I due significati della lex orandi

 I due significati della lex orandi

Un’espressione importante del documento del Santo Padre

Nel Motu proprio Traditionis Custodes il Santo Padre usa l’espressione «lex orandi» in un senso che necessita di essere specificato. Si tratta, come tutti ormai sanno, dell’Art. 1: «I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano».

Infatti la detta espressione può avere due significati diversi e qui occorre chiarire in quale dei due essa viene usata. In generale lex orandi vuol dire: legge del pregare. Il pregare può essere spontaneo, ma non può essere fatto a caso, senza discernimento, senza una regola, senz’ordine; non sarebbe gradito a Dio.

Infatti la preghiera è un atto della virtù di religione e la virtù di religione è una forma di giustizia dovuta a Dio e la virtù della giustizia è regolata dalla ragione, anche se è vero che nella preghiera cristiana la ragione è illuminata dalla fede, giacchè in essa chiediamo a Dio non tanto cose che ci sono suggerite dalla ragione, quanto piuttosto cose che Cristo stesso ci ha insegnato di chiedere al Padre.

Ebbene, la Preghiera eucaristica o Canone della Messa, che è il pregare proprio della Santa Messa, non è lasciato alla spontaneità, chiaramente non è frutto dell’inventiva umana, ma è un dono di Dio, è un pregare che Cristo stesso ci ha insegnato nell’ultima Cena e che va accuratamente conservato immutato con religiosa venerazione fino alla fine del mondo.

Nella Santa Messa il sacerdote infatti chiede al Padre che voglia guardare ed accogliere benignamente l’offerta del Sacrificio del Figlio che egli Gli porge per sé e per il popolo fedele. E quindi il celebrante mette in pratica, con la consacrazione delle oblate, le parole del Signore «fate questo in memoria di me» accolte nella fede. Egli fa oggetto della sua fede ciò che fa in persona Christi e che chiede nella preghiera al Padre.

Qui la lex orandi, la legge della preghiera, che è la legge della Messa, è stata stabilita da Cristo stesso. Essa regola e costituisce l’essenza stessa della Messa, che nessuno, neppure il Papa, può cambiare. È infatti la norma essenziale del rito della Messa, con quei contenuti di fede, che le danno forma. Che si tratti della Messa novus ordo o della Messa vetus ordo, la lex orandi è la stessa nell’una e nell’altra, perché è la legge dell’unica Messa istituita da Cristo.

Ma, come è noto, l’espressione lex orandi suole essere associata a lex credendi. Per significare che cosa? Che il rito della Messa e in generale la liturgia con le sue formule verbali e i suoi gesti simbolici e significativi, è fonte di conoscenza di fede, è garanzia di ortodossia della fede. Pertanto il teologo, per dar forza argomentativa alla scienza teologica, tra i princìpi di fede ai quali può far ricorso, può fare riferimento anche alle nozioni di fede contenute nella liturgia. La lex orandi in questo senso è, come si dice, «luogo teologico», insieme con gli altri luoghi teologici, che sono le fonti e i princìpi della scienza teologica[1].

Da notare anche lex credendi vuol dire anche legge della Tradizione, giacchè il dato di fede è dato della Tradizione. Ciò significa che la Messa come tale, sia la vetus ordo che la novus ordo, è un dato della Tradizione. Per qusto il Santo Padre introduce il discorso del Motu proprio citando i Vescovi come custodi della Tradizione in comunione col Papa.

Ma lex orandi può significare anche quella legge del pregare, che il Romano Pontefice può stabilire o sancire in forza del potere giurisdizionale e di santificare, che Cristo gli ha conferito, come a sommo Sacerdote e supremo moderatore di tutta l’attività liturgica e della disciplina dei sacramenti.

È alla lex orandi presa in tal senso che il Papa si riferisce nel Motu proprio, quando ordina a tutti i fedeli di accettare il novus ordo come unica lex orandi, che, per la verità, non ha stabilito lui, ma è quella lex orandi della Messa novus ordo uscita dalla riforma liturgica promossa dal Concilio.

Quando il Papa parla della necessità che i «gruppi» del vetus ordo siano fermati ed auspica che si estinguano o che passino al novus ordo, non intende riferirsi a coloro che amano il vetus ordo, ma al contempo sono in comunione con la Chiesa, accettano il novus ordo e non contestano il Concilio, ma parla espressamente di gruppi scismatici e l’intento che il Papa si prefigge nel limitarne l’attività è quello di «ricomporre lo scisma», ossia farli cessare dalla loro disobbedienza, il che non significa affatto che, una volta accettato il novus ordo, non sia loro concesso a certe condizioni di continuare a praticare il vetus ordo. E se i gruppi tradizionalisti ma obbedienti aumentano, ben vengano! Devono diminuire gli scismatici, non i cattolici, amino o non amino il vetus ordo!

