Il rimedio alla ambiguità del linguaggio - Seconda Parte (2/3)

 Il rimedio alla ambiguità del linguaggio

Seconda parte (2/3)

L’ambiguità del linguaggio è segno di ipocrisia

Alla persona doppia la fermezza appare rigidità, la tenacia appare ostinazione, la certezza appare dogmatismo, la saldezza sembra cocciutaggine, l’evidenza è pura apparenza, la fedeltà sembra conservatorismo, l’affermazione del vero appare presunzione, la condanna dell’errore appare violenza, l’ambiguità e la finzione appaiono prudenza e saggezza.

«Semplici come le colombe, prudenti come i serpenti» (Mt 10,16). Occorre difendersi dagli ingannatori e dagli impostori. Sempre nell’onestà, il linguaggio tuttavia con costoro dev’essere cauto e misurato, tale da non lasciar scoperte fessure dalle quali il nemico può entrare, tale da non poter essere strumentalizzato e tale da svelare i loro inganni e metterli davanti alle loro responsabilità. Occorre imparare un linguaggio tale da poter sfuggire alle insidie e alle trame del nemico; semplici sì, ma occorre evitare quelle ingenuità, delle quali il nemico potrebbe servirsi per umiliarci.

Precetto simile a questo è il seguente: «Con l’uomo puro tu sei puro, con il perverso tu sei astuto» (Sal 18,27).  Esiste un’astuzia onesta, distinta dall’astuzia disonesta, tipica del linguaggio doppio. L’astuzia in generale è il moto ingegnoso e sinuoso col quale escogitiamo espedienti efficaci per sottrarci dalla vista del nemico, per ripararci dai suoi attacchi, per sconcertarlo o spaventarlo, per sviare le sue ricerche, per far fallire i suoi piani, attutire i colpi e colpirlo senza che se accorga, per costringerlo a neutralizzarsi con le sue stesse mani. Grande abilità è fare in modo che il nemico si confuti da solo.

L’astuzia è onesta, quando il suo fine è onesto. Altrimenti è disonesta. L’astuzia onesta è quella che sa svincolarsi dai lacci del perverso, sfuggire alle sue insidie, sottrarsi ai suoi soprusi, evitare i suoi tranelli.

Il rischio di essere fraintesi è sempre presente nel nostro parlare. Per questo, buona norma della saggezza tradizionale è quella di parlare poco. In alcuni istituti monastici, come sappiamo, vige addirittura la regola del silenzio. Oggi non ci si rende conto che è facile peccare nel parlare.

Si esalta troppo la comunicazione verbale, credendo che essa sia automaticamente segno di socievolezza e fraternità. Quello che conta, invece, non è tanto la quantità delle parole, ma la qualità, che va studiata con attenzione, non tanto nell’eleganza della forma o dello stile – non è obbligo per tutti esprimersi come Alessandro Manzoni -, quanto piuttosto nella sua sincerità, precisione, proprietà ed aderenza al pensiero.

Per questo il Salmo dice «i detti del Signore sono puri, argento raffinato nel crogiuolo, purificati nel fuoco sette volte», (Sal 12,7). Non senza ragione il linguaggio diplomatico e curiale civile ed ecclesiastico è molto studiato, proprio al fine di essere gradevole, rispettoso, rettamente interpretato e di non offendere l’ascoltatore. La diplomazia è carità, come diceva San Giovanni XXIII, uomo di umilissime origini montanare, ma che fu abile diplomatico della Santa Sede per nessun altro motivo che per esercitare la carità.

 Occorre pertanto esser pronti a correggere una parola equivocabile o non perspicua, o che ci è imprudentemente sfuggita di bocca. Bisogna spiegarsi meglio, se le nostre parole suscitano meraviglia o turbamento. Bisogna chiedere perdono per le parole fuori posto, si fosse anche Papa. E bisogna approfittare dello scritto per limare il più possibile le nostre parole, affinchè siano sincere, aderenti al nostro pensiero ed edificanti. Provar gusto nello scandalizzare il prossimo con le nostre parole è segno di animo gretto e crudele.

