La proposta di Husserl (Terza Parte di Tre Parti)

  La proposta di Husserl

Terza Parte di Tre Parti

Stoltezza del rifiuto del realismo gnoseologico

Senza negare il valore e l’utilità dell’istanza realistica o positivistica di riconoscere un mondo esterno, empirico, e di indagare e dimostrare i fatti di questo mondo esterno spazio-temporale, Husserl qualificò in tono di spregio tale impostazione gnoseologica come atteggiamento «naturale» ed «ingenuo»,  sostenendo che tale atteggiamento non riflette il sapere in modo originario, radicale, fondamentale ed assolutamente certo sulle cose, ma  solo uno sguardo superficiale, incerto, derivato e provvisorio, che non riflette in pienezza le possibilità ben superiori dello spirito umano e della coscienza morale.

Ora, bisogna dire che la necessità da lui sostenuta, per avere la scienza e la filosofia, di abbandonare l’atteggiamento naturale del conoscere appare piuttosto urtante, giacchè il naturale, riflesso della natura umana, non è qualcosa che possediamo in modo accidentale o facoltativo, ma ciò che ci costituisce essenzialmente, ciò senza di cui non possiamo esistere.

Per questo il naturale non può  avere alternative valide, come se ci si invitasse a smettere un modo di vestirsi o un’abitudine contingente e forse dannosa. Se io abbandono il naturale non ho alternative valide. Fuori del naturale non c’è che l’innaturale o il contro natura.  La stessa morale dev’essere fondata sulla legge naturale. Diversamente non c’è la virtù, ma il vizio, non c’è la giustizia, ma il peccato. Il retto pensare ed agire è quello che si attua secondo natura, seguendo la natura, obbedendo alla natura, ossia alla natura ragionevole dell’uomo. Naturale è sinonimo di normale, ossia secondo la norma, la legge. Se quindi in morale qualcosa non è naturale, vuol dire che è fuorilegge, vuol dire che è immorale. Husserl maestro d’immoralità?

Come prendere infatti sul serio uno che ci promette di raggiungere una scienza mirabile a patto che abbandoniamo le esigenze e le inclinazioni della nostra natura? E quali ne saranno le conseguenze dal punto di vista morale? Tanto più che questa scienza mirabile ci è prospettata con i caratteri della scienza divina, come se  la filosofia potesse assicurare all’uomo un trascendimento della sua natura finita per assumere i connotati della natura divina. Esiste bensì una prospettiva data all’uomo di rendersi partecipe della natura divina, ed è la vita cristiana. Ma essa non è effetto delle forze della ragione, bensì della grazia.

Come è noto, Husserl afferma che per assumere l’atteggiamento fenomenologico, ossia il livello della filosofia, occorre abbandonare l’«atteggiamento naturale», che ammette una realtà esterna, non tanto per negarne la validità, ma mettendolo «fra parentesi» con la famosa epoché, o «sospensione del giudizio», o «messa fuori gioco» o «fuori uso», che consiste nel «mettere fra parentesi» il naturale realismo dell’intelletto, assicurandoci che non si tratta di rifiutarlo o di negarne il valore, ma di sospenderne l’uso o la considerazione.

Di che cosa si tratta?

«Se si produce la comprensione fenomenologica – dice Husserl[1] - se la coscienza del mondo viene liberata dalla sua anonimia, avviene immediatamente il passaggio al trascendentale. Quando ciò è avvenuto, e quando è stato raggiunto il campo di lavoro trascendentale della soggettività totale e universale, è sorprendente notare come nel ritorno all’atteggiamento naturale, per quanto non più ingenuo, col procedere della ricerca fenomenologica, si produce per le anime degli uomini un movimento del loro intrinseco contenuto psichico, perché ogni nuova nozione trascendentale si trasforma per una necessità essenziale in un arricchimento del contento intrinseco dell’anima umana. Io, in quanto io trascendentale, sono lo stesso dell’io umano nella mondanità. Ciò che nella mia dimensione umana restava occulto si esplicita attraverso la ricerca trascendentale»[2].