Il timore di alcuni tradizionalisti che il Papa voglia proibire o addirittura abrogare la Messa vetus ordo è assolutamente infondato. Sarebbe empio il solo pensarlo. La Messa vetus ordo è pur sempre una Messa. Il Papa non può abolire la Messa, a meno che non confonderlo con Lutero.

Per questo non è proibito ad alcuno, con i dovuti permessi, celebrare la Messa vetus ordo, né quella del 1962, né quella di San Pio V, né quella di Innocenzo III, né quella di Gregorio VII, né quella di San Giovanni Crisostomo. Il Papa ha il dovere di comandare a tutti l’accettazione della lex orandi in vigore, ma a chiunque, con i dovuti permessi, è consentito di celebrare la Messa antica che vuole, purché approvata nel passato dalla Chiesa, così come a nessuno è proibito – contento lui – di viaggiare con un’auto del 1920 o del 1940.

Perché il Concilio ha proposto una riforma della Messa?

Per quale motivo e con quali propositi i Padri del Concilio hanno riformato il rito della Messa? In sostanza, che cosa hanno voluto fare? Quale metodo hanno usato? O criterio hanno applicato? A quali esigenze hanno voluto andare incontro? Che cosa si attendevano? Quali difetti hanno voluto togliere?

La riforma liturgica s’inquadra nello scopo generale del Concilio: comunicare e far vivere un  Vangelo meglio conosciuto agli uomini d’oggi assumendo i valori del nostro tempo, usando argomenti per loro persuasivi, tali da soddisfare meglio il loro bisogno di verità, di giustizia, di pace e di spiritualità, usando un linguaggio per loro comprensibile, così da facilitare il loro cammino verso Cristo e rendere più attraente la prospettiva cristiana, abbandonando usi, costumi, modi espressivi o idee arretrati e superati rispetto a quelli legittimamente esistenti nel nostro tempo, mostrare meglio agli uomini d’oggi ciò che nel cristianesimo è tradizionale ed immutabile presentandolo in una forma nuova di per sé mutevole, ma adatta ad attirare il rispetto del tradizionale e dell’immutabile.

Per quanto riguarda il rito della Messa, lasciando ovviante intatta l’essenza della Messa istituita da Cristo nell’ultima Cena come offerta sacerdotale  secondo una riattualizzazione incruenta del sacrificio di Cristo per la remissione dei peccati e atto di ringraziamento al Padre per la sua misericordia, i Padri hanno voluto operare uno spostamento d’accento rispetto ad una duplice serie di aspetti e finalità della Messa, presenti in ogni Messa, ma tra i quali la Chiesa può scegliere ora l’uno ora l’altro a sua discrezione a seconda delle diverse necessità od utilità pastorali  dei tempi e dei luoghi.

Così i Padri hanno voluto mettere l’accento sull’immanenza di Cristo nella comunità presieduta dal sacerdote più che sull’orientamento adorante di comunità e sacerdote verso Cristo.

La Messa vetus ordo evidenziava il sacro, ma rischiava di isolarlo dal profano e quindi di creare una spaccatura fra il momento dell’incontro con Dio, certamente ben fatto, e le conseguenze pratiche che si dovevano trarre nel momento dell’incontro col prossimo e dell’impegno sociale.

I Padri hanno voluto connettere più strettante i due momenti, ed è stata un’idea felice, che ha portato buoni frutti nell’impegno dei cattolici nella famiglia, nel lavoro, nella cultura e nella società. Ma una certa profanità sembra essere entrata nel novus ordo, che ha impoverito il momento dell’aura mistica e della suggestione sacrale.

I Padri hanno messo in luce, nell’organizzare il rito della Messa, la memoria dell’ultima Cena più che il riferimento alla memoria del Calvario.

Mentre la Messa vetus ordo era tutta proiettata nel passato del sacrificio di Cristo, i Padri hanno voluto mettere in luce l’aspetto escatologico della Messa, come banchetto pasquale.

I Padri, senza per questo abolire il latino, hanno preferito che la Messa sia celebrata in una lingua profana comprensibile dai semplici piuttosto che in una lingua sacra universale ma conosciuta da pochi.

Hanno voluto organizzare un rito che, anziché sottolineare le opposizioni alla Cena protestante, mettesse in luce i punti in comune tra i due memoriali dell’ultima Cena.

Hanno voluto organizzare un rito, per il quale, accanto alla preghiera ufficiale e alle formule fisse, fosse dato congruo spazio per una moderata spontaneità e legittima creatività nel celebrante e nei fedeli.

Hanno preferito che il sacro silenzio fosse esercitato da sacerdote e fedeli dopo la lettura della Parola di Dio e la Santa Comunione piuttosto che fosse dato dal fatto che i fedeli non udivano le parole del celebrante.

