Luigino vorrebbe avere lo stesso nome di Dio

 Luigino vorrebbe avere lo stesso nome di Dio

Luigino fa un rovinoso ruzzolone

Luigino Bruni nel suo articolo Con lo stesso nome di Dio, pubblicato in Avvenire del 18 ottobre scorso, prosegue nel tessere le lodi di Dio commentando il Salmo 147:

«“Alleluia. È bello cantare inni al nostro Dio: è dolce innalzare la lode. Il Signore ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi di Israele; risana i cuori affranti a fascia le loro ferite. … Intonate al Signore un canto di grazie, sulla cetra cantate al nostro Dio” (Salmo 147, 1-7). È bello cantare inni al Signore. È bello è buono lodare Jahvè, è bello e buono per Dio, ma è bello e buono anche per noi». «Dopo averci donato fin qui parole bellissime su Dio e su di noi, il Salmo termina lodando direttamente la parola, e l’Alleanza e la Legge che ne sono il culmine (147, 19-20). La parola è vista come un messaggio inviato per noi, una intelligenza che ci fa scoprire l’ordine e il senso della creazione: “manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce” (147,15). La parola è anche logos, è ragionamento e ordine. Israele ha stimato la parola in una misura altissima e per noi oggi incomprensibile. Ne ha fatto esperienza straordinaria con i Patriarchi, con Mosè e i profeti – “… e c’era soltanto una voce”. Dovendo rinunciare all’immagine di Dio, ha maturato un’immensa competenza sulla parola, ha dovuto imparare a disegnare Dio con le parole, ha scoperto mille dimensioni nascoste dentro la parola biblica e nelle parole umane».

Senonchè, però, Luigino sembra ricadere in quel suo concetto di «reciprocità» dei suoi articoli del maggio-giugno scorso, per la quale egli sente Dio come una persona alla pari di lui, con difetti e pregi come lui, un amico col quale realizzare uno scambio, un arricchimento e una correzione reciproci, dimenticandosi che se Luigino dipende da Dio, Dio non dipende da Luigino.

Similmente questa volta Luigino, parlando del nome di Dio, sempre su questa linea della reciprocità alla pari, crede di poter fruire dello stesso nome di Dio, perchè Dio glie lo ha donato e ciò per il semplice fatto di essere stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Dice Luigino:

«La Bibbia ci dice che il primo che ci ha chiamato con il suo stesso nome è stato ed è Dio, quando ci ha creato “a sua immagine e somiglianza”. Dicendoci dice sé stesso, e ripete il nostro nome in ogni attimo. Perché se da una parte il Dio biblico è la divinità più trascendente e diversa di tutte, dall’altra non c’è nulla sulla Terra che gli assomigli più di un essere umano, non c’è cuore più simile al suo del nostro, non c’è nome che più del nostro abbia lo stesso suono del suo».

Ma, come vedremo meglio in seguito, non basta essere ad immagine di Dio per avere il nome di Dio! Luigino mi sembra come uno di quei bimbi, i quali, volendo darsi dell’importanza e sembrare come papà, si mettono in testa il suo cappello e al collo la sua cravatta. Ma qui le cose sono molto più serie. Luigino è messo fuori strada a queste parole di Roberto Calasso citate fuori testo:

«Il divieto delle immagini era un precetto capitale, che fatalmente sarebbe stato violato. Innanzitutto da Jahvè stesso, che aveva plasmato l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. Jahvè aveva voluto creare un essere a immagine di sé stesso – e anche a quell’essere si sarebbe trasmessa l’inclinazione a creare qualcosa a immagine di sé stesso».

Ora occorre osservare che immagine e somiglianza non significano identità. Il fatto che l’uomo sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio non significa per nulla che l’uomo possieda un nome identico a quello di Dio. In realtà la Bibbia dice chiarissimamente che il Nome di Dio – Io Sono Colui Che È, Ehieh Escer Ehieh, lo ipsum Esse per se subsistens di Es 3,14 - è assolutamente unico, incomunicabile ed impartecipabile.

Il nome stesso Jahvè, che significa «Egli È», vocalizzato, siamo venuti a conoscerlo per via fortunosa solo nei primi secoli da autori cristiani, perché con la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. lo stesso popolo ebraico era caduto nell’ignoranza del Nome, che solo il sommo sacerdote conosceva e pronunciava una volta all’anno nel Tempio.

