Tomisti a confronto con Severino sul problema della creazione - Seconda Parte (2/3)

 

Tomisti a confronto con Severino sul problema della creazione

Parte Seconda (2/3)
 

Il divenire hegeliano riguarda ad un tempo il sapere e l’essere

La definizione hegeliana del divenire inteso come identità di essere e nulla è sofistica ed innaturale, tale da screditare il valore del divenire, da giustificare l’accusa di nichilismo fatta da Severino al concetto di divenire e da offendere il principio di non-contraddizione, nonostante tutte le assicurazioni che Hegel ci dà. Probabilmente Hegel intende dire che nel concetto dell’essere c’è tutto perchè contiene tutte le determinazioni e non ne contiene nessuna perchè è aperto a tutte.

È sbagliato inoltre, come fa Hegel, dire che la nozione di essere astrae da tutte le determinazioni, sicchè togliendo tutto appare vuoto. Da qui l’identificazione col nulla. Già questo è un procedimento sbagliato, perchè non è vero che la nozione dell’ente prescinde da tutti gli inferiori, giacchè anche di essi si predica l’entità.

Ma Hegel aggiunge a questo errore, che mostra ignoranza in fatto di metafisica, quello di definire il divenire come «unità dell’essere col nulla», quando in realtà esisteva già la definizione aristotelica del divenire in di tutte le sue forme, che non si esauriscono affatto nel nascere e nel perire».

La domanda che sorge in noi davanti a questi errori, nello sforzo di entrare nella mente di Hegel, è la seguente: che cosa intendeva esprimere Hegel col suo concetto del divenire? Intendeva esprimere ad un tempo l’inizio dell’essere e del sapere, il sapere come essere e l’essere come sapere, secondo il suo modulo idealista, che possiamo far risalire a Parmenide. Ma Hegel vuole aggiungere l’apporto di Eraclito. Vediamo in che modo.

Hegel si rende conto dell’esistenza dell’identità e della contraddizione, e sente il bisogno di metterle assieme per un riconoscimento integrale della realtà. Senonchè sin dall’inizio confonde, sempre in modo idealistico, l’ente reale con quello di ragione, perché l’identità è propria dell’ente reale, mentre la contraddizione di trova nel pensiero.

Hegel introduce il discorso sul divenire trattando del cominciamento o inizio (Anfang) del sapere. Egli si domanda: da che cosa si deve cominciare? Dato che egli identifica il pensare con l’essere, Hegel intende trattare ad un tempo dell’inizio del pensare e dell’essere. L’inizio è per lui ciò che chiama «immediato». Egli ha in mente uno sviluppo, un divenire del pensiero e dell’essere. Quindi, che cosa c’è all’inizio del pensiero e dell’essere? Che cosa c’è di immediato, che cosa troviamo?

È da notare come qui ciò che dice Hegel assomiglia a ciò che dice Aristotele, e cioè che l’intelletto umano, all’inizio della sua attività, è vuoto di contenuti: la famosa tavoletta, nella quale non c’è scritto nulla. Non c’è nulla perché ci può essere scritto tutto. Ma Aristotele distingue l’inizio del nostro sapere dall’inizio dell’essere. Per Aristotele all’inizio dell’essere non c’è il nulla, ma il motore immobile, c’è Dio, la pienezza dell’essere, così come per la Bibbia all’inizio non c’è il nostro sapere, ma c’è Dio.

Anche Hegel dice che all’inizio c’è Dio, l’assoluto[1]. E per questo dice che si deve cominciare da Dio. Ma ecco il solito equivoco idealista: Hegel confonde l’inizio del nostro sapere con l’inizio dell’essere, ossia con ciò che dà inizio all’essere, Dio. È chiaro che Dio, l’essere assoluto, è all’inizio di tutto con il suo atto creatore del mondo. Dio è il primo principio del mondo, l’archè, il fondamento di tutto. Ma il nostro sapere non può essere privo di presupposti, perché è creato da Dio e presuppone Dio.

