In odium fidei. Il peccato contro la fraternità (Prima Parte - 1/4)

In odium fidei

Il peccato contro la fraternità

 

Sarete odiati da tutti a causa del mio nome

Mt 10,22

 

Se Dio è il Dio dell’amore – e lo è –,

a noi non è lecito odiare i fratelli.

Papa Francesco a Mosul, 7 marzo 2021

 

L’odio è moralmente un peccato contro l’amore,

ma di per sé è una semplice passione 

Papa Francesco viene spesso sul tema dell’odio tra fratelli, che è una delle piaghe principali della Chiesa e della società di oggi, un peccato che colpisce direttamente il dovere della giustizia e della carità. Passione spesso scatenata e incontrollata, che va dalle forme più grossolane e quelle più sottili, da quelle più bestiali a quelle più diaboliche, l’odio è all’origine delle laceranti ed esasperanti divisioni e vendette reciproche, interne alla Chiesa stessa, che dovrebbe essere viceversa esempio di reciproco amore fraterno e maestra di riconciliazione e di pace per tutto il mondo.

Nelle sue forme più gravi, per esempio l’odio fra fedeli di diverse religioni, appare un odio implacabile, che si trascina nei secoli, sentito tra i più fanatici come sacro dovere, tanto più feroce, spietato, ostinato ed inesorabile, quanto più il fanatico crede di essere motivato da valori e doveri sacri ed immutabili.

A monte di questo odio religioso c’è la concezione di un Dio partigiano e campanilista, il Dio che non è il Dio di tutti, il Dio che ci affratella, creatore di tutti, ma il nostro Dio in esclusiva, il Dio che non è il falso dio degli altri. Allo stesso modo i commercianti si contendono il mercato spacciando i propri prodotti come migliori di quelli degli altri.

Papa Francesco si è proposto come uno dei principali obbiettivi o compiti del suo pontificato quello di votarsi, potremmo dire francescanamente, all’estinzione di questi odii e queste divisioni  facendo leva sul fatto che siamo, come dice spesso, tutti «figli di Dio», figli qui s’intende non nel senso soprannaturale di battezzati, sennò sarebbe un senso discriminatorio, benché tutti siano chiamati al battesimo cristiano, ossia a  questa fratellanza e figliolanza salvifica e santificante, ma nel senso meno alto, ma non per questo meno doveroso di fratellanza umana universale, accessibile ed apprezzabile da tutti gli uomini ragionevoli, a qualunque religione appartengano. 

Ed inoltre il Papa ricorda pure spesso i martiri, vittime dell’odio verso Dio e verso la fede in Lui, odio che è il più grave di tutti i peccati, perché è l’odio verso quella somma Verità e verso il  sommo Bene, che massimamente si dovrebbe amare, Bene che dovrebbe essere al vertice di tutti i nostri interessi e di tutte le nostre aspirazioni, Bene che dovrebbe essere ragione ultima del nostro vivere, soffrire e godere, odio verso Dio, che è principio e causa dell’odio verso il fratello, in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio.

Il Papa ci ricorda altresì che il cristiano odiato dal fedele di un’altra religione in nome di Dio dimostra che chi lo odia, per quanto pio pretenda di essere, in realtà non è soggetto al vero Dio, ma al diavolo, principe dell’odio e della morte, ci ricorda spesso che «non si può uccidere in nome di Dio», nel senso che non si può odiare in nome di Dio, fosse anche un semplice uccidere con la menzogna e la calunnia.

Altra cosa sono le guerre di Israele volute da Dio contro i nemici di Dio, delle quali parla l’Antico Testamento, perché esse vanno interpretate come difesa della giustizia voluta da Dio. Per questo anche oggi chiunque lotta per la giustizia ed odia le forze che vi oppongono, si può dire che lotta in nome di Dio.

Il peccatore odia la fede del martire perché la sua fede conduce il martire a praticare una condotta di vita contraria a quella che egli conduce in obbedienza ai comandi divini, e perché quindi il martire lo esorta alla conversione e alla vera fede. che il persecutore non vuole, perché il martire lo rimprovera dei suoi peccati e gli minaccia il castigo divino.

L’essere odiato a causa di Cristo, ossia in odio alla fede, è per il cristiano, come Cristo stesso dice, addirittura una beatitudine (Lc 6,22). Per questo i Santi desiderano il martirio come bene preziosissimo per loro e per la Chiesa. Tuttavia essi si guardano da atteggiamenti precipitosi o provocatori, cercano di ammansire i nemici della fede, e di non offrir loro pretesti. Non si espongono al nemico per spavalderia e in tono di sfida, ma solo per il bene delle anime e della Chiesa. Sanno, in certe circostanze, anche nascondersi, non per viltà, ma perché per il momento ritengono che la loro presenza tra i fratelli sia utile o per confortarli o per guidarli.

