Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 1 (3/3)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 1 (Parte 3/3)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 11 (A-B)

Bologna, 13 gennaio 1987 - Fine Ultimo n. 11 (A-B)

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Quindi, all’ordine delle cause efficienti corrisponde l’ordine dei fini. Perciò, come nell’ordine delle cause efficienti, le finalità connaturali umane sono espressione della volontà creatrice, causa prima, così i fini intermedi, cioè quegli stessi beni che noi scorgiamo in qualche modo nella nostra natura, e che non ci abbiamo messo noi stessi, ma li troviamo lì, li scopriamo lì già immessi e preesistenti, tutti questi fini sono a loro volta finalisticamente ordinati al fine ultimo, che anche esemplarmente rappresentano.

Vedi come si stabilisce poi il nesso tra le finalità, diciamo così, particolari della legge divina naturale con la legge eterna, cioè con Dio stesso, ossia con il fine ultimo. Questa corrispondenza vale anzitutto con maggiore evidenza sul piano della causalità efficiente, dove si parla di legge naturale. Vale poi anche sul piano dell’esemplarità, dove c’è rapporto tra legge eterna, cioè non più Dio Creatore e Legislatore e natura umana creata, e quindi promulgazione della Sua volontà.

Ma si tratta del rapporto esemplare tra la legge eterna, che è l’essenza stessa di Dio, come radice delle sue partecipazioni, e le partecipazioni alla natura umana, e poi il rapporto finalistico, fini intermedi, però insiti nella natura umana stessa, insiti da Dio che ordinano ovviamente a Dio in quanto espressioni della sua volontà.

Quindi, la sinderesi comprende non solo appunto il fine ultimo, cioè che tutto è da ordinare al fine ultimo, ma anche bene i fini intermedi, cioè, per esempio. che la razionalità sia da usare per conoscere la verità e non per ingannare il prossimo, che la sessualità sia usata per procreare e non per procurarsi dei piaceri.

Tutti questi fini che in qualche modo fanno parte della natura umana sono insiti negli stessi principi della moralità. Non sono oggetto in qualche modo della libera scelta, ma sono i presupposti della stessa libera scelta. Prego.

… il fine ultimo … difficoltà …

Certo. Questo fine ultimo non è la visione di Dio. Questo è il fine ultimo soggettivo, ma abbiamo parlato anche del fine ultimo oggettivo, che è Dio stesso. Ora, naturalmente, esso si collega con il discorso stesso della carità, in sostanza: “Chi mi ama, osserva i miei comandamenti”.

Cioè nell’essere uniti con la volontà suprema, che è Dio stesso, non c’entriamo ancora noi che contempliamo Dio e amiamo Dio, ma c’entra Dio stesso, che è la sua intelligenza e che è la sua volontà. Non è possibile che io sia ordinato alla volontà di Dio senza conformarmi a questa volontà stessa.

Quindi, se Dio ha voluto che io fossi costituito in questa determinata verità del mio essere umano, se io agisco secondo questa verità, agisco in vista di Dio, cioè cammino con gli affetti della mia mente, direbbe S.Agostino, verso il fine ultimo, che è Dio. Che poi ovviamente di riflesso diventerà anche la visione beatifica Ma che però, questa volta, bisogna vedere ex parte obiecti, non ex parte subiecti.

Quindi, in sostanza, non è possibile che noi siamo, per così dire, in amicizia o in conformità con la volontà di Dio senza adempiere, conformarci, a quelli che sono i contenuti particolari della volontà medesima.

Quindi, solo se io accetto la verità del mio essere come qualche cosa che sovrasta la mia stessa libera volontà, solo allora io mi metto in qualche modo nella direzione della realizzazione del fine ultimo oggettivo, che è la volontà di Dio, non più nelle sue partecipazioni, ma nella sua essenza. Insomma, non è possibile essere ordinati all’essenza della volontà di Dio, senza ordinarsi ad essa tramite le sue partecipazioni.

… intrinseco … disposizione …

Certamente. Certamente. Non c’è nessun dubbio. Sì. Sì. Non c’è nessun dubbio. No, no. Ah, sì. Ahimè, vedi, proprio quel bel dinamismo non c’è

Termine della registrazione

Seconda parte (B)

Cf. testo di Amelia Monesi

…è la preminenza dell’oggetto sul soggetto. Ossia c’è un ordine oggettivo dei fini. Nella conoscenza la verità consiste nell’adeguazione dell’intelletto alla cosa. Così nella morale si tratta dell’adeguazione delle scelte libere all’obbiettività dei fini. Quindi il fine oggettivo in nessun modo è costituito dall’agire umano.