La grafia di Luigino, quindi, con quattro consonanti, YHWH è inutile, oltre che impronunciabile, perché superata. Ma tutto ciò ci dice quale sacro timore e straordinaria riverenza gli Ebrei provavano nei confronti di quel Nome per il fatto di esprimere, per divina Rivelazione, il Nome proprio che Dio dava a se stesso. Il fatto di applicare all’uomo quel Nome incomunicabile sarebbe stato giudicato dal pio Ebreo e lo è a tutt’oggi, un’abominevole profanazione. Solo i kabbalisti usavano quel Nome per scopi magici.

Il Nome divino è, secondo l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi, «il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9), che Dio Padre riserva solo al Figlio. E quindi è solo al Figlio e non all’uomo che Dio Padre comunica il proprio Nome.

Luigino, che ammette giustamente che Dio è creatore dell’uomo, si rende conto cosa vuol dire «creatore»? Non si accorge che è assurdo chiamare la creatura con lo stesso Nome del creatore? Che cosa è la creatura se non un ente finito e contingente tratto dal nulla? E osa chiamarla col nome stesso di Dio? La creatura è un altro Dio? Un Dio prodotto da Dio? Si è accorto Luigino in quale pasticcio si è cacciato affermando sconsideratamente che Dio nomina noi come nomina Sé stesso? Sì, certo, Luigino ammette la trascendenza divina, ma poi non è coerente con questa affermazione, perché la smentisce con l’idea che Dio dà a noi il suo Nome.

Sì, certo, c’è, come dice Luigino, un Dio che dice Dio. Ma questo Dio detto da Dio è Dio e non è l’uomo.  Egli ha detto di Sé: «Da Dio sono uscito» (Gv 8,42). È ciò che proclamiamo nel Credo: Deum de Deo, genitum, non factum - uguale a Dio – consubstantialem Patri -. Ma questo è soltanto il Logos, il Verbo divino, il Figlio del Padre e non può essere una creatura!

Altro fatto da tener presente al riguardo è l’episodio della nascita di Sansone. Suo Padre Manoach chiede all’angelo che gli annuncia la nascita del figlio il suo nome. E questi risponde: «Perché mi chiedi il nome? Esso è misterioso» (Gdc 13.18). Se dunque è misterioso il nome di un angelo, figuriamoci quanto sarà misterioso il Nome di Dio! E dovrebbe essere comunicato all’uomo?

 Quindi l’affermazione di Luigino che Dio chiamerebbe col Suo Nome anche l’uomo è assolutamente falsa e del tutto estranea alla Bibbia, e dimostra pertanto come purtroppo Luigino, dopo il promettente processo di ripresa spirituale, che stava dimostrando a partire dall’articolo del 13 settembre scorso, con questo articolo segna una battuta d’arresto, ed anzi un passo indietro, un ritorno al reciprocismo antropomorfico degli articoli del maggio-giugno, nonostante alcuni aspetti positivi nel presente articolo, che segnalerò.

Per quanto riguarda la citazione di Calasso, la proibizione delle immagini (Es 20,4; Lv 26,1) non si riferisce a un’immagine di Dio, ma ad immagini plastiche (tzelem) degli idoli. La Bibbia, benché sappia benissimo che Dio è puro Spirito e quindi puramente intellegibile, non proibisce affatto di pensarLo come fosse oggetto dell’immaginazione e di rappresentarLo in raffigurazioni immaginarie. Basti pensare alla rigogliosissima apparizione teofanica descritta da Ezechiele (1, 4-28).

Si deve quindi aggiungere che non è vero, come dice Luigino sviato da Calasso, che l’uomo «ha dovuto rinunciare» ad immaginare Dio, anche se è verissimo quello che Luigino aggiunge e cioè che l’uomo biblico «ha maturato un’immensa competenza sulla parola, ha dovuto imparare a disegnare Dio con le parole, ha scoperto mille dimensioni nascoste dentro la parola biblica e nelle parole umane».

Ma oltre a ciò, c’è da dire contro Calasso che la proibizione delle immagini non ha nulla a che vedere con la creazione dell’uomo ad immagine di Dio. Quindi Jahvè, creando l’uomo, non ha «violato» un bel niente, ma ha messo in evidenza la differenza abissale fra la costruzione umana dell’immagine di un idolo e la creazione divina di un’immagine di Dio che è lo stesso uomo, quasi a prefigurare quell’Uomo unico in tutta l’umanità, vedendo il quale si vede Dio Padre, Nostro Signore Gesù Cristo. Ma anche il cristiano, immagine di Cristo, benché in forma solamente finita, partecipata e per imitazione, è un uomo, che possiede il sigillo e l’impronta del Padre.

