Il sacrificio espiatorio - Prima Parte (1/3)

 Il sacrificio espiatorio

Prima Parte (1/3)

Una nozione che sta al cuore del cristianesimo

Nella Sacra Scrittura troviamo un concetto di sacrificio cultuale che assomiglia a quello dell’antica religione romana e che si trova in qualche modo in tutte le religioni, perché caratterizza e fonda la religione come tale. Senza sacrificio espiatorio non esiste religione. Si tratta dunque di un importante tema dell’attuale dialogo interreligioso.

In entrambi i casi, infatti, sia del cristianesimo che delle altre religioni e in particolare dell’antica religione romana, il sacrificio è l’offerta a Dio di una vittima o il compimento di un’azione riparatrice al fine di «espiare» il peccato[1], ossia di compensare Dio per l’offesa arrecatagli, di placare l’ira divina ed ottenere il suo perdono, e con lui riconciliazione e pace.

Infatti il termine latino ex-piatio, corrispondente all’ebraico kippur, è connesso con il termine pius, pietas, che è la virtù di religione, per la quale viene reso culto ed onore a Dio e si compie ciò che è giusto davanti a lui per ottenere il suo favore e il suo perdono.

L’espiazione già presso la religione romana è un atto col quale il trasgressore, in special modo il sacerdote, che patisce la pena del peccato, si purifica e purifica i fedeli dalle colpe commesse, offrendo alla divinità un dono o una vittima ad essa gradita – il sacrificio - al fine di placare la divinità, per cui essa non imputa più ma cancella le colpe commesse. Avviene la riconciliazione dell’uomo con Dio.

Questa operazione sacra è detta sacri-ficium, il fare qualcosa di sacro, detto così perché offerto alla divinità. Infatti il sacrum è ciò che riguarda la divinità, si tratti di un’azione, di una parola, di un oggetto, di una persona, di un luogo, di un tempo, di un edificio.

Il sacramentum è il segno sensibile del sacro, che consacra o rende sacro o trasmette il sacro o esprime il sacro o conduce al sacro o protegge il sacro. Il cristianesimo utilizzerà poi questo termine per designare appunto i sacramenti. Il sacramento cristiano produce il sacro, ossia la grazia che esso significa nel segno sacro.

Già nella religione romana l’uomo pio accoglie volentieri la sofferenza, la sventura e la morte stessa in espiazione delle proprie colpe. Questa azione pia è nel contempo un’azione sacra, è un sacrificium. E la virtù che corrisponde a quest’azione è la pietas, la virtù di religione. Cristo suppone questa nozione naturale del sacrificio espiatorio, e la eleva all’ordine soprannaturale mediante il sacrificio di Se stesso per la remissione dei peccati, opera divina che solo Dio può compiere.

Nell’antico Israele il sacrificio può comportare l’uccisione come la non uccisione della vittima. L’uccisione significa che il possessore della vittima se ne priva, per donarla a Dio. Ma è presente anche il sacrificio incruento di doni od offerte o pratiche rituali, perché ci si rende conto anche del fatto che è incongruente offrire al Dio della vita delle sue stesse creature ammazzate.

Gesù concepisce il sacrificio cultuale come offerta non solo della vittima uccisa, ma anche della stessa morte espiatrice del sacerdote, in quanto, come sappiamo, nel sacrificio cristiano la vittima è lo stesso sacerdote, che si offre come vittima. Non è però il sacerdote ad uccidere la vittima, perché altrimenti dovrebbe uccidere se stesso, cosa evidentemente inconcepibile[2]. Ma la vittima è uccisa da altri non per sacrificarla, ma per odio contro la vittima stessa, nel qual caso Cristo accetta la morte non in quanto delitto incommensurabile commesso contro di lui, ma in quanto richiesta dal sacrificio voluto dal Padre. Inoltre c’è da considerare che solo nel cristianesimo la vittima, benchè uccisa, è risorta, per cui viene offerta una vittima viva.

