Bisogna
prendere da Dio anche il male
Giobbe
citato a sproposito
Deus dedit, Deus abstulit:
sit nomen Domini benedictum
Sul sito
della CEI il 26 giugno scorso è apparso un documento della Commissione
dottrinale della CEI dal titolo È risorto
il terzo giorno, contenente alcune considerazioni spirituali-teologiche
relative all’attuale pandemia. Al paragrafo intitolato Il Sabato Santo troviamo le seguenti parole:
In questi mesi, purtroppo, sono state anche rilanciate interpretazioni
teo-logiche fuorvianti sulle origini della pandemia, presentata come punizione
o flagello di Dio per i peccati degli uomini. Sono interpretazioni che hanno il
sapore amaro delle parole degli amici di Giobbe che, presumendo di dare una
spiegazione “logica”, finiscono per non sentire il dolore dei sofferenti e
quindi non pensano secondo il Dio della Bibbia.
Queste parole sono
l’effetto di un equivoco gravissimo: il credere che l’interpretare la pandemia
come castigo divino per i peccati dell’umanità sia necessariamente connessa ad
una mancanza di pietà per i sofferenti. Questa tesi è falsissima. Al contrario,
è proprio la pietà per i sofferenti che induce il predicatore a far presente ai
peccatori sofferenti che la pandemia è un castigo divino per i loro peccati.
Misericordioso è infatti colui che, vedendo qualcuno nel pericolo, lo avverte affinché
egli possa scampare.
Il cristiano
soccorre i sofferenti, buoni e cattivi, perché li vuole liberare dalla
sofferenza, ma nel contempo, se sono buoni, li esorta a considerare la pandemia
una prova della loro fede e della loro pazienza, nonché ad offrire per i
peccatori.
E se sono
peccatori, li esorta a prender atto dei loro peccati, a considerare le loro
pessime conseguenze, fornendo loro i mezzi per liberarsene, che sono il prendere
la sofferenza dalle mani di Dio come giusto castigo, il pentirsi dei propri
peccati, farne penitenza, riparare ed invocare la divina misericordia con serio
proposto di emendarsi.
Ma è semplicemente ridicolo paragonare
l’umanità peccatrice di oggi al povero innocente e virtuoso Giobbe, timorato di
Dio, che prende fiduciosamente da Lui sia il bene che il male, quando sappiamo
bene quanti e quali gravissimi peccati oggi vengano commessi spavaldamente, in
spregio alle leggi del Signore, senza alcun pentimento e penitenza,
eventualmente nell’illusoria certezza che Dio non castiga, ma approva.
Gli amici di Giobbe lo amareggiano perché vogliono per forza renderlo colpevole, quando egli è innocente. Ma chi
nell’umanità di oggi si trova nelle condizioni di Giobbe? Certo, non vogliamo sostituirci
al giudizio divino e non conosciamo l’intimo delle coscienze, ma stando ai
fatti che possiamo osservare, come non constatare la larga diffusione e pratica
di peccati di ogni genere, sfacciatamente attuati, esaltati e propagandati?
Quanti allora oggi seguono le virtù di Giobbe, sì che appaia inopportuno
avvertirli che la pandemia è castigo delle loro colpe?
È vero, tanti buoni e innocenti sono colpiti
dalla pandemia, e qui certamente non assumeremo la petulanza degli amici di
Giobbe. Ma d’altra parte, non resta sempre utile ricordare che anche i più
buoni fra noi sono pur sempre figli di Adamo e quindi soggetti, se non altro, alle
conseguenze del peccato originale?
Giobbe si proclama innocente ed è
effettivamente possibile che non avesse colpe gravi sulla coscienza, benché
forse non conoscesse le parole del Salmo De
profundis: si iniquitates
observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit? D’altra parte i suoi amici
partivano da una visuale troppo ristretta della giustizia divina: è vero che se
soffriamo è perché abbiamo peccato, ma essi non consideravano o non sapevano
che le sofferenze di questa vita, anche nei più buoni, sono quanto meno
conseguenze del peccato originale.
E non consideravano o non sapevano neppure il
motivo della sofferenza di Giobbe, motivo che, come è narrato all’inizio del
racconto, è dato dal fatto che Dio permette al diavolo non di punire Giobbe,
che non lo meritava, quanto piuttosto di mettere alla prova la sua virtù, la
sua fede e sua pazienza. Quindi in
Giobbe appare la sofferenza non tanto come castigo, quanto piuttosto come prova
della virtù nei buoni.
D’altra parte, neppure Giobbe mostra di
conoscere le terribili conseguenze universali
del peccato originale, che pure era narrato nel Genesi. Ma neppure Dio, quando
alla fine interviene, rivela a Giobbe che anch’egli, benché uomo virtuoso, come
tutti figli di Adamo, ha sofferto per le conseguenze del peccato originale.