Perché l’odium fidei sia ragione per la quale la Chiesa proclama il martirio del candidato, occorre naturalmente che sia odio cosciente della vera fede cattolica e non odio di quella che erroneamente il persecutore ritiene essere la fede cattolica. Deve quindi trattarsi di un vero e proprio peccato mortale e odio verso Dio e non di un equivoco.

Se infatti il persecutore uccide in buona fede credendo di compiere un atto di giustizia o di difesa della propria fede religiosa, non si ha un martirio formale, ma un qui pro quo, come è accaduto per gli uccisori di Gesù, che credevano di giustiziare un criminale, non sapendo che Gesù è veramente il Figlio di Dio. Per questo Gesù li scusa: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Qui Gesù enuncia il principio della libertà religiosa sancito dal Concilio Vaticano II nella Dichiarazione Dignitatis humanae, testo che quindi non ha nulla a che fare col liberalismo o col relativismo o con l’indifferentismo religioso, ma si tratta del principio ben noto già a San Tommaso[1] dell’innocenza di chi crede a una falsità o compie un atto oggettivamente cattivo, senza saperlo e senza rendersene conto, ma credendo in buona fede o, come si dice, «per ignoranza invincibile», di far bene. 

Tuttavia Gesù precisa che non tutti coloro che uccidono nella convinzione di render culto a Dio sono scusati. Ma tra di loro ci sono anche i colpevoli. E costoro sono appunto coloro che uccidono in odium fidei: «chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me» (Gv 16, 2-3).

Nell’uccisione di Gesù abbiamo un concorso di innocenti (cf Lc 23,34) e di colpevoli, come dice Gesù davanti a Pilato: «chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande» (Gv 19,11). E notiamo bene che qui Gesù, parlando di «colpa più grande», è come se dicesse: anche tu sei colpevole, sebbene di meno.

Aggiungiamo che il peccatore inoltre perseguita e uccide il martire perché la sua fede vissuta gli ricorda quel Dio che egli odia, quel Dio che disapprova la sua condotta e gli manda sventure perché si converta, quel Dio che gli minaccia l’eterna dannazione se non si pente, non ripara e non invoca la sua misericordia.

Chi odia il Dio che castiga è portato a costruirsi un Dio che gli fa comodo, ma che non esiste: un Dio che gli permette di peccare liberamente assicurandogli comunque perdono, misericordia e salvezza. L’atteggiamento di costui viene quindi ad essere lo stesso dell’ateo, che nega l’esistenza di Dio.

Ma in realtà l’ateo non è convinto della sua idea, perché sa di non poter dimostrare che Dio non esiste e invece sa che lo si può dimostrare, tanto è vero che, come essere ragionevole, sa benissimo che Dio esiste, anche se in modo implicito, indiretto o irriflesso, e che, come dice Cristo (Mt 24), un giorno dovrà render conto a lui del suo operato.

Nessuno quindi ignora in buona fede e senza colpa che Dio esiste come io posso ignorare quante sono le isole dell’arcipelago delle Filippine, per cui dovrei essere scusato se mi comporto in maniera contraria ai precetti di Dio. Non è che il credere o non credere in Dio sia indifferente e non abbia incidenza o sia cosa facoltativa al fine di ottenere la felicità.

Non è affatto così. Invece vanno all’inferno anche gli atei, anche se non credono né a Dio né all’inferno. La loro incredulità nei confronti dell’inferno non li preserva dall’andarci. Non è che gli atei siano dispensati dall’andare dall’inferno perchè non ci credono. Al contrario, essi, volenti o nolenti, precipitano nel luogo più basso.

L’odio di per sé è cosa buona

Ora però bisogna dire subito che l’odio di per sé – nessuno si scandalizzi – è una passione o un istinto vitale e provvidenziale, che Dio stesso creatore ha posto nella psiche degli uomini e degli animali, affinché sappiano aggredire le forze avverse e pericolose, neutralizzando i loro assalti o difendersi contro di esse per aver salva nei casi estremi la loro stessa vita.

Tuttavia nell’uomo l’odio, che è una forza contro il male, è anche un impulso o un atto della volontà. A questo punto allora l’odio non è un semplice impulso psicologico, privo di qualifica morale, ma, in quanto voluto diventa atto morale, atto che è buono se l’odio è giustificato e ragionevole, fruente di un’ira moderata.