Nella Scrittura l’opera benefica di Cristo a nostro favore è indicata anche con altre categorie, oltre a quella del sacrificio espiatorio:

1. Quella del riscatto o pagamento al Padre al nostro posto del debito, contratto col Padre a causa del peccato, non essendo noi in grado di ricompensare il Padre per il furto patito, in quanto noi con la nostra disobbedienza, abbiamo consentito a Satana di impossessarsi di noi, che invece siamo di proprietà del Padre.

2. Quella del ri-comprare (red-emptio), che comporta evidentemente due acquisti: l. primo è il fatto che Cristo ci ha acquista per il Padre con la creazione; il secondo acquisto è la redenzione, con la quale Cristo ci ha acquistati una seconda volta strappandoci dal potere di Satana e offrendo il proprio sangue al Padre come prezzo del nostro riscatto, per risarcirlo del furto subìto.

3. La liberazione. Cristo ci libera dalla schiavitù di Satana e ci restituisce al nostro legittimo Signore, che è il Padre.

4. La purificazione. Sul presupposto di paragonare il peccato a un’immondizia, Cristo toglie la macchia del peccato, ci lava e ci purifica col suo sangue.

5. La salvezza. Cristo è paragonato a un medico e noi a malati gravi se non proprio morti per lo meno alla grazia. Cristo dunque ci guarisce e ci risuscita dalla morte del peccato. La sua morte toglie la nostra morte. È qui che, se non intendiamo correttamente questo principio apparentemente paradossale, gioca l’equivoco hegeliano del negativo produttore del positivo, della morte produttrice della vita.

Ora in questo articolo ci fermiamo solamente sull’aspetto dell’espiazione, che è lo schema più tipicamente religioso, rispetto agli altri, presi da altri generi di attività umane, come l’economia, l’esercizio della libertà, l’igiene e la cura della salute.

Il significato cristiano della morte

Il sacrificio espiatorio comporta l’uccisione della vittima. Nel sacrificio cristiano la vittima è lo stesso sacerdote offerente: Gesù Cristo. Per capire allora il significato del sacrificio di Cristo, occorre esporre il significato religioso della morte di Cristo. Egli infatti non è stato ucciso dai suoi uccisori come vittima di espiazione, ma in odio alla sua testimonianza di Figlio di Dio e come sedizioso nei confronti del dominio romano.

Come sappiamo allora che Gesù stesso, accettando la croce, si è offerto vittima di espiazione? Ce lo dice San Giovanni (I Gv 2,2). Cristo è morto in obbedienza alla volontà del Padre, il quale, come spiega la Lettera agli Ebrei, citando alcuni versetti del Salmo 40, ha «preparato un corpo» (10,5) per il Figlio. E la Lettera spiega:

«È per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre» (v.10).

E Gesù stesso spiega il significato della sua morte:

«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e dare la sua vita in riscatto di molti» (Mt 20,28).

Occorre allora vedere qual è il significato della morte per la Sacra Scrittura. Essa ci dice anzitutto che essa è la pena del peccato. Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto non solo non esigere espiazione della colpa del peccato originale, ma anche toglierci la pena e quindi ridarci subito quella immortalità che avevamo perduto. Egli certo ci perdona, ma congiuntamente e come condizione – ci dice la Bibbia – vuole che Gli sia resa giustizia, vuole essere compensato per l’offesa subita, vuole che la colpa sia espiata, dando alla pena, ossia alla morte, una funzione espiatrice.

Non bisogna scambiare quello che di fatto Dio ha voluto con quello che avrebbe potuto volere. Quelli che sostengono che Dio ci ha perdonati incondizionatamente, senza esigere espiazione scambiano per volontà di Dio ciò che Dio avrebbe potuto volere, ma che di fatto non ha voluto.