Il Signore è severo contro chi pecca nel parlare: «Di ogni parla infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Mt 12, 36-37).

L’ipocrisia è un vizio grave, contro il quale Gesù nel Vangelo polemizza in modo particolarmente aspro e severo, minacciando addirittura il castigo infernale. Cristo, che è sempre così misericordioso con tutti, è particolarmente severo contro gli ipocriti, i quali peraltro nel Vangelo non danno segni di ravvedimento, ma sono proprio coloro che procureranno la morte di Cristo.

Ora, Papa Francesco è il primo Gesuita che sia mai salito al soglio pontificio. Vediamo in lui i pregi ma anche i difetti di una certa spiritualità ignaziana. In questo articolo vorrei fermarmi su di un difetto a tutti noto, tanto che ha dato luogo addirittura ad una voce del vocabolario, per esempio lo Zingarelli, il quale alla voce «gesuita», dopo aver citato naturalmente il membro della Compagnia di Gesù, aggiunge però: «(spreg.) persona ipocrita ed astuta».

Papa Francesco dovrebbe rendersi conto che con la sua ambiguità di linguaggio perde la stima dei buoni fedeli, favorisce dentro e fuori della Chiesa le persone doppie, non procura nuovi fedeli alla Chiesa e fa diminuire quelli che ci sono, perché l’uomo onesto non cattolico non può sentirsi attirato da una Chiesa il cui capo dà prova di doppiezza, mentre chi è dentro non ci si ritrova più in una Chiesa dove regna l’ipocrisia.

Molte volte è stato fatto notare al Papa questo difetto, che non compromette assolutamente la sua infallibilità di Maestro della Fede, però crea dubbi su di essa, ma questa osservazione ha un carattere esclusivamente morale e pastorale. Ma purtroppo non pare che il Papa dia ascolto a questo illuminato consiglio, che serve a far sì che non sia arrecato disonore o irriverenza all’autorità, limpidezza e dignità evangeliche del suo altissimo ministero, consiglio che gli viene dai cattolici onesti, anche se la doppiezza degli altri per la doppiezza dei modernisti va sempre bene.

Non è facile capire perchè Francesco non si corregga e continui ogni tanto ad uscire in frasi ambigue in materia di fede o di morale. Forse è un vizio radicato, che non riesce a togliersi. Forse, vittima di una formazione gesuitica sbagliata, ed accettato così dai suoi amici e devoti, non si rende del tutto conto. Comunque noi non dobbiamo farne una questione di principio; accettiamo il Papa nella sua umanità, senza erigerci a giudici e pensiamo piuttosto che siamo peccatori anche noi, accettiamolo così com’è, chiudiamo un occhio e apprezziamolo nei suoi lati positivi.

Resta comunque vero, in linea di principio, che anche dall’ambiguità del linguaggio e dall’ipocrisia, come da tutti i vizi, è possibile guarire, purché lo si voglia e si dia al proprio rapporto con la realtà e con la verità un orientamento lineare, realistico, coerente, schietto e deciso, senza tentennamenti ed incertezze, a costo di ogni sacrificio e rinuncia. L’uomo è fatto per la verità e il richiamo della coscienza non cessa. Occorre vincere l’astuzia e l’orgoglio, rinunciare alla brama del successo e di prevalere sugli altri, staccarsi dal peccato che coonesta la doppiezza, ed ascoltare la voce della coscienza.