Ignoranza della
Commissione sul peccato originale
Occorrerà San Paolo per far piena chiarezza
su questo punto oscurissimo dell’origine del male e della sofferenza, benché
forse sarebbe stata di per sé sufficiente un’adeguata riflessione su quanto è
narrato nel Genesi sul castigo del peccato dei progenitori. Ma, a quanto pare,
ai tempi di Giobbe non si aveva ancora
chiara coscienza che il castigo del peccato originale colpisce l’intera l’umanità. È questo il dato essenziale
che appare chiaramente con la dottrina paolina sul peccato originale, poi
dogmatizzata dal Concilio di Trento.
Occorrerà un genio come San Paolo per
illuminare definitivamente il mistero. Del resto, Paolo non fa che esplicitare
quanto è implicitamente narrato nel Genesi. Con San Paolo appare in piena luce
il paradigma biblico del peccato, che è il peccato per eccellenza, modello di
tutti gli altri peccati, i quali non ne sono che un’imitazione o
partecipazione.
Ma la
struttura essenziale del concetto di peccato, nota già dall’Antico Testamento e
dalla coscienza etica naturale di tutte le religioni, la quale struttura
implica il plesso concettuale inscindibile peccato-castigo-del-peccato, rimane anche in San Paolo. Un peccato non castigato o non castigabile
è assolutamente inconcepibile, impossibile e contraddittorio. Non c’è peccato
senza castigo e non c’è sofferenza se non come castigo del peccato. Nel
contempo Dio toglie la colpa, ma normalmente lascia la pena. L’apporto di San Paolo
consisterà nel distinguere chiaramente fra peccato personale e peccato
originale.
Per sentire anche nella sventura la presenza
confortante, rasserenante, rassicurante, pacificante e consolante di Dio giusto
e misericordioso, non dobbiamo sentirci degli innocenti perseguitati dalla
sorte o dalla natura o dal prossimo, ma dobbiamo riconoscere come Giobbe che
quella sventura è mandata da un Dio buono, pietoso e onnipotente, per cui,
sebbene ci paia di non meritare quella sventura, in realtà non siamo così
innocenti come ci sembra, e d’altra parte dobbiamo fidarci della bontà divina e
pazientare, anche se per il momento non la comprendiamo.
E se
proprio ci sentiamo innocenti, siamo invitati da Dio ad unirci alle sofferenze
redentive di Cristo, l’Innocente per eccellenza, che si è fatto carico delle
nostre colpe per redimerci dal peccato e condurci alla salvezza. Per questo la
pandemia è un castigo o flagello di Dio, simile a quelli descritti
dall’Apocalisse, che si è abbattuto sull’umanità peccatrice, impenitente, empia
e nemica di Dio, è un avvertimento e un richiamo severo ma paterno di Dio, per
umiliarla nella sua superbia, perché riconosca la giustizia divina, ritrovi il
santo timor di Dio, pensi al rischio dell’inferno, torni a Lui e si prepari
alla Venuta del Giudizio universale, perché abbandoni i propri idoli, si scuota
dal torpore della sua coscienza, faccia un esame di coscienza, riconosca i suoi
peccati, li detesti e se ne penta, affinché si converta, faccia penitenza,
ripari ai peccati commessi, ne faccia espiazione, e chieda perdono a Dio, confidando nella sua misericordia.
Il quadro
del nonno
Dio non è un’idea astratta della ragione,
come il Dio kantiano, senza alcun aggancio alla realtà, fatto solo per
assicurare alla ragione la sua suprema unità sistematica, ma è un Soggetto
reale e concretissimo, che agisce efficacemente ed incontrastabilmente con la
sua onnipotente e libera volontà creatrice e salvatrice, che innalza gli umili
ed abbatte i superbi.
Egli, pertanto, non è come il quadro del
nonno defunto appeso in alto alla parete, che ci guarda sorridente senza poter
fare assolutamente nulla per aiutarci nelle nostre disgrazie. Un uomo angosciato dalla pandemia, che si sente
dire da un premuroso ma non illuminato consolatore, di star tranquillo, perché
comunque il Dio misericordioso non lo sta castigando, ma al contrario ha per
lui un’immensa tenerezza, soffre con lui e gli è sempre vicino, avrà la netta
sensazione di essere beffato, giacché, se ragiona un po’, si domanderà: che
cosa me ne faccio di un Dio che mi sta vicino senza far niente per risparmiarmi
il contagio, ma devo solo arrangiarmi per conto mio? Che razza di Dio è quello
che soffre anziché liberare dalla sofferenza? Che misericordia è quella che
invece di sollevare dalla miseria, schiaccia sotto il peso della sofferenza?
A questo
punto è comprensibile, benché blasfema, l’idea di Luigino Bruni, il quale, come
ha raccontato di recente su Avvenire,
stufo di essere preso in giro da Dio, ha preso il coraggio a quattro mani, ha intimato
a Dio di correggersi, di convertirsi,
di smetterla di mandare disgrazie con la pretesa di giustificarsi (la
cosiddetta «teodicea»), lasciando intendere che non sa che farsene della sua
misericordia fasulla, per cui diversamente avrebbe provveduto da sé a liberarsi
dalla sofferenza, come un qualunque ateo che si rispetti, benché nel contempo
Luigino dia chiari segni di ricorrere alla magia kabbalistica per obbligare Dio
a fare il buono.
