Riflessioni sul significato della parola Dio - Prima Parte (1/3)

 Riflessioni sul significato della parola Dio

Parte Prima (1/3)

Una parola che dà senso alla vita

Se consultiamo un vocabolario, vedremo che la parola Dio significa «ente supremo». È la definizione esatta. Tuttavia, che significa ente supremo? Ma inoltre: quanti oggi usano la parola Dio? E chi la usa, la usa sempre nel senso giusto?

Perché tanti di noi oggi non usano questa parola? Non parlano mai di Dio? Certamente perché pensano che a questa parola non corrisponda nessuna realtà, ma che semmai si tratti di un concetto vecchio e superato dal progresso della cultura e della scienza. Eppure i vocabolari continuano a registrarla e a darle il suo significato, che, per la verità, è molto impegnativo. Vuol dire forse che l’ente supremo non esiste? Cerchiamo in questo articolo di chiarirlo.

Molti si riferiscono a Dio chiamandolo con altri nomi, come per esempio: giustizia, onestà, verità, bontà.  Costoro, se seguono questo ideale di giustizia, di bontà o di altruismo, incontrano Dio senza saperlo e possono salvarsi. Se non parlano di Dio non vuol dire che non abbiano con Lui un rapporto positivo.

Tutti noi abbiamo un Dio, ossia ci riferiamo ad un assoluto; il problema è di sapere qual è il vero Dio. Per alcuni Dio è il proprio io oppure una creatura.

Tutti noi corriamo il rischio di chiamare Dio ciò che non è Dio. Da qui l’idolatria e il politeismo. L’ateo è un idolatra, perché in realtà anche lui ha il suo dio, che però non è il vero Dio. È un dio che si è costruito da sé per proprio comodo.

Nell’Antichità gli atei o gli agnostici sono quasi inesistenti. Comunissima cosa era l’uso della parola Dio. Il problema è di quale dio si tratta. In Occidente il panteismo era raro, è coltivato solo dagli intellettuali, come gli gnostici. Invece in India è endemico ed è diffuso da sempre, soprattutto nelle classi colte. Semmai nel mondo antico sono divinizzati i sovrani. Gli empi certamente esistono, ma sono contro un certo dio perchè parteggiano per un altro dio.

Il problema degli Antichi, come sappiamo, è quello delle più sfrenate e carnali mitologie, del politeismo, delle teogonie, delle teomachìe, dei culti naturalistici o degli animali, della superstizione, della divinazione, della magia e dell’idolatria. Sono il fondamentalismo, il fanatismo e le lotte religiose.

Oggi il problema è tutto l’opposto: è la bestemmia, l’irreligiosità, la profanazione, l’indifferenza alla religione, il secolarismo, il sincretismo e il relativismo religiosi, l’empietà e l’assenza del senso del sacro, salvo poi a sacralizzare il profano e a render culto superstizioso ai valori di questa terra.

Per poter nominare Dio come ente supremo è chiaro che occorre basarsi su di una pratica realistica del conoscere, che assicuri l’oggettività ossia la verità della conoscenza, perché se si parte dall’idea cartesiana che l’oggetto del pensiero non è l’ente extramentale (extra animam, come dice San Tommaso), ma il pensato o l’idea stessa (esse est percipi), il soggetto nel conoscere non ha modo di raggiungere la realtà e di rispecchiare l’oggetto, così com’è[1], ma l’oggetto diventa un riflesso o una produzione o una espansione del soggetto. Ed abbiamo quella disgrazia spirituale e morale che si chiama soggettivismo, lamentata dalla Chiesa sin dal sec. XIX fino ai nostri giorni con Papa Francesco.

La parola Dio è il concreto dell’astratto natura divina. Dal punto di vita logico Dio è l’individuo; divinità è la specie. Dio indica una persona; natura divina indica la divinità, l’esser Dio, l’essenza di Dio. È evidente peraltro che in Dio l’individuo coincide con la specie: Dio è la natura divina, è la divinità o deità. Ma oltre a ciò in Dio l’essenza coincide con l’essere: Dio è il suo essere.