Risposta: Il primo ordine è quello delle finalità oggettive. In dipendenza da tali finalità ci sono le nostre scelte soggettive. Se queste scelte sono conformi alle finalità, che non sta o noi costituire, ma che si riconoscono come tali, allora c’è anche implicitamente l’ordine al fine ultimo. Se tale conformità non c’è, il fine ultimo ce lo scordiamo.

Il fine dell’operante non è una fonte di moralità che possa eliminare il fine dell’opera, cioè non è che io possa dire: compio un’opera disordinata, però ho tanto amore di Dio. Non è possibile pretendere di avere di più se non si attua il bene, non è possibile pretendere di avere il fine ultimo oggettivo se non si possiedono i fini intermedi partecipati, anche se soggettivi.

Quindi tutta la soggettività umana è in grado di giungere alla sua piena realizzazione del fine ultimo soggettivo, che è effettivamente la visione beatifica, solo se a sua volta, sempre ex parte subiecti, si conforma alla verità dei fini intermedi, alla verità dell’oggetto dell’agire morale. E’ molto importante ribadire: la prima fonte della moralità non è il fine dell’operante, ma la prima fonte della moralità è appunto il fine dell’opera: ciò che si fa.

Risposta. La difficoltà potrebbe essere questa, e non vorrei che si fraintendesse in un certo modo, cioè favorendo un certo arbitrio divino, quasi pensando che Dio praticamente decide[1]  quello che vuole Lui riguardo alla verità dell’uomo. Ebbene, non è così naturalmente. Il discorso si collega con la metafisica delle essenze. Un discorso di questo tipo potrebbe farlo uno della scuola francescana, i nostri cari cugini della scuola scotista, i quali potrebbero effettivamente dire che in fondo Dio determina le essenze con l’atto della sua volontà.

Secondo la scuola tomista invece in qualche modo Dio non stabilisce le essenze per un intervento della sua volontà, perchè allora ci sarebbe dell’arbitrio, ma stabilisce l’ordine delle essenze per una contemplazione della partecipazione obbiettiva della sua stessa essenza divina ed esemplare che coincide con l’essere, rispetto agli effetti esterni a Dio.

Tutto ciò si collega con il trattato delle Idee di Dio. Come fa Dio a pensare le sue idee? Voi sapete che S.Agostino ha ripreso tutta la speculazione neoplatonica delle idee e come già Plotino, S.Agostino ovviamente, a differenza da Plotino, immette le idee nel Nus, cioè nella Mente. Infatti S.Agostino non poteva che riempire di idee il Verbum Dei.

Le idee hanno particolarmente sede nella seconda Persona trinitaria, che è la Sapienza del Padre, ma ovviamente sono qualche cosa di comune a tutte e tre le Persone divine, perchè è evidente che non solo il Verbo pensa, ma tutti e tre pensano, anche se poi questo essere Pensiero della Mente divina compete particolarmente al Verbo.

Insomma, questo poi si connette con il discorso molto difficile della teodicea. Il Padre …. ha una tesi molto bella, anche se non facile da difendere, cioè che secondo lui l’unica istanza di un infinito attuale e attualmente esistente è proprio il numero delle idee di Dio. Cioè il numero delle idee della Mente di Dio è un numero attualmente infinito, ma non si tratta di un numero tipo serie numerica.

La partecipabilità dell’essere è infinita, cioè le sfumature sono infinite, le delimitazioni dell’essere sono contigue l’una all’altra. Ora però Dio determina questi tipi di partecipabilità di quella essenza che è l’actus purus essendi, che è la sua essenza infinita; Dio ne determina le modalità di partecipabilità finita, non per un intervento di volontà.

Cioè Egli dice: Mi piace fare l’uomo in questo modo. Oppure: Faccio un uomo quadrupede e farà un quadrupede. Lo chiamerà “cavallo” o lo chiamerà “bue”. Ma se crea l’uomo, può anche non crearlo. Dio può far sì che l’uomo sia solo pensato da Lui; ma se lo crea, lo crea appunto con tutto quello che spetta all’uomo; se no, non è uomo. Neanche Dio vi può cambiare nulla. Non perchè sia limitata l’onnipotenza divina, ma perchè ciò è insito nella verità dell’essenza. 