Il silenzio nel vetus ordo significa che non comprendiamo e siamo intimoriti dal mistero delle parole arcane che il sacerdote, simile a Mosè, pronuncia a nostro nome e per noi davanti a Dio, al Deus tremendae maiestatis.

Il silenzio nel novus ordo è il silenzio mistico che facciamo nello sperimentare la presenza incomprensibile nella nostra mente della Parola di Dio e nello sperimentare nel nostro palato e nel nostro cuore la dolcezza ineffabile del cibo eucaristico.

Mentre il vetus ordo sottolinea che la Messa è formalmente offerta dal solo sacerdote e il popolo vi assiste - da qui la possibilità di una Messa senza popolo - i Padri, per incrementare nei laici la partecipazione attiva alla Messa,  hanno voluto evidenziare l’esercizio del sacerdozio comune dei fedeli, il che li ha portati a sottolineare che la Messa è offerta da tutto il popolo di Dio, da parte di tutti i battezzati uniti in un solo corpo sotto la presidenza del sacerdote ministeriale, che resta comunque l’unico e qualificato attore del  sacrificio della Messa. I Padri si sono basati sulle parole di San Paolo: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).

Da qui il mutamento per quanto riguarda l’ufficio della donna nella celebrazione della Messa. Se nel vetus ordo, che sottolinea che il sacerdote è maschio e solo maschio, la donna limita la sua partecipazione alla Messa al ruolo del semplice comune fedele, i Padri hanno voluto che, in base al sacerdozio comune dei fedeli, e ai doni spirituali propri della donna, ad essa fossero riconosciuti alcuni uffici o mansioni o servizi o ministeri liturgici, come per esempio l’accolitato, il lettorato, le recita delle preghiere dei fedeli o il ministero della distribuzione della Comunione.

Mentre la Messa vetus ordo mantiene lodevolmente il patrimonio e la tradizione culturale latina ed europea, i Padri hanno introdotto nella liturgia come in generale nell’evangelizzazione il principio dell’inculturazione, per il quale il contenuto di fede e quindi anche il contenuto dogmatico della Messa può venir espresso nelle categorie proprie delle varie culture. Il novus ordo possiede una sufficiente elasticità ed adattabilità, da consentire di immaginare e realizzare diverse modalità del rito romano strutturato grazie all’apporto delle varie culture dei diversi popoli.

Così, per esempio, si potrebbe immaginare una liturgia eucaristica amazzonica, che utilizzasse l’immagine di Pachamama depurata dal suo riferimento idolatrico e intesa come simbolo della madre terra creata da Dio, dalla quale traiamo il frumento e il vino che occorrono per la preparazione del pane e del vino eucaristici.

La riforma ha moltiplicato le Messe votive e per varie occasioni o intenzioni, nonchè le Messe in onore della Madonna. I tre cicli dell’Anno liturgico abbracciano una quantità di letture bibliche molto superiore a quelle della Messa vetus ordo. È vero che nel novus ordo non esistono più gli ordini minori: ma d’altra parte essi non erano essenziali al sacramento dell’Ordine. Resta però il servizio del diacono ed anzi è possibile un diaconato coniugato e restano i ministranti dell’altare.

D’altra parte, è chiaro che era ben lontana dalla mente dei Padri l’invenzione di una modalità del rito romano, che sotto pretesto della creatività e dell’ascolto dello Spirito Santo, consentisse lo spontaneismo sensuale, indisciplinato ed esagitato delle Messe di Kiko Arguëllo[2] o sotto pretesto che l’assemblea eucaristica è l’assemblea del popolo di Dio in lotta per la sua liberazione, consentisse di trasformare la celebrazione della Messa in una protesta contro il padronato o contro l’imperialismo americano o in un’operazione politica di emancipazione del popolo oppresso, secondo il modulo marxista della teologia della liberazione oppure consentisse, al fine di attirare la gente, a trasformare la Messa in uno spettacolo da baraccone.

Similmente i Padri non avevano certamente in mente certe Messe sciatte e stiracchiate, che danno occasione a dotti impostori di esibirsi in elucubrazioni o sproloqui tratti più dalla filosofia di Severino o dalle eresie di Lutero, che dalla Sacra Scrittura, dai Padri della Chiesa da San Tommaso.

La Messa è ad un tempo opera divina ed umana

I lefevriani, per evidenziare il divino sacralizzano l’umano. I modernisti, per evidenziare l’umano, profanano il divino. I primi irrigidiscono anche ciò che può mutare; i secondi relativizzano anche ciò che dev’essere conservato. I primi si sono fissati nella Messa di San Pio V, rifiutando persino l’ammodernamento fatto da San Giovanni XXIII nel 1962. Per loro la Messa di San Pio V è l’unica vera Messa «di sempre», come se la Messa di San Giovanni Crisostomo, quella di Gregorio VII o quella di Innocenzo III non fosse la Messa di sempre, ossia la Messa istituita da Gesù Cristo.

