Il Male - Parte Quinta (5/5)

 Il Male

Parte Quinta (5/5) 

          L’azione divina in vista della conversione è totale e incondizionata. Dio non solo aiuta con il concorso simultaneo[1] coloro che si convertono a lui, ma previene la loro stessa conversione e la opera in loro con somma efficacia e determinazione senza danneggiare però la natura dell’atto umano volontario e libero. Per quanto riguarda invece l’allontanamento da Dio, esso è un inizio assoluto senza nessun influsso previo da parte di Dio: la sua causalità (che poi è puramente negativa) è tutta dalla parte dell’uomo. L’azione divina con cui il Signore punisce il peccatore segue il peccato stesso ed è condizionata da esso. La salvezza si ottiene per mezzo della fede e della carità, cioè per mezzo di virtù infuse, e perciò la salvezza presuppone un’azione divina positiva nell’uomo, dalla quale segue poi l’atto umano, il quale procede dalle facoltà dell’anima perfezionate dalle virtù infuse.

          La dannazione invece suppone la colpa, la quale a sua volta è una privazione e perciò non aggiunge niente, ma toglie piuttosto qualcosa. Così l’atto umano peccaminoso, il consenso stesso nel peccato, è causato soltanto dall’uomo[2] La dottrina sulla duplice predestinazione sorge spesso dall’ignoranza della distinzione tra prescienza e predestinazione. Se il termine “predestinazione” viene usato indistintamente per un qualsiasi decreto, sia incondizionato che condizionato da parte di Dio, allora si può senz’altro sostenere che i reprobi sono “predestinati” alla dannazione. In nessun modo però vi è una predestinazione al peccato, perché il male di colpa non è voluto da Dio in nessun modo, ma è soltanto permesso.

          Nella prospettiva agostiniana la radice di ogni peccato è la superbia e a causa di essa i reprobi sono destinati alla dannazione, ma non al peccato. La superbia è precedente rispetto al decreto della riprovazione e per conseguenza la stessa riprovazione non è incondizionata come lo è invece la predestinazione vera e propria. Dio non è in nessun modo autore del peccato e per conseguenza non vuole il peccato né può “predestinare” ad esso. Lo stesso decreto di riprovazione non è direttamente causa della dannazione come la prescienza del peccato non è causa della colpa. I dannanti si dannano a causa del loro peccato, non a causa del decreto divino. Hanno scelto il male con il loro libero arbitrio e non a causa della prescienza divina[3].

          Dio permette soltanto la colpa e vuole punirla, ma solo “dopo” la sua previsione. Vuole invece conferire la grazia e la gloria senza previsione di meriti. Siccome non si distingue ancora tra predestinazione incondizionata e la volontà di punire condizionata dalla colpa precedente, la terminologia sembra voler affermare una duplice predestinazione: quella incondizionata alla salvezza e quella condizionata alla riprovazione, mentre il peccato è oggetto soltanto della prescienza.

          Già S. Agostino pone molto esplicitamente il problema della causalità divina rispetto al peccato. Secondo lui la scienza divina è strettamente legata alla causalità: Dio conosce le cose perché ne è la causa. Considerando però il problema del male, ci si sente costretti a introdurre una distinzione tra prescienza e causalità.  Dio infatti preconosce il male senza causarlo. La soluzione agostiniana rimane incompleta[4], soprattutto per quanto riguarda la prescienza del peccato in concreto, il quale non può essere causato da Dio perché così Dio sarebbe l’autore del male, ma allo stesso tempo deve esserlo perché la conoscenza divina suppone la causalità[5], né basta dire che Dio raggiunge il peccato con la sua volontà di sottrarre la grazia al peccatore, perché tale volontà presuppone già la conoscenza della colpa in particolare come realmente futura ed inoltre la semplice sottrazione della grazia causa il peccato in genere, ma non lo raggiunge nel suo essere proprio che è quello di un’azione particolare e concreta[6].

          Vi sono quindi due esigenze: quella di far dipendere tutti gli avvenimenti reali, anche contingenti e futuri, dalla causalità divina e quella di sottrarre ad essa il male di colpa. San Tommaso, fondandosi sui principi della metafisica aristotelica, saprà completare sostanzialmente la soluzione agostiniana che gli serve come valido punto di partenza. La scuola tomista bagneziana, sentendo molto il bisogno della dipendenza causale di ogni ente da Dio e della fondazione della scienza di visione (distinta da quella di semplice intelligenza che riguarda solo i possibili) nella causalità divina, cercherà in seguito di far vedere sotto quale aspetto il peccato si sottomette e sotto quale aspetto invece si sottrae alla causalità divina.