Tuttavia il Padre, sapendo bene che noi, per la nostra miseria, non eravamo in grado di espiare sufficientemente, ossia di pagare l’immenso debito del peccato, di riparare da soli al danno che ci avevamo procurati, ha avuto misericordia, ma nel contempo ha richiesto giustizia. Ha voluto allora che il Figlio, Egli solo in quanto Dio capace di ridarci la vita, addossandosi come uomo la pena del peccato, ossia la morte, rendesse espiatoria la pena e da là, ossia dalla morte, da dove era venuta la perdizione venisse la salvezza.

Così si dà che la realtà del piano divino della salvezza è che Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato, per ottenerci la remissione dei peccati, sommo sacerdote della Nuova Alleanza nel suo sangue, offre se stesso sulla croce al Padre per volontà del Padre come immacolata vittima di espiazione e soddisfa per noi e al nostro posto al Padre per l’offesa da noi a Lui arrecata dal peccato ottenendoci perdono e salvezza.

Gesù Cristo con la sua opera redentrice ed espiatrice mediante la sua morte vince la morte e ci dona la vita. La negazione della vita, fatta propria dal Dio della vita, perde la sua negatività, acquista un potere vivificante e diventa causa di vita. La sofferenza, la pena del peccato, di per sé sterili e improduttive, diventano grazie alla croce espiatoria di Cristo, sorgente di gioia e di opere buone.

Nella visione biblica il sacrificio espiatorio di Cristo dà soddisfazione al Padre per l’offesa del peccato, ottiene la benevolenza del Padre, e ci merita la salvezza procurandoci la possibilità di meritarla col partecipare nella sua grazia ai suoi meriti, perchè, essendosi Cristo offerto per la nostra salvezza in obbedienza alla volontà al Padre, il merito che Egli come uomo si è acquistato presso il Padre ha un valore infinito e del tutto degno («de condigno»).

Noi però, se vogliamo effettivamente salvarci, non dobbiamo fermarci alla considerazione che Cristo è morto per la nostra salvezza. Non dobbiamo fermarci a dire che Cristo ci ha salvati, che siamo salvi e che quindi non occorrono opere buone per salvarsi. Non si tratta semplicemente di salire sull’auto di Cristo per farci trasportare da Lui in un comodo viaggio in macchina. Niente affatto. Abbiamo la nostra parte da fare, e molto faticosa, senza la quale non ci salviamo. La salvezza infatti è oggetto della speranza; non è un possesso presente. Se vogliamo effettivamente salvarci dobbiamo operare per la nostra salvezza con l’aiuto della grazia e mossi dalla grazia.

Se non facciamo nostra la croce di Cristo, che Egli sia morto per noi non ci giova per niente, ma ci lascia nei nostri peccati. Noi sì siamo salvati, ma dobbiamo nel contempo salvarci. Quindi, se vogliamo effettivamente salvarci, dobbiamo, come Egli espressamente ci comanda, unirci al suo sacrificio soprattutto nella Santa Messa ed unendo alle sue le nostre sofferenze, fino alla nostra stessa morte.

È questo il significato e il valore della morte cristiana, sicchè per salvarci non basta il puro e semplice morire, come crede Rahner, quasi che la morte fosse da sé produttrice di vita, quasi che avesse un potere salvifico in se stessa e da se stessa, sì da essere una specie di «compimento» o di liberazione. È questa l’illusione del suicida, non della persona psichicamente normale e tanto meno del cristiano.

Dobbiamo invece dire a chiare lettere contro ogni morbosità tanatofila che la morte in se stessa è un male ripugnante, è pura distruzione e cessazione della vita. Se il cristiano apprezza la morte come via di salvezza, non l’apprezza in quanto morte; in quanto morte gli fa ribrezzo, ma l’apprezza solo perchè è stata assunta da Cristo per la nostra salvezza.