Risposta: Anzitutto bisogna ammettere diverse distinzioni. La prima distinzione che si impone è quella tra l’ordine oggettivo dei fini, che non è in nessun modo costituito dalla nostra soggettività, cioè dal nostro scegliere o meno, e l’ordine soggettivo.

Evidentemente come c’è l’ordine dei fini (per esempio usare correttamente della propria razionalità in vista di Dio), così anche c’è un ordine di piaceri. Io ho piacere di aver usato correttamente la mia razionalità conoscendo magari una verità particolare, e questo piacere ovviamente è in armonia con quell’ultimo più grande piacere che è la beatitudine in Dio.

Una distinzione che si impone è il perfetto parallelismo tra l’ordine oggettivo dei fini e l’ordine soggettivo. Cioè, come il fine oggettivo intermedio è sottoposto al fine ultimo sempre oggettivo, cosi anche il fine soggettivo intermedio è in armonia con il fine ultimo soggettivo, cioè con la beatitudine.

Quello che complica un po’ più le cose è l’espressione “visione beatifica”. Come c’è un ordine oggettivo dei fini, c’è anche un ordine soggettivo dei fini, dove l’ordine soggettivo dipende da quello obbiettivo. Se io soggettivamente riconosco la verità non dipendente da me del fine intermedio obbiettivo, rimango nella mia volontà disposto a entrare nel possesso del fine ultimo sempre obbiettivo.

Qui c’è una certa analogia di proporzionalità: come sta il fine oggettivo ultimo al fine soggettivo facendolo dipendere da sé, cioè la visione dipende da ciò che è Dio, similmente il fine intermedio fa dipendere da sè la mia gioia nel fine intermedio.

Per questo ci sono delle gioie oneste e delle gioie disoneste. Parlo soprattutto della gioia perchè la fruitio è compimento dell’atto umano. Ci sono piaceri onesti e piaceri disonesti. Con i piaceri onesti mi ordino a quel piacere supremamente onesto che è ovviamente la beatitudine. Però questo non vuole ancora dire visione beatifica.

Quindi bisogna fare questa distinzione: nella legge morale naturale distinguiamo l’aspetto della virtù acquisita da quello della virtù infusa nell’adempimento del precetto, quanto alla sostanza (quoad substantiam) del valore morale e quanto al modo (quoad modum), che può essere duplice: quoad modum naturale e quoad modum supernaturale, formazione tramite la carità.

Solo in questo ultimo caso c’è un ordine alla visione beatifica tramite la grazia e tramite il merito; ma lì non basta più il valore delle virtù morali naturali in quanto tali. Per questo, l’atto naturalmente onesto è il solo che è suscettibile di essere rivestito della carità. Per cui non posso dire: “io sono omicida, però rivesto l’atto di omicidio della carità”. Non è possibile, perchè l’ordine soprannaturale suppone sempre l’ordine naturale.

Se c’è disordine naturale, tanto più ci sarà disordine soprannaturale. Però, se io compio un’azione naturalmente onesta e per giunta rivestita della carità, allora non c’è nessun dubbio che ho un ordine di merito a quel premio, che è la visione beatifica.

Bisogna dire che c’è sempre e comunque una sottomissione del fine soggettivo al fine oggettivo. Però, come c’è un ordine tra fini oggettivi, così c’è anche un ordine tra fini soggettivi. Come l’affermare la verità del mio essere umano conduce in qualche modo ad affermare la verità di Dio, da cui questa verità immediatamente deriva, così anche il mio gioire della verità del mio essere umano e agire secondo questa verità, costituisce un piacere onesto che è in armonia con il piacere della beatitudine.

Un’ulteriore distinzione si impone a livello della finalità e dei mezzi di tipo naturale e di tipo soprannaturale. Anche lì i valori morali naturali sono indispensabili per camminare mentalmente verso il fine ultimo. Tuttavia non basta solo praticarli, bisogna fare di più, bisogna avere la forma caritatis. Ossia i fini intermedi naturali sono la condizione sine qua non del merito, ma non ne sono il costitutivo.

