Circa l’identità del popolo ebraico - Terza Parte (3/4)

 Circa l’identità del popolo ebraico

Terza Parte (3/4)

Israele, maestro di sapienza

La sapienza d’Israele ha dato all’umanità i più alti concetti della teologia naturale. Essa completa, innalza e corregge quanto era già stato conquistato da Aristotele: Dio altissimo ed eterno, purissimo spirito, creatore del cielo e della terra, Colui Che È, sapientissimo, leale, onnipotente, provvidente, giusto, clemente, fedele, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore» (Sal 86,15); l’uomo, maschio e femmina, composto di anima spirituale e corpo, dotato di senso ed intelletto, passioni e volontà, inclinato ad agire in obbedienza alla legge morale naturale per il conseguimento del fine ultimo, sommo bene, che è Dio.

Il Dio dell’Antico Testamento è un Dio personale, è un Dio Padre, ma solo nel Nuovo Testamento Gesù ce Lo rivela come Padre del Figlio, per cui il Padre appare come Relazione sussistente di paternità nei confronti del Figlio che è generato dal Padre, Figlio che procede o «esce» dal Padre, come dice Gesù di se stesso, per cui il Figlio, ossia Gesù stesso, è Relazione sussistente di Figliolanza al Padre. Padre e Figlio appaiono così due Persone divine distinte ed uguali nella natura divina, che è Dio stesso come sostanza spirituale, quindi come persona.

Sapienza (hokmàh), per la Bibbia, è perfezione dell’intelletto (binà) e dono dello Spirito del Signore. È la conoscenza (daàt) di Dio per mezzo delle creature (Sap 13,5). È quella virtù intellettuale, quell’operazione della ragione, della quale parlerà S.Paolo, per la quale l’intelletto (binà) considera gli attributi invisibili di Dio partendo dall’esperienza delle cose che si vedono, ossia dalle cose da lui create (Rm 1,20).  

La sapienza stimola al timore (yireàt) di Dio e nasce dal timore di Dio, nel senso che, rendendo consapevoli che siamo sue creature, siamo indotti a prendere nella massima considerazione la sua legge e i suoi comandi, sapendo che il disobbedire ad essi sarebbe la nostra perdizione.

 Il sapiente è dunque colui che, conoscendo chi è Dio, è in grado di insegnare la verità su di Lui, è un maestro (rav), che parla  degli attributi divini, parla di Colui Che È, del Creatore del cielo e della terra. Conosce i divini comandamenti e pertanto è un dottore della legge. Ecco i Proverbi, il Siracide e la Sapienza.

Sapiente è colui che conosce se stesso, le proprie opere buone e i propri peccati, si riconosce come creato ad immagine di Dio e pertanto gli rende culto e dovuto onore, lo prega, lo invoca, gli apre il suo cuore con fiducia e speranza. Ecco il Kohelet.

Il sapiente conosce la propria dignità e la propria posizione davanti a Dio, sa parlare con Dio, ascoltarlo ed obbedirgli, aver di Lui il dovuto timore, implorare perdono per i propri peccati, sperare nella sua misericordia. Ancora il Kohelet.

Sapiente è il profeta (nabi), colui che vede l’invisibile, il veggente (roeh, hozeh), che per mezzo delle cose visibili, vede le perfezioni invisibili di Dio, conosce ciò che Dio ha operato, conosce i suoi piani e la sua volontà e pertanto prevede ciò che per volontà di Dio accadrà. Conoscendo questa volontà di Dio il profeta indica le opere da compiere per assecondare i piani divini. Egli, mandato da Dio e a nome di Dio, annuncia la Parola di Dio (dabàr).  Questa parola è il pensiero, il progetto, la volontà di Dio.