Non ha senso pertanto la distinzione che Meister Eckhart fa tra Dio effabile e divinità ineffabile, come se questa fosse al di sopra o indipendente da quello. Comunque la divinità-specie o divinità in genere serve per stabilire qual è il vero Dio, qual è il Dio che ha in sé tutte le proprietà dell’essere divino, cioè della divinità. Il concetto di natura divina serve nel dogma dell’Incarnazione (una persona, due nature) e in quello trinitario (tre persone, una natura).

Inoltre, per poter nominare Dio degnamente, occorre l’onestà del pensiero ed evitare la doppiezza. Il linguaggio dev’essere limpido, univoco ed inequivocabile, non a doppio senso. Può essere anche oscuro, come è logico per un tema così sublime e profondo, che supera la nostra comprensione; ma siccome c’è in gioco l’intellegibile, deve poter essere chiarito, interpretato e spiegato.

La parola Dio non deve avere un doppio senso. Non possiamo servire a Dio e a mammona (cf Mt 6,24). Dio non può esser soggetto a predicati opposti: essere e divenire, essere e non-essere, vero e falso, buono e cattivo, razionale e irrazionale, immutabile e mutabile, impassibile e passibile, e via dicendo.

Walter Kasper nomina il nome di Dio invano

L’immagine di un Dio in evoluzione, barcollante sotto i colpi del destino, immerso nella storia come il pesce nell’acqua, mutevole come il clima che passa dall’inverno all’estate, sofferente come il padre che ha perduto il figlio, in progresso come dal calesse si è passati all’automobile, è diffusa oggi fra i cristologi, e l’ho confutata in questi ultimi 40 anni in molte mie pubblicazioni.

Si tratta di autori sprezzanti della metafisica. Tale immagine di Dio viene spacciata per «biblica», ma in realtà è schiettamente pagana ed è stata più volte condannata dalla Chiesa sin dai primi secoli. Ho pensato questa volta di prendere un solo caso a titolo di esempio: quello di Walter Kasper.

Al riguardo comincio col dire che è un errore gravissimo sottrarre la questione del nome di Dio alla competenza della metafisica, col pretesto che la Scrittura rispecchia la cultura ebraica e non quella greca, come se la metafisica di Aristotele non contenesse nozioni universalmente valide per interpretare il dato di fede Scritturale, nozioni che la Chiesa ha utilizzato approvando e raccomandando la teologia di San Tommaso, notoriamente discepolo di Aristotele.

Il disprezzo di Kasper per la metafisica dimostra che egli ha ricevuto una formazione teologica inadeguata, nonché ha subìto un influsso luterano ed inoltre è vittima di un concetto sbagliato della metafisica, quasi fosse un sistema di vuote astrazioni ideato da un narcisista che si ritiene un geniale teoreta molto più in alto dei comuni mortali, ingabbiati nella rigidezza glaciale di un Dio nemico della vita, della storia, dell’azione e del concreto, quando invece basterebbe fermarsi a considerare con attenzione, oggettività senza pregiudizi e con apertura di mente la metafisica di San Tommaso per accorgersi della magnanimità e duttilità sconfinate dell’esse tomistico, luce fulgidissima  per la penetrazione dei più ardui misteri, lanciato sulle vette della teoresi e ad un tempo attento ai dettagli delle situazioni concrete, base solidissima di tutte le certezze della ragione, energia inesauribile per ogni forma di progresso storico ed umano, legame di convenienza fra le differenze più abissali, principio di concordia nei conflitti più laceranti.

Per Walter Kasper la parola Dio non significa «ente supremo, assoluto, immutabile, eterno ed esistente da sé» indipendentemente dal mondo. Dio così inteso, secondo lui, sarebbe un idolo, sarebbe il patrono dell’immobilismo, estraneo alla storia, nemico dell’uomo e nemico del nuovo[2].