In che consiste il vizio e quali i rimedi

A parte il riferimento al Papa, quello che io vorrei mettere n evidenza sono i caratteri di quella doppiezza, che oggi è un vizio molto diffuso. Vediamo in che cosa consiste l’ambiguità del linguaggio e quali ne sono le cause. Come per tutte le malattie dello spirito, per guarirla, occorre rimuovere le cause. Il termine ipocrisia implica un giudicare nascosto o celato: ypò-krino=giudico-sotto. L’ipocrita è uno che sostituisce la semplicità del giudicare - «semplice come una colomba» - con un giudizio doppio o sdoppiamento del giudizio: un giudizio nascosto, che resta nell’intimo della mente e un giudizio proferito all’esterno sulla stessa materia, ma in forma contradditoria, giudizio che è in contraddizione con quello che realmente è pensato. Nel giudizio nascosto c’è quello che realmente penso; in quello esterno quello che sembro pensare e che do ad intendere di pensare, sia una simulazione o sia una dissimulazione, e quindi la menzogna, se menzogna è non dire la verità.

L’ipocrita finge un comportamento virtuoso secondo il paradigma socialmente accettato o proposto dall’ambiente del suo tempo o della sua classe sociale.  Egli non cerca la gloria che viene da Dio, ma quella che viene dagli uomini. Anche qui il suo giudicare è doppio: manifesta esteriormente un giudicare morale gradito all’ambiente umano o sociale, ma interiormente le sue intenzioni sono quelle di affermare se stesso e la propria volontà. La radice dell’ipocrisia, come per tutti i vizi, è la superbia, per la quale l’uomo non giudica esser bene ciò che è veramente bene, ma ciò che corrisponde al peccato al quale è attaccato.

L’ipocrita non orienta coerentemente se stesso a Dio solo come a sommo bene, fine ultimo, ma pone il mondo o se stesso accanto a Dio e alla pari di Dio, in modo che la direzione della sua vita si sdoppia: viene a servire a due padroni: Dio e il mondo. E da qui la duplicità ed ambiguità del giudicare propria dell’ipocrisia.

La doppiezza e l’ambiguità del linguaggio nascono dalla volontà di servire a due padroni: Dio e il proprio io. Da qui un linguaggio che possa essere interpretato in doppio senso: o come servizio all’io o come servizio a Dio. Non servire la Chiesa ma servirsi della Chiesa non quindi per il successo di Dio ma per il proprio successo, fingendo di lavorare per Dio e per la Chiesa.

L’ambiguo riduce l’aut-aut all’et-et: non sa dire un sì assoluto a Dio, ma si barcamena ed oscilla fra Dio e il mondo: non il sì nell’esclusione del no, ma tanto il sì che il no, non il vero nell’esclusione del falso, ma tanto il vero quanto il falso. Da qui l’ambiguità del suo giudicare. Tra il sì e il no ammette un terzo: il sì-no. Il suo giudicare può essere sì ma può essere anche no. Il falso diventa il diverso e il diverso diventa il falso. In tal modo il male diventa bene e al posto del confronto con l’altro nasce la faziosità.

 Nell’ipocrita manca l’amore per la verità a causa dell’amore per il peccato, al quale l’ipocrita è attaccato, come dice Cristo: «chi fa il male, odia la luce e non viene alla luce perchè non siano rivelate le sue opere» (Gv 3, 20). La duplicità del giudizio nasce dal fatto che egli finge di amare la verità elaborando una dottrina che giustifica il suo peccato. In tal modo ciò che dice sembra vero ma non lo è. Cela il giudizio falso sotto un giudizio apparentemente vero.

La doppiezza del linguaggio può sorgere da una mancata soluzione circa l’esistenza della verità. L’intelletto è ossessionato dal timore di sbagliare e di essere quasi costitutivamente nell’errore: la realtà, la «cosa in sé» è irraggiungibile e non possiamo conoscere il reale fuori di noi così com’è.

Ho notato in un mio recente articolo come Padre Bergoglio, accortosi di questo vizio proprio dell’idealismo tedesco, reagì vigorosamente con una forte affermazione di realismo gnoseologico. Temo, tuttavia, che egli sia rimasto in qualche misura infetto dalla doppiezza hegeliana, strutturata nella famosa dialettica della contraddizione e del terzo incluso, la cosiddetta «sintesi degli opposti».