Inoltre, come già osserva Aristotele, si devono dare per scontati, senza discussione e come evidenti i princìpi e le verità prime del sapere, perché è in base ad essi che si imbastisce qualunque dimostrazione e si attua il progresso del sapere.

Per la Scrittura e per Aristotele Dio è il primo e l’ultimo, e in mezzo c’è il mondo. Anche per Hegel è così, solo che per lui questo ciclo dell’essere è lo stesso movimento del nostro pensiero, ed ecco la sua famosa dialettica. Come in Parmenide, tutto è in Dio e tutto avviene in Dio. Per Eraclito il divenire è l’Assoluto. Per questo Hegel trova facile congiungere Parmenide ed Eraclito nell’Assoluto. Come per Parmenide anche per Eraclito non c’è nulla di esterno all’Assoluto. È vero che al di fuori dell’essere non c’è nulla. E se l’essere è il divenire e questo è Dio, esiste solo Dio e non c’è nulla fuori di Dio. Ma questo è già Severino e Bontadini.

Notiamo, a proposito della dialettica, che è vero che il pensiero inizia con l’affermazione (tesi, identità), passa alla negazione (antitesi, contraddizione,), e nega la negazione (ritorno dell’identità, scioglimento della contraddizione).

Quanto al campo dell’agire, secondo la fede cristiana che Hegel condivide, abbiamo corrispettivamente i tre momenti: 1. della vita innocente, 2. del peccato e della morte, 3. della risurrezione della vita.

Il vero inizio, egli dice, non può ammettere presupposti (Voraussetzung), e ha ragione, perché sennò non sarebbe un inizio, un primo, un immediato. Senonchè siamo sempre daccapo: è vero che Dio non ha presupposti; ma il nostro sapere sì, perché esso presuppone le cose create da Dio.

Non siamo noi col nostro pensare a creare il mondo. Ci vuole ben altro. Un conto è Dio e un conto è il mio sapere di Dio. Io non pongo Dio col mio pensiero, ma è Lui che pone e crea me come ente pensante. Dimostrare ed affermare che Dio esiste non vuol dire far essere Dio o creare Dio. Se dimostro l’esistenza di Dio partendo dalle cose, non è che affermo che Dio sia causato dalle cose. D’altra parte è solo Dio, non posso essere io, che partendo dalla coscienza di Sè conosce quelle cose che egli progetta e crea.

È chiaro che Dio è prima del mondo, essendone il creatore. Ma io, per sapere che Dio esiste, non posso partire da Dio, perché intuendo l’essere non intuisco affatto Dio, anche se è vero che Dio è l’essere sussistente. È questo l’errore di Parmenide, che si ritrova negli ontologisti del sec. XIX e in Bontadini.

Per questo la Scrittura dice: «all’inizio Dio creò il cielo e la terra». Ma compito del filosofo non è quello di creare il cielo e la terra pensandoli. All’inizio del suo sapere il filosofo non sa nulla, non ha affatto l’intuizione immediata dell’essere assoluto, come credeva Parmenide e come hanno creduto Hegel e Bontadini.

La mente umana all’inizio è vuota di tutto ed aperta a tutto. Tutto può arrivare come il contrario di tutto. Questo forse intendeva dire Hegel. Sta a lei aprirsi al tutto o chiudersi nel nulla.  

Il principio d’identità e di non contraddizione

Il principio di identità è un principio dell’essere, non importa che esso sia necessario o contingente, diveniente o non diveniente. La ragione non ha princìpi per conto proprio, compreso il principio d’identità, da imporre alla realtà, ma è la realtà, che ha princìpi propri presso i quali la ragione deve informarsi, se vuol conoscere le cose come sono.

