Il messaggio di Benedetto XVI

 Il messaggio di Benedetto XVI

Vero promotore della riforma conciliare

La Chiesa soffre da sessant’anni di una grave divisione interna tra due partiti che si combattono fra di loro in relazione al giudizio da dare alle dottrine del Concilio Vaticano II. L’attenzione della Chiesa si è polarizzata attorno a due partiti contrapposti, che fanno capo a due personaggi dalla potente e avvincente personalità, i quali hanno interpretato le dottrine del Concilio come fossero favorevoli al modernismo, gli uni per accoglierle, e sono i seguaci di Karl Rahner, i sedicenti progressisti, ma in realtà modernisti, e gli altri per rifiutarle, e sono i seguaci di Marcel Lefebvre, sedicenti difensori della Tradizione, ma in realtà passatisti.

I Papi del postconcilio a partire da S.Paolo VI si accorsero subito dello scoppio di questa crisi interna alla Chiesa stessa e non provocata da attacchi esterni, tanto che Paolo VI nel 1975 parlò di «autodemolizione», e di «magistero parallelo». Essi reagirono contro i lefevriani, facile bersaglio data la scarsità del loro numero e l’evidente opposizione al Concilio, ma, presi in contropiede dai rahneriani, che si presentavano come protagonisti del Concilio ed ottennero subito un immenso successo, restarono interdetti e quasi increduli, limitandosi ad accuse giuste ma generiche e non mirate, e quindi assai poco efficaci, perché i colpiti avevano sempre la scappatoia di dire: io non c’entro, dato che non mi ha nominato.

Peraltro Papi fino a San Giovanni Paolo II si limitarono a notare l’opposizione tra conciliaristi e anticonciliaristi, secondo uno schema facile ma insufficiente corrispondente a conservatori e progressisti. Benedetto XVI invece, col suo acume di teologo abituato a smascherare le truffe, ci ha donato uno sguardo più lucido sulla situazione, distinguendo veri da falsi riformatori[1], diremmo oggi distinguendo progressisti, cosa del tutto lecita, da modernisti, fautori dell’eresia.

Benedetto XVI, così, avendo impostato il problema con precisione, si è poi conseguentemente impegnato a fondo per la sua soluzione rendendosi conto dell’importanza del problema: se la Chiesa cattolica non è unita in se stessa, come fa a predicare al mondo la riconciliazione, la concordia e lai pace? Con quale credibilità?

Papa Benedetto si è sforzato con grande imparzialità di fare opera di mediazione e di conciliazione fra i due partiti proponendo la vera interpretazione del Concilio e mettendo in luce i valori di ciascuno dei due partiti, escludendo errori modernistici e passatisti, nonché la reciproca complementarità, e sottolineando come il Concilio ha realizzato un progresso nella continuità.

Benedetto aveva alle spalle una più che ventennale attività come Prefetto della CDF, nel corso della quale attività aveva combattuto contro numerosi errori di matrice marxista, massonica, liberale, positivista, scientista, secolarista, modernista e protestante procurandosi una forte ostilità negli ambienti corrispondenti.

Il giovane teologo Ratzinger, durante i lavori del Concilio Vaticano II collaborò con Rahner in modo particolare alla preparazione della costituzione dogmatica Dei Verbum[2]. Era allora Rahner un teologo già molto noto e stimato in modo particolare per i suoi studi di spiritualità. Aveva pubblicato un importante studio sui sensi spirituali in San Bonaventura e si era incontrato in ciò con Ratzinger, anch’egli ammiratore del Serafico Dottore.

Inoltre erano interessati entrambi al pensiero dei Padri della Chiesa e a problemi della Chiesa. A quei tempi pubblicarono anche assieme alcune riflessioni teologiche concernenti il rapporto fra Tradizione e Rivelazione[3]. Ma mentre Ratzinger restava nel solco della piena ortodossia cattolica con un occhio ai Padri, a Sant’Agostino, a San Bonaventura e a Romano Guardini, Rahner, già dagli anni precedenti il Concilio, era rimasto infetto dalla filosofia di Hegel e di Heidegger, nonché dall’esegesi protestante di Bultmann, benché durante i lavori del Concilio egli avesse celato questo veleno, che invece cominciò a spargere  sin dall’inizio del postconcilio, approfittando della fama che si era procurato al Concilio, tanto che i Vescovi, per il timore di passare per conservatori, ricordando i suoi meriti al Concilio, non ebbero la forza o la sagacia  di contraddirlo e smascherarlo, con uno sforzo disperato di interpretare in bene come «progressiste» certi tesi azzardate rahneriane, che in realtà erano eretiche.