S.Giovanni tradurrà dabar con logos, ossia ragione, la ratio latina, termine desunto dalla sapienza greca. Per questo, Giovanni, annunciando che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, l’uomo dello Spirito, dice che è il Logos del Padre, ossia il Pensiero e il Progetto del Padre. E la Lettera agli Ebrei, di rincalzo, precisa che Gesù è lo «splendore della gloria del Padre e Immagine della sua Sostanza» (Eb 1,3).

Il sapiente è il profeta, l’uomo pio, l’uomo di Dio, docile e pronto ad ascoltare e a seguire le ispirazioni divine e a mettersi al servizio di Dio come suo ambasciatore e portaparola. Investito dallo Spirito del Signore (rùach), è rapito in estasi, ossia il suo intelletto, astraendo dai sensi, benchè non fruisca ancora della visione di Dio, vede tuttavia oscuramente ed analogicamente le cose puramente spirituali.  Si tratta o di un’esperienza mistica ineffabile oppure di visioni esprimibili nella parola, concernenti le intenzioni umane e divine, gli ideali morali, lo stato della propria coscienza, la sorte delle anime, la condizione dei beati e dei dannati, il senso della storia, la Gerusalemme futura.

Forte nei profeti è la polemica contro la falsa sapienza, che allontana Israele dal suo Dio e seduce con le illusioni di dèi stranieri, gli idoli degli altri popoli. Non risulta che l’Israele veterotestamentario sia rimasto influenzato da forme panteistiche, che si sarebbero fatte sentire con lo gnosticismo cristiano dei primi secoli, provenienti dall’oriente.

Nei primi secoli a.C. appare un certo influsso del politeismo greco-romano. Gli dèi che seducono Israele sono rozze divinità connesse al piacere sessuale o al culto delle ricchezze. È presente la magia, connessa col culto di Satana, che è una piaga che accompagna tutta la storia dell’ebraismo fino ai nostri giorni con la massoneria esoterica. «Sarete come dèi» è la sottile tentazione del serpente edenico che seduce l’anima ebraica nei secoli[1].

Gesù inizialmente si manifesta come un rabbi, un maestro di buon senso e di sapienza umana. Da questo punto di vista, si potrebbe parlare di una metafisica di Gesù[2], ed anche, come ha fatto San Girolamo, di una logica di Gesù. Del resto, Giovanni non ha forse visto in lui il Logos? Forse che Gesù non c’insegna a ragionare rettamente, con coerenza, onestà, lealtà e limpidezza? Non è lui colui che ha detto che il nostro linguaggio dev’essere sì, sì, no, no?

Di che cosa Gesù rimprovera i farisei, se non di essere dei sofisti, come Aristotele faceva appunto con i sofisti? Ci rendiamo conto di quanto stolti e blasfemi sono coloro che sostengono che certe parole di Gesù sono contrarie alla ragione? Certe parole di Gesù possono a tutta prima apparire paradossali, ma se le consideriamo con attenzione e benevolenza, ci accorgiamo che sono improntate a infinita sapienza e infinito amore; esse scandalizzano gli ipocriti, non le persone oneste amanti della verità e della giustizia.

In sostanza, la sapienza d’Israele supera quella di tutti gli altri popolo ed Israele ne è ben consapevole perchè Dio stesso glielo ha rivelato. La sapienza ebraica è dunque superiore a quella di tutti gli altri popoli, compresi i greci, i romani, i persiani  e gli indiani.

Per quanto riguarda la sapienza greca, è quella che più di tutte si avvicina alla sapienza biblica. Per questo, soprattutto a partire dal sec. III a.C. si nota nei libri sapienziali una certa presenza ed assunzione della sapienza greca, mentre ne è respinto l’edonismo e il materialismo.

La sapienza ebraica è una sapienza dello Spirito

Israele è chiamato da Dio ad essere un popolo santo, un popolo di sacerdoti, un popolo regale e profetico, un popolo legislatore, un popolo di saggi, benché poi di fatto si mostri spesso un popolo infedele e ribelle, un popolo «dalla dura cervice», che Dio periodicamente richiama con avvertimenti o castiga perché si penta e si ravveda e torni a Lui. Lo castiga proprio perché lo ama e ci tiene che gli obbedisca.