Il Vangelo, invece, è chiarissimo nell’escludere assolutamente ogni tipo di doppiezza, ambiguità, ipocrisia e doppio gioco. Per esempio, i discepoli dei farisei con gli erodiani interrogarono Gesù in maniera apparentemente sincera ed innocente circa il dovere o meno di pagare il tributo a Cesare, ma in realtà con l’intento di cogliere Gesù in fallo, perché, nei loro calcoli, prevedevano che comunque Gesù avesse risposto, avrebbero avuto modo di accusarlo (Mt 22, 17).

Simile ipocrisia dimostrano i suoi avversari, quando Gesù pone loro la domanda da dove veniva il battesimo di Giovanni, se dal cielo o dagli uomini (Cf Mc 11,30). Essi sapevano benissimo che comunque avessero risposto, Gesù li avrebbe colti in castagna. Ma per non fare questa figura dicono falsamente che non lo sanno.

Il linguaggio cristiano ha sommamente il dovere e il potere di essere onesto ed inequivocabile. È sommamente importante e necessario alla salvezza esprimere con precisione e chiarezza il contenuto del dogma, ossia dell’interpretazione ecclesiale della Parola di Dio e dell’eresia, ovvero della falsificazione del dogma o della verità rivelata.

Dio ha concesso al Domenicano in sommo grado nella Chiesa questa chiarezza di idee, questa facoltà di discernimento e di giudizio, questa luminosità e persuasività d’insegnamento e questa chiarezza d’espressione, rappresentata col simbolo del sole, spesso posto nel petto di San Tommaso d’Aquino in certe sue immagini, tanto che il Magistero si serve preferenzialmente del linguaggio di San Tommaso per definire i dogmi e le eresie.

Il Gesuita deve vigilare contro la tendenza alla doppiezza

L’ideale ignaziano è nato in un momento della Chiesa, nel quale ce n’ era estremo bisogno: una milizia di apostoli in obbedienza al Papa per difendere e proteggere la Chiesa dall’insidia luterana e ricondurre all’ovile le pecore disperse dall’opera di Lutero, una milizia di difesa e di attacco, fatta di audacissimi militi, pronti a dare la vita per la causa di Cristo agli ordini del Papa.

Occorreva effettivamente aggiungere all’opera dei Domenicani, predicatori della verità teologica, ma meno dotati nella prassi ecclesiale, una milizia esperta nella prassi ecclesiale, anche se meno dotata nella speculazione teologica. Infatti il problema posto da Lutero non toccava tanto la dottrina, come nel caso di altri eretici, quanto la vita e l’organizzazione della Chiesa, che era squassata dalle fondamenta e deformata dalla falsa riforma luterana.

Occorrevano uomini d’azione organizzati, disciplinati, decisi, astuti contro un nemico astuto, travolgenti come travolgente era stato Lutero, persuasivi come era stato Lutero, difensori del Papa per quanto Lutero gli era stato nemico.

E difatti i Gesuiti, coraggiosissimi ed intraprendenti missionari soprattutto in estremo Oriente, dettero alla Chiesa nei secc. XVI-XVIII numerosissimi martiri. Ignazio, da ex-militare, non aveva troppi scrupoli a ricorrere all’astuzia così come fa il militare con un nemico infido e subdolo, a cogliere il nemico di sorpresa e anche a colpirlo con l’inganno e con l’attuazione di un piano segreto.