          Il molinismo invece, preoccupato di escludere da Dio ogni sospetto di essere all’origine del male di colpa e insistendo sullo stretto legame psicologico tra l’atto umano e il disordine morale ivi incluso, cercherà di distinguere non nell’atto umano tra il suo aspetto fisico e morale, ma piuttosto nella scienza divina introducendo il concetto della scienza media[7], la quale riguarderebbe specificamente i futuri contingenti e in modo particolare i peccati futuri, che poi avrebbe in comune con la scienza di visione la caratteristica di essere di cose reali, anche se future, e non di cose soltanto possibili, ma allo stesso tempo avrebbe in comune con la scienza di semplice intelligenza il fatto di non supporre una causalità previa riguardo al suo oggetto.

          Non v’è nessun dubbio che la soluzione bagneziana sia più fedele alla mente dell’Aquinate, il quale insiste sulla causalità divina universale rispetto a ogni ente reale e collega la scienza divina con la causalità anche per quanto riguarda la stessa conoscenza dei possibili, “causati” da Dio non come realmente esistenti, ma come enti in potenza, i quali, pur essendo potenziali, sono degli enti e non un puro nulla. E’ ovvio che la causalità divina riguarda diversamente l’essenza potenziale e l’essenza attuata dall’essere reale, ma in entrambi i casi si avverte il bisogno di una certa dipendenza da Dio come causa prima. 

          Vediamo ora in breve la soluzione di S. Tommaso e la disputa che ne è seguita. SAN  TOMMASO afferma che in genere ogni agente intende come fine il bene, mentre il difetto ne segue accidentalmente, al di fuori dell’intenzione dell’agente. Qui però bisogna distinguere bene tra il male di natura e il male risultante da un atto umano. Il male di natura può avere una causa nell’ordine della stessa finalità intesa, in quanto cioè il fine voluto esclude un altro fine incompatibile con esso. Così la forma del fuoco espelle quella dell’aria. Vi può essere inoltre una indisposizione da parte della materia e così avvengono nei fenomeni naturali dei parti mostruosi, oppure nell’ambito dell’arte dei prodotti scadenti a causa della materia difettosa.

          Finalmente il difetto può essere causato da un agente strumentale deficiente, come il passo zoppicante è causato da una gamba storta. Nei mali di colpa bisogna escludere il difetto da parte della materia, perché gli atti umani procedenti dalla deliberazione della ragione non sono azioni formalmente transitive, bensì azioni immanenti, perfezionanti lo stesso agente, che ne è anche il soggetto. Rimangono pertanto due possibilità di concepire il male morale: negli atti deliberati, formalmente peccaminosi, il difetto avviene da parte dell’intenzione del fine; la scelta di un fine ultimo in concreto esclude la compresenza di un altro fine ultimo concreto nell’intenzione dell’agente.

Aderire con deliberazione in modo disordinato ad un bene particolare implica sempre l’allontanamento da Dio, vero fine ultimo. Gli atti non deliberati come i primi moti di sensualità, non hanno ragione di colpa, ma piuttosto di pena, e la loro causa dev’essere ricercata nel difetto dello strumento, che in questo caso è costituito dalle potenze inferiori dell’anima, le quali agiscono come strumenti della ragione e della volontà. In entrambi i casi il difetto morale, sia come colpa, sia come pena, è causato dal difetto di un agente causale secondo[8], sia per un’errata scelta deliberata del fine ultimo, sia per un difetto di ordine nelle potenze inferiori dell’anima.

L’agente secondo in se stesso, sia la ragione e la volontà, sia le potenze inferiori, è buono e il difetto ne segue accidentalmente. Da Dio invece il difetto non segue in nessun modo, perché la causa prima di tutti i beni non può essere causa del difetto di un bene nemmeno per la sua assenza, in quanto il sommo bene è sempre presente, né conosce il cambiamento dalla presenza in assenza[9]. Dio è sempre presente, cioè non si sottrae completamente a nessuno, non abbandona del tutto nessuno[10]. Perciò ogni uomo, anche il peccatore, può in ogni momento evitare il male particolare, perché Dio lo assiste sufficientemente.