L’uomo immagine di Dio

Parlando in generale di immagine, possiamo dire che l’immagine è qualcosa che ci rende presente un’altra cosa; ce la «rappresenta». Esistono due tipi di immagini: immagini plastiche, che sono artefatti, e immagini conoscitive, prodotti della mente aventi per scopo la conoscenza.

Il fine, lo scopo, l’ideale, il progetto, il desiderio, la condizione, l’esperienza, la gioia e il «sogno», per esprimerci con un termine caro a Papa Francesco, della vita del cristiano, è essere immagine di Cristo, e quindi figlio del Padre, mosso dallo Spirito Santo.

L’essere l’uomo immagine di Dio non ha nulla a che vedere col Nome divino, che rappresenta l’essenza di Dio. L’essere l’uomo immagine di Dio rappresenta l’essenza dell’uomo, la natura umana. E, come ho già detto, l’idea biblica dell’uomo come immagine di Dio non ha niente a che vedere con la proibizione di costruire immagini di divinità, che si riferisce alla pratica dell’idolatria (Es 20, 40; Lv 26,1).

Il Dio vero, per la Bibbia, essendo Spirito, non può essere propriamente oggetto dell’immaginazione come il dio pagano, e quindi non può essere rappresentato in una statua o in un dipinto, ma è solo oggetto dello spirito, della mente, del pensiero, dell’intelletto, della ragione, della coscienza, della memoria, della volontà e, come dice giustamente Luigino, della parola, ossia dell’idea, del concetto e del giudizio.

Dio non può essere né immaginato né rappresentato materialmente perché è puro spirito privo di materia. Qualche oggetto materiale, come per esempio il vento, la roccia, il fuoco, il sole, il cielo, la colomba possono essere simboli della divinità, ma non possono assolutamente rappresentarla. Questo non vuol dire che le cose materiali non abbiano rapporto con Dio, tutt’altro: anch’esse sono create da Dio e la loro esistenza creata induce ad ammettere l’esistenza del loro creatore. I Medievali le chiamavano non imago, ma vestigium.

Dire simboli vuol dire che si tratta solo di paragoni: come la roccia è salda, così Dio dà sicurezza; come il vento soffia dove vuole, così Dio è libero; come il cielo è vasto, così Dio è infinito;  come il sole favorisce la vita, così Dio dà vita a tutti i viventi; come il fuoco scalda e distrugge i rifiuti, così Dio scalda col suo amore i buoni e punisce col fuoco dell’inferno; come la colomba è alata, mite, bianca e fedele, così lo Spirito Santo si libra sulla materia e sul mondo, è mite, dolce, benevolo e fedele.

Invece solo lo spirito può rappresentare lo Spirito, solo la verità può rappresentare la Verità; solo la bontà può rappresentare la Bontà; solo l’essere può rappresentare Colui Che È; solo la ragione può comprendere la Ragione; solo l’idea può intuire l’Idea, solo il pensiero può afferrare il Pensiero; solo l’intelletto può capire l’Intelletto, solo l’autocoscienza può capire l’Autocoscienza assoluta; solo la santità può rappresentare il Santo per eccellenza; solo la persona può relazionarsi con la Persona; solo chi parla può ascoltare la Parola di Dio; solo la volontà può volere ed amare Colui che è Amore. Dobbiamo accontentarci di possedere uno spirito che ci rende simili a Dio e non pretendere di più.  

Ma sarebbe somma empietà e superbia pretendere di essere uguale a Cristo, di possedere lo stesso «nome al di sopra di ogni altro nome», che il Padre ha comunicato e trasmesso al Figlio, Deum de Deo e ovviamente solo al suo Figlio in quanto Dio, giacché un nome divino comune al creatore e alla creatura non sarebbe più nome divino. Non può la creatura possedere ciò che appartiene esclusivamente al creatore. Il pretenderlo è quel peccato di superbia che si chiama «panteismo».