Esse quindi dal canto loro, non contravvengono al principio di non contraddizione, non sono contradditorie ed irrazionali ed impossibili. Il divenire fisico e spirituale, il tempo, la storia esistono, non sono mere e vane apparenze, non sono sogni o immaginazioni, sono enti, appartengono alla realtà, sono cose in sé, fuori di me, davanti a me, indipendenti da me, prima e dopo di me.

Dire che l’essere non è il non-essere e che si escludono a vicenda, per cui una cosa è o non è, tertium non datur, è cosa giustissima affermata da Parmenide. Ma dire questo non vuol dire necessariamente che l’essere non può non essere, ossia che è necessario, è perchè esiste anche l’essere che può non essere, ossia il contingente.

Per questo, la formula giusta e completa del principio di non-contraddizione non può essere quella parmenidea fatta propria da Bontadini e Severino, non deve accogliere solo l’immutabile, ma anche il diveniente, non solo il necessario, ma anche il contingente, non solo l’eterno, ma anche il temporale. 

E perciò la giusta enunciazione del principio non è «l’essere non può non essere», principio che esclude il contingente, quasi fosse contradditorio, ma è è impossibile che un ente sia e non sia simultaneamente e sotto il medesimo aspetto, giacchè, se un ente non è in potenza ciò che è in atto, se un pezzo di legno è in atto legno e non è in potenza cenere, distinguendo essere in potenza ed essere in atto, qui si riconosce l’identità, la razionalità e l’intellegibilità il divenir cenere del legno; non c’è nessuna contraddizione, la quale ci sarebbe se togliessimo i concetti di atto e potenza e dicessimo semplicemente: nel divenire, nel bruciarsi del legno,  il legno è la cenere.

Il divenire del pensiero e dell’essere in Hegel

Hegel passa comunemente per essere l’affermatore del divenire a costo della negazione del principio di non-contraddizione e quindi dà a Severino tutto lo spazio per affermare che l’ammissione del divenire implica il nichilismo, coinvolgendo in questa accusa anche la concezione aristotelica del divenire e la concezione cristiana della creazione dal nulla, che non c’entrano niente con quella di Hegel e non offende affatto il principio di non-contraddizione.

Possiamo osservare peraltro che quando Hegel parla della necessità, positività e costruttività della contraddizione e del «potere del negativo», probabilmente non si è espresso bene ed è stato frainteso. Egli dice infatti espressamente che è assurdo dire che «l’uomo è una casa» e confuta gli avversari mettendoli in contraddizione con se stessi.

Non rifiutava quindi il famoso principio di non-contraddizione formulato da Aristotele nel IV libro della Metafisica, ma intendeva riferirsi all’inevitabile conflittualità del divenire e della vita, alla necessità di togliere il negativo mediante il conflitto e quindi alla possibilità e necessità di conciliare gli opposti, di risolvere e superare le contraddizioni per concludere con la sintesi, la semplicità, la quiete, l’identità e l’unità. Tutto esce dall’uno e torna all’uno. La negazione sorge necessariamente, ma sorge per essere vinta dalla stessa negazione.

La negazione hegeliana dell’essere nel divenire sembrerebbe portare al nichilismo, come ha interpretato Severino insieme con molti altri, ma io credo che Hegel voglia in realtà nella sintesi dialettica far tornare l’essere dal nulla dopo la sua negazione nell’antitesi. Quindi Hegel conclude nell’essere passando per il non-essere. Conclude alla vita passando per la morte. Conclude alla giustizia passando per il peccato.

Così per lui è lo stesso negativo che negando se stesso, riafferma il positivo iniziale e il cerchio si chiude. Similmente nel cristianesimo è la stessa morte di Cristo che afferma e salva la vita. Se c’è errore in Hegel è l’idea che il negativo possa produrre da sé il positivo. Infatti il non-essere non può causare l’essere. E nel cristianesimo la morte di Cristo non procura la vita in quanto morte, ma perché è la morte di un Dio che è il Dio della vita.