Invece secondo lui Dio significherebbe Dio-con-l’uomo, Dio-per-l’uomo, Dio come Storia, non Colui Che è, nella sua trascendenza oltre il mondo ed oltre lo spazio-tempo, ma Colui Che è qui e adesso per me. Colui che è funzionale all’uomo e che non può esistere senza l’uomo. È chiaro che Kasper capovolge il rapporto dell’uomo con Dio: non l’uomo relativo a Dio, ma Dio relativo all’uomo. Allora l’ente supremo non è più Dio, ma l’uomo.

Con ciò Kasper pretenderebbe di dare la vera interpretazione, secondo il modulo «ebraico» e non «greco», del famoso passo di Es 3,14, passo che in realtà dà ragione al vocabolario, perché Colui Che È non può non essere l’ente supremo. E questi non può essere l’uomo, se non nelle dottrine panteistiche, come per esempio quelle dell’idealismo tedesco, delle quali appunto Kasper fa le lodi mostrando disprezzo per la metafisica, che invece è a fondamento del concetto di Dio come ente supremo creatore e non servo dell’uomo.

Kasper non si rende conto che l’uomo in realtà non può non servire un «padrone» (Mt 6,24). In realtà, come spiega bene il Vangelo, l’uomo che vuol servire sé stesso e non Dio, finisce per servire il diavolo, il «principe di questo mondo» (Gv 12,31).

Del resto il Dio-per-l’uomo di Kasper, mutevole ed immerso nella storia, è proprio quel dio greco, quell’idolo, che Kasper accusa essere l’ente supremo del vocabolario e della Bibbia. In realtà nella concezione biblica non è Dio che dipende dall’uomo o è relativo all’uomo, ma è l’uomo che dipende da Dio, così come l’essere relativo dipende dall’essere assoluto. Il Dio che muta era già il dogma dei modernisti. Ma occorre possedere il concetto di «ente supremo».

Per intendere il significato del nome Dio, Kasper è dunque fuorviante, non conduce a Dio ma al diavolo. Per evitare questo rischio mortale, occorre una buona metafisica, occorre avere la nozione dell’ente e dell’essere.  Non  tutta la realtà si risolve nella storia, ma la storia è il concretizzarsi nel tempo di ciò che il pensiero coglie nell’astrazione metafisica.

Occorre possedere la nozione dell’ente.

Per cogliere la nozione di ente primo, sommo e supremo e superare lo storicismo mitologico pseudobiblico di Kasper occorre la nozione dell’ente, che spontaneamente tutti possediamo, ma allo stato implicito. Occorre metterla in luce per se stessa. E questo è il compito della metafisica.  Ma ciò non basta ancora. La Bibbia ci dice che l’ente supremo è atto puro di essere (Es 3,14). Occorre allora mettere in opera anche la nozione dell’essere, essa pure implicitamente comune a tutti perché espressa nel verbo essere, che tutti usiamo. La nozione dell’essere è ricavata da quella dell’ente, perché l’essere è l’atto dell’ente, ciò per cui l’ente esiste, è un esistente[3]. Vediamo adesso la nozione dell’ente, poi passeremo a quella dell’essere.

Tutti, magari inconsapevolmente, posseggono spontaneamente e necessariamente la nozione dell’ente nel momento in cui pensano qualunque cosa o esercitano l’atto dell’intelletto, perché tutto ciò che noi pensiamo o conosciamo supponiamo che sia un ente o qualcosa, che è una determinazione dell’ente. L’ente infatti è la cosa vista come essenza reale. Ora tutti possediamo spontaneamente anche queste nozioni di «cosa», «essenza» e «realtà», anche se è compito della metafisica elucidarle.

Di ogni cosa infatti ci domandiamo che cosa è, e ci teniamo che sia una cosa reale ovvero esistente. Quello che non esiste non c’interessa. Deve esistere almeno idealmente. Così distinguiamo spontaneamente l’ideale dal reale. Ma esistente vuol dire che ha l’essere. Dunque vediamo lo stretto legame che unisce questo plesso di concetti.