 Esiste bensì l’attributo dell’essere - l’ens analogum -, che è analogicamente comune a Dio e all’uomo, comune a tutte le creature. E certamente l’uomo, come ogni creatura, quale più quale meno, assomiglia a Dio nell’essere.  Infatti l’Essere creatore crea l’essere creato. E, dato che l’effetto assomiglia alla causa, per questo l’essere umano assomiglia all’Essere divino.

E, come gli angeli, l’uomo assomiglia in modo speciale a Dio per la sua spiritualità, cosa che non appartiene alle creature puramente materiali. Ma la sua spiritualità umana è finita e non può passare questo limite. Il finito non può diventare infinito, come credeva Hegel. Assomigliare a Dio non vuol dire esserGli uguale o identico o esserGli alla pari, in una specie di reciprocità alla Luigino, come fosse la reciprocità fra amici o fra uomo e donna.

L’immagine conoscitiva e poetica

Occorre però considerare anche il fatto che quando si parla di immagine, possiamo sì far riferimento all’immagine di una cosa o di una persona o di un dio plasmata o prodotta dall’arte umana, ma anche all’immagine come fatto mentale come avviene nel processo della conoscenza. Esiste un’immagine della realtà prodotta dall’immaginazione, che non è altro che quella stessa realtà sotto forma di immagine. Oppure, parlando in generale di immagine come rappresentazione mentale del reale, possiamo estendere il senso della parola «immagine» al concetto.

Il farsi, per esempio, un accurato concetto di Lutero comporta una rappresentazione di Lutero migliore e più oggettiva di un suo ritratto dipinto dal pur bravo Luca Cranach. A parte il fatto che a me interessa conoscere più l’anima di Lutero che non le sue fattezze fisiche, dobbiamo tener presente che il concetto o idea di qualcosa non è, come credeva Cartesio, un oggetto immediatamente colto dalla mia coscienza, davanti al quale posso chiedermi se al di là di quell’oggetto esiste effettivamente quel reale che esso sembra rappresentare.

No. Il concetto non è altro che la cosa stessa, colta dal concetto sotto forma di concetto e, come diceva Hegel, «nell’elemento del pensiero». È la cosa stessa reale in quanto pensata o rappresentata alla mente, la cosa «che si ha in mente», come si esprime giustamente il linguaggio comune.

 Il concetto che mi sono fatto di Lutero, supposto che sia vero, ossia aderente alla realtà di Lutero, non mi rappresenta Lutero allo stesso modo col quale un ritratto di Cranach rappresenta Lutero, ritratto che è un oggetto materiale, un’immagine visiva, che rimanda sì a Lutero, ma che ha un’essenza ovviamente realmente distinta dalla natura della personalità reale di Lutero.

Luigino tratta anche dell’immagine come mezzo di conoscenza e strumento del linguaggio per concepire Dio e per parlare di Dio: 

«Mentre cerchiamo le parole, le note più belle e alte per lodare Dio, stiamo anche imparando le note e le parole più belle per lodarci gli uni gli altri. Forse non c’è stata una parola splendida per dar lode a Dio, che qualche poeta non abbia usato anche per una persona amata, e forse non c’è poesia d’amore che qualcuno in un altro giorno, magari senza saperlo, ha usato per cantare Dio. Anche tutto questo è immagine e reciprocità. Benedicendo gli uomini abbiamo imparato a benedire Dio e benedicendo Dio stiamo già benedicendo uomini e donne, anche se non lo sappiamo».

È vero che nell’immaginare, nel cantare, nel poetare, nel pensare, nel concepire, nel parlare noi saliamo dal prossimo a Dio e scendiamo da Dio al prossimo. C’è uno scambio di predicati e di attribuzioni. Le immagini, le parole, i concetti, i sentimenti per esprimere ciò che pensiamo o sentiamo di Dio e del prossimo, possono sembrare gli stessi. Esiste una certa reciprocità. Ma Luigino esagera, similmente a come ha esagerato per la questione del nome.

Tende ad appiattire Dio sull’uomo e con ciò stesso innalza eccessivamente la dignità dell’uomo. Non è affatto vero che sic et simpliciter pensando, immaginando e dicendo l’uomo pensiamo, immaginiamo e diciamo Dio e viceversa. Non c’è univocità, ma analogia. Come dice la Scrittura? «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5).