Diventa invece un atto cattivo, cioè peccaminoso, se l’odio è volutamente fomentato da una cattiva volontà, che scatena smodatamente la passione dell’ira nella quale l’odio volontario si esprime al fine di fare del male alla persona odiata.

Nel qual caso non si tratta di respingere o contrastare solo un male sensibile come nell’odio-passione, ma anche un male intellegibile, che può essere male di pena – per esempio un’offesa o un’ingiustizia ricevuta -, ma anche il peccato, cioè il male di colpa, al quale possiamo essere tentati noi stessi o il nostro prossimo, peccato o contro di noi o contro altri, un peccato che il prossimo potrebbe anche avere commesso.

Può peraltro capitare che commettiamo un atto di odio con le parole o le opere – per esempio un’invettiva o uno scatto di ira o un moto di sdegno - nei confronti di qualche male di pena o di colpa, male. dal quale possiamo essere rispettivamente colpiti o che possiamo aver commesso noi stessi o gli altri. E può capitare che in questa nostra reazione, nonostante la buona volontà e la retta intenzione, siamo momentaneamente vinti o trascinati dall’ira. così che ci scappino senza volere parole o gesti incontrollati. Nel qual caso è chiaro che l’impulso di odio espresso nell’ira non è colpevole o quanto meno la colpa è veniale, ma è solo un segno della nostra fragilità conseguente al peccato originale.

Inoltre, l’odio come l’amore sono moti tra di loro opposti dell’appetito sensibile, ossia la passione, ed intellettivo, ossia la volontà. Essi sorgono all’apprendimento rispettivamente di ciò che conviene o è consono o in armonia, e cioè il bene, e dall’apprendimento di ciò che ripugna, è dissonante o è contrastante, cioè il male.

L’appetito fondamentale è l’amore che ha per oggetto il bene. Entra in funzione l’odio allorchè il soggetto s’imbatte in qualcosa che si oppone alla sua tensione verso il bene, qualcosa che ostacola o impedisce al soggetto di conseguire il bene che desidera o che vuole. Questo ostacolo suscita nel soggetto il moto dell’odio contro di esso, col fine di neutralizzare la forza nemica, così che il soggetto possa impossessarsi tranquillamente del bene amato. L’amore per il bene e l’odio per il male sono così i due moti fondamentali del vivente animale o spirituale.

Occorre distinguere l’odio come passione

dall’odio come atto della volontà

Abbiamo detto che l’odio come passione è un impulso naturale psicologico che serve al vivente conoscente, animale o uomo, ad aggredire e neutralizzare azioni nocive o nemiche o a difendersi da esse, e abbiamo detto che esiste un odio come atto ed effetto della volontà.

Ora, in questo campo dello spirito, dove gioca l’opposizione fra la buona e la cattiva volontà, si deve dire che l’odio può essere giusto o peccaminoso. È giusto se il suo oggetto è il male, male di pena ossia la sofferenza e il male di colpa, cioè il peccato. Così la Scrittura dice che «è giusto odiare la parola falsa» (Pr 13,5). Dio odia l’iniquità (Eb 1,9). Dio premia coloro che praticano l’amore, castiga gli odiatori (Es 2.5; Dt 7,10).

La volontà tende per sua natura a un fine ultimo, a un bene assoluto, che non può che essere uno appunto perché assoluto. Ciò che è in potere del libero arbitrio è scegliere tra i beni possibili a sua disposizione: Dio e la creatura. Deve necessariamente scegliere il bene che preferisce scartando gli altri o subordinando gli altri a quello: o la creatura (il proprio io o gli altri), bene finito o il Creatore, il sommo bene.

Logicamente, se la volontà sceglie come bene assoluto Dio, sarà tenuta ad essere fedele a questo bene. Invece la nostra tendenza al peccato ci spinge alla doppiezza, a servire alla pari Dio e il mondo come se fosse possibile ed onesto amare due Assoluti simultaneamente, e palleggiarci e barcamenarci tra di loro. Infatti l’Assoluto è uno solo, e se non fosse tale, non sarebbe l’Assoluto. Per questo avverte il Signore: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24).

Eppure come è facile cadere nella doppiezza e nella stoltezza di stare in mezzo fra l’uno e l’altro, di tenerci buoni entrambi, quasi a dire a noi stessi: se non va bene uno, mi rivolgo all’altro! Sappiamo che Dio è Dio; ma non vogliamo neppure rinunciare al mondo! Vogliamo di qua il paese dei bengodi e di là il paradiso.