Ora però quanti di noi riflettono sul significato dalla parola ente? Quanti sono quelli che sanno dire che cosa è l’ente? Quanti sono coloro che si sentono interessati a questo argomento? Quanti sono coloro ai quali piace indagare che cosa è l’ente? Quanti, insomma, apprezzano la metafisica o, se non la coltivano, almeno sanno che cosa è, quale ne è la sua dignità ed importanza e la rispettano?

Eppure ci rendiamo conto del nesso che esiste fra il concetto dell’ente e il concetto di Dio, se un qualunque vocabolario, che non è un trattato di filosofia, ma un prontuario fatto anche per tutti gli illetterati, lo presenta come scontato? Non meravigliamoci poi della diffusione dell’indifferentismo o dell’agnosticismo religioso, dell’empietà o dell’ateismo. E cerchiamo di capire quanto è stolta l’irrisione nei confronti della metafisica o è dannosa la diffusa ignoranza o la trascuratezza che vigono sul suo conto.

Rendiamoci conto che è impossibile parlare seriamente di Dio, se non abbiamo in stima la nozione dell’ente e le nozioni ad esso connesse, come quella dell’essenza, dell’essere, della cosa, del qualcosa, della realtà, della verità, del bene e dei trascendentali. Con quale saggezza parla di Dio uno che disprezza la metafisica? Di quale Dio parla?

Il vocabolario definisce la parola Dio in conformità a quanto la ragione può concepire di Dio, appunto come Ente supremo. Ma, come sappiamo, esiste un libro, la Bibbia, che si presenta come rivelazione che Dio fa di se stesso all’uomo.

Con tutto ciò non si creda che oggi le cose vadano tanto diversamente dal passato. Anche se non si usa più la parola «Dio», tutti noi abbiamo un nostro dio; senza un dio, ossia senza un punto di riferimento, senza una base di appoggio, senza una linea-guida, senza un centro di orientamento, senza una ragione di vivere, senza il ricorso a un fondamento o senza far capo a un primo principio, senza una meta, senza un valore o una direttiva di fondo, senza dare un senso alla vita, senza il riferimento a un assoluto o a un punto fermo, insomma, senza qualche dio, non si vive. Tutto il problema allora non è quello di avere un dio, perché un dio lo hanno tutti. Il problema posto dalla Bibbia è quello della scelta del vero Dio.

La nozione dell’ente è di tutte la più universale, dato che si suppone che ogni cosa, anche le più diverse dal punto di vista dell’entità, sia un ente. Detta nozione viene pertanto formata per mezzo di un processo astrattivo, che prescinde da qualunque ente particolare o singolare, per il quale cogliamo l’essenza dell’ente o sappiamo che cosa è l’ente: un’essenza che ha l’essere. Ciò implica a sua volta il fatto che noi spontaneamente formiamo il concetto dell’essenza e dell’essere.

In questo processo astrattivo noi cogliamo ciò che è comune a tutte le cose, appunto l’entità e lo esprimiamo con la parola «ente» o «cosa». Infatti nessuna cosa è l’ente, ma semplicemente un ente. Ogni cosa è diversa dall’altra; eppure ciascuna è un ente. Col concetto di ente e sotto il nome di «ente» noi dunque abbracciamo e significhiamo, sia pure confusamente e indistintamente, tutte le cose, l’intera realtà. Siccome ogni singolo ente è un ente, col nome di ente li significhiamo tutti. E col concetto di ente abbiamo modo di pensarli tutti in ciò che essi hanno di comune e di diverso, appunto l’entità.

Infatti l’ente determinato è ancora ente; e per questo l’ente non è un genere, cioè non può prescindere totalmente dalle differenze, dagli enti più determinati. Il che vuol dire che non è concetto univoco ma analogo, perchè il suo concetto è ad un tempo uno e molteplice, uno e variato. E per questo Aristotele diceva che l’ente si dice in molti modi e non in un modo solo, come faceva Parmenide, per il quale l’ente è uno e i molti non esistono. Ma d’altra parte, il concetto di ente, per un malinteso bisogno di concretezza non può neppure essere equivoco, perché allora si cadrebbe nella contraddizione, la comunicazione del pensiero sarebbe impossibile e quindi la funzione del linguaggio verrebbe meno.