 La Bibbia non dice concepire, immaginare, nominare, dire, pensare Dio è lo stesso che concepire, immaginare, nominare, dire, pensare l’uomo. Tra Dio e l’uomo non c’è solo somiglianza. Anzi il Concilio Lateranense IV del 1215 dice che è maggiore la diversità che la somiglianza. Ma Luigino con la sua reciprocità orizzontale ed antropomorfica rischia l’identità.

È vero che gli attributi divini devono essere nella stessa linea di quelli che scopriamo nell’uomo: altrimenti come potrebbero esserne la causa? È vero che certi attributi sono l’ingrandimento all’infinito della stessa perfezione che troviamo nell’uomo. In Dio è infinito ciò che in noi troviamo finito. Certe perfezioni sono le stesse, solo che in Dio diverso è il modo col quale si trovano in noi e un Lui: tanto l’uomo quanto Dio possiedono la scienza; ma ben diverso è il modo umano e il modo divino di sapere. L’essere è attributo tanto di Dio che dell’uomo. Ma mentre noi partecipiamo dell’essere, Dio è essere per essenza.

È vero che con concetti univoci puramente fisici, tratti dal mondo materiale, non possiamo concepire una Sostanza spirituale infinita[1], quale è Dio. Ma occorrono concetti analogici trascendentali, come suggerisce Sap 13,5, concetti che Luigino sembra non conoscere per questa sua pretesa di parlare di Dio come si parla dell’uomo e viceversa. Al contrario, bisogna dire che il retto parlare di Dio comporta che si parli non allo stesso modo, ma analogicamente dell’uomo e di Dio, se no mettiamo l’uomo alla pari di Dio e viceversa.

D’altra parte, per rimediare all’univocismo, non si può neppure cadere nell’equivocità, secondo la quale un attributo assegnato all’uomo è equivoco rispetto a ciò che è Dio, per cui di Dio è impossibile concepire o sapere o dire alcunché, perché i nostri concetti riguardano solo l’uomo e non possono esser applicati a Dio, neppure analogicamente.

Allora non ci sono che due strade: o non parlare mai di Dio; ma allora si fa la figura degli atei o degli agnostici. Oppure parlare, ma allora dovremo usare concetti univoci, tratti dalla fisica o dalla natura umana. Ma così si finisce per ricadere nell’univocismo di Luigino.

Inoltre dovremo dire che questa tesi che di Dio non si può dire nulla di suo proprio che non sia qualche attributo umano, è una tesi assurda, che si confuta da sola, giacché come facciamo a dire che non si può sapere nulla di qualcosa, la quale, appunto, dato che non ne sappiamo nulla, non si può definire? E se non sappiamo di che cosa parliamo, che cosa parliamo a fare? Se non definiamo previamente che cosa è ciò di cui non si può dire nulla, come possiamo parlarne e quindi intenderci? Ma nel momento in cui la definiamo, ne parliamo, e quindi con ciò stesso neghiamo la tesi che non possiamo parlarne. Anche coloro che sostengono che non si può parlare di Dio, sono costretti a parlare di Dio, altrimenti non sanno di che cosa parlano.

Dio non dona il suo Nome, ma dona la grazia

La rivelazione cristiana biblica ci dice però che esiste per l’uomo la possibilità di una vita divina, che supera i limiti della vita puramente umana e pone l’uomo in possesso dell’Infinito senza diventare infinito egli stesso. Ed è la vita della grazia in Cristo e di Cristo, acquistabile col Battesimo, vita soprannaturale di figli di Dio Padre e fratelli in Cristo, grazia che è «partecipazione alla natura divina» (theias koinonòi fyseos, II Pt 1,4), grazia che però appunto è una semplice partecipazione e non è un’identificazione o un’uguaglianza in parità con Dio, ma è un dono creato, affidato da Dio al libero arbitrio dell’uomo, dono che l’uomo può distruggere col peccato.

Dio Padre dona in Cristo e nello Spirito Santo la grazia all’uomo, ma non può, come crede Rahner, donare Se stesso; non può, come egli dice, «autocomunicarsi» (Selbstmitteilung) all’uomo[2]. Non può donarsi, perché non può ordinare sé stesso a un fine più alto. Non può comunicarsi, perché il suo essere, cioè il suo Nome, come abbiamo visto, è incomunicabile. Solo al Figlio il Padre può comunicare la sua essenza (Deum de Deo) perché il Figlio è uguale ed identico al Padre nella divinità.