Tuttavia non si può negare che la soluzione hegeliana delle conflittualità nel divenire della storia non convince del tutto ed anzi lascia un’impressione di doppiezza ed opportunismo morale, un voler conciliare l’inconciliabile, un voler nascondere o coprire piuttosto che eliminare e sanare i conflitti, un voler porre in relazione gli incompatibili e gli incompossibili.

E questo perché? Perché manca la percezione del valore dell’analogia dell’essere, in linea con l’univocismo parmenideo e l’equivocismo eracliteo. Infatti la vera conciliazione, la vera sparizione del conflitto e della contraddizione si ha quando si ha la percezione della somiglianza, della similitudine, del diverso, tutte cose che capisce chi capisce che cosa è l’analogia dell’essere, chi ha una nozione analogica e non solo univoca dell’essere.

L’essere non è uno solo, ma, come già osservava Aristotele, si dice in molti modi. Se l’essere è uno solo, il diverso dovrà essere per forza un non-essere, un nemico; non può essere un amico. Amici li troviamo solo se abbiamo il senso della diversità, come dice spesso il Papa. Se intendiamo l’altro come un non-io, come ha fatto Fichte – ed Hegel è su questa linea – l’altro diventa per forza il nemico. Dove allora va a finire la conciliazione?

Il problema è che Hegel privilegia la ragione dialettica, che sintetizza, sull’intelletto, che per lui nel distinguere separa, e così riduce la scienza a dialettica che oscilla fra i contrari e non sa decidersi fra il sì e il no, mettendo assieme l’uno con l’altro, e credendo che la scienza consista nella sintesi del sì e del no. In tal modo Hegel crede di essere inclusivo senza escludere nulla e senza cadere nell’unilateralità di chi dice no. Egli invece vuol dire sì, ma senza negare il no; sì a Dio ma anche al mondo, dato che Dio e mondo fanno uno, fanno il Tutto, l’Intero (Ganze). Mentre Cristo comanda di dire sì al sì e no al no, Hegel vuol dire sì anche al no.

Ben differente è la logica cristiana, della quale parla S.Paolo, quando dice che il linguaggio di Cristo «non è stato sì e no, ma in lui c’è stato solo il sì» (II Cor 1,19). Essa non serve due padroni, ma uno solo, Dio e subordina il mondo a Dio, che ne è creatore e il salvatore.

La nozione dell’essere

I tomisti parmenidei si sono accorti che Parmenide presenta una concezione dell’essere che è più simile a quella di San Tommaso che non quella di Aristotele. Infatti Aristotele considera l’einai come semplice copula del giudizio e ritiene che esso abbia significato solo in logica come congiunzione del soggetto col predicato, ma crede che l’einai non offra alcun interesse metafisico. Invece Tommaso – e qui egli assomiglia a Parmenide - dà più importanza all’einai che all’on, dicendo che l’esse significa per se stesso. Aveva in mente Es 3,14[2].

Tommaso, però, seguendo il commento molto severo di Aristotele nei confronti di Parmenide, da lui giudicato uno che confonde tutte le cose in un unico essere, non si accorse di poter utilizzare Parmenide per la sua formulazione della nozione dell’esse come actus essendi. Infatti Tommaso non ricava questa nozione né da Aristotele né da Parmenide, ma dalla Sacra Scrittura, laddove Dio dice a Mosè di essere l’Essere sussistente (Es 3,14).

Tommaso dedusse da questa rivelazione dell’essere che se l’essere poteva essere sussistente da sé e da solo senza un poter essere, che facesse da soggetto, voleva dire che esiste un puro atto d‘essere senza una potenza che gli faccia da soggetto. Da qui è nato il concetto tomista di essere come atto d’essere distinto dall’essere come potenza, ossia come poter essere. Tommaso aveva già trovato in Aristotele la distinzione fra la potenza (dýnamis) e l’atto (energheia) e tra il possibile (dýnaton) e l’impossibile (adýnaton).