Così. terminato il Concilio, Ratzinger si accorse che Rahner cominciò a propagandarne gli insegnamenti in un modo distorto e capzioso, non corrispondente all’esatta interpretazione, sicchè prese subito le distanze dalla sua svolta panteista, ed attaccò Rahner durissimamente in un suo libro del 1982 affermando che Rahner «a très largement repris le concept de liberté  propre à la philosophie idéaliste – un concept de liberté qui en réalité ne convient qu’à l’Esprit absolu – à Dieu – et nullement à l’homme»[4].

San Giovanni Paolo II lo premiò facendolo Prefetto della CDF. Immaginiamoci la rabbia dei rahneriani, i quali da allora giurarono vendetta e cominciarono a tramare sistematicamente contro il Papa nell’intento possibilmente di toglierlo di mezzo.  Essi infatti da allora gli mossero guerra fino al punto da organizzare la famosa mafia di San Gallo, composta da rahneriani, i quali crearono terra bruciata attorno a Benedetto, in modo da indebolirne il potere, fino a metterlo nelle condizioni di non poter più governare la Chiesa. E per questo dette le dimissioni. Benedetto quindi rinunciò al comando non tanto per insufficienza di forze personali[5], ma fondamentalmente per mancanza di collaboratori e per aver incontrato al suo governo una resistenza, laddove si attendeva una collaborazione.

La delusione dei sangallisti

 Nel contempo, come è noto, il gruppo di San Gallo, in una serie di incontri segreti, illegali e clandestini protrattisi per alcuni anni fin dai tempi di San Giovanni Paolo II, avevano orchestrato la successione di Benedetto nella persona del Card. Bergoglio, il quale fu effettivamente eletto nel 2013, subito dopo le dimissioni di Benedetto.

Da notare però che l’elezione di Bergoglio fu perfettamente regolare, grazie alla benevolenza di Benedetto, il quale sciolse dalla scomunica nella quale erano incorsi i Cardinali del gruppo di San Gallo, consentendo loro di esprimere e propagandare il loro voto a favore di Bergoglio.  

I complottisti speravano di aver fatto eleggere un Papa docile alle loro trame rahneriane, ma non avevano previsto, come dice Francesco, le «sorprese dello Spirito Santo». Infatti, una volta eletto, Papa Francesco ha avuto sì qualche posizione che poteva essere interpretata in senso rahneriano, come per esempio la sua tendenza buonista, misericordista e filoluterana, ma l’insieme del suo pontificato, come del resto ci si sarebbe dovuto aspettare, è stato ed è una smentita del rahnerismo in quanto eresia. Ma tale fu la cecità dei sangallisti, che speravano in un Papa eretico, cosa che lo Spirito Santo non può assolutamente permettere.

I sangallisti infatti speravano di ottenere da Francesco che proclamasse Rahner come modello di teologo al posto di San Tommaso, e invece hanno avuto una tremenda delusione perché Papa Francesco, in occasione di un congresso tomistico internazionale a Roma, ha raccomandato, come molti Papi suoi predecessori e come fece lo stesso Concilio, San Tommaso come Dottore comune della Chiesa. Di Rahner non ha mai detto una parola, ma anzi ha condannato i suoi errori senza nominarlo, soprattutto in occasione della condanna dell’idealismo e dello gnosticismo, a favore del realismo.

Un grande merito di Papa Benedetto è stato quello di stimolare l’interesse teologico e quindi rafforzare la fede con l’attenzione alle risorse della sapienza umana, della ragione filosofica e dell’esegesi biblica in vari campi dell’etica, della dogmatica, della spiritualità, dell’ecumenismo, della teologia razionale, dell’ecclesiologia, dell’apologetica, della cristologia, della liturgia. Ricchi di dottrina e di unzione sono i suoi tre volumi su Gesù Cristo. Molto illuminante fu l’intervista che rilasciò a Messori pubblicata nel 1985 col titolo Rapporto sulla fede.

Papa Benedetto si distinse per il coraggio e la pazienza con i quali seppe accettare forti opposizioni a causa della sua testimonianza a favore di Cristo, come avvenne quando forze massoniche presenti all’Università di Roma gl’impedirono di pronunciare un discorso d’altissimo livello sapienziale o quando ricevette gli attacchi del fanatismo islamico in occasione della sua denuncia dell’irrazionalismo volontarista islamico.