L’altra domanda connessa con la prima, che stabiliva che nell’atto umano c’è il volontario perfetto, alla luce della prima è facile da risolvere. E’ quella domanda che si chiede se il volontario si realizzi anche negli animali irrazionali.

La risposta è sì, il volontario c’è in loro perchè si verifica la definizione generale del volontario, ossia avere in sè il principio della propria azione con una certa conoscenza del fine: quindi questo si verifica anche negli animali irrazionali.

Però, non essendo perfetta la loro conoscenza del fine, anche il volontario deve chiamarsi non perfetto, ma imperfetto. Importante è la distinzione nell’ambito del volontario tra perfetto e imperfetto; è una distinzione che segue la perfezione o meno della conoscenza. L’elemento generico è quello dell’interiorità del principio di azione e questo il volontario lo ha in comune con il moto naturale.

Ciò che c’è di specifico nel volontario in quanto volontario è la precognizione del fine. Ora, questa preconoscenza del fine può essere perfetta o imperfetta. A seconda della perfezione o meno della conoscenza, risulta rispettivamente perfetto o imperfetto anche il volontario. Si intende per volontario imperfetto quel volontario che è insito in un’azione procedente da una conoscenza imperfetta del fine.

Che cosa si intende per conoscenza imperfetta? E’ la conoscenza sensibile, la conoscenza del fine in concreto, la conoscenza materiale del fine, la conoscenza della cosa che è fine, non del fine in quanto è fine.

Per esempio, se si dà da bere ad una pianta, “sarà contenta”, ma non avverte questo fatto; il cagnolino, se gli si dà da mangiare, vede ed elabora sensibilmente il mangiare; tuttavia non lo afferra nella sua funzione nutritiva universale; non afferra la ratio finis. E questa conoscenza imperfetta del fine condiziona un certo volontario, che più che volontario, sarebbe da chiamarsi spontaneo; generalmente si preferisce parlare della spontaneità istintuale degli animali.

Un altro problema connesso con questo è il fatto della volontarietà in quanto presuppone la deliberazione e i mezzi riguardo al fine, cioè in che modo il volontario si estende anche al fine? Il volontario presuppone sempre un confronto e una sussunzione del particolare sotto l’universale e un giudizio sulla particolarità del bene finito rispetto al bene non-finito, cioè rispetto al bene in quanto è bene sic et simpliciter.

Quindi nel volontario perfetto c’è sempre un giudizio e non solo, ma c’è anche una deliberazione, un confronto tra giudizi pratici. Questo confronto, però, non riguarda direttamente i fini in quanto sono fini, ma può riguardare i fini intermedi in quanto a loro volta sono dei mezzi in vista di altri fini.

Però[2] non riguarda il fine in quanto è fine, perchè la deliberazione dipende già dal fine; bisogna infatti avere chiaro il fine per poi deliberare sui mezzi. Quindi in qualche modo il fine è già presupposto nella sua determinazione alla deliberazione riguardo ai mezzi. Ma il volontario allora che presuppone la deliberazione si estende al fine o solo ai mezzi?

S.Tommaso tende a dire che si estende anche al fine, però non terminativamente, cioè il fine non è oggetto della deliberazione[3], quindi nemmeno del volontario, ma è il principio, è l’inizio della deliberazione, perchè la deliberazione parte appunto da quel principio operativo che è il fine, la determinazione del fine.

Poi dal fine determinato procede a determinare i mezzi che di per sé sono pluralistici e indeterminati. Così il volontario coinvolge tutto ciò che ha a che fare con la deliberazione, ossia sia il fine e il principio della medesima, sia i mezzi che sono nella deliberazione. Essi si pongono ex parte obiecti, ossia sono termini della deliberazione stessa. Questo non fa una grossa difficoltà; basta dire che il volontario in modi diversi coinvolge tutto, sia il fine, che è il principio del deliberare, sia i mezzi che ne sono il termine.

Importante è la distinzione fondamentale tra il volontario perfetto e il libero. Al limite il volontario perfetto coincide con il libero, cioè un soggetto che ha in se stesso il principio della sua azione, con conoscenza perfetta del fine, afferrando la ratio finis e quindi essendo in grado di deliberare sui mezzi e sui beni particolari vedendone la limitatezza rispetto alla ratio boni, un soggetto così libero, ha un’indifferenza dominante rispetto al proprio atto.