I lefevriani non tengono conto che la Messa è ad un tempo opera di Cristo e artefatto umano. Se il paragone non sembrasse irriverente, si può dire che le sue diverse forme nel corso dei secoli si possono paragonare all’evolversi di un prodotto della tecnica, come per esempio l’orologio o l’automobile.

Chi è che oggi preferirebbe usare un orologio del ‘700 o un’auto del 1920 a un orologio o un’auto del 2021? Certo nessuno potrebbe impedirglielo, ma a che pro? Infatti, così come esiste un progresso nei prodotti della tecnica, similmente esiste un progresso nella formazione o strutturazione delle modalità del rito della Messa, pur restando essenzialmente la Messa sempre quella. In tal senso si può dire che la lex orandi divina della Messa novus ordo è la stessa di quella vetus ordo, perché è stessa ed identica Messa.

E come esiste un progresso nella tecnica, così esiste un progresso nella strutturazione del rito della Messa. Come esiste una lex orandi che determina in modo immutabile l’essenza della Messa, in quanto istituita da Cristo, così esiste una lex orandi, una legge della Messa, che dipende dall’autorità umana, alla quale Cristo ha affidato di modificare il rito della Messa a seconda dei tempi e dei luoghi e in ordine ad un sempre migliore esercizio del culto divino, ossia un culto che sempre meglio sappia offrire il sacrificio di Cristo e sempre meglio unisca l’uomo a Dio mediante l’offerta di questo sacrificio.

In tal senso Papa Francesco può dire che oggi l’unica lex orandi è la Messa novus ordo, in rapporto cioè a quella lex orandi, che sta a lui, in quanto detentore del potere delle chiavi, di stabilire e mutare lungo il corso della storia. In questo senso si può dire che oggi la lex orandi non è più quella del vetus ordo, ma quella del novus ordo. Vediamo allora quanto è importante distinguere questi due sensi dell’espressione lex orandi.

Ed inoltre c’è da precisare che è solo nel primo senso che la lex orandi è lex credendi, in quanto legge di Cristo: mentre nel secondo senso la lex orandi, essendo solo legge della Chiesa, può mutare restando la stessa la lex orandi come lex credendi fondata da Gesù Cristo.

Fare i furbi non conviene

Papa Benedetto col Summorum Pontificum aveva permesso a qualunque sacerdote di celebrare liberamente nel vetus ordo, abolendo la disposizione precedente di San Giovanni Paolo II, la quale prescriveva che il sacerdote doveva chiedere il permesso al vescovo.

Era un atto liberale di Benedetto e di fiducia che i devoti del vetus ordo avrebbero fatto buon uso di simile permesso. E invece purtroppo è successo, come denuncia Papa Francesco nel Traditionis custodes, che i lefevriani e gli scismatici hanno utilizzato il vetus ordo come pretesto per accusare il novus ordo di filoprotestantesimo e per accusare di modernismo le dottrine del Concilio Vaticano II.

Papa Francesco se n’è accorto e li ha puniti tornando ad ordinare che i sacerdoti che vogliono celebrare nel vetus ordo chiedano il permesso al vescovo e restringendo e rendendo più difficile la possibilità della celebrazione della Messa vetus ordo.

Il Papa, però, pare non aver tenuto conto del fatto che non tutti i devoti del vetus ordo sono scismatici o lefevriani, ma vi sono anche molti che non vedono alcuna contraddizione fra l’apprezzamento del vetus ordo e la sottomissione leale e totale alle dottrine del Concilio e si guardano bene dal considerare il novus ordo come filoprotestante, come faceva per esempio il Servo di Dio Padre Tomas Tyn, il quale celebrava regolarmente nell’uno e nell’altro rito.

Bisognerebbe, quindi, secondo me, che il Papa mantenesse le facoltà concesse da Benedetto a quei sacerdoti che dichiarassero formalmente di aderire alle dottrine del Vaticano II e di avere pieno rispetto per la Messa novus ordo. In ogni caso, adesso questi sacerdoti possono ottenere tale facoltà dal loro vescovo, sempre che sia comprensivo, come ci auguriamo, nei confronti di questi sacerdoti e di quei gruppi di fedeli che desiderano la Messa vetus ordo. Se essi non possono più essere ospitati in parrocchia, potranno rivolgersi ai santuari o agli istituti religiosi o gestori di oratori o cappelle private.

Bisogna inoltre soprattutto che si crei un clima di mutuo e fraterno rispetto fra i devoti del novus ordo e quelli del vetus ordo. Bisogna in particolare che gli uni e gli altri evitino in modo assoluto qualunque valutazione spregiativa nei confronti del rito diverso da quello da loro preferito. È inconcepibile e scandaloso che vi sia divisione fra cattolici proprio là dove maggiormente i cuori dovrebbero essere uniti fra di loro e in comunione col Sommo Pontefice.

