto naturale, ma sulla volontà assoluta di Hitler, del tutto indipendente da considerazioni di diritto naturale. Ora, affinchè uno Stato abbia il diritto di dichiarare nemica una formazione umana collettiva interna allo Stato, questo Stato deve dimostrare davanti alla comunità internazionale il suo buon diritto, ossia il fatto che, in base alle esigenze e norme del diritto naturale, quella data collettività (che potevano essere gli Ebrei) era di grave nocumento al bene dello Stato.
      Ora, dai passi che ho citato di Schmitt, nulla di tutto questo risulta. Ed anzi aggiungo anche queste parole di Schmitt, che aggravano la sua posizione e confermano il suo legame con la visione dialettica hegeliana: «tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta, sono legati a una situazione concreta, la cui conseguenza estrema è il raggruppamento amico-nemico (che si manifesta nella guerra e nella rivoluzione)» (Le categorie del politico, p.113). «La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico» (p.112).
      Non è vero che «tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico» e che «la contrapposizione politica è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico» (p.112). Esiste anche, grazie a Dio, una convivenza politica democratica, amichevole, serena, pacifica. Si vede qui l’influenza di Hobbes, oltre che di Hegel.
      I contrasti più profondi fra gli uomini sono a livello della loro vita morale, spirituale e religiosa, perché è questa e non la politica che coinvolge gli interessi umani più vitali, profondi e radicali. Risolvere gli interessi umani nel politico vuol dire dare troppa importanza alla politica e dare spazio a una concezione totalitaria della politica come fu quella di Hitler.
      Ora, come non rintracciare in queste parole il dialettismo inesorabile, spietato e crudele della dinamica della società secondo Hegel? Come non pensare ai nazisti? Hegel fu riconosciuto teorico dello Stato dal nazismo, che prese anche da Nietzsche. Come fà dunque De Federicis a dire che «Schmitt non è fedele né allo spirito, né alla lettera hegeliana»?
      Come fa dunque Lei ad affermare che io «disconosco il senso (addirittura esplicitato) del giudizio espresso da Schmitt sul significato teorico-storico complessivo della dialettica hegeliana», dopo che Le ho citato il lungo brano di pp.146-147 ed anche le parole delle pp.112-113?
      E il concetto schmittiano della «sfera politica come una totalità indifferenziata», è un concetto accettabile della sfera politica? O non è un’espressione nebulosa, vaga ed indeterminata, nella quale un qualunque dittatore o tiranno o mascalzone politico può pescare nel torbido? Siamo lontanissimi da una giusta definizione della sfera politica che risulta da una sana filosofia politica, per non parlare della dottrina sociale della Chiesa. Ad un concetto del genere, privo di qualunque chiarezza morale, Hitler poteva attingere benissimo per le sue malefatte.
      E l’ammirazione di Schmitt per Hobbes? Le pare che questo materialista cinico e privo di princìpi morali, apologeta dell’egoismo umano, possa essere un degno teorico del diritto di uno Stato a chiamare nemica una collettività umana a lui avversa? O non potesse anche lui fare estremamente comodo ai nazisti?

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  12. Aggiungo a quanto detto dal commentatore precedente, che il pensiero politico di Schmitt fu, per ordine di Heydrich, studiato da una commissione accademica delle SS e dichiarato assolutamente incompatibile con il nazionalsocialismo. Per quanto riguarda Schmidt, vi farà bene leggere gli scritti importanti del più grande specialista argentino, Andrés Rossler, anch'egli ebreo. Ha anche un blog, lacausadecaton.com.
    L’analisi viene sminuita quando si ricorre a chichés indietristi della guerra fredda, che ignoravano l’esistenza di una forte corrente antinazista conservatrice come Spengler, Schimdt, Jünger, il circolo di Kreisau e molti altri. E quello che dissero quando l'attacco a Hitler fu una lotta interna nazista.
    È il problema di informarsi leggendo Reader's Digest Selections.

    Erns Junger

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    1. Caro Erns,
      il mio giudizio sulla teoria politica di Schmitt, che ho dato nel mio intervento del 2021, è basato su ampie citazioni tratte dall’opera “Le categorie del politico”, editrice Il Mulino, Bologna, 2017.
      Io conosco bene la filosofia dello Stato di Hegel. Per questo mi sono accorto con chiarezza che lo Schmitt si rifà a questa concezione dello Stato. D’altra parte è noto che la concezione nazista dello Stato si basa sulla filosofia di Hegel.
      Per questo il giudizio di Heydrich, secondo me, è motivato dal fatto che Schmitt era Cattolico, cosa che per un nazista non poteva non essere urtante. Da qui l’accusa fatta a Schmitt di non avere capito la natura del nazismo.
      Per quanto riguarda la guerra fredda tra Americani e Russi, io credo che gli Americani abbiano fatto bene a citare Schmitt in giudizio a Norimberga, anche se egli con la sua abilità oratoria riuscì a difendersi dalle accuse.
      Per quanto riguarda invece l’opposizione al regime da parte di Schmitt, posso ammetterla in quanto in fin dei conti Schmitt era Cattolico.

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