L’essere può essere in atto o in potenza. Non è necessariamente attuale o in atto o atto. Essere è anche il divenire, il mutare, il passaggio dalla potenza all’atto. C’è l’essere mutevole e l’essere immutabile. Non è necessariamente immutabile.

Aristotele associava la potenza alla materia e l’atto alla forma. Tommaso, senza smentire questi collegamenti, ebbe la geniale idea di associare la potenza anche all’essenza e l’atto all’essere. In tal modo lo statuto della creatura era fissato nell’ente composto di essenza ed essere, mentre lo statuto dell’essere creatore diventava l’atto puro di essere, dove l’essenza coincideva con l’essere, sicchè Dio è l’ente che esiste per essenza, l’essere per sé sussistente. Nei corpi il soggetto è la materia; negli spiriti il soggetto è l’essenza o forma; in Dio il soggetto è lo stesso essere. Ma questo, tolto l’aspetto univoco e monistico, è l’essere di Parmenide!

Dobbiamo osservare tuttavia che l’essere di Parmenide, nonostante l’aspetto assumibile dal tomismo – la sua sussistenza -, in fin dei conti non è il vero essere e guai ad assumerlo di peso nella concezione parmenidea! Questo è stato l’errore di Bontadini e di Severino. Non è vero, infatti, che, come dice Parmenide, l’essere non può non essere. Questo vale solo per l’essere necessario, ma esiste anche l’essere contingente, ossia quell’essere che può non essere. Non esiste solo l’essere eterno, ma anche quello temporale. Non esiste solo l’uno, ma ci sono anche i molti. Non c’è solo il tutto, ma anche le parti. Non è vero che tutto è uno, né che uno è tutto. C’è l’uno e ci sono i molti.

Se l’essere non potesse non essere, coinciderebbe con Dio ed esisterebbe solo Dio. Ed è appunto ciò che sostengono questi tomisti parmenidei. Invece le cose non stanno così. L’essere come tale è indifferente al necessario e al contingente e può essere l’uno e l’altro. L’essere è ad un tempo uno e molteplice, uno e diversificato, uno e differenziato. Si predica in modo analogico e seconda dei diversi enti.

L’essere parmenideo, invece, essere uno ed unico, che esiste e sussiste per essenza, impedisce di distinguere l’essere dall’essenza, distinzione che invece è necessaria per comprendere lo statuto ontologico proprio della creatura, ossia la sua finitezza.

Infatti, a differenza del Beato Duns Scoto e di Suarez, che si limitano a constatare che la creatura è finita senza farsi domande sul perchè e sul come, Tommaso, col suo spirito indagatore, si chiede da che cosa dipende la finitezza della creatura e si accorge che dipende dal fatto che la finitezza della sua essenza, che è determinata dalla potenza di essere, accoglie in sé solo quella quantità di essere della quale essa è capace, similmente a un bicchiere che accoglie in sé solo quella quantità di acqua che può contenere. Per questo l’essere della creatura è finito ed essendo finito non può evidentemente sussistere da sé, ma deve essere creato.

Ora, l’essere parmenideo favorisce una metafisica essenzialista, che riduce l’ente all’essenza e si occupa solo dell’essenza come dato della coscienza[3]. Questo metodo a sua volta espone il filosofo al pericolo dell’idealismo, perché, dato che l’essenza è il contenuto del conoscere ed essa diventa immanente alla mente, può capitare, come di fatto è capitato con l’idealismo a partire da Cartesio, che il filosofo guardi soltanto ai contenuti di coscienza e perda l’interesse per la realtà esterna, la cosa in sé, ammesso che ne ammetta l’esistenza o, se ammette tale realtà, crede di poterne dimostrare l’esistenza a partire dalle essenze concepite nelle idee, come se le sue idee fossero produttrici della realtà.