Ma una qualità eccellente del Figlio di Sant’Ignazio, che rende il Gesuita modello di guida delle anime per tutta la Chiesa, è la sua sapienza pratica nella direzione spirituale mediante i famosi Esercizi spirituali, concepiti sul modello dell’addestramento militare come esercitazione metodica e ordinata di tutte le potenze dell’anima, intelletto, volontà, passioni, immaginazione, sensibilità e motilità corporea per il raggiungimento della meta dell’«uomo spirituale», nel pieno dominio di se stesso ed ordinamento interiore unitario delle sue potenze vitali nella ricerca della santità, nel discernimento quotidiano della volontà di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo e nella devozione al Sacro Cuore di Gesù.

Il metodo ignaziano ha formato e forma generazioni di santi e di preziose guide spirituali, scuole di spiritualità anche interreligiosa, confessori di ogni categoria di persone, dai sovrani alle persone più umili, scrittori spirituali apprezzatissimi di ascetica e mistica, ed efficaci predicatori di esercizi spirituali.

Mentre il Gesuita ha questa speciale attitudine alla guida della singola persona, nella concretezza del quotidiano e secondo le particolari caratteristiche positive e negative di ogni persona, per la coscienza viva che il Gesuita ha della volontà del singolo, il Domenicano è più portato a impostare il rapporto col prossimo sul piano dell’apertura alla verità e dell’universalità del vero, creando l’unità e la concordia degli spiriti attorno all’universalità del vero, del bene e del bello creati da Dio e conducenti a Dio. Per questo il teologo domenicano è il fondatore della teologia scolastica e del linguaggio della teologia.

È chiaro che il linguaggio che sgorga dalla formazione spirituale ignaziana non può che essere il «linguaggio della sapienza» (I Cor 12,8), il linguaggio spirituale dell’uomo spirituale (Cf I Cor 2,13-15). Esso, nella sua limpida sapienza, stride fortemente con un certo difetto contrario, come succede in tutte le realtà umane, anche le più sante.

Un appunto infatti che si fa tradizionalmente allo stile dei Gesuiti è quello della finzione sia pure a fin di bene. Ma si può ottenere il bene dalla falsità? Il Gesuita ama assumere le apparenze del suo avversario che intende conquistare alla fede. Egli certo è stato un precursore dell’inculturazione, per esempio col Padre Matteo Ricci. Tuttavia ci chiediamo: con questo dare le apparenze del nemico che deve combattere, non può finire per sembrare lo stesso nemico e per fare il suo gioco? Non corre il rischio di dar corda in questo modo allo stesso avversario?

Per spiegare questa tendenza alla simulazione e all’astuzia, occorre tener conto del fatto che Sant’Ignazio, pur andando soggetto a una meravigliosa conversione, che lo trasformò da rude soldato spagnolo in eroico soldato di Cristo, da gradasso autore di mirabolanti imprese ad umile esecutore dei piani di Dio, mantenne nell’impostazione del suo apostolato, qualcosa dello stile militaresco e dei suoi stessi difetti.

Il militare, infatti, suppone di avere a che fare con un nemico infido e subdolo, che appena può, te la vuol fare, che ti considera un tonto o un ingenuo facilmente manovrabile e circuibile. Da qui l’estrema circospezione del Gesuita, il senso vivissimo del concreto, delle circostanze, dei contesti e delle situazioni, che sarà all’origine della famosa casistica dei moralisti gesuiti, la tendenza del Gesuita al ricorso all’inganno o alla cosiddetta «riserva mentale»[1], dato che è lecito ingannare il nemico, difendersi dall’astuzia con l’astuzia, il tendere trabocchetti al nemico, il camuffarsi e celarsi, l’azione segreta, da cui la famosa figura del «Gesuita segreto», il ricorso al silenzio: «taci, chè il nemico ti ascolta!».

Viceversa il Domenicano non concepisce tanto il rapporto con l’eretico come un combattimento nel quale cercare la vittoria, quanto piuttosto vede l’eretico con l’occhio del medico, come un malato da guarire. Il Domenicano suppone nell’eretico una persona in buona fede, e per questo non si camuffa e non finge, ma lo rimprovera apertamente, francamente, lealmente, a viso aperto, a costo di ricevere anche una forte opposizione. Non si sottrae ai suoi colpi, ma offre il petto senza paura, forte della certezza di aver ragione.