Alcuni grandi insegnamenti di Papa Benedetto

Tutti i temi cari a Papa Francesco, la misericordia, la giustizia sociale, la fraternità, lo Spirito Santo, l’unione con Cristo, la figliolanza divina, la missione, l’evangelizzazione, il dialogo ecumenico ed interreligioso, l’inculturazione, l’ecologia, il rispetto della diversità, la famiglia, il bene comune, la pace internazionale, la libertà religiosa sono già presenti in Benedetto, alcuni più sviluppati in Benedetto, altri più sviluppati in Francesco.

Papa Benedetto ci ha lasciato un ricchissimo patrimonio di dottrina, profondamente nutrita di esegesi biblica, nel quale emerge la splendida trilogia delle encicliche Deus caritas est, Spe salvi e Caritas in veritate, dove si avverte forte la traccia della sapienza agostiniana ispirata al Vangelo giovanneo.

Per il 2013 Benedetto con grande coraggio aveva in programma un Anno della Fede, quasi a voler assestare un colpo decisivo ai rahneriani, ma gli avversari avvertirono immediatamente il gravissimo pericolo e si affrettarono ad accelerare i tempi della congiura, così da poter ottenere le dimissioni di Benedetto prima che desse inizio al deprecatissimo «Anno della Fede».

E difatti ci riuscirono. Benedetto dette le dimissioni pochi mesi prima del termine dell’Anno della Fede fissato per il 24 novembre 2013, essendo iniziato l’11 ottobre precedente. Così successe che l’enciclica che Benedetto aveva in animo di scrivere, la scrivesse Papa Francesco col titolo Lumen fidei, aiutato bensì da Benedetto, ma purtroppo priva di quella forza terapeutica che Benedetto le avrebbe certamente impresso. Venne fuori così un documento privo di quella efficacia antimodernista che certamente avrebbe avuto, se Papa Benedetto avesse potuto scrivere da solo.

Leggiamo adesso alcuni passi particolarmente significativi di alcuni importanti documenti di Benedetto.

Dall’enciclica Deus caritas est del 2005:

19. « Se vedi la carità, vedi la Trinità » scriveva sant'Agostino.  Nelle riflessioni che precedono, abbiamo potuto fissare il nostro sguardo sul Trafitto (cfr Gv 19, 37; Zc 12, 10), riconoscendo il disegno del Padre che, mosso dall'amore (cfr Gv 3, 16), ha inviato il Figlio unigenito nel mondo per redimere l'uomo. Morendo sulla croce, Gesù — come riferisce l'evangelista — « emise lo spirito » (cfr Gv 19, 30), preludio di quel dono dello Spirito Santo che Egli avrebbe realizzato dopo la risurrezione (cfr Gv 20, 22). Si sarebbe attuata così la promessa dei « fiumi di acqua viva » che, grazie all'effusione dello Spirito, sarebbero sgorgati dal cuore dei credenti (cfr Gv 7, 38-39). Lo Spirito, infatti, è quella potenza interiore che armonizza il loro cuore col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati Lui, quando si è curvato a lavare i piedi dei discepoli (cfr Gv 13, 1-13) e soprattutto quando ha donato la sua vita per tutti (cfr Gv 13, 1; 15, 13).

20. L'amore del prossimo radicato nell'amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l'intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l'amore. Conseguenza di ciò è che l'amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato.

Dall’enciclica Caritas in veritate del 2009:

2. La verità va cercata, trovata ed espressa nell'« economia » della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio.

3. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente.

È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme « Agápe » e  «Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola.

4. La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell'amore: è, questo, l'annuncio e la testimonianza cristiana della carità. Nell'attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l'adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale.

Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.

6. « Caritas in veritate » è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale. Ne desidero richiamare due in particolare, dettati in special modo dall'impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene comune.

La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso « donare » all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia.

Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità », intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità o, com'ebbe a dire Paolo VI, « la misura minima » di essa, parte integrante di quell'amore « coi fatti e nella verità » (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni.

Da una parte, la carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli. Essa s'adopera per la costruzione della “città dell'uomo” secondo diritto e giustizia. Dall'altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La “città dell'uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo.

7. Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene.

Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis.

È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando la carità lo anima, l'impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno.