Con l’atteggiamento fenomenologico, risponde Husserl, per il quale non è più l’intelletto a guardare fuori di sé il reale esterno, e a portarlo intenzionalmente e rappresentativamente nella coscienza, ma è la coscienza che, già in possesso apriori del contenuto del sapere, da questo possesso deduce l’esistenza e l’essenza di quel reale esterno, che è l’oggetto dell’atteggiamento naturale.

Ci chiediamo però: se  il realismo dà la verità, perché metterlo fra parentesi? E se non dà la verità, perché conservarlo? Il senso di questa epochè ha dato luogo a infinite discussioni, dalle quali non è facile ottenere una chiarificazione. Husserl parla di un passaggio da uno stadio ingenuo del sapere ad uno stadio critico. Ma se poi risulta un rovesciamento di prospettiva, per il quale si passa dal considerare il reale come presupposto e indipendente dalla coscienza al reale come posto dalla coscienza, non si vede proprio come la prima tesi possa coesistere con la seconda.

Vediamo le sue stesse parole:

«attraverso l’attuazione della fenomenologica messa fuori gioco del mondo obiettivo, questa sfera “immanente” dell’essere perde bensì il senso di uno stato reale di quella realtà uomo (oppure animale) che inerisce al mondo e che presuppone già il mondo. Perde il senso di vita coscienziale umana, di quella vita che chiunque può progressivamente afferrare mediante la pura “esperienza interiore”. Ma non va semplicemente perduta: attraverso il mutato atteggiamento dell’epoché, ottiene il senso di una sfera assoluta dell’essere, di una sfera assolutamente autonoma che è, in sé, quella che è, senza che si ponga alcuna domanda intorno all’essere o al non-essere del mondo degli uomini che vivono in esso, essendo sospesa ogni presa di posizione in questo senso, una sfera, dunque, che già preliminarmente è in sé e per sè, comunque si possa rispondere alla domanda ontologica intorno al mondo e a prescindere dalla possibilità di rispondere, per buone o cattive ragioni, a questa domanda – che soltanto nell’ambito dell’epoché va posta. Così la sfera della coscienza pura rimane, con tutto ciò che da essa non può venire separato (e, tra l’altro, l’ “io puro”), quale “residuo fenomenologico”, come una regione per principio peculiare dell’essere che, come tale, può diventare campo di una scienza della coscienza in un senso corrispondentemente – per principio – nuovo, il campo della fenomenologia.

Così si risponde alla domanda: sopra che cosa rimanga ancora se l’epochè fenomenologica sospende la validità dell’universo: la totalità di tutto ciò che è in generale. Rimane appunto, o meglio si dischiude per la prima volta attraverso l’epoché la sfera assoluta dell’essere, la sfera della soggettività assoluta o “trascendentale”; e non si tratta di una regione parziale della regione totale della realtà, cioè dell’universo, si tratta bensì di una regione distinta da essa e da tutte le sue regioni particolari, benché non distinta nel senso di una reciproca delimitazione, quasi che potesse congiungersi, integrandosi, col mondo e costituire insieme con esso un tutto complessivo. Risulterà tuttavia come la regione della soggettività assoluta o trascendentale “porti in sé”, in un modo del tutto peculiare, attraverso la reale o possibile “costituzione intenzionale”, l’universo reale, oppure tutti i possibili mondi reali, tutti i mondi in un senso largo.

Soltanto attraverso questa nozione verrà in luce il peculiare significato della descritta epochè fenomenologica; la sua consapevole attuazione si rivelerà come quell’operazione metodica, assolutamente necessaria, che è capace di dischiuderci, con la regione assoluta dell’autonoma soggettività, quel terreno dell’essere con cui è in riferimento, insieme con la nuova esperienza e con la fenomenologia, ogni filosofia radicale, quel terreno che le conferisce il senso di una scienza assoluta. E così si spiega perchè questa regione, che è nuova,  e la corrispondente scienza nuova siano rimaste finora sconosciute. Infatti, nell’atteggiamento naturale non si può vedere nient’altro che il mondo naturale. Fintanto che non si fosse riconosciuta la possibilità dell’atteggiamento fenomenologico e non si fosse costituito il metodo per cogliere nell’originale gli oggetti emergenti da esso, la sfera trascendentale dell’essere doveva rimanere sconosciuta e, al massimo, sospettata»[3].