Quando il Papa esprime la sua volontà che tutti accettino il novus ordo come unica lex orandi, egli non esclude affatto, come appare evidente dal Motu proprio, la legittimità della celebrazione col vetus ordo. Tuttavia il Papa ha tutti i diritti e anche il dovere di ordinare a tutti, devoti o non devoti del vetus ordo, di accogliere il novus ordo come unica lex orandi di oggi, lex orandi da intendersi qui non nel senso della legge essenziale della Messa, che è la stessa per il novus come per il vetus ordo, ma nel senso della legge che regolamenta la celebrazione della Messa, di competenza del Papa.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 28 luglio 2021

 

Papa Francesco può dire che oggi l’unica lex orandi è la Messa novus ordo, in rapporto cioè a quella lex orandi, che sta a lui, in quanto detentore del potere delle chiavi, di stabilire e mutare lungo il corso della storia. 

In questo senso si può dire che oggi la lex orandi non è più quella del vetus ordo, ma quella del novus ordo. Vediamo allora quanto è importante distinguere questi due sensi dell’espressione lex orandi.

Ed inoltre c’è da precisare che è solo nel primo senso che la lex orandi è lex credendi, in quanto legge di Cristo: mentre nel secondo senso la lex orandi, essendo solo legge della Chiesa, può mutare restando la stessa la lex orandi come lex credendi fondata da Gesù Cristo.


Quando il Papa esprime la sua volontà che tutti accettino il novus ordo come unica lex orandi, egli non esclude affatto, come appare evidente dal Motu proprio, la legittimità della celebrazione col vetus ordo.

Tuttavia il Papa ha tutti i diritti e anche il dovere di ordinare a tutti, devoti o non devoti del vetus ordo, di accogliere il novus ordo come unica lex orandi di oggi, lex orandi da intendersi qui non nel senso della legge essenziale della Messa, che è la stessa per il novus come per il vetus ordo, ma nel senso della legge che regolamenta la celebrazione della Messa, di competenza del Papa.


[1] La dottrina dei luoghi teologici fu fondata dal domenicano spagnolo Melchior Cano nel sec.XVI.

[2] Enrico Zoffoli, Eresie del movimento neocatecumenale, Edizioni Segno, Udine 1993; Ariel Levi di Gualdo, La setta neocatecumenale, Edizioni L’Isolo di Patmos, Roma 2019.

14 commenti:

  1. Padre Giovanni Cavalcoli,
    ho apprezzato molto e condivido pienamente i suoi due ultimi post su Tradizionis Custodes.
    Vorrei anche approfittare di questa occasione per scusarmi con lei, in merito a uno o due (non ricordo bene) miei commenti non tanto benevoli nei suoi confronti, relativi ad altrettanti suoi articoli pubblicati circa due anni fa sul blog di Marco Tosatti "Stilum Curiae".
    Mi è sempre rimasto un po' di rimorso (per il rispetto comunque dovuto a un consacrato...) e anche il desiderio di riparare in qualche modo. Ecco oggi vorrei sdebitarmi e ringraziarla.
    Buona giornata.

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    1. Caro Mario,
      ho molto apprezzato questi suoi sentimenti nei miei confronti. La ringrazio per l’interesse che nutre per i miei scritti e mi auguro che essi possano essere di stimolo per un sempre migliore impegno di vita cristiana.