Ideale del saggio ebreo è «conoscere la scienza dell’Altissimo» (Nm 24,16), ossia conoscere chi è Dio e possedere la stessa scienza divina. Il saggio israelita sa di poter sbagliare, ma proprio perché non dubita dell’esistenza della verità, conoscendo la quale è in grado di conoscere il suo errore e di correggersi.

La sfiducia di poter conoscere la verità, il dubbio sistematico o la orgogliosa pretesa di identificare la realtà con le proprie idee, ossia l’atteggiamento idealistico, difetti che si notano nei filosofi greci, pur in mezzo a tanti valori, sono   totalmente assenti ed anzi respinti e condannati dal saggio israelita, che è un perfetto realista, uno spirito limpido e onesto, alieno dalla doppiezza e dalla tortuosità, uno spirito che ha l’umiltà di riconoscere che se vuol conseguire la scienza e la sapienza, deve accogliere le cose come sono, giacchè non è lui a crearle col suo sapere, ma sono creature della divina sapienza. La fermezza e la sicurezza del saggio israelita nell’esprimere le sue sentenze e nel fare le sue affermazioni non viene da saccenteria o da presunzione, ma dalla certezza che gli dà la conoscenza della verità.

 Sommo suo desiderio è conoscere la verità su Dio. Dalla conoscenza di Dio sgorga altresì nel saggio il desiderio di comunicare al prossimo il suo sapere: «le labbra dei saggi diffondono la sapienza» (Pr 15,7).

I libri sapienziali, come per esempio i Proverbi, contengono molte massime di sapienza umana. Ma per il saggio israelita, conscio della fallibilità della sua ragione, la massima aspirazione è quella di ricevere da Dio stesso la sapienza hokmàh.

La Scrittura insegna l’esistenza di un mondo che trascende quello materiale e terrestre che cade sotto i nostri sensi, un mondo invisibile ai sensi, un mondo puramente intellegibile, ad esso superiore, dal quale questo mondo trae origine ed è governato, un mondo immensamente più prezioso di questo, un mondo dove troviamo la nostra piena felicità, senza per questo negare che anche il benessere fisico faccia parte della nostra felicità. È il mondo dello spirito, rappresentato dall’immagine del cielo. A questo mondo appartengono gli enti più importanti: Dio, gli angeli e le anime umane.

Sempre secondo la Scrittura, mentre Dio è Spirito infinitamente santo e per conseguenza lo Spirito del Signore, dono del Signore, è santo, gli spiriti creati si dividono in buoni e cattivi, spiriti celesti e spiriti diabolici. E così similmente ci sono anime sante e anime malvagie, anime beate e anime dannate.

Nell’Antico Testamento la sapienza viene presentata come un effluvio, un’emanazione di Dio, un dono dello Spirito di Dio, rùach Jahvè:

 «un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’onnipotente. … È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà. Sebbene unica, essa può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova attraverso le età, entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti» (Sap 7, 25-28).

 Per questo, il Messia è l’uomo di Dio sul quale si posa lo Spirito di Dio, che anzitutto è spirito di sapienza. Occorre allora che noi cristiani sappiamo mostrare ai fratelli ebrei che lo Spirito di Dio si è posato e si posa su Gesù e vi è rimasto conducendolo a compiere le sue opere divine. In Gesù dunque si realizza la profezia di Isaia:

«Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze  e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese. La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio. Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà» (11, 2-5).

Tuttavia è vero che nell’Antico Testamento la Sapienza di Dio ovvero lo Spirito di Dio non appare esplicitamente come Persona divina distinta da Dio. Questo noi cristiani lo riconosciamo francamente. Comprendiamo come agli occhi dei nostri fratelli ebrei questa idea di un Dio Spirito distinto da Dio padre e creatore abbia l’apparenza del diteismo, che sarebbe una bestemmia contro il monoteismo.