L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.

9. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà.

53. La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l'uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L'importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone.

A questo riguardo, la ragione trova ispirazione e orientamento nella rivelazione cristiana, secondo la quale la comunità degli uomini non assorbe in sé la persona annientandone l'autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto. Come la comunità familiare non annulla in sé le persone che la compongono e come la Chiesa stessa valorizza pienamente la “nuova creatura” (Gal 6,15; 2 Cor 5,17) che con il battesimo si inserisce nel suo Corpo vivo, così anche l'unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l'uno verso l'altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità.

55. La rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione metafisica dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale. Anche altre culture e altre religioni insegnano la fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande importanza per lo sviluppo umano integrale. Non mancano, però, atteggiamenti religiosi e culturali in cui non si assume pienamente il principio dell'amore e della verità e si finisce così per frenare il vero sviluppo umano o addirittura per impedirlo. Il mondo di oggi è attraversato da alcune culture a sfondo religioso, che non impegnano l'uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale, limitandosi a gratificarne le attese psicologiche.

Anche una certa proliferazione di percorsi religiosi di piccoli gruppi o addirittura di singole persone, e il sincretismo religioso possono essere fattori di dispersione e di disimpegno. Un possibile effetto negativo del processo di globalizzazione è la tendenza a favorire tale sincretismo, alimentando forme di “religione” che estraniano le persone le une dalle altre anziché farle incontrare e le allontanano dalla realtà. Contemporaneamente, permangono talora retaggi culturali e religiosi che ingessano la società in caste sociali statiche, in credenze magiche irrispettose della dignità della persona, in atteggiamenti di soggezione a forze occulte. In questi contesti, l'amore e la verità trovano difficoltà ad affermarsi, con danno per l'autentico sviluppo.

56. La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » della religione cristiana.

La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo. L'esclusione della religione dall'ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l'incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell'umanità. La vita pubblica si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano di non essere rispettati o perché vengono privati del loro fondamento trascendente o perché non viene riconosciuta la libertà personale.

Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell'umanità.

57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari affermavano: « Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo centro e a suo vertice».

Per i credenti, il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore.

62. Un altro aspetto meritevole di attenzione, trattando dello sviluppo umano integrale, è il fenomeno delle migrazioni. È fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale. Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati. Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo.

Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori. Il fenomeno, com'è noto, è di gestione complessa; resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d'origine grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione.

Dall’esortazione apostolica Verbum Domini del 2010[6]:

17. Riaffermando il profondo legame tra lo Spirito Santo e la Parola di Dio, abbiamo anche posto le basi per comprendere il senso ed il valore decisivo della viva Tradizione e delle sacre Scritture nella Chiesa. Infatti, poiché Dio «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16), la Parola divina, pronunciata nel tempo, si è donata e «consegnata» alla Chiesa in modo definitivo, cosicché l’annuncio della salvezza possa essere comunicato efficacemente in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

Come ci ricorda la Costituzione dogmatica Dei Verbum, Gesù Cristo stesso «ordinò agli Apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da Lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con Lui e guardandoLo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo, quanto da quegli Apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza».

Il Concilio Vaticano II ricorda, inoltre, come questa Tradizione di origine apostolica sia realtà viva e dinamica: essa «progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo»; non nel senso che essa muti nella sua verità, che è perenne. Piuttosto «cresce … la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse», con la contemplazione e lo studio, con l’intelligenza data da una più profonda esperienza spirituale, e per mezzo della «predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità».

La viva Tradizione è essenziale affinché la Chiesa possa crescere nel tempo nella comprensione della verità rivelata nelle Scritture; infatti, «è questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture». In definitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci comprendere in modo adeguato la sacra Scrittura come Parola di Dio. Sebbene il Verbo di Dio preceda ed ecceda la sacra Scrittura, tuttavia, in quanto ispirata da Dio, essa contiene la Parola divina (cfr 2Tm 3,16) «in modo del tutto singolare».

52. Considerando la Chiesa come «casa della Parola», si deve innanzitutto porre attenzione alla sacra liturgia. È questo infatti l’ambito privilegiato in cui Dio parla a noi nel presente della nostra vita, parla oggi al suo popolo, che ascolta e risponde. Ogni azione liturgica è per natura sua intrisa di sacra Scrittura. Come afferma la Costituzione Sacrosanctum Concilium, «nella celebrazione liturgica la sacra Scrittura ha una importanza estrema. Da essa infatti si attingono le letture che vengono poi spiegate nell’omelia e i salmi che si cantano; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le orazioni e i carmi liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i simboli liturgici». Più ancora, si deve dire che Cristo stesso «è presente nella sua parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura».