Donando la grazia all’uomo, Dio dà all’uomo qualcosa di suo, che appartiene solo a Lui stesso, sicché il cristiano viene arricchito di un’ulteriore, superiore e soprannaturale somiglianza con Dio[3]. Resta naturalmente infinito il dislivello fra l’infinità e la trascendenza divina e la condizione di finitezza dell’uomo, sia pur arricchito dalla grazia[4].

Ciò che qui è da rilevare è che l’uomo, in questa nuova condizione di figlio di Dio ad immagine del Figlio, entra in un nuovo e superiore rapporto di comunione e addirittura di intimità con Dio, che non è dato dalla semplice religione naturale. Per questo Cristo, dopo aver comandato agli apostoli nell’ultima Cena di amarsi come Egli ha amato loro, aggiunge:

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi sarete miei amici, se fare ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre, l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 13-15).  

Il Dio biblico che fa grazia è simile a un re, poniamola la Regina Elisabetta d’Inghilterra, la quale donasse ad un’operaia delle industrie di Manchester, un prezioso collier appartenuto alla sua antenata Elisabetta I. Elisabetta dona all’operaia un qualcosa di prezioso che apparteneva solo a lei.

Il metodo giusto per accostarsi ai Salmi

La Scrittura non è un poema epico o mitologico fatto di teogonie o teomachie sul tipo dell’Iliade o dell’Odissea, un materiale plasmabile, al quale il poeta attinge come a stimolo, scegliendo ciò che preferisce e scartando il resto, suggerimento o input alla sua creatività ed inventiva, per suscitare meraviglia o sorpresa nel lettore, colpito dall’originalità e dalla stranezza delle trovate del poeta, e magari facendole passare per «Parola di Dio», senza alcuna attenzione all’interpretazione della Chiesa.

La Scrittura non è neppure l’assicurazione divina di un Dio misericordioso che perdona e salva tutti e non castiga nessuno, che tutti sono salvi gratuitamente ed incondizionatamente, a patto soltanto che credano di essere salvi. Non è il permesso dato a tutti di fare tutto ciò che ad ognuno viene in mente di fare, nella certezza che Dio perdona tutti e salva tutti.

La Scrittura non comporta l’idea che nessuno pecca coscientemente e deliberatamente, ma tutti gli uomini sono in buona fede, hanno buone intenzioni e buona volontà e quindi sono scusati e senza colpa, ma sono solo deboli e fragili, per cui nessuno va incolpato, ammonito o castigato, ma sono solo dei sofferenti che devono essere compassionati ed aiutati sull’esempio del buon samaritano.

La Scrittura non è neppure un insieme di racconti o la narrazione di una lunga storia a lieto fine, come se fosse un gigantesco romanzo storico o una grandiosa epopea dell’umanità in cammino assicurato verso una salvezza universale. Ma quel che è peggio è, come fanno Bruno Forte e Walter Kasper, sulla scia di Hegel, Dilthey, Benedetto Croce, Rahner e Küng, concepire Dio stesso che perde la sua immutabilità e trascendenza, e muta e diviene nel tempo e nella storia, col pretesto dell’Incarnazione.

Ciò ha dato modo a Forte di proporre una «teologia narrativa», che confonde l’opera del teologo con quella dello storico e che ha prodotto un «teologo» come Alberto Melloni, che risolve il Concilio Vaticano II in un semplice «evento» senza contenuti dogmatici. Ma anche Luigino corre questo rischio col suo Dio della «reciprocità».

Invece la Scrittura è la risposta divina alla ricerca di Dio da parte dell’uomo. È la rivelazione del Padre in Cristo e per mezzo di Cristo che il fine ultimo dell’uomo è la visione beatifica del Dio trinitario, a patto che l’uomo si penta dei suoi peccati, obbedisca ai precetti divini e accolga la grazia del perdono e della santificazione nello Spirito Santo. In caso contrario l’uomo non ascende al paradiso, ma precipita nell’inferno.

Tutta la Scrittura fa perno sul fondamentale binomio dello spirito: il sapere e la messa in pratica del sapere. Tutto il significato, il valore, il frutto, lo scopo, l’istanza fondamentale della Scrittura si può riassumere in queste parole del Salmo 33: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore».

Un bilancio

Luigino prosegue nella sua ripresa spirituale ed anche questo articolo contiene stimoli interessanti, che denotano un’anima visitata da Dio, che fa ricordare il noverim Te, noverim me di agostiniana memoria, se non fosse che purtroppo riemergono remore che sembravano superate, come quella antropomorfica reciprocità di sapore kabbalistico, che abbiamo già visto in articoli precedenti.