La predicazione evangelica ci sorprende inoltre in due sensi: sembra che Cristo ci comandi di amare ciò che è detestabile e di odiare ciò che è amabile. Si tratta rispettivamente dei due famosissimi comandamenti dell’amore del nemico (Mt 5, 38-48) e del dovere di odiare sé stessi e il prossimo per poter amare Lui (Lc 24,26).

Sembra anche che esortandoci a prendere la croce ci esorti ad amare quella sofferenza che invece noi spontaneamente odiamo. Viceversa, con la sua proposta dei consigli evangelici, sembra proibirci quei piaceri e quei beni che il mondo ci offre.

È chiaro che questi famosissimi ed importantissimi insegnamenti vanno interpretati nel dovuto modo.

Riguardo all’amore del nemico e all’odio di sé e del prossimo Gesù per «odio» intende la rinuncia, il sacrificio e il subordinare il bene inferiore (se stessi e il prossimo) a quello supremo (Egli stesso). È quella che San Paolo chiamerà la «mortificazione dell’uomo vecchio», ossia tutte le pratiche ascetiche dell’etica cristiana, come per esempio la pratica dei consigli evangelici, delle penitenze e delle espiazioni. 

Invece nel comandamento dell’amore al nemico, Cristo non esclude affatto il principio veterotestamentario del contrappasso (Es 21, 24), che non è affatto espressione di odio, ma è un principio fondamentale di giustizia penale applicato da Dio stesso, quando castiga.

Riguardo poi al portare la croce e ai consigli evangelici, è chiaro che Gesù non fa nessuna apologia della sofferenza o del dolorismo, né proibisce gli onesti piaceri e il retto e sobrio uso dei beni di questo mondo, ma semplicemente, come si sa da sempre, da una parte indica a tutti che senza la croce non ci si salva e dall’altra parla di alcuni da Lui prescelti, i quali cercano una via superiore di perfezione mediante la pratica dei consigli evangelici.

Occorre pertanto dire che Gesù suppone l’applicazione corretta, non rancorosa, della legge mosaica, mentre con i suoi famosi «ma io vi dico» (Mt 5, 22 ecc.), non intende affatto contraddire, smentire, cambiare o contrapporsi, ma superare la legge mosaica, confermandola, arricchendola e nobilitandola di una giustizia superiore e più esigente, che è la legge della carità e della misericordia, la «nuova legge» da Lui insegnata a nome del Padre. Per questo dice: «Non sono venuto ad abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Il meglio non sopprime il bene, ma lo presuppone e lo conferma.

Queste cose i Santi le hanno sempre capite e praticate, senza ipocriti allarmismi, senza scandali farisaici e senza calunniosi rimproveri, furiosi scatti di odio e falso senso di giustizia come ha fatto Nietzsche.

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 13 marzo 2021



[1] Sum.Theol., I-II, q.19, aa.5-6.

 

 

Papa Francesco viene spesso sul tema dell’odio tra fratelli, che è una delle piaghe principali della Chiesa e della società di oggi, un peccato che colpisce direttamente il dovere della giustizia e della carità.  

 

 

Il 3 maggio 1808 è un dipinto a olio su tela di Francisco Goya, realizzato nel 1814 e conservato nel Museo del Prado di Madrid.

Immagini da internet

2 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    lei ha scritto:
    “Se infatti il persecutore uccide in buona fede credendo di compiere un atto di giustizia o di difesa della propria fede religiosa, non si ha un martirio formale, ma un qui pro quo, come è accaduto per gli uccisori di Gesù, che credevano di giustiziare un criminale, non sapendo che Gesù è veramente il Figlio di Dio. Per questo Gesù li scusa: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34)”.
    Dunque, a suo avviso è da considerarsi teologicamente imprecisa o impropria l’espressione “martirio di Gesù sulla croce”?

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    1. Caro Bruno,
      non tutti coloro che hanno voluto la morte di Gesù erano in buona fede, ma soltanto coloro dei quali Gesù chiede al Padre che li perdoni.
      Invece purtroppo dobbiamo pensare che i veri responsabili della morte di Gesù, come i Farisei, Scribi e Sacerdoti, siano stati in malafede.
      E per questo si deve assolutamente parlare di martirio di Gesù, salva restando la riserva che dobbiamo avere riguardo alla loro sorte finale, che lasciamo al giudizio di Dio.

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