Per allontanare da Dio ogni causalità del male di colpa il Santo Dottore afferma con parole assai esplicite l’esistenza di quella che si può chiamare grazia sufficiente. Per spiegare poi il male di colpa, insiste nella distinzione tra male naturale[11] e male morale ed esclude per quest’ultimo la causalità materiale, in quanto un’azione immanente non agisce su di una materia esterna[12]. Il male morale come pena ha la sua causa o nello stsso paziente o in un agente esterno; come colpa invece ha la sua causa esclusivamente nel difetto dell’intenzione del fine.

Questo perché la colpa consiste formalmente nella deliberazione e nell’elezione della volontà libera di un fine ultimo disordinato senza che vi sia, nella colpa stessa, una causalità precedente, che potrebbe determinare la volontà ad agire male, anche se la mancanza della rettitudine nella parte appetitiva dell’anima causa per qualche inclinazione l’errore nella scelta della ragion pratica corrompendo, almeno parzialmente, la prudenza.

In se stessa la colpa non suppone un male dell’agente, ma un male dell’azione (che è nell’intenzione dell’agente come suo fine), anche se il male dell’azione avrà per conseguenza il male dell’agente che è il male di pena e in quest’ultimo è incluso anche il disordine delle potenze dell’anima come difetto sul piano dell’azione. Interessante è come la volontà appare in questa considerazione come qualcosa di assolutamente primo rispetto alla causalità dell’atto umano moralmente disordinato.

Ma l’Aquinate si chiede ulteriormente se l’atto peccaminoso non potrebbe avere una causa per se e introduce una distinzione molto importante per la scuola tomista tra l’atto fisico del peccato e il suo disordine morale. Come atto, anche il peccato ha una causa per se; come disordine invece può avere un duplice tipo di causa: sia la negazione semplice di una causa, dalla quale poi proviene la negazione dell’ordine nell’atto peccaminoso, sia l’intenzione disordinata che esclude l’ordine al vero fine ultimo. La negazione della causa basta per fondare la negazione dell’effetto, ma non basta per fondare la privazione dell’effetto in un soggetto a cui l’effetto è dovuto[13].

Bisogna perciò ricorrere all’altra causa che è l’intenzione disordinata dell’agente libero, il quale è causa accidentale e deficiente del male di colpa consistente formalmente nella privazione dell’ordine dovuto alla norma della legge e per conseguenza a Dio, fine ultimo, della cui volontà la legge è un’espressione autorevole. Ora ogni causa per accidens si riduce ad una causa per se e perciò è la stessa volontà umana che, causando l’atto umano, causa accidentalmente, per difetto, anche il suo disordine morale.

La volontà disordinata causa per se l’atto del peccato e per accidens il male morale ivi racchiucluso. [14]La volontà causa per se l’atto del peccato e solo per accidens il suo disordine morale. Siccome poi solo il bene ha una causa per se, bisogna dedurne che l’atto fisico del peccato è un ente e un bene[15] e per conseguenza può e deve essere ricondotto a Dio come alla sua causa prima. Il disordine morale invece è solo una privazione dell’ente e del bene ed ha soltanto una causa per accidens, che è esclusivamente la volontà umana come causa deficiente assolutamente prima. Sarà proprio questa la distinzione fatta dai tomisti per spiegare come l’atto peccaminoso come atto dipende da Dio, causa prima, mentre il disordine morale compreso nello stesso atto, non dalla parte dell’oggetto, bensì dalla parte del soggetto che è la volontà, ha una unica causa prima deficiente nella volontà libera creata.  

          Bañez distingue tra la moralità specifica dell’atto peccaminoso e la sua naturalità fisica. Vi sono anche degli aspetti morali che a loro volta rientrano nell’entità naturale dell’atto peccaminoso: la stessa ripugnanza oggettiva tra la norma della legge e il contenuto oggettivo dell’atto morale appartiene all’atto come sua qualità “naturale”. Rispetto alla scelta libera della volontà, cioè da parte del soggetto, la moralità specifica acquista un’altra dimensione, che non si può dire strettamente fisica e sotto questo aspetto la malizia formale dell’atto peccaminoso non è qualcosa, ma la privazione di un ente e di un bene e così non ha una consistenza reale, ma esiste solo secondo la considerazione della ragione come privazione dell’ordine dovuto.