 Si tratta di onde fangose che inquinano la limpida acqua biblica, aquam sapientiae, come è detto nell’inno domenicano a San Domenico, acqua abbondantissima e fecondatrice, che esce dall’altare del Signore e si spande per tutta la terra a dar vita, a nutrire, a fecondare, a sanificare, a far gioire (cf Ez 47,1-12). 

E quali sono queste onde fangose? Le abbiamo già viste per chi mi ha seguìto nei miei articoli su Luigino dal marzo scorso. Sono sostanzialmente due, l’una causata dall’altra.  L’una è quella che potremmo chiamare «teologia creativa» e l’altra è il già più volte visto reciprocismo teologico antropomorfico.

La prima è l’effetto della seconda. Cominciamo dalla prima e vedremo che si spiega con la seconda. Luigino non si accosta alla Bibbia con l’atteggiamento di chi vuol imparare o ascoltare, ma con l’atteggiamento di chi vuol produrre. Trascura il fatto che lo strumento ermeneutico per comprendere ed apprezzare la Bibbia dev’essere non un sapere produttivo, quella che Maritain chiama «intuizione creatrice»[5], ma un sapere speculativo o teoretico, come la filosofia, che introduca alla contemplazione amorosa, all’unione mistica con Dio e alla fine alla beata visione del cielo, quell’intelletto che Dante, che pure fu poeta, ma soprattutto teologo, chiamava «intelletto d’amore».

La Bibbia non è un repertorio di materiali da costruzione o una serie di spunti per la nostra inventiva e per fare gli originali e per colpire il pubblico con le nostre trovate; non è un’opera d’arte che debba stimolare o interpellare il nostro soggettivo gusto estetico – de gustibus non disputandum - , ma è un cibo per tutti e per sempre nutrientissimo e deliziosissimo, «pane di vita» - essa culmina nell’Eucaristia  - , che dobbiamo conoscere, adorare ed assumere così com’è, senza che noi siamo autorizzati ad aggiungere o a togliere alcunché, perchè lo guasteremmo.

È notevole come Luigino attualmente nella Bibbia scelga soltanto i Salmi, i quali, essendo componimenti poetici, danno ansa all’equivoco di Luigino maggiormente che altri libri della Scrittura. Ma vorrei vederlo a commentare le sentenze filosofiche del Libro della Sapienza o dei Proverbi o del Siracide, o la cristologia di San Paolo o il Vangelo di San Giovanni con le parole del Signore circa gli attributi divini, il senso dell’esistenza, della verità, dello spirito, della vita, dell’amore o il rapporto del Padre col Figlio o del Figlio con lo Spirito Santo[6].

Se la Bibbia nei Salmi usa un linguaggio poetico non è per fare della poesia, ma per insegnarci la verità su Dio. Luigino confonde il linguaggio poetico col contenuto poetico. Si possono esprimere verità teologiche o speculative con linguaggio poetico, e possiamo avere altissima poesia, come fanno Dante e John Milton.

Sbagliava Benedetto Croce a considerare poesia solo l’espressione lirica dei propri sentimenti e non l’insegnamento di verità teologiche, nelle quali del resto egli da buon storicista non credeva neppure, poesia che egli chiamava con disprezzo «dottrina posta in versi». È ovvio che per avere poesia occorre il genio poetico e non basta la dottrina. Ma quando, come nei suddetti poeti, abbiamo l’uno e l’altra, allora la poesia raggiunge vertici insuperabili, simili appunto a quelli dei Salmi della Scrittura.  

La Bibbia non tiene tanto a comunicarci cose belle e piacevoli, come se fosse in gioco solo l’estetica, ma cose vere, in quanto essa mira alla nostra salvezza e per salvarci dobbiamo saper accettare anche verità sgradevoli ma salutari, come per esempio che Dio castiga i nostri peccati, similmente a uno che, per aver salva la vita, si sottopone a un intervento chirurgico doloroso. Ma se noi nella Bibbia cerchiamo solo quello che ci piace, finiremo per scartare delle verità che sono necessarie alla salvezza.