La preoccupazione che il concetto dell’ente sia un concetto preciso non deve pertanto arrivare al punto, come fecero Scoto e Suarez, da negarne l’analogicità e da dichiararlo univoco. Ma occorre evitare anche di difetto opposto, che fu quello di Ockham, il quale, col pretesto che l’esistente è il singolo ente mutevole, impediva all’intelletto di scoprire l’universale e di formare l’intenzione di universalità, abbassando il conoscere a livello dell’immaginazione come quello degli animali.

Al riguardo è interessante quello che dice Bertrand Russell, qui perfetto erede dell’occamismo, quando dice che «non c’è concetto più equivoco di quello dell’essere». Per forza, se tutto l’essere si riduce al singolo essere e il singolo essere può essere la negazione di un altro essere, non c’è più modo di avere un concetto comune dell’essere e tutto si confonde con tutto, salvo i dati dell’esperienza animale.

L’ente dunque è un contenuto intellegibile astratto dalle cose o dagli enti singoli e determinati. Tuttavia questa nozione non può astrarre totalmente dagli inferiori, come se fosse un genere, perché gli inferiori sono enti e quindi posseggono anch’essi la ragione di ente.

Ciò non impedisce ma anzi consente a che l’ente possa essere finito o infinito, spirituale o materiale, creato o increto, sostanza o accidente, potenza o atto, possibile o attuale, ideale o reale, mutabile o immutabile e così via. L’unità del significato del concetto resta, benché imperfetta, relativa e non univoca, ma analogica e proporzionale. In tal modo la nostra mentre può unire senza contrapporre, distinguere senza dividere, collegare i distinti mantenendoli uniti, può passare dal finito all’infinito e attraversare l’infinito, può passare da Dio al mondo e dal mondo a Dio, perché sempre di ente si tratta, benché diversamente e proporzionalmente.

Senza la nozione astratta dell’ente col nome «ente» che vi corrisponde, come del resto avviene per qualunque altro concetto, la predicazione e la comunicazione per mezzo del linguaggio diventerebbero impossibili, perché non sarebbe più possibile la convergenza di due menti diverse, il parlante e l’ascoltante sul medesimo contenuto mentale e quindi sulla medesima realtà rappresentata e significata dal contenuto e dal nome corrispondenti.

Tuttavia oggi, in un clima di diffusa denutrizione metafisica molti hanno difficoltà a capire che cosa significa la parola «ente» o che cosa è l’ente o non si sentono interessati ad interrogarsi su questo argomento. Dire che con la parola «Dio» s’intende l’ente supremo è cosa giustissima ed esattissima; ma il problema è che molti non capiscono che cosa s’intenda per «ente supremo» o intendono la parola Dio in altro modo.

Non è detto, infatti, nonostante i vocabolari, che chiunque usa questa parola intenda l’ente supremo. I vocabolari esprimono quello che è il significato comune e corrente delle parole. Ma certi filosofi presuntuosi, credendo di oltrepassare con la loro genialità il senso comune per elevarsi a vertici di insuperabile sapienza, si lanciano in elucubrazioni cervellotiche ed astratte giudicando che Dio come ente supremo è cosa troppo banale ed astratta. Sicchè la parola Dio e il concetto di Dio, materia delicatissima ed universalmente attraente ad un tempo, diventano il campo d’esercizio delle loro inventiva dialettica, dalla quale essi si attendono una gloria immortale.

Così per esempio per Origene Dio è l’Uno  che si moltiplica e ritorna all’unità; per Plotino Dio è l’Uno superiore all’essere, che esce da sé e torna a sé; per Scoto Eriugena Dio è l’Essere che si effonde nel mondo e risucchia il mondo; per Ockham è il puro Volere; per Eckhart Dio è l’essere di tutte le cose; per Cusano Dio è la Coincidentia oppositorum; per Lutero Dio è diviso tra il Dio severo dell’Antico Testamento e il Dio di Cristo misericordioso; per Cartesio l’idea di Dio è un’Idea innata; per Giordano Bruno Dio è l’infinità del mondo; per Spinoza è l’unica Sostanza; per Kant, è l’Ideale della Ragione; per Fichte è la assolutizzazione dell’io empirico;  per Schelling è l’Indifferente a tutto; per Hegel è il Concetto assoluto; per Spencer è l’Inconoscibile; per James è il Subconscio; per Husserl è l’assolutezza della mia coscienza; per Heidegger è il Sacro; per Kasper è il Dio-con-noi, il Dio-Storia; per Rahner è l’Indicibile; per Barzaghi è l’Essere parmenideo e severiniano e così via.