Cioè in qualche modo il soggetto ha questa capacità di afferrare intellettivamente il bene particolare alla luce del bene universale, quindi di afferrarlo nella sua particolarità, in quanto particolare. Inoltre, a questa facoltà rappresentativa conoscitiva corrisponde da parte della volontà la libertà, come dominio del proprio atto, cioè non essere determinati a far questo o quest’altro, ma essere al di sopra della alternativa.

E’ un poter vedere sempre in ogni bene particolare sia la sua ratio boni sia la sua appetibilità, sia anche la sua limitatezza e quindi in qualche modo ciò che nel bene in quanto particolare ci potrebbe anche scoraggiare dal volerlo realizzare. Quindi il volontario perfetto coincide al limite con il libero. Dove c’è questa capacità di afferrare il fine nella sua ratio finis, c’è anche il dominio volitivo sui beni particolari, che noi chiamiamo appunto libertà.

Tuttavia c’è un caso in cui un agente è nel possesso del volontario perfetto, però non è libero; lì appare la distinzione tra libertà e volontario perfetto. E’ il caso in cui il bene è proposto all’intelligenza, la quale ha quindi la capacità di afferrare la ratio boni, ma il bene proposto è proprio il bene sommo, il bene ultimo. Dinnanzi a quel bene che è solo bene e in nessun modo limitato non si è liberi.

Il bene, in quanto è concepito dall’intelligenza pratica solo come bonum, non può non essere appetito, non può non essere desiderato. Riguardo a questo non siamo liberi, però c’è un volontario perfetto, perchè l’azione che ordina al fine, in questo caso ovviamente fine ultimo, è un’azione che procede dall’uomo, che afferra intellettivamente il fine; però, vedendo in quel fine solo la ratio finis, non può afferrarlo nella particolarità e quindi non lo domina, non è libero.

E’ molto importante capire che non si tratta di un’assenza della libertà per difetto di libertà, ma piuttosto di un’assenza di libertà per realizzazione di libertà. Non si può dire che i santi in cielo non hanno libertà, che nella Gerusalemme Celeste non ci sono i diritti umani, anzi, beati loro! Non è che non sono liberi perchè c’è qualcuno che toglie loro la libertà; anzi la loro libertà si realizza e quindi non ha più luogo proprio perchè è eminentemente realizzata in quel bene che è il sommo Bene, il Quale non si presenta come un qualche cosa di limitato sotto alcun aspetto.

Ovviamente negli animali, nei pazzi e nei bambini c’è il volontario imperfetto: negli animali, perchè hanno solo la conoscenza sensitiva; nei bambini perchè non hanno l’uso della ragione e anche nei malati di mente nei momenti della malattia, perchè la razionalità c’è essendo esse persone umane, e questo è molto importante; però la loro razionalità è impedita nel suo uso; quindi i loro atti non sono propriamente umani e quindi il volontario non è il volontario perfetto, perchè non hanno in quel momento l’uso dell’intelligenza.

Una questione molto importante, mi raccomando, non è facile da afferrare e da spiegare, è quella che riguarda il volontario nell’agire e nel non agire, nella commissione o nella omissione. Il volontario non c’è solo nell’atto, ma c’è anche nell’assenza dell’atto. E’ volontario libero e moralmente responsabile non solo l’agire, ma anche il non agire. E’ imputabile non solo ciò che deriva dalle nostre azioni, ma anche ciò che deriva dal nostro non agire, dal mancare di agire.

E qui c’è tutto il campo del volontario detto “indiretto”, tutto il campo dei peccati di omissione. Innanzitutto bisogna partire da questo: il volontario perfetto costituisce o si estende a tutto quell’ambito di azioni delle quali noi abbiamo un certo dominio, delle quali siamo padroni. Noi siamo padroni, tranne in quella eccezione che vi dissi prima. Di per sè il volontario perfetto in tutte le altre istanze, riguardo a ogni bene finito, coincide con il libero.

Si può dire che il volontario perfetto riguardo ai beni finiti coincide con il libero, cioè riguarda tutte quelle azioni di cui noi siamo padroni. Noi siamo padroni non solo del nostro agire, ma anche del nostro non agire; noi dominiamo non solo la specificazione dell’atto, ma dominiamo anche il suo stesso esercizio, cioè dominiamo anche il fatto di agire o di non agire.