Eppure, se essi facessero attenzione a come si esprime la Scrittura, si accorgerebbero che essa non esclude la plausibilità della dottrina di Gesù sullo Spirito Santo come Persona divina. Infatti è vero che nell’Antico Testamento Dio appare come una persona e si presenta come unico vero Dio.

Come allora noi cristiani, senza negare e mantenendo che Dio è una persona ed ammettendo che non ci sono altri dèi al di fuori o alla pari di lui, siamo giunti ad ammettere in Dio tre Persone? Perché Gesù, da come si è presentato fra noi e da come ha parlato di Dio Padre e dello Spirito Santo, ci ha condotti a distinguere due modi di intendere la Persona divina: uno, nel senso dell’unità della natura divina. In questo senso esiste un’unica persona divina: Dio è uno solo e non ci sono altre persone divine oltre a lui.

Ma Gesù ci ha fatto capire che si può parlare di persona divina anche in un altro senso, così che non appaia blasfemo o idolatrico parlare di tre persone in Dio, come se Dio si moltiplicasse in tre dèi. Da come Gesù ha parlato dei suoi rapporti col Padre, abbiamo compreso, in base alla sua credibile testimonianza,  che Gesù è veramente Figlio di Dio non in un senso puramente creaturale, come troviamo nell’Antico Testamento, ma come vero e proprio Figlio di Dio, non creato ma generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio Figlio che procede da Dio Padre, uguale al Padre, della stessa sostanza del Padre, come ci siamo espressi al Concilio di Nicea del 325.

Una volta compresa questa verità, riflettendo su come parla Gesù dello Spirito Santo, abbiamo compreso altresì che questo Spirito Santo è una terza Persona divina, che procede dal Figlio e dal Padre. E così al Concilio di Costantinopoli del 381 abbiamo proclamato la divinità anche dello Spirito Santo.

Uno dei fondamenti per sostenere questa dottrina l’abbiamo trovato laddove, per esempio, Gesù, quando sta per lasciare gli apostoli per tornare al Padre, promette l’invio dello Spirito Santo con una precisa missione di completamento e compimento della sua opera:

«Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio. … È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia perché io vado al Padre e non mi rivedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato» (Gv 15, 26-27; 16, 7-11).

L’Antico Testamento rivela altresì che l’uomo alle origini ha peccato contro Dio e si trova in uno stato di miseria e di inclinazione al peccato, dalle quali da sé, per la sua debolezza, non può liberarsi. Ma Dio dopo il peccato dei progenitori, promette un Salvatore. L’uomo peccatore, dal canto suo, è debitore a Dio e non ha da pagare. Occorre un Redentore. L’uomo ha offeso Dio e deve espiare. Occorre un sacrificio cultuale sufficiente, tale da soddisfare al Padre per i peccati[3]. E questo è Gesù Cristo.

Gesù segno di contraddizione

Con la venuta di Gesù, come sappiamo, il popolo ebraico si divise tra i seguaci di Gesù che furono poi detti cristiani e gli oppositori, che lo consideravano un falso Messia. Nacque però sia fra i cristiani che fra gli ebrei anticristiani la volontà di approfondire gli insegnamenti sapienziali della Scrittura.

I cristiani aggiunsero gli scritti del Nuovo Testamento, soprattutto Paolo e Giovanni; gli ebrei si fermarono all’Antico Testamento, da loro considerato la vera rivelazione divina, mentre ritenevano il Nuovo Testamento come inquinato da  narrazioni false e pensavano che fosse un ingannevole lancio pubblicitario ad opera dei discepoli, di Gesù come Messia con l’attribuirgli titoli divini spropositati per convincere la gente a credere in lui.