Concepire la sofferenza come castigo di Dio è
la maniera di ricondurre a Dio la sofferenza come a sua causa prima, con la
conseguenza altamente positiva di mettere la sofferenza sotto controllo divino.
Altrimenti, se si sottrae a Dio il dominio sulla sofferenza, dovendone in ogni
caso stabilirne un’origine, succederà che se ne cercherà una al di fuori e indipendente
da Dio, quindi un principio assoluto e divinizzato di sofferenza, che potrà
essere la Natura o un altro dio. E avremo il manicheismo.
Certamente Dio è la causa prima condizionata
della sofferenza. Non è la causa incondizionata, perché la sofferenza suppone
il peccato. Se non ci fosse stato il peccato, non ci sarebbe stata la sofferenza
e Dio non avrebbe dovuto occuparsi della sofferenza, facendone, secondo la sua
giustizia, conseguenza del peccato sotto la veste del castigo del peccato.
D’altra parte, ricondurre la sofferenza alle sole cause seconde: l’uomo, il
diavolo e la natura non basta, per Dio non è sufficiente. È vero che la
sofferenza come castigo del peccato, ha avuto la prima origine nella creatura
peccatrice, mentre la natura è stata spinta a nuocere all’uomo dal peccato del
demonio e dell’uomo.
Tuttavia Dio, sommo giudice e giustiziere
dell’universo, benché la sofferenza non abbia avuto origine da Lui, ma dalla
creatura libera, e quindi Egli non ne sia originariamente responsabile, vuole
esserne il supremo regolatore e moderatore, e vuole quindi averne il pieno controllo
per due motivi: innanzitutto per distruggerla, e poi per utilizzarla a fin di bene,
in Cristo come espiazione del peccato.
Quindi si può dire che Dio, per un verso,
ossia in quanto bontà infinita, non vuole la sofferenza; ma, per un altro
verso, la vuole in nome della sua giustizia e della sua misericordia, per
renderla in Cristo via di redenzione e di salvezza.
Considerazioni
conclusive
Allora, sulla base di queste premesse, la
preghiera come dev’essere? Quando preghiamo non dobbiamo partire in quarta con
una serie di pressanti richieste, circa le quali peraltro non possiamo sapere
con certezza se tutte sono esaudibili, come fossimo tutti innocenti sofferenti
e bisognosi, ingiustamente colpiti dalla cattiva sorte, degni soltanto di
compassione e non peccatori che devono scontare i loro peccati. Dobbiamo
pertanto pregare come fa Davide nel Salmo 50, premettendo: «contro di te,
contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto, perciò
sei giusto quando parli, retto nei tuoi giudizi» (v.6).
Bisogna abituarsi a togliere dalla parola
«castigo» qualunque reazione emotiva irrazionale, qualunque moto istintivo di
rifiuto, qualunque senso di disagio o di ribellione o di fastidio o di repulsione
istintiva essa possa suscitare e tornare ad usarla con semplicità, come fanno i
Santi, serenamente ed obbiettivamente, nel suo autentico senso biblico,
salutare ed indispensabile, come un medico parla oggettivamente delle
conseguenze di una malattia, come del resto hanno sempre fatto la letteratura
cristiana, il magistero della Chiesa, i Padri, i Dottori e i Santi.
È solo
col dramma di Lutero e della sua coscienza tormentata e angosciata da un’idea
ossessiva del castigo divino, che è penetrato nella Chiesa quel senso
irragionevole di disagio ed irritazione emotiva, che proviamo al sentire la
parola «castigo».
Il rimedio a questo guaio non è un
misericordismo a tutto spiano, non è l’abolire la parola «castigo», perché non
ce ne sono altre che la possano degnamente sostituire[1],
e del resto abolire la parola porterebbe ad abolire il concetto stesso di
castigo, il che è proprio la sciagura dei nostri giorni.
L’interpretare le sventure come castighi e
richiami di un Padre buono e misericordioso, come è testimoniato dai Santi, ci
fa essere e camminare nella verità, ci rende umili, ci inculca il santo timor
di Dio, ci riconcilia col Padre, ci fa pagare i nostri debiti, ci fa
sperimentare la sua giustizia e la sua misericordia, ci spinge a una maggior confidenza
col Padre, ci dona una pace ineffabile.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 26 giugno 2020
[1] La parola «pena» ha
un senso più mitigato, però, essendo legata maggiormente alla giustizia
umana,non ha la forza espressiva della parola «castigo»,che la Bibbia riserva
soprattutto a Dio.
RispondiEliminaFontanellato, 26 giugno 220 rectius 2020
Grazie per la segnalazione.
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