Se dunque la morte deve diventare la via alla vita, occorre che la morte sia vissuta non crogiolandosi nella stessa morte o inneggiando alla morte, ma bisogna che noi, avvertendola con naturale ripugnanza in tutta la sua terribilità e la sua odiosità, ci rassegniamo ad essa e la sopportiamo, ma nel contempo la accogliamo, «sorella morte»,  per amore e con amore a Dio, al prossimo e a noi stessi  con spirito di soprannaturale  obbedienza  al Padre, in unione al Dio della Vita, perché è la vita che toglie la morte. La morte come tale non può che restare morte, ma è la Vita che la toglie e fa risorgere la vita.

Chi ci fa innamorare della morte come tale considerandola produttiva a prescindere dalla croce espiatrice di Cristo non è Dio ma il demonio[3].  Come è venuto in mente ad Hegel di considerare il negativo come principio del positivo, la morte come causa della vita, il non-essere come principio dell’essere, il falso come principio del vero, il male come principio del bene?

Non può essere stato altro che uno spirito di negazione, lo spirito del «no», lo «spirito della contraddizione»[4], come dicono certe mamme dei loro figli, lo spirito della disobbedienza e della superbia, che abbiamo sentito parlare ai nostri progenitori nell’Eden. E qual è questo spirito? È il demonio, omicida e bugiardo fin dall’inizio. È questo, purtroppo, lo «Spirito» nella visione di Hegel. Se egli identifica lo Spirito con Dio, in realtà egli confonde Dio col demonio.

È chiaro che la vita nega la morte. Ma l’errore gravissimo di Hegel è stato quello di credere che la morte dia la vita, tanto da negare la possibilità di una vita che non muore, persino in Dio.  Sicchè il duello tra la vita e la morte non ha mai fine e la vita non vince mai definitivamente. Ma abbiamo un circolo maledetto, l’«eterno ritorno dell’uguale», per dirla con Nietzsche, (la «dialettica») si ripete senza fine.

Ma come Hegel ha potuto prendere un simile abbaglio? Perché troppo affascinato dalla potenza del pensiero, ha confuso la logica con la realtà, sicchè, se è vero che in logica i contrari (per esempio vita e morte) si richiamano a vicenda, non così nella realtà! Ma nella realtà esiste una Vita assoluta ed immortale, libera dalla morte, che è Dio. Invece Hegel sciaguratamente concependo l’essere come essere-non-essere, pone i contrari (vita e morte) persino in Dio! Chi può avergli suggerito una simile bestemmia, se non il demonio, che vuole essere adorato come Signore della morte?

Se vogliamo dunque parlare cristianamente della morte, non possiamo assolutamente prescindere dall’opera del diavolo. Il fatto che Rahner pretenda di parlare della morte cristiana senza mai minimamente accennare all’opera del demonio, guasta in radice tutte le sue disquisizioni gnostico-hegeliane.

Stando così le cose, dobbiamo dire allora che noi, partecipando dei meriti de condigno ossia degnissimi e proporzionatissimi di Cristo, veniamo realmente a meritare, per degnazione del Padre, la nostra salvezza, benchè solo de congruo, ossia perché il Padre si accontenta di quel poco o pochissimo che possiamo fare, che di per sé sarebbe del tutto insufficiente per il pagamento del debito, se non fosse avvalorato dal merito di Cristo, merito che aggiunge ciò che manca alle nostre povere opere. Tuttavia, il Padre, guardando al Figlio crocifisso, le prende per buone e le accetta, sicchè grazie ad esse risorgiamo nel battesimo dalla morte alla vita, ci procuriamo e meritiamo la nostra salvezza e la nostra liberazione dal peccato, dal demonio e dalla morte.

Appare chiara a questo punto, come vedremo, la sostanziale impostazione hegeliana ed anticristiana che Rahner ha dato alla concezione della morte di Cristo e della morte in genere. È chiaro allora che la negazione rahneriana del valore espiatorio del sacrificio di Cristo porta con sé il crollo del valore espiatorio della Santa Messa e dei nostri sacrifici in Cristo.