È interessante notare come in corrispondenza a questa loro visione del finito, Scoto e Suarez neghino la distinzione reale fra essenza ed essere nella creatura, ma la considerino solo una distinzione di ragione tra due nozioni diverse proprie della medesima creatura, circa la quale non ammettono, come fa Tommaso, che l’essere si aggiunga all’essenza all’atto della creazione come atto perfettivo dell’essenza, ma secondo loro l’essenza avrebbe già da sè il suo essere, (esse essentiae), cosicchè ritengono che l’esser creato sia semplicemente il fatto che l’ente passa dallo stato di essere possibile ad essere attuale (esse existentiae o esse in actu).

Come fa notare il Fabro, Scoto e Suarez sostituiscono l’esse ut actus di San Tommaso, con l’esse in actu, quindi per loro la creazione non è l’atto d’essere che si aggiunge all’essenza in quanto essa è potenza di essere, ma è il semplice realizzarsi o attuarsi o passaggio di un’essenza dalla possibilità all’attualità o alla realtà. ln tal modo, però, lo sguardo si concentra sull’essenza e ci si dimentica dell’essere.

Che all’essenza corrisponda o non corrisponda un reale esterno, finisce per non interessare, come capita ad Husserl. Per l’essenzialista l’importante sono le proprie idee. Ma è ovvio che con simili metodi ci si chiude nelle proprie idee e si perdono i contatti con la realtà. Allora ci capisce che impostare il problema dell’esistenza di Dio con simile mentalità non può portare ad incontrare un Dio reale, ma a fermarsi, bene che vada, alla sola idea di Dio, come già fece Kant.

Ora, per conoscere la verità, soprattutto quando si tratta di Dio causa prima, somma e suprema realtà, non basta considerare l’ente o l’essere o l’essenza in modo astratto o la causa formale senza quella efficiente senza badare alla realtà extramentale, ma occorre anche considerare la sua esistenza ossia la sua azione causale. Un conto infatti è l’essenza dell’ente e un conto è l’ente esistente. L’essenza può essere nella mente, ma l’esistere è esterno alla mente ed è questa la realtà da raggiungere, sia pure rappresentata nella sua essenza all’interno della mente.

Per dimostrare l’esistenza di Dio, occorre insomma ragionare sull’esistente e sui dinamismi del reale, non su semplici essenze o formalità, fossero pure l’essenza di Dio. Dall’esistente si ricava l’esistente, si resta sul piano dell’esistente e si raggiunge l’esistenza di Dio. Ma lavorando soltanto sul piano delle idee, si resta sul piano delle idee e non si arriva con fondatezza oggettiva alla realtà.

Possiamo chiederci che rapporto c’è fra l’essere di Parmenide e il mio essere. L’essere di Parmenide è un essere personale? Certamente è essere sussistente. Ma se è persona o sostanza, certo è unica sostanza, come il Dio di Spinoza.  Estin einai, dice Parmenide: l’essere è.

L’essere di Parmenide è senza predicati, è assolutamente ed infinitamente, come il Dio della Scrittura in Es 3,14, se non fosse che è un essere che abbraccia tutto l’essere, Dio e il mondo. Allora può dire Io Sono assolutamente ed infinitamente. Che rapporto c’è tra il mio io e questo Io assoluto? Se esiste solo Lui, io, come l’io empirico degli idealisti, sarò incluso in questo Io assoluto; non posso essere un io distinto, perchè l’Io parmenideo esiste solo lui. Egli non è un tu per me, ma sono sempre io alla radice e al fondo o al vertice del mio essere. Sono, come nell’induismo, il jivan, l’individuo empirico, come apparizione dell’atman o del Brahman.

Parmenide, anche se usa il termine eòn, ente, come faranno Platone ed Aristotele, non indaga su cosa è l’ente, per cui non viene fuori come in Aristotele la distinzione fra il soggetto (ypokèimenon) che ha una forma (morfè, eidos) e non appare neppure l’essenza, l’usìa, il to ti en einai, dell’ente.