Con la parola Dio si può intendere l’io profondo, l’autocoscienza assoluta, il vertice dell’uomo o dell’evoluzione del mondo, l’architetto dell’universo, l’Inconscio, l’Innominabile, l’Inconcepibile, l’Ineffabile, il Mistero assoluto e altre cose.

Eppure tutti, usando il verbo essere, sanno che cosa è l’essere. In fondo non è difficile sapere che cosa è l’ente: è ciò che ha l’essere, ciò che esiste. Di tutto ciò che pensiamo o parliamo supponiamo che sia un ente. Tuttavia a molti questo concetto sembra troppo astratto e quindi vuoto, privo d’interesse. A loro non interessa l’ente, ma questo o quell’ente.

Fine Prima Parte (1/3)

P.Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 settembre 2021

 

Se consultiamo un vocabolario, vedremo che la parola Dio significa «ente supremo».

È la definizione esatta.

Tuttavia, che significa ente supremo? Ma inoltre: quanti oggi usano la parola Dio? E chi la usa, la usa sempre nel senso giusto?

     
 
Eppure ci rendiamo conto del nesso che esiste fra il concetto dell’ente e il concetto di Dio, se un qualunque vocabolario, che non è un trattato di filosofia, ma un prontuario fatto anche per tutti gli illetterati, lo presenta come scontato? 
 
 

Il vocabolario definisce la parola Dio in conformità a quanto la ragione può concepire di Dio, appunto come Ente supremo. 

Ma, come sappiamo, esiste un libro, la Bibbia, che si presenta come rivelazione che Dio fa di se stesso all’uomo.

 

 Immagini da internet


[1] È chiaro che con una simile gnoseologia la prospettiva giovannea di vedere Dio «così com’È» (I Gv 3,2), non ha nessun senso, così come per Kant è impossibile conoscere la cosa in sé così com’è.

[2] Gott heute. Fünzehn Beiträge zur Gottesfrage, a cura di Norbert Kutschki, Matthias Grünewald Verlag. München1967, p.139.

[3] Cf Cornelio Fabro, Dall’essere all’esistente, Morcelliana, Brescia 1957; J.Maritain, Court traité de l’existence et de l’existant, Paul Hartmann Editeur, Paris 1947.

8 commenti:

  1. A mw é piaciuta in particolar modo la parte dell'onestà di pensiero e la corrispondente semplicità nell'esporre le proprie idee, senza ambiguità.

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    1. Caro Alessandro sono contento di esserti stato utile. Sforziamoci di mettere in pratica questi principi.