Noi, invece, secondo l’autentico insegnamento cristiano, per poter scontare i nostri peccati e salvarci, siamo chiamati a portare con Cristo la nostra croce quotidiana e a morire con Lui facendo nostri i suoi sentimenti e le sue intenzioni, ossia dando alla nostra morte quel valore espiativo che Egli a nostro favore ha voluto dare alla sua.

In tal modo il sacrificio della Messa è l’atto col quale in persona Christi il sacerdote attualizza incruentemente il sacrificio espiatorio di Cristo, sicchè noi popolo di Dio insieme col sacerdote offriamo noi stessi in Cristo al Padre in espiazione dei nostri peccati, plachiamo l’ira divina, allontaniamo la giusta punizione, con la nostra morte in Cristo vinciamo la morte, ed otteniamo dal Padre il perdono e la pace.

Il perché dell’espiazione

La nozione dell’espiazione suppone la soggezione ad un castigo da parte della divinità per una colpa commessa. La pratica espiatoria, che può essere una pratica penitenziale o l’offerta del sacrificio cultuale, ha la funzione di estinguere la colpa e di ottenere il perdono divino. Nel cristianesimo, grazie al sacrificio espiatorio di Cristo, la morte stessa, assunta dal fedele con questo intento espiativo, gli procura il perdono divino e la salvezza.

Nella Scrittura Dio è infatti presentato come adirato nei confronti dell’umanità peccatrice ed esigente riparazione per l’offesa subita, sul modello di un signore che è stato offeso dal suddito, il quale signore è disposto a riconciliarsi col suddito, a patto che questi ripari al torto commesso.

È chiaro che il peccato non può privare Dio di nulla, sì che Egli possa esigere che Gli venga restituito, e tuttavia con ottimo senso pastorale  e conoscenza della psicologia umana la Bibbia interpreta come espressione dell’ira di quel Dio al quale abbiamo disobbedito, tutti i mali che affliggono la nostra esistenza, dalle malattie, alle sventure, ai nostri contrasti interiori, all’ostilità dei nostri nemici fino all’ostilità della natura e alla stessa morte, come la realizzazione di quei castighi che Dio aveva  minacciato ai nostri progenitori, se avessero disobbedito al comando divino.

È chiaro che il concetto di ira divina è una semplice metafora, giacchè Dio, purissimo Spirito, non ha passioni e da parte sua, essendo bontà infinita, non c’è alcuna ostilità nei nostri confronti, né alcuna volontà di nuocerci o di farci soffrire. Tuttavia la Bibbia presenta comprensibilmente il nostro rapporto pratico con Dio come un rapporto interpersonale a somiglianza quindi di quanto avviene tra noi uomini quando nascono confitti fra noi ed uno offende l’altro.

L’immagine dunque del Dio adirato è efficace per capire il motivo dei mali involontari che ci affliggono e per farci capire che essi non sono tanto il segno che Egli sia contro di noi, ma che siamo noi ad essere contro di Lui e siamo noi ad essere bisognosi di riparare al male che abbiamo fatto a noi stessi prima che a Lui.

Egli infatti che ci ha creati, ci ama immensamente e non ha nulla contro di noi. Se ci rimprovera e ci castiga, lo fà per puro amore, affinchè ci convertiamo e siamo come dobbiamo essere. Se la Bibbia dice che Dio manda sventure, intende dire – e lo spiega - che esse sono i mali che noi stessi ci siamo procurati con i nostri peccati e la nostra insipienza.

Siamo noi che ci siamo messi contro di Lui e se lo sentiamo contrario ed adirato,  ciò non deve suscitare in noi irritazione o disperazione, ma dobbiamo capire che ci fa bene perché ci ricordiamo che Egli è stato giusto nel punirci e che possiamo pentirci e riparare al male fatto e tornare in pace con Lui. E se ci sentiamo innocenti e con tutto ciò da Lui maltrattati, non è che Egli sia ingiusto, ma vuol dire che siamo chiamati ad unirci alla croce di Cristo, l’Innocente per eccellenza, per espiare con Lui i peccati del mondo.