Successivamente, parallelamente all’uso cristiano della filosofia greca e del diritto romano per interpretare la rivelazione biblica, sorse in Israele un’operazione simile riferita al solo Antico Testamento, per cui, accanto al Targum, alla Mishnà ed all’Halakà, il profetismo, il rabbinismo e i saggi d’Israele continuarono ad operare, servendosi anche loro della sapienza pagana, nella convinzione di essere loro gli autentici interpreti, contro i cristiani, della Parola di Dio.

Così, a partire da Filone nel sec. II,  Nacmanide e Mosè Maimonide nel Medioevo, Luria nel ‘500, Mendelssohn e Lessing nel sec. XVIII, Luzzatto e Benamozeg nell’’800, fino agli attuali Buber, Rosenzweig, Heschel, Scholem, Klausner, Fromm, Bloch, Scheler, Lévinas, Bergson, Simone Weil ed Etty Hillesum si è sviluppata una rigogliosissima filosofia ebraica[4], estremamente vivace, avventurosa, inquieta, a volte geniale, affascinante, entusiasta e profonda, ma fra la religione e l’empietà, tra l’utopia e il realismo, tra il dubbio e la certezza, fra la Bibbia e le filosofie pagane, oscillante fra teismo, ateismo, panteismo, magia e mistica. L’ebraismo di questi ultimi secoli è contaminato spesso dal razionalismo cartesiano e dall’idealismo tedesco, come vediamo in Spinoza, Mosè Mendelssohn, Lessing, Marx, Scheler, Freud, Marc Bloch, Eric Fromm ed Husserl.

La filosofia cristiana, al contrario, segue una storia più serena, lineare e coerente, fondata sul solido della Parola di Dio e della sana ragione, attenta sì alla filosofia pagana, ma a patto che si concili con la verità di fede. Comprende sì varie scuole e tendenze, ma senza mai cadere negli eccessi dell’ateismo o del panteismo.

La filosofia cristiana e la stessa fede cristiana tuttavia conobbero una grave prova con Lutero, che esaltatosi per una supposta visione di Cristo che gli avrebbe rivelato che si sarebbe comunque salvato, s’immaginò di essere il puro araldo e riflesso della sapienza biblica, uomo dello Spirito Santo, esentato, quindi, dall’uso della sapienza umana filosofica, della quale aveva altero disprezzo  col pretesto che per capire la Scrittura occorre la fede e col pretesto della fallibilità della ragione, del suo orgoglio e delle conseguenze del peccato originale.

Ma siccome nella nostra vita non possiamo fare a meno di usare la ragione, l’accanirsi contro la ragione con la pretesa che la fede supplisca ad una ragione totalmente corrotta, non porta se non ad un cattivo uso della ragione. Tanto vale allora mettersi di buon impegno nell’educare e disciplinare la propria ragione sul cammino della verità. Solo così poniamo le condizioni intellettuali e morali per accedere alla vera fede in Dio e in Cristo.

Lutero, invece, a seguito della sua pretesa visione, s’illuse di essere permanentemente e direttamente illuminato dalla Parola di Dio facendo a meno della ragione, quasi egli fosse uno spirito puro, soprattutto la ragione aristotelica, che viceversa la Chiesa raccomandava nella sua purificazione fattane da San Tommaso.

Ma siccome evidentemente chiunque di noi animali ragionevoli non può accostarsi al testo biblico e capirlo senza far uso della ragione, anche lui obbligato ad usare la ragione e non curandosi di purificarla, interpretò, per sua stessa confessione, la Scrittura facendo uso della filosofia di Ockham, con i risultati noti a tutti noi.

Nel sec. XIX il luterano Hegel tentò bensì, per sua espressa dichiarazione, di dare basi razionali alla sua fede luterana, ma tutto quello che riuscì a fare, partendo dal cogito cartesiano, fu di risolvere la fede nella ragione e di sostenere il primato della filosofia sulla religione riesumando lo gnosticismo cristiano dei primi secoli.