La nostra razionalità ci garantisce questa libertà sia rispetto agli oggetti degli atti, oggetti specificanti, sia riguardo agli atti stessi, i quali a loro volta possono proporsi come oggetti. A me può essere proposto come oggetto, come un bene, lo stesso fatto di agire o di non agire, e quindi sono libero rispetto a fare questo o quello, ma anche riguardo al fare o non fare.

Volontario è ciò che causalmente procede dalla volontà con la conoscenza del fine; questo procedere dalla volontà può però avvenire in due modi: o indirettamente o direttamente. Direttamente, tramite un’azione: io agisco e la mia azione produce determinati effetti. Questi effetti sono volontari direttamente, perchè procedono da una volontà che agisce. Cioè la volontà è direttamente causa di quel determinato effetto.

La volontà però può essere causa di un certo effetto anche indirettamente, cioè non agendo, ma omettendo una determinata azione. Per esempio, se un uomo caritatevole aiuta un povero dandogli l’elemosina, evidentemente produce un effetto benefico tramite un’azione buona, proprio come essa è[4]; l’effetto si produce facendo qualche cosa.

Tanto per chiarire le cose, partiamo da un altro esempio, cioè quello di S.Tommaso, il quale parla del timoniere di una nave, che si astiene dal governare la nave e la nave naufraga. A questo punto si può e si deve imputare il naufragio al timoniere, che non l’ha governata. Quindi si può produrre un effetto anche non operando, ma smettendo di fare certe cose, non facendo le quali l’effetto si produce. Anche tramite il non fare si può giungere ad un determinato effetto, che ha una rilevanza morale.

Tuttavia le condizioni del peccato di omissione o comunque della moralità di una omissione, sia nel bene che nel male, - perchè in qualche modo anche non agendo si possono produrre degli effetti buoni - la moralità di omissione c’è solo a queste condizioni e cioè allorché il soggetto che non agisce, con il non agire indirettamente produce il verificarsi di quel determinato effetto che non ci sarebbe se l’agente avesse agito. L’importante è che l’agente sia un grado di agire e che debba agire, questo è essenziale. Che possa e che debba[5].

Restando nell’esempio del timoniere che dirige la nave, si deve dire che se la nave non gli è stata affidata, lui giustamente non ha nessuna responsabilità. Similmente, se egli non può governare la nave, perché per esempio si è spezzato il timone, in quel caso non gli si può imputare il naufragio.

E’ necessario che l’agente possa e debba impedire un certo effetto con la sua azione; in tal caso, se non agisce o non impedisce l’effetto, l’effetto gli è imputato. L’importante è questo: come il volontario indiretto si connette con un atto? La domanda è questa: se per avere il volontario indiretto, cioè l’omissione, si richiede un qualche atto.

Talvolta il volontario di omissione si verifica senza un atto esterno, ma con atto interiore. Non c’è ovviamente l’atto esterno perchè altrimenti non si tratterebbe di omissione, ma ci sarebbe un’azione compiuta esteriormente; invece per definizione l’omissione consiste nel fatto che non si agisce, non c’è l’atto esterno, però ci può essere un atto interno, nel senso che proprio uno interiormente vuole non agire, cioè il timoniere dice: “io non voglio governare la nave”; in tal caso si tratta di un atto interiore, cioè un non volere. Cioè egli vuole un atto di volontà che ha per oggetto il volere non agire.

Poi c’è il caso di uno che semplicemente non agisce, nè interiormente nè esteriormente: anche questo può capitare. Semplicemente non che voglia non fare, ma che semplicemente non vuole nulla, nè fare nè non fare[6]. S.Tommaso analizza profondamente questa struttura e dice che effettivamente questa omissione ci può essere anche senza un atto interiore che causi direttamente l’omissione, ma in qualche modo almeno ci deve essere una qualche altra attività che ne sia l’occasione.

Per esempio, è domenica e io voglio andare a Messa, ma a questo punto dico: “no, non ne ho voglia”; allora c’è l’atto interiore di volere non andare a Messa. Oppure c’è uno che non ci va, perché non ci pensa neanche, però se non pensa alla Messa, penserà ad altre cose. In sostanza si dà ad altre attività anzichè a quelle che avrebbe dovuto svolgere; quindi in qualche modo l’azione c’è sempre un’omissione, però come occasione[7].