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  2. Caro Padre Giovanni,
    nella lettera ai Vescovi di presentazione del “Traditiones Custodae” il Papa parla di coloro che usano il vetus ordo “per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni “, e taluni addirittura manifestano “un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”.
    Non c’è dubbio che in questi casi egli si si riferisca a gruppi potenzialmente, o già di fatto, “scismatici”. Tuttavia, il Papa permette ancora, pur a certe condizioni e restrizioni, la celebrazione della Messa secondo il vetus ordo.
    Ora se interpreto correttamente il suo pensiero, Padre Giovanni, poiché il Papa da un lato condanna le derive scismatiche di coloro che fanno cattivo uso del vetus ordo, ma dall’altro continua a permettere di celebrare secondo il messale del 1962, ne segue che, come lei ha scritto: “Quando il Papa parla della necessità che i «gruppi» del vetus ordo siano fermati ed auspica che si estinguano o che passino al novus ordo, non intende riferirsi a coloro che amano il vetus ordo, ma al contempo sono in comunione con la Chiesa, accettano il novus ordo e non contestano il Concilio, ma parla espressamente di gruppi scismatici […]” .
    Mi permetto di non condividere questa sua conclusione.
    Il Papa afferma chiaramente che uno dei principi che lo ha ispirato è stato: “provvedere […] al bene di quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II […]”.
    Ora in “quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II”, egli non sembra affatto escludere quanti celebrano secondo il vetus ordo ma in comunione con la Chiesa.
    E ciò anche per altre due ragioni strettamente connesse:
    1) I gruppi apertamente scismatici, come i lefevriani, non hanno mai celebrato secondo il novus ordo, e quindi non avrebbe senso logico richiamarli a “ritornare al Rito Romano” del novus ordo.
    2) Sono proprio coloro che sono già in comunione con la Chiesa che potrebbero passare dal vetus al novo ordo, in quanto, pur preferendo spiritualmente il primo, se dovessero partecipare ad una messa novus ordo, pur trovandosi in difficoltà, non vivrebbero un insopportabile conflitto di coscienza, a differenza di quelli del punto precedente.
    E anche queste sue parole, Padre Giovanni: “E se i gruppi tradizionalisti ma obbedienti aumentano, ben vengano! Devono diminuire gli scismatici, non i cattolici, amino o non amino il vetus ordo!”, le sottoscrivo pienamente, ma non riesco a capire da quali affermazioni del motu proprio o della lettera di accompagnamento, lei possa ritenere che corrispondano al pensiero di Papa Francesco.
    Temo che lei, pur nel nobilissimo intento di voler manifestare la massima fedeltà al Papa in ottemperanza al voto di Obbedienza, di volerlo difendere dai tanti attacchi, anche ingiusti, cui è sottoposto, di aiutare noi, laiche e peccatrici pecorelle, a non allontanarci pericolosamente dalla comunione ecclesiale… finisca per proiettare il suo “ideale di Papa” (che vorrebbe) sul Papa Francesco reale, cercando di convincerci (e forse di convincersi) che abbia davvero manifestato una siffatta amorevole attenzione verso chi partecipa al vetus ordo in comunione ecclesiale.
    Mi perdoni, se per esser stato franco, possa aver urtato la sua sensibilità. La stimo molto e umilmente spero che preghi per me come io per lei.

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    1. Caro Bruno,
      comprendo molto bene il suo intervento e capisco benissimo il suo sospetto che io dia alle parole del Santo Padre una interpretazione forzata. Tuttavia, a ben riflettere, non credo che le cose stiano così.
      Ammetto che in linea di principio posso sbagliare nell’interpretazione. Però in questo caso, considerando quello che è l’insegnamento pontificio riguardo alla dignità della Messa, ritengo di dover ribadire la mia interpretazione.
      Infatti, secondo me, l’augurio che il Papa si fa del passaggio dal vetus ordo al novus ordo, riguarda solo coloro che adesso come adesso rifiutano il novus ordo, ma non riguarda coloro che sono disposti ad accettare il novus ordo, accolgono gli insegnamenti del Concilio e sono in comunione col Papa, ma nel contempo amano anche il vetus ordo.
      Dato che il Papa si rimette alla decisone dei vescovi, credo che si potrebbe ipotizzare un caso come questo. Un gruppo di giovani, accompagnati da un prete, chiede al vescovo la possibilità di avere una Messa vetus ordo. Credo che si possa verificare che un vescovo dia il permesso, una volta alla settimana e non di domenica, a patto che il gruppo si impegni in parrocchia, assista alla Messa parrocchiale domenicale, accetti le dottrine del Concilio e sia in comunione col Papa.

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  3. Perfetto, davvero perfetto.
    Grazie Padre per questo scritto.

    Che la lettura del nuovo Motu Proprio fosse da farsi come lei qui dettaglia, mi pareva chiaro dal fatto stesso che negli articoli successivi, Papa Francesco non "elimina" la possibilità di celebrare in VO, ma traccia in modo chiaro i nuovi limiti entro i quali ne concede l'uso. Questa sua spiegazione mi pare chiarisca del tutto questo aspetto. Grazie!

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    1. Caro Minstrel,
      vedo che lei ha compreso perfettamente il mio pensiero, ma ciò che mi dà maggior contentezza è il fatto che lei condivide l'interpretazione che io dò del Motu Proprio del Santo Padre.

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  4. Caro Padre Cavalcoli,
    per me è stata una piacevole sorpresa che il Papa abbia usato il termine "scisma" per riferirsi alla situazione dei lefebvriani e, credo, si sia implicitamente riferito anche ai cattolici filo-lefebvriani (all'interno della Chiesa).
    D'altra parte, e tenuto conto delle ragioni della sua restrizione al vetus ordo (negazione del Concilio, negazione del magistero pontificio postconciliare, negazione della validità del novus ordo), sarebbe eccessivo pensare che quando parla di "scisma" il Papa si riferisce anche all'"eresia" lefebvriana?
    Lei stesso, padre Cavalcoli, si è lamentato più volte della riluttanza dei papi postconciliari a usare il termine "eresia". Forse in Traditionis custodes si potrebbe notare un colpo di scena, un bel colpo di scena in questo senso. Non credi?
    Grazie.