Ma Rahner sostiene che Dio non ha bisogno di essere compensato di nulla, che non chiede nessuna espiazione, nessun riscatto o nessuna riparazione, nessuna restituzione o nessun risarcimento, quasi fosse un commerciante derubato della sua merce, o un soggetto permaloso, desideroso di ricevere soddisfazione per l’affronto subìto.

La stessa sofferenza e la morte per lui non sono il castigo inflitto da un signore adirato, al quale si è disobbedito, ma la condizione «esistenziale» propria della creatura contingente e corruttibile. Le nostre pene non vengono da Dio, ma dalla natura, da noi stessi e dagli altri. Del demonio non parla affatto.

Dio è solo bontà e tenerezza. È logico che con questo modo di interpretare i mali della vita venga espunta la spiegazione data dalla Scrittura, che rimanda al peccato originale. E difatti Rahner, che è sostenitore del poligenismo, considera come una favola il racconto del peccato originale.

Rahner pertanto non dà alcuna importanza alle espressioni bibliche che parlano di castighi divini e di sacrifici espiatori per i peccati: le considera segni di una religiosità primitiva, superata, pagana e contrattualista. Per lui la sostanza sempre attuale dell’insegnamento biblico sta nel dirci, come egli si esprime, che Dio ci «perdona tutti immotivatamente» senza chiedere nient’altro che credere a questo perdono[5].

Ma se a causa di un fraintendimento buonista della sua misericordia ci mettiamo in mente che Egli comunque perdona immotivatamente e resta dolce e benevolo, nonostante il nostro attaccamento al peccato, perdiamo di vista due cose necessarie alla salvezza: prima, non diamo ai nostri peccati quell’importanza che meritano e che ci permette di poterli togliere e, seconda, non sappiamo più il perchè dei mali che ci affliggono, perdendo quindi quell’impagabile motivo di consolazione e conforto nella sofferenza, che solo la Parola della Scrittura, accolta nella fede, può darci.

Veniamo così ad essere uguali nell’ignoranza a tutti quelli che non conoscono il Vangelo e non siamo più capaci di offrire al mondo che s’interroga angosciato sul perché della sofferenza e delle ingiustizie, quella risposta illuminante e decisiva che solo il Vangelo può dare per donare la pace anche nelle peggiori delle sofferenze. Non siamo più luce del mondo, ma immersi nelle sue stesse tenebre.

E se ci ostiniamo a credere che comunque Dio fà misericordia a tutti, con tutto il continuare delle sventure e dei mali giornalieri, ci sentiremo presi in giro dai predicatori di una simile misericordia, giacchè la misericordia solleva dalla sventura e non la manda, avremo l’impressione di un Dio che si fa beffe di noi o finiremo per prendere in giro noi stessi. Dunque non c’è via di uscita da questo impasse, se non recuperare il senso cristiano della sofferenza, la distinzione in Dio fra giustizia e misericordia, il concetto di ira divina e della espiazione dei peccati.

Ma d’altra parte c’è pur sempre da ricordare anche che il concetto di misericordia, che se di per sé tra noi esseri umani comporta sofferenza per il misericordioso, è un concetto metaforico se applicato a Dio. Misericordia divina, spiega San Tommaso, vuol dire semplicemente che Dio non volendo la miseria del misero, gliela toglie; non vuole il peccato e lo toglie. Ma le metafore sono molto utili, come c’insegna lo stesso linguaggio biblico assunto poi dal dogma cattolico, per esprimere in modo adatto alla comprensione soprattutto dei semplici, qual è la condotta di Dio verso di noi e quale dev’essere la nostra verso di lui.

Così pure anche il concetto stesso del redimere (red-emptio) è una metafora – l’ebraico ha goèl, che vuol dire «vendicatore» - , dove sotto l’immagine della transazione economica o commerciale o del sequestro di persona, si rappresenta Cristo come fosse un ricco acquirente, che ci «compra di nuovo» a prezzo del suo sangue», dopo averci acquistati come sua proprietà nel crearci all’inizio del mondo, e che ci restituisce al legittimo proprietario, il Padre, risarcendolo col suo sangue della perdita subìta per il fatto che noi ci eravamo venduti al demonio.