          Dio raggiunge con la sua causalità previa e predeterminante (premozione fisica) tutto ciò che vi è di entità reale e fisica nell’atto del peccato, compresa la contrarietà oggettiva rispetto al bene dovuto in quanto è una relazione reale, un ente predicamentale, accidentale, ma attualmente esistente. La contrarietà morale invece non è direttamente sottomessa alla volontà e all’azione causale divina, ma è da attribuirsi unicamente al difetto del libero arbitrio che era tenuto ad operare in conformità alla regola della ragione.

           La conversione ad un oggetto moralmente disordinato è da attribuirsi alla volontà deficiente come anche l’avversione nei confronti alla legge divina. La moralità dell’atto disordinato non è causata da Dio, perché Dio non è tenuto a non concorrere per mezzo della premozione fisica ad un tale atto e per conseguenza la sua azione si limita agli effetti fisici e comunque “naturali”, cioè oggettivi, non alla moralità considerata dalla parte del soggetto libero dell’azione peccaminosa.

          Il bene e il male si oppongono in materia morale, ma la loro opposizione non è formalmente “morale”, perché non dipende dal libero arbitrio, bensì dalla stessa natura oggettiva degli atti specificati da tali oggetti; è invece morale, in quanto ha il suo luogo tra due atti umani procedenti dalla volontà libera. L’oggetto stesso della conversione disordinata della volontà a un bene particolare è un ente e un bene ed è voluto dalla volontà per se, mentre la privazione della rettitudine non è intrinseca all’oggetto ma lo segue, e perciò non è nemmeno direttamente voluta, ma scelta per accidens dalla volontà umana e soltanto permessa dalla volontà divina[16].

            Basta leggere San Tommaso per accorgersi come è legittima questa esigenza di Bañez e come corrisponde alla mentalità metafisica dell’Aquinate. La trascendenza della volontà divina implica infatti che Dio è la causa di ogni ente come ente, diffondendo la sua azione su tutto l’ente e su tutte le sue differenze, compresa quella della necessità e della contingenza[17]. Se poi ogni ente dipende da Dio, allora anche l’atto del peccato, il quale è ovviamente un ente reale, dipende da Dio, non secondo tutto se stesso, bensì secondo tutto ciò che vi è di reale in esso. Ora, solo il difetto morale come pure la privazione dell’ordine dovuto da parte del soggetto, è un non-ente reale e come tale può e deve sottrarsi alla volontà e all’azione divina[18]  .

            L’argomento vale però soltanto se si riesce a staccare la moralità dell’atto dal suo aspetto “naturale”. La mozione divina riguarda allora l’entità naturale dell’atto peccaminoso senza causare il disordine formalmente morale imputabile unicamente alla volontà deficiente. La causa prima premuove le azioni delle cause seconde fisicamente e quindi riguarda esclusivamente l’entità “naturale” dell’atto e non già la sua qualifica strettamente morale.

La moralità infatti è definibile soltanto per una relazione alla norma della legge e per conseguenza un agente che non è tenuto alla norma agisce al di fuori della moralità. Ma Dio nella sua causalità “fisica” non è sottomesso ad una norma morale; è la volontà libera che è tenuta a rispettare l’ordine della legge e per conseguenza il bene e il male morale riguarderanno la volontà creata nella sua scelta, non già l’azione divina in essa.

La premozione si limita ad applicare la facoltà operativa all’atto secondo indipendentemente dalla qualifica morale dell’atto stesso. Se la facoltà possiede in pieno i principi operativi dovuti, l’effetto sarà buono, nel caso contrario sarà cattivo. Il male non potrà però essere imputato che alla facoltà e al suo soggetto, non alla causa prima che la premuove sia nell’ordine naturale, sia, per mezzo della grazia efficace, nell’ordine soprannaturale[19]. Per illustrare questo stato di cose si cita l’esempio di una gamba storta che causa lo zoppicare, che non si può ridurre al principio proprio della mozione. Ovviamente il male fisico non priva il bene semplicemente, ma solo sotto un determinato aspetto e perciò anche se non può essere causato dalla causa principale seconda, bensì soltanto dallo strumento, il difetto nell’azione risultante rientrerà nei suoi attributi reali e così sarà riducibile alla causa assolutamente prima, mentre il peccato come male di colpa formalmente morale è un male semplicemente e quindi in nessun modo può essere ricondotto a Dio come alla sua causa.