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  2. Caro Padre Giovanni,
    lei ha messo chiaramente in luce i travisamenti del concetto di Dio cui perviene Walter Kasper, dovuti in particolare alla sua impreparazione, se non disprezzo, riguardo alla metafisica.
    Vorrei aggiungere che anche come biblista, talune affermazioni di Kasper, contenute nel suo libro “Gesù il Cristo” (Queriniana, 2013), lasciano a dir poco sconcertati.
    Per esempio, a proposito dei miracoli di nostro Signore, egli scrive:
    “Si ha l’impressione che il Nuovo Testamento abbia arricchito la figura di Gesù di elementi narrativi extra-cristiani per sottolinearne la grandezza e l’autorità” (W. Kasper, Gesù il Cristo, p. 117)
    “La conclusione che dobbiamo trarre da tutto quanto si è detto è che molte storie miracolose riferiteci dai Vangeli devono essere considerate leggendarie. […] Questi racconti non storici sono enunciati di fede sul significato salvifico della persona e del messaggio di Gesù” (ibid., p 118).
    Secondo Kasper, inoltre, i miracoli “In se stessi non sono poi così chiari e non costituiscono necessariamente una prova della divinità di Gesù” (ibid., p. 129). E ancora: “Per tale ragione i miracoli non possono mai costituire una prova chiara della fede” (ibid., p. 130).
    Come sappiamo Il Concilio Vaticano I afferma: “Se qualcuno dice che i miracoli sono impossibili e che di conseguenza tutte le narrazioni che vi si riferiscono, anche quelle contenute nella Sacra Scrittura, devono essere annoverate tra le favole o i miti; o che i miracoli non possono mai essere conosciuti con certezza né servire per provare efficacemente l’origine divina della religione cristiana: sia anatema” (Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica, anatemi, III, 4).
    E il Concilio Vaticano II ha ribadito: “La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr. At 1,1-2)” (Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, 19).
    Kasper arriva addirittura a negare che Gesù sia attribuito la figliolanza divina:
    “Come già si osservava, Gesù non si è arrogato esplicitamente né la qualifica di Messia né quella di Figlio di Dio” (W. Kasper, Gesù il Cristo, p. 225).
    Eppure, dal Vangelo di Marco:
    “Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: "Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?" Gesù rispose: "Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo". (Mc 14, 61 -63)
    Dal Vangelo di Giovanni:
    “Così parlò Gesù. Poi, alzàti gli occhi al cielo, disse: "Padre, è venuta l'ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te.” (Gv 17,1).
    E dal Vangelo di Matteo:
    “Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.” (Mt 16,16 - 17).
    Che tristezza sapere che un siffatto teologo è così influente nella Chiesa di oggi!

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    1. Caro Bruno,
      Al Card. Kasper bisogna opporre quanto il Concilio Vaticano I dice sui miracoli: “affinchè l'ossequio della nostra fede fosse consentaneo alla ragione, Dio volle congiungere agli aiuti interni dello Spirito Santo argomenti esterni della sua rivelazione, ossia opere divine, ed innanzitutto i miracoli e le profezie, i quali, mentre mostrano luminosamente l'onnipotenza e l'infinita scienza di Dio, sono segni certissimi e adatti all'intelligenza di tutti della divina rivelazione” (Denz.3009).
      La concezione di Kasper rientra nella 7^ proposizione condannata nel Sillabo del Beato Pio IX del 1864: “Le profezie e i miracoli esposti e narrati nella Sacra Scrittura sono finzioni poetiche” (Denz.2907).
      Essa entra anche nella 17^ proposizione modernista condannata dal Decreto “Lamentabili” del Sant'Uffizio del 1907: “Il quarto Vangelo esagerò i miracoli non solamente perchè apparissero più straordinari, ma anche perchè fossero più adatti a significare l'opera e la gloria del Verbo Incarnato”.
      Kasper è uno dei più potenti e pericolosi esponenti dell'attuale modernismo, che l'azione del Papa non riesce a tenere a freno per la sua invadenza, ma che certamente è in contrasto col Magistero di Papa Francesco, con tutto il precedente Magistero pontificio, la Sacra Scrittura e la Tradizione.