Queste metafore vanno mantenute, altrimenti non possiamo più capire il significato e il valore di quanto, perchè e come Cristo ha agito e patito per noi. Per questo il concetto della soddisfazione vicaria («satisfecit pro nobis») è entrato nel dogma della Redenzione al Concilio di Trento (Denz.1529), peraltro con risonanza ecumenica, perché anche Lutero era d’accordo su questo punto, mentre Rahner va a pescare nelle acque torbide dell’hegelismo per tirar fuori un concetto dialettico di Redenzione, di tipo gnostico ed ereticale[6].

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 1 novembre 2021 

La salvezza è oggetto della speranza; non è un possesso presente. Se vogliamo effettivamente salvarci dobbiamo operare per la nostra salvezza con l’aiuto della grazia e mossi dalla grazia.  

Se non facciamo nostra la croce di Cristo, che Egli sia morto per noi non ci giova per niente, ma ci lascia nei nostri peccati.

Noi sì siamo salvati, ma dobbiamo nel contempo salvarci. Quindi, se vogliamo effettivamente salvarci, dobbiamo, come Egli espressamente ci comanda, unirci al suo sacrificio soprattutto nella Santa Messa ed unendo alle sue le nostre sofferenze, fino alla nostra stessa morte.

È questo il significato e il valore della morte cristiana, sicchè per salvarci non basta il puro e semplice morire, come crede Rahner, quasi che la morte fosse da sé produttrice di vita, quasi che avesse un potere salvifico in se stessa e da se stessa, sì da essere una specie di «compimento» o di liberazione. 

 Dobbiamo invece dire a chiare lettere, contro ogni morbosità tanatofila, che la morte in se stessa è un male ripugnante, è pura distruzione e cessazione della vita. 

Se il cristiano apprezza la morte come via di salvezza, non l’apprezza in quanto morte; in quanto morte gli fa ribrezzo, ma l’apprezza solo perchè è stata assunta da Cristo per la nostra salvezza.

Immagini da Internet: Opere di Edvard Munch


[1] Vedi per esempio alla Voce EXPIO del vocabolario Georges-Calonghi: expiatum est, quidquid ex foedere rupto, irarum in nos caelestium fuit, Tito Livio; expiare filium pecunia publica, Tito Livio; expiare solemnes religiones, espiare crimini contro la religione, Cicerone.

[2] Il sacrificio potrebbe a tutta prima avere l’apparenza del suicidio. Si dice per esempio di Cristo: perché si è esposto ad essere catturato? Non poteva sottrarsi ai suoi nemici? Fuggire in un paese lontano? È evidente che materialmente non si è ucciso, come hanno fatto un Socrate o Catone o un Jan Palach o certi monaci buddisti o i kamikaze giapponesi, ma è stato ucciso. E tuttavia il lasciare che altri lo uccidessero, quando avrebbe potuto salvarsi con la fuga, non è moralmente lo stesso che si sia ucciso? Ora bisogna tener presente che il suicidio è un’altra cosa, anche se il fine è nobile come nel caso dei predetti personaggi. Un conto è non difendersi, un conto è suicidarsi. Nel primo caso chi uccide è l’assassino. Ma nel secondo caso l’assassino è colui stesso che si uccide. Ora, affinchè un atto umano sia in armonia con un fine giusto (per esempio la libertà della patria), ma occorre che anche l’atto sia giusto. Non si può peccare in nome o per la difesa della patria o della libertà. Il peccare a tal fine rende quanto meno dubbia l’intenzione del suicida o offusca la purezza dell’ideale per il quale si uccide.

[3] Cf il mio opuscolo La proposta del demonio, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2021.