In effetti, «la celebrazione liturgica diventa una continua, piena ed efficace proclamazione della parola di Dio. Pertanto la parola di Dio, costantemente annunziata nella liturgia, è sempre viva ed efficace per la potenza dello Spirito Santo, e manifesta quell’amore operante del Padre che giammai cessa di operare verso tutti gli uomini». La Chiesa, infatti, ha sempre mostrato la consapevolezza che nell’azione liturgica la Parola di Dio si accompagna all’intima azione dello Spirito Santo che la rende operante nel cuore dei fedeli. In realtà è grazie al Paraclito che «la parola di Dio diventa fondamento dell’azione liturgica, norma e sostegno di tutta la vita. L’azione dello stesso Spirito Santo … a ciascuno suggerisce nel cuore tutto ciò che nella proclamazione della parola di Dio viene detto per l’intera assemblea dei fedeli, e mentre rinsalda l’unità di tutti, favorisce anche la diversità dei carismi e ne valorizza la molteplice azione».

105. La Parola di Dio ci rende attenti alla storia e a quanto di nuovo in essa germoglia. Per questo il Sinodo, in relazione alla missione evangelizzatrice della Chiesa, ha voluto volgere l’attenzione anche al fenomeno complesso dei movimenti migratori, che ha assunto in questi anni inedite proporzioni. Qui sorgono questioni assai delicate riguardanti la sicurezza delle nazioni e l’accoglienza da offrire a quanti cercano rifugio, condizioni migliori di vita, salute e lavoro. Un grande numero di persone, che non conoscono Cristo o che ne hanno un’immagine inadeguata, si insediano in Paesi di tradizione cristiana. Contemporaneamente persone appartenenti a popoli segnati in modo profondo dalla fede cristiana emigrano verso Paesi in cui c’è bisogno di portare l’annuncio di Cristo e di una nuova evangelizzazione. Queste situazioni offrono rinnovate possibilità per la diffusione della Parola di Dio.

A tale proposito i Padri sinodali hanno affermato che i migranti hanno il diritto di ascoltare il kerygma, che viene loro proposto, non imposto. Se sono cristiani, necessitano di assistenza pastorale adeguata per rafforzare la fede ed essere essi stessi portatori dell’annuncio evangelico. Consapevoli della complessità del fenomeno, è necessario che le diocesi interessate si mobilitino affinché i movimenti migratori siano colti anche come occasione per scoprire nuove modalità di presenza e di annuncio e si provveda, a seconda delle proprie possibilità, ad un’adeguata accoglienza ed animazione di questi nostri fratelli perché, toccati dalla Buona Novella, si facciano essi stessi annunciatori della Parola di Dio e testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo».

Memorabile è stato l’Anno sacerdotale indetto da Benedetto per il 2009-2010, nel 150° anno della morte di San Giovanni Maria Vianney, che egli propose come modello di sacerdote, ottima idea che ebbe il Papa, giacchè un fattore fondamentale della crisi attuale della Chiesa è precisamente lo smarrimento o il fraintendimento del significato e del valore del sacerdozio, valore che coinvolge in sé i misteri centrali del cattolicesimo, a correzione dell’eresia luterana, da sempre incombente sulla Chiesa ed oggi più che mai, non sembrando sufficienti i rimedi  apposti dal Concilio di Trento e dallo stesso Vaticano II.

Da notare inoltre, fra i grandi atti del pontificato di Benedetto, il forte e saggio impulso alla conciliazione dei lefevriani con la Chiesa. Benedetto seppe dare col famoso motu proprio Summorum Pontificum, col quale, mentre ribadiva l’obbligo per i cattolici di frequentare la Messa novus ordo, facilitava la celebrazione della vetus ordo lodandone i pregi. Purtroppo gli scismatici non ebbero la lealtà di apprezzare nel modo giusto il gesto liberale del Papa, ma strumentalizzarono slealmente il documento per dar contro il novus ordo, il Concilio e l’autorità del Papa, tanto che Papa Francesco si vide obbligato a sventare questa mossa stringendo i freni e forse anche troppo.