Il Gesuita, invece, nato nel clima rinascimentale che apprezza l’uomo astuto, colui che vince anche in modo sleale, resta in certa misura influenzato dal dall’ideale del conquistatore, la cui condotta doppia e astuta, da «volpe e lione», è esaltata dal Machiavelli, un ideale umano lontanissimo dalla franchezza e dalla lealtà cavalleresca dei grandi Santi medioevali, ai quali si era ispirato San Domenico.

Il Gesuita tende a volte ad un accumulo eccessivo di nozioni, che lo conduce ad una teologia sincretista, che mette assieme dottrine incompatibili fra di loro (Suarez). L’erudizione sembra prevalere sulla sintesi sapienziale. Il Gesuita è l’apologeta del pluralismo teologico; ma comprende egli sempre bene i limiti di questo pluralismo?

Ha sempre chiaro il principio che questo pluralismo, per essere legittimo, deve stare dentro i confini dell’ortodossia? È sempre capace di dominarlo per creare una sintesi dottrinale o tende a volte a disperdersi nell’attenzione inutilmente erudita di una serie infinita ed ingovernabile di tendenze particolari? Non mette a volte la molteplicità prima dell’unità? Non tende a volte a scambiare il falso col diverso? L’obbligatorio col facoltativo? L’assoluto col relativo?

 Il Gesuita ama le imprese dottrinali e pastorali spericolate, ma a volte rischia di combinare guai. I Gesuiti non vogliono farsi dei nemici per motivi dottrinali. È interessante come non abbiano mai accettato l’ufficio di Inquisitori. Essi, per un’esagerata e volontaristica esaltazione dell’azione, badano troppo al concreto svalutando i princìpi astratti, che invece sono vere guide, le norme oggettive, assolute, immutabili ed universali di ogni azione, come ci ricorda Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti.

E noto è anche l’aspetto volontaristico della spiritualità ignaziana; spiritualità dal timbro fortemente morale, al centro dell’interesse teologico c’è la volontà di Dio nell’uomo. Da qui anche il famoso «quarto voto di obbedienza al Papa». Il fine della volontà, più che essere prefissato come vero alla stessa volontà è un vero che emerge dalla stessa volontà.

Questo volontarismo ha reso possibile nel sec. XVII la tesi del cosiddetto «peccato filosofico»[2]: un atto può essere contro la ragione senza per questo mancare di essere conforme alla volontà di Dio. Essa favorisce quel lassismo morale, contro il quale si scagliò Pascal. Una tesi simile la troviamo nell’opposizione rahneriana fra «atti categoriali», moralmente indifferenti, ed «opzione fondamentale atematica», la scelta per Dio.

Conseguenze dannose della doppiezza nella Compagnia di Gesù 

Capita a volte che a causa di un modesto acume intellettuale e scarsità di forza astrattiva del pensiero, il Gesuita è portato a confondere la volontà con l’affettività, concependo una mistica non fondata sui concetti della fede, ma sul sentimento soggettivo (Rahner).  Capita che dia troppa importanza alla forza del libero arbitrio, e così è portato a concepire l’atto del libero arbitrio non come mosso da Dio, ma da se stesso (Molina). Capita che il Gesuita dia troppa importanza alla coscienza così da darle il primato sulla verità (Arturo Sosa Abascal). Succede che il Gesuita faccia derivare la verità dalla prassi, anziché la prassi dalla verità (Spadaro).

Certo stupisce il cambiamento dell’impostazione gesuitica avvenuto col Concilio Vaticano II: da milizia compatta e disciplinata obbediente al Magistero ancora con Pio XII a raggruppamento di correnti contradditorie a prevalenza moderniste e rahneriane nel postconcilio; dall’esaltazione dell’obbedienza all’esaltazione della libertà. Dall’obbedienza al magistero pontificio alla sua aperta contestazione a partire da San Paolo VI.