Viceversa, come è noto, San Tommaso, per interpretare il dato rivelato ha usato il meglio che offriva la sapienza pagana, e pertanto ha usato provvidenzialmente la filosofia di Aristotele, e quanto Platone poteva offrire alla spiritualità, con grandi vantaggi per la fede e con piena cognizione di causa, sicchè egli non ha affatto piegato i concetti biblici ad una filosofia ad essi estranea, come credeva Lutero, ma ci ha mostrato come essi confermino, superino, correggano e migliorino la luce e la forza della pensare umano e quindi come la scienza, la logica e la ragione siano in armonia con la fede.

Chi s’accosta al testo biblico senza presupporre una sufficiente educazione e formazione della sua ragione, ma pretendendo di essere immediatamente illuminato dalla Parola di Dio, come credeva Lutero, non s’impossessa di questa Parola nella sua purezza, ma in realtà la inquina consciamente o inconsciamente con i suoi falsi pregiudizi.

Infatti noi non possiamo accostarci al testo biblico saltando la ragione o senza far uso della nostra ragione. L’accostarsi al testo biblico sulla base di presupposti razionali extrabiblici non pregiudica affatto la retta interpretazione della Scrittura, ma ne pone le necessarie condizioni di possibilità.

Non è che nell’accostarci alla verità rivelata noi dobbiamo accantonare la ragione o dobbiamo partire da zero. Ciò non è neppure possibile neanche se lo volessimo. Noi possiamo invece e dobbiamo partire da verità di ragione già conosciute, verità morali e teologiche naturali che confermiamo, accresciamo ed aumentiamo con l’accoglienza della verità di fede. Se non vogliamo rinunciare alla nostra dignità e responsabilità di soggetti pensanti, non possiamo non usare la ragione. Dunque tanto vale che abbiamo cura di far uso di una ragione purificata, per non sporcare quello che tocchiamo, oltre al fatto che anche la verità rivelata purificherà la nostra ragione.

Il valore dell’autocoscienza nella Scrittura

Nozione importantissima che ci è fornita dalla sapienza biblica è quella dell’io, nozione che formiamo e designiamo con questo termine, quando, avendo preso coscienza della nostra persona, ne facciamo oggetto della nostra attenzione o della nostra considerazione e ci accorgiamo che essa non si fonda su se stessa, ma è creata da Dio, la cui esistenza scopriamo interrogandoci sulla causa prima delle cose, del mondo, degli altri e di noi stessi, sicchè non possiamo arrivare a questa autocoscienza se non abbiamo precedentemente contattato la realtà esterna, giacchè la coscienza del nostro io l’otteniamo riflettendo sui contenuti della nostra coscienza tratti dalla conoscenza della realtà esterna.

L’io biblico non è l’io cartesiano solitario ed assoluto, che esiste per conto proprio e pone se stesso originariamente ed indipendentemente dalla previa esperienza delle cose esterne, un io dotato originariamente dell’idea di Dio, che gli rivelerebbe la propria esistenza senza che la sua esistenza sia dimostrata partendo dalle creature, e gli garantirebbe che le idee che ha delle cose corrispondono a cose effettivamente fuori di lui.

Un io di questo genere, che mescola l’io umano con l’io divino, è nettamente rifiutato dalla Scrittura, la quale nell’ambito della nozione analogica dell’io come nome per designare la coscienza di sé, distingue l’io umano, che è il mio io di creatura, fallibile e peccatrice, dall’io divino, che è quell’Io assoluto e creatore, al quale Dio pensa, quando mi parla di sé.

L’io infatti si relaziona al tu sia nell’uomo che in Dio. Io mi relaziono al Tu divino come dipendente dal Tu divino. L’Io divino si relaziona a me sicchè io per Lui sono un tu, che dipende da questo Io. I Salmi, Giobbe e Kohelet sono esempi eminenti di questo dialogo tra l’io umano e l’Io divino, col Tu divino e col tu umano. Su questa tematica Martin Buber ha detto cose interessanti.