[4] Spirito che, come auspicano Chiara Giaccardi e Mauro Bagatti richiede non ll terzo escluso, ma il terzo incluso: una mediazione fra il sì e il no, e quindi il servizio a due padroni. Cf La scommessa cattolica, Il Mulino, Bologna 2019. Sorge l’apologia dell’ambiguità, della doppiezza, dell’opportunismo e dell’ipocrisia. È il «cattolicesimo» dei furbi, degli ambiziosi, dei disonesti, degli impostori, degli approfittatori.

 

[5] Questa interpretazione della redenzione e della giustificazione è ancora più lontana dal cristianesimo e più vicina all’hegelismo di quella di Lutero ed è nella linea del protestantesimo liberale di Schleiermacher e di Bultmann. Anche per Hegel il concetto dell’espiazione, proprio della religione, appartiene ad una maniera antropomorfica ed inadeguata di concepire la riconciliazione dell’uomo con Dio, la quale non avviene nell’orizzonte della sofferenza fisica, ma nell’orizzonte del pensiero e grazie alla «potenza dell’intelletto», ossia del «concetto» e in modo dialettico (cf Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1988, vol. I, op.cit. p.25.).

[6] Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Roma 1978, pp.364-367; 382.

2 commenti:

  1. Caro Padre, sono parole molto semplici ma anche molto importanti quelle che ha detto. Bisognerebbe diffonderle a tutti. CI ha ricordato che cosa sia la messa e la vera natura di Dio che possiamo solo capire per analogia perché ,come dice San Tommaso, sono più le cose che ci separano da Dio che quelle che ci uniscono. Come giustamente ha ricordato, in Dio non c’è passione e l’immagine errata che molti si fanno quando si riferiscono a Lui come un Padre lontano, irascibile, collerico ma anche solo buono e sempre pronto ad accettare tutto e tutti perché tanto ci accoglie sempre, è sbagliatissima. Per questo le metafore salvifiche hanno un significato che non va frainteso. E’ proprio perché Dio ci vuole bene che ci chiede anche di collaborare alla sua giustizia. Non siamo affatto sicuri di avere già un posto in Paradiso. Non siamo tutti già salvi come dotti teologici hanno detto e dicono o fanno intendere. La misericordia di Dio non è slegata dal sacramento della Riconciliazione, il quale non è una semplice “questione piscologica” come mi sono sentito dire, ma un gesto semplicissimo che a Dio basta se fatto con sincerità come Manzoni ha raccontato benissimo per l’Innominato. Ci si può solo commuovere davanti alla bontà, saggezza, pazienza e delicatezza di Dio nei nostri confronti che ci ama da sempre e ci vuole liberi e integri, sicuri di noi stessi, forti e consci dei nostri meriti, pur piccoli che siano, se presentati nel modo giusto davanti alla Sua divina maestà. Banalmente, possiamo dire che anche chi possiede un cane e gli vuole bene, sa infatti che il fedele compagno si sente meglio quando lo ricompensiamo con cibo se ha compiuto il suo dovere, svolto il proprio lavoro (fare la guardia, accudire al gregge, seguire una traccia, tirare una slitta) quando cioè è appagato dapprima lui stesso per quanto ha fatto. Come semplice fedele mi aspetto solo che la messa non solo sia celebrata bene come già avviene ma che sia anche sentita da me e dal celebrante e che la si viva come un incontro col Signore in ricordo di quanto ha fatto e ancora sta facendo per noi con il dono dell’Eucarestia. Una messa senza equilibrismi pericolosi o “pruriti” per le novità.

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    1. Caro Alessandro,
      vivi complimenti per questa ottima esposizione, scritta in uno stile elegante e persuasivo, su temi la cui difficoltà oggi è molto avvertita, tanto che purtroppo molti su questi temi vanno fuori strada; questo sia detto senza giudicare le loro coscienza, dato il clima di diffusa ignoranza che può rendere scusabili davanti a Dio i loro errori.

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