Ma in tal modo Husserl capovolge il processo normale della conoscenza umana, la quale non parte dalla coscienza apriorica di ciò che è interno per arrivare alla conoscenza  o all’esperienza di ciò che è esterno, ma al contrario, parte dalla esperienza di ciò che è esterno per arrivare all’interno. È solo l’Autocoscienza divina, che Husserl chiame «pura», «assoluta» e «trascendentale», che progetta il reale nell’idea, lo precede nella sua esistenza e lo pone in essere perchè lo crea.

Un servizio a due padroni

Husserl aveva ragione di polemizzare anche contro lo psicologismo positivista, che riduceva gli atti psichici dell’uomo al livello dell’animalità per non dire, alla maniera cartesiana, al livello dei riflessi condizionati o delle reazioni neurofisiologiche o meccaniche del corpo. Ma la sua reazione è stata esagerata ed è passato dall’estremo del materialismo all’estremo opposto di uno spiritualismo idealista, che finisce nel panteismo di concepire la coscienza divina come vertice e supremo fondamento della coscienza umana.

Che cosa infatti è questo unico «io», che a suo arbitrio ora può essere solo umano ed ora diventa divino, come se si trattasse tranquillamente di suonare su due registri? Dove va a finire l’infinita distanza che intercorre fra l’uomo e Dio? Che presunzione, che ipocrisia è quella di chi crede di poter giocare due parti, quella dell’uomo e quella di Dio a seconda di come gli conviene o gli aggrada? Che onestà è quella di  un esoterismo gnostico, che sfrutta l’atteggiamento naturale per i propri interessi materiali celando il suo vero pensiero, mentre lo svela a coloro che condividono la sua stessa superbia ed empietà?

Sentiamo infatti con quale albagia Husserl parla di un «io» che a suo piacimento ora si limita all’umano, ora s’innalza al divino arrogandosi poteri trascendenti, che assolutante non gli convengono:

«Io, l’“ego trascendentale”, sono quello che “precede”  il mondano nella sua totalità, come l’Io cioè nella cui vita di coscienza il mondo si costituisce prima di tutto come unità intenzionale. Io dunque, come io costituente, non sono identico con l’io già mondano, con me come realtà psicofisica; e la mia vita psichica di coscienza, come vita psico-fisica-mondana, non è identica con il mio ego trascendentale, in cui si costituisce per me il mondo, con tutto quanto esso ha di fisico e di psichico.

Ma non dico in tutti e due i casi “io”, sia che mi esperisca mondanamente, nella mia vita naturale, come uomo, o che, nell’atteggiamento filosofico, retroceda interrogativamente al mondo e a me come uomo, secondo la molteplicità delle “apparizioni” costituenti, d’opinioni, di modi di coscienza costituenti, ecc., e in modo che, assumendo tutto l’oggetto come mero “fenomeno”, come unità costituita intenzionalmente, mi ritrovi ora come ego trascendentale? E non ritrovo allora del tutto uguali, nel contenuto, la mia vita trascendentale e la mia vita psichica e mondana? E come si deve intendere il fatto che l’“ego” deve aver insieme aver costituito in sé la totalità di ciò che gli è essenzialmente proprio, come sua “psiche”, psicofisicamente obbiettivata in connessione con la “sua”  corporeità viva, e così intrecciata alla natura in esso (come ego) costituita?»[4].

Per Husserl l’umano e il divino non definiscono due personalità infinitamente distinte, seppur collegate dal fatto che la prima è creata ad immagine della seconda, ma sono due «atteggiamenti», due modi di porsi e di vivere, due piani di esistenza del medesimo io, per cui, certo, c’è differenza tra i due io, ma si tratta di una semplice differenza modale dello stesso io.