Ora questo atteggiamento di Luigino dipende dal suo modo reciprocista e kabbalista di impostare il suo rapporto con Dio, come abbiamo visto già più volte nei mesi scorsi. C’è molto da rallegrarsi che Luigino riconosca il fatto della creazione divina del mondo e che egli stesso si riconosca creato da Dio. Ma non trae le conseguenze o non considera i presupposti metafisici del concetto stesso di creazione.

Infatti egli si pone davanti a Dio nello stesso modo col quale si pone con un’altra persona umana come lui; trascura il fatto che, se è vero che il nostro rapporto con Dio è un rapporto interpersonale, che assomiglia al rapporto col prossimo, tuttavia nel contempo esiste un’immensa differenza tra il primo e il secondo rapporto, e cioè che mentre davanti ad un’altra persona io sono una persona che esiste per conto proprio indipendentemente dall’altra persona, davanti a Dio io sono sua creatura, ossia dipendo da Lui totalmente nel mio essere.

Il che implica che mentre nel rapporto interumano ci si trova allo stesso livello ontologico dell’umana uguaglianza, nel rapporto con Dio si dà un infinito dislivello ontologico, come quello che intercorre tra il finito e l’infinito. Se Dio in Cristo ha voluto mettersi alla pari di noi, dobbiamo evitare per il nostro stesso bene di prenderci troppa confidenza trattandoLo o come fosse un amicone o come un superiore noioso da calmare nelle sue eccessive pretese.

Luigino nel suo rapporto con Dio dà troppa importanza a sé stesso e troppo poca a Dio. Bisogna che sia più umile. Ha detto di recente cose moto belle circa la gratitudine che dobbiamo a Dio per i doni ricevuti.  Non deve irritarsi se Dio gli mostra le sue colpe e non deve chiudere ad esse gli occhi. Non si immagini un Dio che chiude gli occhi anche lui. Quello non è il vero Dio misericordioso, ma è il demonio che solletica la nostra superbia affinchè non ci pentiamo e siamo così esclusi dalla misericordia del Padre.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 21 ottobre2020

 




Il Nome divino è, secondo l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi, «il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9), che Dio Padre riserva solo al Figlio. E quindi è solo al Figlio e non all’uomo che Dio Padre comunica il proprio Nome. 

Immagine da internet

[1] Così definisce Dio il Concilio Vaticano I (Denz.3001).

 1 Cf Peter Paul Saldanha, Revelation as «self-communication of God», Urbaniana University Press, Roma 2005.

[3]Rahner parla di un’«autotrascendenza» della natura all’ordine soprannaturale. Ma è dato certo che la natura umana è finita e non può trascendere se stessa con le proprie forze. Dunque, se Dio non innalza la natura oltre sé stessa, cosa, questa, di fede, come fa la natura a innalzare stessa al piano soprannaturale? Ha già forse la grazia da sé stessa? Ma questo è contrario alla fede, che dice che noi siamo concepiti nel peccato (Sal 50,7).  D’altra parte, se la natura, come pare in Rahner, ha già da sé la grazia come «esistenziale soprannaturale», che ne è dello stato di privazione della grazia nel quale siamo concepiti a seguito del peccato originale, cosa anche questa, di fede? E se siamo concepiti in grazia, a che serve il Battesimo? Cf il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, pp.223-232.

[4] Rahner ammette la soprannaturalità della grazia. Eppure dice che non si aggiunge alla natura. Dice che è gratuita, eppure è necessaria all’uomo. Non si capisce con quale coerenza Rahner faccia queste affermazioni. Se non si aggiunge alla natura arricchendola, come fa ad essere soprannaturale? Se è necessaria, come Dio può – come egli dice espressamente – donarla gratuitamente e liberamente? Se è necessaria, non è forse dovuta? È necessaria per salvarsi ma non è necessaria alla natura come tale.

[5] L’intuizione creatrice nell’are nella poesia, Morcelliana, Brescia 1957.

[6] Ho dimostrato in un mio libro che gli insegnamenti morali e teologici di Cristo, soprattutto quelli riportati da Giovanni, sottendono nozioni metafisiche e trascendentali di carattere intuitivo prescientifico e tuttavia nel loro contenuto spesso di altissimo livello speculativo. Del resto non c’è da meravigliarsi, se a parlare è lo stesso Logos divino. Vedi il mio libro: Gesù Cristo fondamento del mondo. Inizio, centro e fine ultimo del nostro umanesimo integrale, Edizioni L’Isola di Patmos, Roma 2019.

 

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