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    1. Caro Fabio,
      ho gradito molto queste tue parole.
      Tu sai che c’è una differenza tra scisma ed eresia. Il primo è rottura della comunione con la Chiesa, ed è un peccato contro la carità e l’obbedienza al Papa. La seconda invece è un peccato contro la fede ed è la negazione cosciente, volontaria e ostinata, da parte di un battezzato, di una verità di fede.
      Certamente nella pastorale è bene chiamare le cose col loro nome, naturalmente con ponderatezza e a ragion veduta. Il pastore è simile a un medico, che deve fare delle diagnosi esprimendosi con precisione e proprietà. Se una malattia non è ben definita è impossibile curarla bene.
      Ora, dai tempi del postconcilio esistono di fatto nella Chiesa molti scismi e molte eresie e bisogna purtroppo notare una reticenza nei Papi dei postconcilio nell’uso dei termini scisma ed eresia. Questo, secondo me, non serve a guarire da queste malattie, ma le lascia continuare.
      Sono quindi d’accordo con te nel compiacermi che Papa Francesco abbia finalmente usato questo termine e mi auguro che usi anche l’altro, perché ciò potrà servire a liberare la Chiesa da queste malattie.

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  5. Grazie per la tua risposta, padre.
    Certo, c'è una differenza tra scisma ed eresia. Ma sarebbe gradito qualche riferimento al rapporto tra scisma ed eresia. È solo una relazione di fatto? O c'è qualche relazione teologica?
    Infatti, se, ad esempio, si prende in considerazione il caso di mons. Lefebvre, la sua decisione scismatica (benché all'epoca trovasse argomenti che lo giustificassero da sé, convincendosi di non aver prodotto uno scisma) finì per necessitare con la forza di cose nelle eresie: la falsa concezione della Tradizione (non distinguendo tra Tradizione e tradizioni), la falsa concezione dell'infallibilità pontificia e conciliare, la falsa concezione della lex orandi-lex credendi come l'avete appena spiegata, ecc...
    Vale a dire: sembra esserci un'intima relazione fattuale tra scisma ed eresia. Ora, si può parlare anche di rapporto teologico o ontologico?
    Forse potresti considerare appropriato il trattamento di questo argomento, o suggerire qualche fonte in cui è stata trattata la relazione scisma-eresia.
    Grazie.

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    1. Caro Fabio,
      certamente esiste un rapporto tra scisma ed eresia, non direi di tipo teologico, ma di tipo psicologico e morale.
      Chiaramente chi è eretico è scismatico nel senso che disobbedisce al Papa, in quanto maestro della fede. Ma chi è scismatico non è detto che sia eretico, perché può accettare tutte le verità di fede, ma manca di quella umiltà e di quella carità che lo tengono in piena comunione con i fratelli di fede, sotto la guida pastorale del Papa.
      Ne segue che, se lo scismatico non si corregge, facilmente diventa eretico, perché prende l’abitudine di governarsi da solo o col suo gruppo in fatto di fede e di morale, mentre in questo campo il contatto vitale col Papa e con i fratelli di fede è essenziale per non andare fuori strada e per non isolarsi dalla Chiesa o nella Chiesa.
      L’ecclesiologia postconciliare ci insegna che lo scismatico resta in una certa comunione con la Chiesa e col Papa; ma questa comunione non è perfetta perché manca ciò in cui lo scismatico si oppone o disobbedisce.
      Per quanto riguarda in particolare Mons. Lefebvre e i suoi seguaci, la mia convinzione è che – forse in buona fede – non sono solo scismatici, ma anche eretici. Certo, questo la Chiesa non l’ha mai detto, ma non vuol dire, perché un teologo se ne può accorgere, anche senza che ci sia una sentenza del Papa o della CDF.
      Infatti le sentenze della Chiesa sono pronunciate a seguito di segnalazioni pervenute dai teologi.
      Perché io trovo l’eresia nei lefevriani? Perché Mons. Lefebvre accusava le dottrine del Concilio di essere contro la tradizione e la Messa di Paolo VI di essere filoprotestante.
      Ora, accuse di questo genere hanno un contenuto dottrinale, e se fossero vere smentirebbero la dottrina della Chiesa, secondo la quale le dottrine dei Concili sono infallibili, anche se non contengono nuove definizioni dogmatiche.
      Ora, la conseguenza è che chi accusa di eresia il magistero della Chiesa è a sua volta eretico.