Ora, atteso il fatto evidente che gli attributi dell’ego trascendentale sono attributi che non possono che convenire a Dio, è evidente che l’esser Dio non può assolutamente essere un modo d’essere dell’uomo determinabile per libera scelta come se si trattasse di una delle facoltà dell’agire umano. Questa impostazione dell’agire umano denota chiaramente in Husserl una forma di superbia intellettuale assolutamente inaccettabile ed assolutamente incompatibile con quel realismo, quella onestà, quella modestia e quella prudenza che deve contraddistinguere l’autentico e fruttuoso  lavoro filosofico.

L’intelletto conosce la realtà esterna all’interno di se stesso

Quello che allora occorre fare per rimediare a queste storture è il recupero della vera distinzione fra il sapere umano e il sapere divino, con particolare riferimento a quel piano del sapere umano che si basa sull’accettazione della divina rivelazione, ossia il sapere di fede.

Viceversa, la fenomenologia husserliana, se si esclude la sua forma iniziale descrittiva, dedicata alla dignità della coscienza, della logica e all’analisi dei fenomeni di coscienza, che attirarono l’attenzione di Edith Stein e dei cattolici, si rivela per essere una perversione del vero metodo filosofico, che non conduce affatto a Dio e al miglioramento dei costumi morali, ma al panteismo, all’ateismo e all’immoralità.

È molto giusto il giudizio del Maritain sulla fenomenologia husserliana:

«On ne voit pas que la connaissance n’a pas à sortir d’elle-même pour atteindre la chose existant ou pouvant exister hors d’elle – la chose extramentale, qu’à cause de ce préjugé on veut exorciser. C’est dans la pensée même que l’être extramental est attent, dans le conecept même que le réel ou métalogique est touché et manié,  c’est là qui qu’il est saisi, elle le mange chez elle, parce que la gloire même de son immatérialité est de n’être pas une chose dans l’espace extérieure à une autre chose étendue, mais bien une vie supérieure à tout l’ordre de la spatialité, qui sans sortir de soi, se parfait de ce qui n’est pas elle, - de ce réel intellegible dont elle tire des sens la fèconde substance, puisée par eux dans les existants (matériels) en acte»[5].

L’atto della conoscenza intellettuale non comporta un’uscita e un ritorno dell’intelletto in senso spaziale – cosa impossibile -, se non in relazione all’attività del senso. Non è come la massaia, che esce di casa, va al mercato, compra i pomodori e torna a casa. L’intelletto coglie bensì la realtà esterna e la fa sua immaterialmente nel concetto, ma compie ciò con un’azione vitale aspaziale, istantanea e puramente immanente.

Husserl era cosciente di questa attività immanente, ma per salvarla ha creduto necessario negare che l’intelletto colga una realtà esterna, indipendente da lui. Si è sentito così obbligato a credere che la coscienza non tragga niente  dalla realtà esterna, ma che tutto quello che può sapere, anche l’esistenza e l’essenza di Dio, lo ricavi dal suo intimo, come se la coscienza fosse il principio della realtà, senza accorgersi che in tal modo egli veniva a dare alla coscienza umana dei poteri che spettano solo a Dio.

La coscienza umana non ha affatto il potere di elevarsi da sè a quel livello, come se si trattasse di un semplice cambio di «atteggiamento». Non è questione di atteggiamento, ma la questione è che la natura umana ha, nel campo della coscienza, poteri  limitati, fondati sul fatto che essa deve regolarsi su di una realtà esterna, che non ha «costituito» lei, ma che ha creato Dio. Essa può semplicemente riprodurre imperfettamente nel suo intimo la realtà nel concetto e nella logica, ma l’essere reale delle cose esiste già per conto proprio indipendentemente da lei.

Un regista occulto

Il sistema di Husserl nacque in un periodo della storia della filosofia, della teologia e della stessa vita ecclesiale segnata da un forte bisogno, quasi palingenetico, di rinnovamento speculativo e morale. Fu l’epoca del modernismo. Anche la Chiesa risentì di questa inquietudine rivoluzionaria, che sarebbe sfociata nella prima guerra mondiale e nella rivoluzione russa. Ma gli spiriti non erano capaci di andare veramente alle radici della crisi europea. Sentivano il grande disagio degli effetti dell’hegelismo e del materialismo, ma non si accorgevano che per liberarsi occorreva uscire dalla gabbia cartesiana.