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    2. Grazie Padre.
      Posso confermare al Sig. Bruno V. che purtroppo anche nella mia diocesi alti esponenti (che non so come possano essere incaricati di formazione biblica, ad esempio) parlano allo stesso modo pubblicamente. Ma anche sul giornale locale l’”esperto” in religione segue la scia: i miracoli sono da leggersi come metafore poetiche. Non solo, anche la risurrezione è vista come simbolo, da intendersi “al di fuori dei luoghi comuni” del tipo “Cristo ha vinto la morte” dove invece sarebbe giusto affermare (così continuano) che è “teologicamente corretto dire che Cristo sia risorto, ma oggi bisogna dirlo alle persone moderne in altro modo e cioè in senso antropologico, terreno, intimistico, perché la risurrezione va capita nel senso che la morte di Gesù ha lasciato nei suoi discepoli prima un vuoto, poi un ricordo ed un affetto che piano piano sempre più lo hanno reso di nuovo vivo tra loro. I Vangeli naturalmente “esagerano” (questa è una citazione di un prete-operaio veronese ex sessantottino) quando scrivono che Gesù è apparso e ha mangiato di nuovo con loro!
      All’inizio pensavo di non capire bene io cosa volesse davvero dire queste figure così erudite. Poi ho dovuto arrendermi all’evidenza quando anche Papa Benedetto XVI ne ha parlato e scritto. Mi rimane l’assoluto stupore per come siamo potuti arrivare a questo punto.
      La ringrazio quindi per non solo mettere chiarezza su cose scontate, ma anche per citare altri documenti vaticani come quello del 1907 che non conoscevo.
      Davvero presbiteri, vescovi e cardinali dovrebbero leggersi il catechismo, ammesso che lo abbiano in casa.

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    3. Caro Alessandro,
      occorre aver pazienza e prendere atto serenamente della situazione. Tu ti domandi come è stato possibile arrivare a questo punto. La storia risale all’immediato postconcilio, allorchè i modernisti dettero l’assalto alla Chiesa. Il povero San Paolo VI non riuscì a reggere all’urto tremendo e dovette rassegnarsi a sopportarli. Questa situazione si è protratta fino ad oggi e direi che è peggiorata, perché, se la CDF ha funzionato fino a Papa Benedetto, dall’inizio del Pontificato di Papa Francesco è quasi assente, tanto potenti sono le pressioni che vengono dal modernismo. Prendersela con Papa Francesco non è il caso. Bisogna invece aiutarlo nella battaglia, anche se non ci è proibito criticarlo su alcuni punti. La mia impressione è che sia troppo tollerante verso i modernisti e troppo severo verso i filolefevriani.
      Dobbiamo pertanto aiutarlo ad assumere quella posizione super partes, che è indispensabile al giudice per mettere d’accordo due partiti in lotta.

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    4. Con tutto il rispetto, scusi Padre, ma non c'é solo il Papa e la CDF per questioni che succedono in diocesi. I vescovi che ci stanno a fare quando si tratta di difendere pubblicamente i fondamenti della fede cattolica? Nel mio caso, credo che il vescovo sia al corrente e anche contrario, ma lascia correre, non appare, non si pronuncia, non interviene, non risponde.

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    5. Caro Alessandro,
      effettivamente il vescovo nella sua diocesi è il maestro della fede e possiede un apposito carisma di discernimento per distinguere ciò che è ortodosso da ciò che è eretico, senza che occorra che egli ogni volta ricorra alla CDF.
      Per quanto riguarda il tuo vescovo, la cosa mi dispiace, ma, per poter dare un parere ponderato e circostanziato bisognerebbe che io vivessi nella tua diocesi.
      Con questo non è che io non creda alla realtà di ciò che denunci, però restano le mie doverose suddette riserve. Quello che ti suggerisco di fare è innanzitutto una piena fedeltà alla dottrina. Se nel tuo vescovo noti qualche carenza dottrinale e se egli non ti ascolta, dà tu stesso testimonianza circa la verità.
      Per quanto poi riguarda la situazione generale dei nostri vescovi italiani, certamente considerando le notizie dei giornali e in particolare di Avvenire la situazione appare piuttosto sconfortante. Tuttavia vale quello che ho già detto circa i rapporti della Santa Sede con i modernisti, cioè siamo invasi da loro, per cui non è facile difendersi, anche da parte dei vescovi.
      Inoltre è possibilissimo che ci siano dei vescovi coraggiosi e zelanti, i quali parlano chiaro, ma la loro voce non è diffusa a causa dell’intervento delle forze moderniste, le quali spadroneggiano nel campo dei mass-media.
      Inoltre, per orientarsi in questo generale disagio bisogna ricordare alcuni punti di riferimento essenziali, che sono le Encicliche di Papa Francesco, e le dottrine del Concilio e il Catechismo della Chiesa Cattolica.

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