Per la Scrittura, mettendomi davanti a Dio, distinguo la mia volontà, effetto del mio io, dalla volontà del Tu divino e, se sono tentato di peccare, sono in dovere di dire come Gesù al Padre: «non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Riflettendo sul mio io, prendo coscienza sia delle opere buone compiute e sia dei miei peccati, sia delle mie qualità che dei miei difetti, sia dei miei bisogni che dei miei doveri verso Dio, il prossimo e il mondo.

Il Salmista, nel momento in cui pensa alla propria salvezza personale, pensa anche a quella del suo popolo. Non è l’uomo che bada ai propri interessi e se ne infischia di quelli comuni: i due interessi sono inscindibilmente connessi. Il suo io personale si allarga all’io del popolo; non sa vedersi se non come membro del popolo. Il pensiero dei suoi peccati è inscindibilmente connesso con il pensiero dei peccati del suo popolo; i peccati del popolo sono anche i suoi peccati. Non si sentirebbe salvo se il popolo non si salvasse; non saprebbe curare la propria salvezza senza curare quella del suo popolo.

«Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi. Nel tuo amore, fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme. Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione, allora immoleranno vittime sopra il tuo altare» (Sal 50. 19-21).

Questa inscindibile connessione tra il proprio io e l’io collettivo del popolo è supremamente presente nell’io del Messia, tutto votato alla salvezza del popolo. Il Messia non ha peccati propri da scontare; è un «mite agnello condotto al macello» (cf Is 53,7); è un innocente «tolto di mezzo con ingiusta sentenza» (v.8). La sua preoccupazione è solo quella di offrirsi per i peccati del popolo. Lui, innocente, fa proprio l’io peccatore del popolo.

Il vertice di questo io messianico sarà lo stesso io di Gesù: l’io innocente raggiunge il vertice dell’innocenza nel fatto di essere addirittura il Figlio di Dio, mentre la dedizione al proprio popolo raggiunge parimenti il vertice nel fatto che Gesù sacrifica la vita per la redenzione d’Israele. Dunque Gesù ha due io? Certamente. Ha un io umano e in io divino, in forza delle due nature nelle quali sussiste la sua persona divina. Quando dunque Gesù dice «io» ora si riferisce alla sua umanità, come quando per esempio dice sulla croce «ho sete»; ora invece si riferisce alla sua divinità, come quando dice: «Io Sono»[5]. 

Fine Terza Parte (3/4)

Padre Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 marzo 2023

Solennità di San Giuseppe

La Scrittura insegna l’esistenza di un mondo che trascende quello materiale e terrestre che cade sotto i nostri sensi, un mondo invisibile ai sensi, un mondo puramente intellegibile, ad esso superiore, dal quale questo mondo trae origine ed è governato, un mondo immensamente più prezioso di questo, un mondo dove troviamo la nostra piena felicità, senza per questo negare che anche il benessere fisico faccia parte della nostra felicità. È il mondo dello spirito, rappresentato dall’immagine del cielo. A questo mondo appartengono gli enti più importanti: Dio, gli angeli e le anime umane.

 

Sempre secondo la Scrittura, mentre Dio è Spirito infinitamente santo e per conseguenza lo Spirito del Signore, dono del Signore, è santo, gli spiriti creati si dividono in buoni e cattivi, spiriti celesti e spiriti diabolici. E così similmente ci sono anime sante e anime malvagie, anime beate e anime dannate.

San Tommaso, per interpretare il dato rivelato, ha usato il meglio che offriva la sapienza pagana, e pertanto ha usato provvidenzialmente la filosofia di Aristotele, e quanto Platone poteva offrire alla spiritualità, con grandi vantaggi per la fede e con piena cognizione di causa, sicchè egli non ha affatto piegato i concetti biblici ad una filosofia ad essi estranea, come credeva Lutero, ma ci ha mostrato come essi confermino, superino, correggano e migliorino la luce e la forza della pensare umano e quindi come la scienza, la logica e la ragione siano in armonia con la fede.