 S.Pio X con la Pascendi[6] indicò la via d’uscita: il ritorno al realismo tomista. Ma pochissimi purtroppo risposero all’appello. Anzi venne fuori appunto un Husserl con promesse mirabolanti, per proporre alla fine che cosa? Di tornare a Cartesio. Non una nuova minestra, come aveva proclamato, ma il brodo del giorno prima.

Husserl è ancora nello sfondo dell’attuale modernismo. Ne costituisce l’aspetto gnostico, esoterico, ossia l’aspetto dotto e intellettuale più elitario, prestigioso ed autorevole, accessibile a pochi eletti, menti superiori, che occupano i posti principali nella cultura filosofica, negli istituti accademici, e nelle università civili e pontificie, anima della corrente modernista dell’episcopato dotto.   Naturalmente Husserl non appare direttamente, ma nelle forme più note e divulgative, hegeliane, heideggeriane, bultmanniane e rahneriane. Lo gnosticismo husserliano risponde benissimo all’esoterismo massonico, alla kabbala ebraica e alla teosofia islamica e induista. 

Gli ultimi giorni di Husserl

Una testimonianza interessante su Husserl si trova nel libro di Elisabeth de Miribel, Edith Stein. Dall’università al lager di Auschwitz[7]. Da Sr.Aldegonda Jaegerschmid, sono riportate delle parole di Husserl degli ultimi anni della sua vita fino al suo ultimo giorno. Si notano frasi contradditorie. Da una parte Husserl dichiara: «la mia filosofia, la fenomenologia, non vuol essere altro che una via, un metodo che permetta a coloro che si sono allontanati dal cristianesimo e dalla Chiesa, di ritornare verso Dio»[8]. Afferma: «il mio compito mondiale ha mostrato all’uomo tramite la fenomenologia un nuovo modo di essere e di prendere le proprie responsabilità, dopo averlo liberato dal suo io e dalle sue futilità»[9].

Ma dall’altra: «La mia opera sarà rifiutata dalla Chiesa»[10] . E pochi giorni prima della morte, nel marzo del 1938: «Prima di ogni principio sta l’Io, che pensa e cerca dei rapporti fra il presente, il passato e l’avvenire»[11]. «Mi sono sforzato di andare dal soggetto all’essere. Quando riflettiamo su tutto questo, poniamo sempre l’Io».[12]. 

E poi il giorno della morte, «verso le nove di sera, il giovedì santo - riferisce Sr.Aldegonda -, disse a sua moglie: “Dio mi ha ricevuto nella sua grazia, mi ha permesso di morire”. Da quel momento, Husserl non fece più parola sulla sua opera filosofica, come se si sentisse liberato e sollevato dal peso dei suoi lavori»[13]. Che cosa può essere successo? Ha capito che non è Dio che dipende dall’io, ma è l’io che dipende da Dio?

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 28 agosto 2020

 


Edith Stein (in religione Teresa Benedetta della Croce) - Immagine da internet



[1]La crisi delle scienze europee, op.cit., pp.282-283.

[2] Op.cit.,pp.282-283

[3] Idee, op.cit., pp.70-71.

[4] Logica formale, op.cit., p.295.

[5] Idee, op.cit., pp.201-202.

[6] Occorre tuttavia tener presente che il fenomenismo condannato dalla Pascendi non è la fenomenologia di Husserl, che a quel tempo Husserl non aveva ancora divulgato, ma era il fenomenismo positivista, come spiega lo stesso Pontefice, ossia il conoscere limitato al fenomeno sensibile, senza ammettere un intellegibile che trascenda il fenomeno, concetto tipicamente positivista, che poi Husserl giustamente combattè, ma per  sostituirvi il suo concetto di fenomeno come essere-essenza (wesen) che appare intuitivamente alla coscienza, immanente alla coscienza e quindi non ricavato da una realtà esterna, che, senza essere negata, è però «messa tra parentesi».

[7] Edizioni Paoline,Torino 1987.

[8] Ibid,. p..214.

[9] Ibid., p.216.

[10] Ibid.

[11] Ibid., p.217

[12] Ibid.

[13] Ibid. p..219.

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