Così i Religiosi che maggiormente hanno fatto soffrire i Papi del postconcilio da San Paolo VI a Benedetto XVI sono stati i Gesuiti, con la loro ipocrisia, il loro narcisismo, la loro saccenteria, finta obbedienza e finto progressismo, tanto che San Giovanni Paolo II, appena giunto al soglio pontificio, aveva in animo di sopprimere la Compagnia, se non fosse stato distolto dal Segretario di Stato Card. Casaroli[3].

Infatti il Papa aveva in mente l’esempio del suo predecessore Giovanni Paolo I, il quale aveva in programma in occasione della loro prossima XXXIII Congregazione di fare ai Gesuiti un forte rimprovero e richiamo alla fedeltà al Papa, se non fosse improvvisante e misteriosamente morto poche settimane prima del convegno dei Gesuiti.

L’astuzia di certi Gesuiti di oggi sta nell’esibirsi come obbedientissimi a Papa Francesco, che non risparmia ingenuamente parole di lode, non fa loro nessun rimprovero, quel Papa Francesco, del quale si ritengono intimi amici in piena comunione di idee e d’intenti. E quando c’è un amore così intenso, come non ci sarebbe obbedienza? Tuttavia Francesco non li accontenta in quello che sarebbe il loro sogno: fare le lodi di Rahner. Ma Francesco si guarda bene dal farlo? Come mai?

Adesso che i Gesuiti hanno uno di loro a Capo della Chiesa mi sembrano presi dalla vertigine del dominio e che si credano più che mai la punta avanzata della Chiesa. Bisogna che riflettano e si domandino che ne pensa Sant’Ignazio lassù dal cielo. Il loro voto d’obbedienza al Papa non è venuto meno. Certo, quanto a Papa Francesco, abituato ad obbedire al Papa, può domandarsi: adesso che sono io il Papa, a chi obbedisco? Il demonio potrebbe suggerirgli: obbedisci a te stesso. E difatti ogni tanto Francesco ha dei gesti sconcertanti di improvviso autoritarismo e di trascuratezza dell’esempio che gli viene dai Santi Pontefici che l’hanno preceduto. Non sarebbe meglio che ne facesse tesoro?

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli 

Fontanellato, 4 luglio 2021.


L’ideale ignaziano è nato in un momento della Chiesa, nel quale ce n’era estremo bisogno: una milizia di apostoli in obbedienza al Papa per difendere e proteggere la Chiesa dall’insidia luterana e ricondurre all’ovile le pecore disperse dall’opera di Lutero, una milizia di difesa e di attacco, fatta di audacissimi militi, pronti a dare la vita per la causa di Cristo agli ordini del Papa.

Una qualità eccellente del Figlio di Sant’Ignazio, che rende il Gesuita modello di guida delle anime per tutta la Chiesa, è la sua sapienza pratica nella direzione spirituale mediante i famosi Esercizi spirituali, concepiti sul modello dell’addestramento militare come esercitazione metodica e ordinata di tutte le potenze dell’anima, intelletto, volontà, passioni, immaginazione, sensibilità e motilità corporea per il raggiungimento della meta dell’«uomo spirituale», nel pieno dominio di se stesso ed ordinamento interiore unitario delle sue potenze vitali nella ricerca della santità, nel discernimento quotidiano della volontà di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo e nella devozione al Sacro Cuore di Gesù.

 Immagine da internet


[1] Consiste nel sostenere una cosa lecita nascondendone un aspetto lecito ma che potrebbe scandalizzare chi ascolta e dando nel contempo all’altro l’idea di aver detto tutto su quella cosa.

[2] Cf Denz.2291.

[3] Cf il racconto che ne fa Malachi Martin,ne I Gesuiti, SugarCo Edizioni, Milano 1988.

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