          Se si dice che il concorso divino non è qualificato moralmente, ma la qualità morale dell’atto dipende piuttosto dalla facoltà libera, potrebbe sorgere l’impressione che vi sia un concorso divino neutro, esclusivamente simultaneo, il quale prende una determinata direzione soltanto dalla decisione della volontà. Una tale concezione coinciderebbe con il molinismo. Ora, i tomisti precisano che se la causalità divina agisce solo per un influsso universale, questo non vuol dire che sia indifferente e susseguente la decisione della nostra volontà.

La premozione è buona, ma diventa occasione del male per la nostra volontà deficiente, ed è anche previa riguardo all’atto del peccato, continuando però ad esercitare il suo influsso per mezzo di un concorso simultaneo adeguato. Riguardo all’entità dell’atto peccaminoso l’azione divina è positiva; riguardo invece alla deliberazione e alla scelta precedente è soltanto permissiva. Così la premozione divina all’atto del peccato è allo stesso tempo positiva (rispetto alla sua realtà fisica) e permissiva (rispetto alla privazione del dovuto ordine morale)[20].

L’azione divina che muove l’entità “naturale”, materiale, del peccato è quindi previa e positiva rispetto all’atto fisico del peccato, ma è soltanto permissiva e conseguente rispetto alla moralità del medesimo atto. La determinazione da parte di Dio è quindi incondizionata, ma è anche, sotto un certo aspetto, condizionata. Certi tomisti, come ad esempio Marin-Sola[21], si sforzano di attenuare il carattere incondizionato della determinazione all’entità fisica e “materiale” del peccato, mettendo in risalto che la previsione della determinazione della volontà al formale del peccato precede e quindi condiziona la predeterminazione all’atto fisico.

Così la volontà divina sarebbe, in questo caso, a sua volta determinata dalla volontà umana e in questo senso Dio premuoverebbe all’entità “naturale” del peccato, quasi contro la sua volontà e come costretto e coatto dalla nostra stessa volontà. Ovviamente un tale modo di parlare lascia perplessi, se non si capisce in che modo Dio “determina” e in che modo invece è “determinato”. Il peccato agisce sulla sua volontà condizionandola non in quanto è realmente, ma in quanto è previsto dall’eternità e nella stessa previsione la parte propriamente “condizionante” non è l’entità fisica del peccato previsto come futuro, bensì la sua moralità formale risultante da una disordinata autodeterminazione del libero arbitrio.

Ora, nel peccato stesso il contenuto morale è come “avvolto” nell’entità fisica dell’atto reale e concreto, né si può parlare, sul piano della realtà concreta e fisica, di una moralità o di un disordine morale esistente al di fuori di un atto fisico concreto sia solamente interno, sia anche esterno, sia positivo, sia negativo (omissione). Perciò sul piano fisico lo stesso disordine morale è in qualche modo incluso nell’atto del peccato, mentre sul piano strettamente morale il disordine morale formale si può isolare dall’atto concreto del peccato e così è l’oggetto della previsione. La moralità dell’atto umano ha un’esistenza intenzionale nel soggetto libero, la quale però a sua volta esiste realmente nell’atto fisico del peccato.

A cura di P. Giovanni Cavalcoli, OP

Fontanellato, 2 Gennaio 2023

Aderire con deliberazione in modo disordinato ad un bene particolare implica sempre l’allontanamento da Dio, vero fine ultimo.

Gli atti non deliberati, come i primi moti di sensualità, non hanno ragione di colpa, ma piuttosto di pena, e la loro causa dev’essere ricercata nel difetto dello strumento, che in questo caso è costituito dalle potenze inferiori dell’anima, le quali agiscono come strumenti della ragione e della volontà.

In entrambi i casi il difetto morale, sia come colpa, sia come pena, è causato dal difetto di un agente causale secondo, sia per un’errata scelta deliberata del fine ultimo, sia per un difetto di ordine nelle potenze inferiori dell’anima.