Immagini da Internet: Beato Angelico




[1] Vedi per esempio di Erich Fromm, Sarete come dèi, Ubaldini Editore, Roma, 1970.

[2] Come ho fatto io nel mio libro Gesù Cristo fondamento del mondo Inizio, centro e fine del nostro umanesimo integrale, Edizioni L’Isola di Patmos, Roma 2019, dove appunto presento gli insegnamenti di Cristo che attengono alla metafisica e alla logica.

[3] Noi cristiani, riflettendo soprattutto sulla Lettera agli ebrei, cioè indirizzata proprio a voi, fratelli ebrei, abbiamo capito che Gesù è stato veramente quel sacerdote che ci voleva e che il suo sacrificio è stato veramente efficace per togliere i peccati, perché Egli è il Figlio di Dio incarnato. Vedi il mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004; cf anche C.V.Héris, Il mistero di Cristo, Morcelliana, Brescia 1938.

[4] Cf Massimo Giuliani, La filosofia ebraica, Morcelliana, Brescia 2017.

[5] Vedi L’io di Cristo di Pietro Parente, Istituto Padano di Arti grafiche, Rovigo 1981.

3 commenti:

  1. Caro padre, buongiorno.
    Rileggendo il suo articolo sull'identità del popolo ebraico, così denso di sani suggerimenti per l'opera tanto necessaria del dialogo interreligioso, mi sono chiesto se qualche suo passaggio in questa terza parte non richieda forse un maggiore equilibrio di giudizio.
    Contrasti la filosofia che si è sviluppata tra gli ebrei con la filosofia cristiana. Quella del primo, con i suoi fitti e anarchici chiaroscuri, al punto da dialogare con posizioni teiste, atee, panteiste, magiche e mistiche, citando come suoi esponenti una serie di figure che includono Marx, Scheler, Freud, Bloch, Fromm, Husserl , ecc
    Il contrasto con la filosofia cristiana che fai subito mi sembra eccessivo o almeno un po' squilibrato, perché capisco che si riferisci a quella che è stata chiamata "filosofia cristiana", propriamente parlando, ad esempio come la chiami e la descrivi in ​​Maritain il suo famoso libretto (anche Derisi ha un libretto simile).
    Ma la filosofia di esponenti che hanno radici cristiane (in senso lato) ha sofferto anche di posizioni teiste, atee, panteiste, magiche e mistiche...
    In altre parole, mi sembra che in questo paragone lei prenda l'ambito di "filosofia ebraica" in senso molto ampio (basta tener conto degli esponenti che ho copiato dal suo testo), mentre il senso di "filosofia cristiana", la prendi in un senso molto più ristretto.
    Insomma, è un piccolo fatto che continua a farmi "rumore" nella coerenza generale dell'intero testo del suo articolo.

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    1. Caro Ross,
      il mio intento nel confrontare la filosofia cristiana con quella ebraica, è stato quello di prendere in considerazione un modello di filosofia cristiana. Lo so benissimo che anch’essa, nella sua storia, è stata contaminata da molti influssi estranei, ma mi sono proposto di tacere su queste cose.
      Per quanto riguarda la filosofia ebraica, l’elemento unificante, come si può ben comprendere, è il riferimento alla Scrittura, accompagnato con quello della Kabbala, del Talmud e del Targum. Tuttavia la storia di questa filosofia registra molteplici influssi estranei, che vengono quasi a distruggere completamente il patrimonio tradizionale. Ciò nonostante anche i pensatori ebraici, addirittura atei, è possibile trovare qualche traccia del dato biblico. Per esempio Freud fa riferimento alla figura di Dio Padre, mentre Marx ha qualche affinità col profeta Isaia.

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    2. Grazie, caro padre, per il suo chiarimento.

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