Se uno dice: “voglio andare a divertirmi, al cinema o alla partita di calcio”, senza malizia, anzichè andare a Messa, allora ci sarebbe il primo caso del voler non fare, anche quando semplicemente non si vuole nulla nè fare nè non fare. Tuttavia nel contempo si fa qualcos’altro, qualche cosa che non andrebbe fatto.

Quindi il volontario può consistere non solo in un’azione, ma anche in un non porre un’azione che uno può e deve porre; se non la vuole, ne è responsabile, l’azione gli è imputabile.        

Leggete poi l’ad secundum, dove S.Tommaso fa l’analisi dalla parola latina (I-II q. 6, aa.3-4) nolo , che può essere intesa in due modi: o come espressione verbale o come una proposizione intera. Nolo legere vuol dire appunto non voglio, voglio non leggere: c’è questo atto interiore. Se invece uno dice semplicemente ego nolo, io non voglio, c’è l’assenza di qualsiasi atto volitivo, abulia si potrebbe dire.

Dopo queste domande preliminari che riguardano il volontario, cioè se nell’atto umano ci sia il volontario, se in qualche modo si estenda anche agli esseri irrazionali e se tale volontario ci sia solo nell’atto o anche nell’omissione dell’atto, segue tutto un insieme di problemi che riguardano l’influsso sul volontario.

Questi influssi possibili sul volontario sono i seguenti: anzitutto la violenza, poi la paura (metus in latino) ovvero agire sotto la spinta della paura, poi la concupiscenza ovvero un forte desiderio passionale e poi l’ignoranza. Sono i casi tipici dell’influsso sul volontario, naturalmente ce ne sarebbero tanti altri soprattutto di ordine patologico. C’è infatti tutto un insieme di patologie che andrebbe considerato.

P.Tomas Tyn, OP

Trascrizione da audio di:
Prima parte (A) Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 16 febbraio 2014 e
Seconda parte (B) Amelia Monesi – Bologna, 1987
Testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli, OP - Varazze, 25 luglio 2015

 

 

Tutti i fini che in qualche modo fanno parte della natura umana sono insiti negli stessi principi della moralità. Non sono oggetto in qualche modo della libera scelta, ma sono i presupposti della stessa libera scelta.

Il fine ultimo soggettivo è la visione di Dio. Il fine ultimo oggettivo è Dio stesso. Ora, naturalmente, esso si collega con il discorso stesso della carità: “Chi mi ama, osserva i miei comandamenti”.

Nell’essere uniti con la volontà suprema, che è Dio stesso, non c’entriamo ancora noi che contempliamo Dio e amiamo Dio, ma c’entra Dio stesso, che è la sua intelligenza e che è la sua volontà. Non è possibile che io sia ordinato alla volontà di Dio senza conformarmi a questa volontà stessa.

Se Dio ha voluto che io fossi costituito in questa determinata verità del mio essere umano, se io agisco secondo questa verità, agisco in vista di Dio, cioè cammino con gli affetti della mia mente, direbbe S.Agostino, verso il fine ultimo, che è Dio.

Non è possibile che noi siamo in amicizia o in conformità con la volontà di Dio senza adempiere, conformarci, a quelli che sono i contenuti particolari della volontà medesima.

Solo se io accetto la verità del mio essere come qualche cosa che sovrasta la mia stessa libera volontà, solo allora io mi metto in qualche modo nella direzione della realizzazione del fine ultimo oggettivo, che è la volontà di Dio, non più nelle sue partecipazioni, ma nella sua essenza. Insomma, non è possibile essere ordinati all’essenza della volontà di Dio, senza ordinarsi ad essa tramite le sue partecipazioni.


 Immagini da Internet: Paradiso, Giusto de' menabuoi, Battistero di Padova


[1] Dispoticamente o irrazionalmente.

[2] La deliberazione.

[3] In quanto già scelto o fine necessario.

[4] Nel suo valore positivo.

[5] Padre Tyn fa riferimento al peccato di omissione. Ma in certi casi esiste il dovere di non agire.

[6] Vedi il caso della persona distratta o della dimenticanza.

[7] Il non andare a Messa è occasionato dal fare altre cose.

 

 

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