 

L’agente secondo in se stesso, sia la ragione e la volontà, sia le potenze inferiori, è buono e il difetto ne segue accidentalmente. 

Da Dio invece il difetto non segue in nessun modo, perché la causa prima di tutti i beni non può essere causa del difetto di un bene nemmeno per la sua assenza, in quanto il sommo bene è sempre presente, né conosce il cambiamento dalla presenza in assenza. Dio è sempre presente, cioè non si sottrae completamente a nessuno, non abbandona del tutto nessuno. Perciò ogni uomo, anche il peccatore, può in ogni momento evitare il male particolare, perché Dio lo assiste sufficientemente.
 

Immagini da Internet:
- Volti (Caravaggio)
- Volti (Opere di misericordia, Caravaggio) 


[1] Simultaneo nel senso che la grazia agisce simultaneamte all’atto del libero arbitrio+.

[2] MAURUS RABANUS, Epistola IV ad Hincmarum Rhemensem, MPL 112, 1520 D: “Hoc autem praedestinavit, ut haberet potestatem filius Dei fieri omnis qui credere voluisset in ipsum; quia nemo filius Dei fieri potuit, nisi fidem et charitatem quae per dilectionem operatur, habeat. Idcirco non est Deo, qui salutis humanae et bonorum omnium auctor est, seductio hominis et deceptio deputanda, per quam in mortem cadat perpetuam; sed magis sibimetipsi, qui propriae concupiscentiae, vel diaboli suggestioni consentiens, peccatum committit, nec inde condignam poenitentiam ante obitum agere voluerit”.

[3] RATRAMNUS, De praedestinatione, lib.II; MPL 121, 48 C-D: “Nullus proinde humanae culpae in Deum referas causam; vitiorum namque omnium humanorum causa superbia est. Hac sententia ostendit venerabilis Augustinus malos propter iniquitatem superbiae damnationi praedestinatos, non autem ad peccatum: quoniam peccatum non est ex Deo … At vero malorum sicut non est auctor, ita nec praedestinator”. Cfr. ibid. col 79 A: “Non tamen idcirco quia praedestinati, propterea damnandi, sicut non propterea mali futuri sunt, quia hoc eos futuros praescientiam Dei non latet. Damnabuntur enim propter malitiam suam, non propter Dei praedestinationem. Quemadmodum mali futuri sunt propterea quod hoc esse propriae voluntatis arbitrio elegerant; non propter divinam praescientatiam”.

[4] Cfr. Joseph van GERVEN, Liberté humaine et préscience divine d’après S. Augustin, in Revue Philosophique de Louvain, 55 (1957) , 47, 327 ss.

[5] Dio non causa il peccato nel suo essere morale, ma nel suo essere ontologico. La mano che uccide è mossa d due cause: una causa che è la volontà malvagia dell’assassino e l’altra è la vlintà causalità divina, la quale causa ontologcamente l’atto della mano+.

[6] Dio sottrae la grazia non solo in modo generico, ma anche in occasione di ogni peccato a seconda del peccato+.

[7] La scienza media è un prevedere divino di come l’uomo si comporterà e qundi comporta la volontà di dargli la grazia se prevede l comporanto buono e di sottrala se prevedeil csttivo, sottintenendo che Dio muove l’uomo all’atto buono. Si chiama media perché sta fra la semplice previsione di ciò che l’uomo farà effettivamente sorretto dalla grazia (scienza di visione), e la conoscenza di semplice intelligenza di ciò che l’uomo potrà fare+.

[8] Si tratta della volontà della persona umana, chiamata causa seconda, in quanto l’agire umano è causato da Dio causa prima, ma non allo stesso modo col quale un agente fisico o meccanco causa il suo effetto,  perché mentre l’atto dell’agente fisico o della macchina è necessario, l’atto della nostra volontà è libero. Questo non vuol dre che non sia causato, perché il nostro esser libero è finito o limitato. Allora bisognerà dire che Dio causa i nostri atti liberi proprio nella loro natura di essere liberi+.

[9] Cfr. II Sent. d.34, q.1, a.3 c. a.

[10] Dio abbandona solo in parte nel senso che non dà la grazia non perchè non la vuol dare, ma perché è il peccatore che non la vuole. Invece dal punto di vista metafisico Dio non abbandona mai nessuno, neppure i diavoli e i dannati dell’inferno, per il fatto che Dio li conserva nel loro essere. Se qui Dio li abbandonasse, cadrebbero nel nulla. Se invece Dio abbandona togliendo la grazia, il peccatore contnua ad esistere, perché è mantenuto in essere da Dio+.