Da Papa emerito Benedetto è stato vicino a Papa Francesco nell’esercizio del suo ministero con alcuni interventi significativi per integrare l’azione di Francesco laddove la giudicava bisognosa d’essere chiarita o appoggiata o interpretata.

Qual è l’eredità che Benedetto ha lasciato a Francesco e al prossimo Papa? Ben lungi dall’essere stato un semplice «conservatore», come qualche giornalista ha affermato – Papa Benedetto, a parte il dovere del Papa di conservare il deposito della fede, compito realizzato da Benedetto in modo esemplare – è stato modello di vero riformatore, secondo il dettato autentico del Concilio Vaticano II, contro la sua falsificazione modernista e lefevriana.

Gli aspetti positivi del Pontificato di Francesco non hanno fatto altro che riprendere la linea di Benedetto. Da questi dunque occorre che il prossimo Papa riprenda per far ulteriormente avanzare la Chiesa sulla via del regno di Dio, nella speranza di poterci liberare una buona volta dalla vieppiù insopportabile palla al piede del modernismo, immagine speculare del lefevrismo, e realizzare la vera modernità, come ha detto bene Massimo Cacciari, quella che ci insegnano le parole e l’esempio di Benedetto.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 gennaio 2023


 Immagine da Internet


[1] La distinzione fra vera e falsa riforma era già presente nel libro poderoso del Padre Yves Congar  Vera e falsa riforma della Chiesa, che risale addirittura agli anni ’50 del secolo scorso.

[2] Peter Paul Saldanha, Revelation as “self-communication of God”, Urbaniana University Press, Rome 2005,pp.114-119.

[3] Rivelazione e Tradizione, Morcelliana, Brescia 1970.

[4] Les principes de la théologie catholique, Téqui Paris 1982, p.188.

[5] Bastava che si fosse limitato a quelle che gli restavano, come avevano sempre fatto tutti i Papi fino all’esaurimento delle forze. Nessuno gli chiedeva di più. Ma d’altra parte, come dire che era stato lasciato solo? Non se la è sentita. E lo comprendiamo, benché la cosa fosse evidente.

[6] Vedi la raccolta di studi su questo documento in Sacra Doctrina 52, 2013, n.3.

7 commenti:

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  2. Caro padre Giovanni,
    il suo articolo è una luminosa interpretazione del messaggio di Benedetto XVI, quale promotore dell'autentica riforma del Concilio Vaticano II. Se ogni Santo (e Benedetto lo è secondo me) ha un'idea chiave, un messaggio, una "causa" per la sua canonizzazione, questa è proprio la "causa" per la beatificazione di Benedetto XVI: la sua fedeltà al progetto di riforma conciliare, fedeltà che lo portò al martirio (per opera dei modernisti) delle sue dimissioni.
    D'altra parte, e in un aspetto meno importante ma anche prezioso, sono felice che lei abbia per un momento abbandonato la parola "passatisti" (termine che può essere molto utile in molti altri contesti, per riferirsi all'attuale generale " indietristi") da quello di "lefebvriani", così identificato per nome e cognome al settore che guida la ribellione passatista.
    In questi giorni si è parlato molto del motu proprio Traditionis custodes "spezzando il cuore" di Benedetto XVI leggendolo (personalmente credo che abbiano sfruttato alcune infelici parole di monsignor Gänswein), e sono gli stessi che dimenticano che tra coloro che "spezzarono il cuore" di Benedetto ci sono, e non negli ultimi posti, i lefebvriani, con la loro ostinazione a rimanere nell'eresia e nello scisma, nonostante i "dialoghi teologici" a cui Benedetto si appoggiò, e la revoca delle scomuniche.
    Grazie per il suo articolo.

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    1. Caro Silvano,
      sono molto contento per come lei ha compreso il mio pensiero e, considerando la stima che io ho per lei in base a precedenti contatti, le sue parole mi confermano nella mia opinione.
      Ritengo anch’io che Papa Benedetto sia stato un Santo. Quello che mi auguro è che Papa Francesco rifletta e prenda esempio da questo vero riformatore, che ci indica la vera strada del rinnovamento conciliare, sfatando tutte le illusioni e gli inganni che ci vengono dai modernisti.
      Per quanto riguarda i lefevriani, certamente egli ha sofferto anche da parte loro, benchè si sia mostrato molto accogliente col suo famoso Motu Proprio Summorum Pontificum.
      In sostanza, Papa Benedetto ha riprodotto in sé la vita stessa di Gesù Cristo: ha annunciato la verità, ha sofferto per la verità e come Gesù è stato lasciato solo. Tuttavia, insieme con Gesù, ha potuto dire: “Io non sono solo, ma il Padre è in me”.