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    2. Caro padre,
      vi ringrazio per la vostra generosa risposta alle mie preoccupazioni.
      Prima di dirti il ​​motivo del mio nuovo riferimento alla questione del rapporto tra eresia e scisma, citando le tue stesse parole in un tuo articolo del 2018, voglio farli sapere che lo faccio senza alcuna critica, ma per spronarti o incoraggiarti a sviluppare forse nel suo pensiero teologico (che ammiro) alcune conseguenze che forse non ha ancora notato.
      Sul blog L'Isola di patmos hai scritto il 16 dicembre 2018: "[]Chi è veramente in comunione col Papa e gli parla con franchezza, oggi è accusato dai modernisti di non essere in comunione col Sommo Pontefice. Loro che invece, per le loro eresie, sono in realtà degli scismatici, si atteggiano ad amici del Papa, il quale dovrebbe essere più cauto nel dar loro confidenza, dato che lo strumentalizzano a loro vantaggio. Chi non è in comunione col Sommo Pontefice merita di essere scomunicato [...]".
      È interessante (e sorprendente) il rapporto che qui instaura non solo tra eresia e scisma, ma anche con il provvedimento disciplinare della scomunica.
      Vorresti chiarire, correggere o spiegare qualcosa al riguardo?
      Molte grazie.

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    3. Caro Fabio,
      la scomunica è un provvedimento disciplinare, che può essere preso o dal vescovo o dal Papa, nei confronti di coloro che sono ribelli alla loro autorità, in quanto pastori della comunità ecclesiale.
      Ora, questa ribellione può avere due aspetti: o un aspetto ereticale o un aspetto scismatico.
      Il problema della scomunica è un problema squisitamente pastorale e disciplinare, la cui irrogazione è a discrezione dell’autorità.
      Esiste bensì la cosiddetta scomunica lata sententia, che scatta automaticamente nel momento in cui il soggetto compie un’azione proibita, sanzionata appunto da questo tipo di scomunica, per esempio uno che picchiasse il Papa oppure la scomunica comminata dalla Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis di San Giovanni Paolo II del 1996 a quei cardinali che si fossero riuniti per progettare l’elezione di un Papa.
      Inoltre esiste la scomunica ferenda sententia, la quale invece viene irrogata a prudente giudizio del prelato in speciali circostanze, nelle quali egli giudica doveroso intervenire per il bene o la pace della Chiesa.
      Stando così le cose può capitare che ci sia qualche fedele o qualche gruppo che di fatto sono scismatici od eretici, e quindi in linea di principio meriterebbero di essere scomunicati. Tuttavia può capitare che l’autorità non intervenga.
      Questo non significa che le eresie o lo scisma sostenuti da quei fedeli non abbiano una realtà oggettiva, verificabile e dimostrabile da persone competenti e non significa che non rechino danno alla Chiesa. Però può capitare che il prelato, o per rispetto umano o per trascuratezza o per debolezza, non intervenga. Che cosa succede in questo caso? Che quei fedeli che sono realmente eretici e scismatici figurano ancora come appartenenti alla Chiesa, benché interiormente non lo siano.
      Viceversa può esistere una scomunica ingiusta, cioè non meritata, perché in realtà il fedele è in comunione con la Chiesa, senonché può capitare che il prelato commetta una ingiustizia.
      San Tommaso consiglia, in questo caso, allo scomunicato di accettare serenamente di essere scomunicato e quindi di accettare quelle limitazioni che sono connesse con lo stato di scomunicato. Ciò che lo deve consolare è la consapevolezza della sua innocenza e la possibilità, imitando nostro Signore, di offrire la propria sofferenza per il perdono del prelato che lo ha trattato ingiustamente.
      Ci può essere un altro caso: quello della scomunica formalmente invalida. In questo caso lo scomunicato non è veramente e giuridicamente scomunicato, per cui si può ritenere libero dalla scomunica.
      Infine bisogna tenere presente che come una scomunica può essere erogata, così può essere tolta, se lo scomunicato si pente e torna in comunione con la Chiesa sotto l’obbedienza del Pastore.

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  6. Fabio, e padre Cavalcoli,
    la storia degli scismatici sembra spiegare l'esistenza di un misterioso rapporto tra scisma ed eresia:
    Probabilmente lo scismatico Lutero era più cattolico degli attuali luterani.
    Sarei propenso a pensare che Lefebvre fosse più vicino alla fede cattolica degli attuali lefebvriani.

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    1. Caro Agustin,
      la storia degli scismatici e degli eretici dimostra la continua fluidità e mutabilità di questi movimenti, appunto perché mancano della guida e del controllo pontificio, che assicura la continuità e la stabilità di questi movimenti.
      Inoltre c’è da osservare che di solito lo scisma conduce all’eresia e gli eretici diventano sempre più eretici.
      Questo capita sempre perché manca l’assistenza del Papa e la fedeltà al Papa.
      Per esempio, oggi ci sono dei luterani che sono ancora più lontani dal cattolicesimo di quanto lo fosse Lutero.
      Per quanto riguarda gli attuali lefevriani non mi risulta che si siano allontanati dalla comunione ecclesiale di più di quanto non si fosse allontanato Lefebvre. Un segno confortante in questo senso è stato il permesso della giurisdizione del sacramento della penitenza, concesso dal Papa ai lefevriani in occasione dell’Anno Santo della Misericordia.

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