[11] Il male naturale è il male di pena inflitto dalla natura, come la malattia, la corruzione, il dolore e la calamità+. 

[12]L’atto del peccato è un atto dello spirito, perché è atto della volontà e questa è una potenza dello spirito, ossia della nostra anima spirituale. Ora, atto spirituale vuol dire atto immanente allo stesso spirito, perché è l’atto fisico-materiale, che va verso l’esterno nello spazio ed è nel tempo, è transitivo.  Lo stesso atto sensitivo ovvero passionale o istintivo è immanente perchè è intenzionale, ma non lo è del tutto, perché coinvolge potenze neurovegetative, che sono materiali+.

[13] Se non c’è la causa, non c’è l’effetto; ma ciò non giustifica che l’effetto manchi a colui al quale l’effetto è dovuto. Se un datore di lavoro sospende lo stipendio a un dipendente, questo rimane senza stpendio, ma ciò non giustifica il fatto che il dipendente sia privato dello stipendio.

[14] Summa Theologiae I-II, q.75, a.1 c. a.

[15] In senso ontologico.

[16] Dominicus BAÑEZ, OP, Comentarios inéditos a la prima secundae de SantoTomás, ed. de Heredia, Salamanca,  Biblioteca de teolólogos. Españoles, 11, 1944, t.II, (qq.71-89 de vitiis et peccatis), q.79, p.211-213: “Deus est causa efficens realis et physica totius naturalitatis quae est in actu peccati, et etiam est causa contrarietatis realis quantum ad naturalitatem quae invenitur in actu peccati et in actu virtutis, non autem est causa contrarietatis quantum ad omnem moralitatem specificam”.

[17] In Peri Hermeneias, I, lect.14, 197-22: “Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias”.

[18] Cfr. Ioannes NICOLUCCIO a Meldula, OP, Tractatus theologicus et speculativus et moralis de iustificatione impii, Bononiae 1695, p.35: “Deus suo influxu attingit quidquid boni, et perfecti reperitur in ea actione, cum totum hoc fit partecipatio eius, non vero quod in ea est defectus, cum hoc nequeat originari, et esse partecipatio eius, qui est purum bonum, ac perfectio infinita; sicut obliquitas claudicationis est a sola curvitate cruris, et a virtute motiva tota, et sola entitas, et perfectio motus, cum tamen motus claudi nequeat exerceri sine defectu: bene tamen verum est, deformitatem in actione humana peccaminosa existentem a Deo permitti propter aliquod maius bonum”.

[19]  Cfr. Thomas PEGUES, OP, Commentaire français. Litteral de la Somme Théolique de S. Thomas d’Aquin, IX (la loi et la grâce), Toulouse, Privat, Paris, Téqui, 1914, p.525: “Car la motion appliquant à son acte la faculté d’agir peut être de soi indépendante de la raison de bien et de la raison de mal dans cet acte. Si la faculté est ce qu’elle doit être quant à ses principes d’action, l’application à l’acte aboutira à un acte bon; si, au contraire, la faculté d’agir n’est point ce qu’elle doit être  dans l’ordre naturel, soit dans l’ordre surnaturel, la motion appliquant cette faculté à l’agir aboutira à un acte mauvais”.

[20] Cfr. Ioannes GONZALES DE ALBEDA, OP, Commentariorum et disputationum in primam partem Angelici doctoris divi Thomae tomus posterior, Neapoli, Boninus, 1637, pp. 116 ss.

[21] ) F. MARIN-SOLA, OP, Nuevas observaciones acerca del sistema tomista sobre la moción divina, Madrid (Rev. de archiv. y mus.) 1926, p.69 con riferimento a GONET, De scientia Dei, disp. 4, num. 200, tom.I, pag.426: “Deus numquam determinat voluntatem ad materiale peccati, nisi ut obiective et in genere causae materialis et occasionalis determinatus ab eadem voluntate; quae ex propria malitia et defectibilitate praevidetur seipsam determinaturam ad formale … Unde talis determinatio et applicatio ad materiale, est a Deo velut invito et coacto”.

 

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