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  3. Caro padre Cavalcoli,
    Vi ringrazio per avermi preso in considerazione e stima, sono orgoglioso che sia così.
    Mi sembra utile segnalare un articolo di Philippe Maxence apparso su Le Figaro del 31 dicembre, dal titolo "Les trois décisions historiques de Benoît XVI". Sicuramente la sua padronanza della lingua francese li permetterà di leggerlo senza difficoltà. Puoi trovarlo su: https://www.lefigaro.fr/vox/religion/les-trois-decisions-historiques-de-benoit-xvi-20221231
    Ha diversi aspetti positivi, anche se alcuni negativi (che mi fanno pensare a una tendenza passatista del autore).
    L'autore considera le tre scelte storiche del pontificato di Benedetto XVI: 1) insegnare che ci sono due interpretazioni del Concilio, una falsa, quella di rottura, e l'altra autentica, quella di continuità; 2) porre fine alla disputa liturgica, consentendo a ogni sacerdote di celebrare il vetus ordo; e 3) offrire agli anglicani un modo per preservare le loro tradizioni quando si convertono al cattolicesimo accettandone pienamente la dottrina e la disciplina.
    Io potrei essere d'accordo con tale schema e sintesi.
    Tuttavia, segnalo alcuni punti deboli, o che sembrano sbagliati nell'autore:
    - dà l'impressione che sarebbe indifferente per un sacerdote celebrare la Messa secondo il novus ordo o il vetus ordo; quando in realtà Benedetto ha indicato l'obbligo che ha ogni fedele di assistere alla Messa di Paolo VI (come lei ha molto ben sottolineato).
    - ritiene che il motu proprio Traditionis Custodes di Papa Francesco sia in linea di rottura con il M.P. Summorum Pontificum, il che è assolutamente sbagliato (e mi fa pensare alla ideologia passatista dell'autore di questo articolo).
    A mio avviso, Traditionis Custodes è in linea con Summorum Pontificum, anche se forse (come lei giustamente dice) le restrizioni disciplinari imposte da Papa Francesco per la celebrazione del vetus ordo sono eccessive (in questi giorni il cardinale Müller ha affermato che "Traditionis custodes è stata una misura imprudente", che ha indotto i pasadisti a interpretare le parole di Müller a proprio vantaggio).

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    1. Caro Silvano,
      per quanto riguarda il provvedimento a favore degli anglicani convertiti al cattolicesimo, è ovvia la sua saggezza, ma d’altra parte mi sembra che non poteva fare diversamente. Probabilmente la conversione degli anglicani è anche merito suo.
      Per quanto riguarda il dialogo con i lefevriani, furono sagge quelle sue parole quando disse che la parte pastorale del Concilio poteva essere discussa, ma precisò ai lefevriani che, se volevano essere in piena comunione con la Chiesa, avrebbero dovuto accogliere le nuove dottrine del Concilio.
      In terzo luogo è da sottolineare la distinzione che egli fece tra il rito ordinario della Messa, cioè il Novus Ordo, e il rito straordinario, il Vetus Ordo. Anche qui mostrò un grande equilibrio e la capacità di accogliere il positivo che si trova tra i lefevriani, pur ribadendo il primato del Novus Ordo e l’obbligo di ogni cattolico di accoglierlo.

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  4. Caro Padre, nel mio commento precedente ho dimenticato di segnalare un punto importante del suddetto articolo in francese, che mi sembra un grossolano errore: l'autore indica che la convocazione del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, che si riunirà in ottobre, è proprio il colpo di grazia al MP Summorum Pontificum e all'opera di conciliazione liturgica nella Chiesa.

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    1. Caro Silvano,
      concordo con lei nel ritenere che l’opinione di quel giornalista sia del tutto infondata.
      La Messa Vetus Ordo è una vera Messa. Quindi è assolutamente impensabile che possa essere abolita da qualunque autorità. Quello che un Papa può fare e sta facendo è quello di regolamentare la celebrazione del rito secondo modalità che possono essere o più liberali o più ristrettive, cosa che del resto sta già avvenendo se seguiamo i diversi atteggiamenti in merito da parte dei Papi.

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