L’ente, per Aristotele, non è solo sostanza (usìa), ma anche accidente (symbebekòn), il sopravveniente, l’ente aggiunto o che si aggiunge, l’ente-che-sopraggiunge, s’intende, alla sostanza. L’essere è anche sussistere, esistere, yparchein, atto della sostanza, mentre l’atto dell’accidente è il symbainein, il sopraggiungere come proprietà o appartenenza dell’ente sostanziale. Da qui vediamo come è ricco il concetto aristotelico dell’ente e dell’essere.

Il pensiero è funzionale all’essere

Il pensiero non è fine a se stesso, ma serve per rappresentare la realtà o per progettare il reale. L’atto del pensare, nel pensare raggiunge il reale che è fuori e gli sta davanti non uscendo dal suo orizzonte come un missile che lascia la terra e vola per colpire un obbiettivo; non esce da se stesso per andare fuori, ma semplicemente perché è a contatto col reale, e restando in se stesso.

D’altra parte l’argomento che gli idealisti usano per negare che l’essere sia esterno al pensiero, obiettando che il pensiero non può uscire da se stesso, non ha alcun valore perchè dovrebbe esser chiaro che l’esser fuori è semplicemente un’espressione metaforica, di facile intuito, tratta dallo spazio, per significare non tanto una distanza spaziale, quanto piuttosto una distinzione ontologica. Certo Dio o la Madonna o l’angelo custode non sono fuori della mia mente come il sole è fuori della terra, ma nel senso che la persona celeste è realmente distinta dalla persona umana che la pensa.

Il pensiero centra il suo obbiettivo semplicemente puntando l’attenzione o l’intenzione su di lui. Piuttosto è vero che l’intelletto, per conoscere la cosa esterna, forma un oggetto interiore, il concetto, costruito dal pensiero, distinto dalla cosa esterna.

Il reale nell’anima è il reale in quanto pensato o rappresentato. Il reale extra animam, sono le cose esterne che ci circondano, materiali e spirituali, la nostra stessa persona e Dio. Occorre distinguere l’ente reale dall’ente di ragione o intenzionale o ideale, la cosa dal concetto della cosa, la metafisica dalla logica: la prima indaga sull’ente in quanto ente, l’ente oggettivo; la seconda considera l’ente pensato in quanto pensato, l’ente soggettivo, l’ordine dei concetti.

L’ente di ragione è il mondo del pensiero, un mondo interiore di oggetti costruiti da noi ad imitazione del pensare divino, dove riproduciamo nei nostri concetti e nelle nostre idee il mondo esterno creato da Dio. Questo mondo da noi costruito è vasto tanto quanto il mondo dell’ente reale che noi conosciamo e noi lo riproduciamo nella nostra mente. Esso abbraccia due piani: uno inferiore, connesso con l’immaginazione: l’ente immaginario a sua volta diviso in due piani: uno creativo, il mondo dell’immaginazione artistica e poetica ed uno operativo, il mondo degli enti matematici. Il piano superiore è puramente intellettuale. È il mondo dei concetti, dei giudizi e dei ragionamenti. Qui troviamo un concetto che interessa il nostro argomento: il concetto del nulla.

Il nulla, che pure è il non-essere, pure esiste come ente di ragione. Tutti sanno infatti che cosa è il nulla e ne parlano. Tutti sanno che cosa significa la parola «nulla». Se fosse priva di senso o inintellegibile, nessuno ne parlerebbe, né ci comprenderemmo fra noi quando ne parliamo. Irragionevole è dunque affermare che il nulla non esiste perché il nulla è il non-essere. Non è impossibile dare una definizione del nulla: il nulla è il non-essere. È da notare che nel momento in cui pronunciamo la copula «è» diamo al nulla un’essenza, che è un essere di ragione. Dunque il nulla esiste. Ecco perché possiamo tranquillamente parlare di creazione dal nulla. Se il nulla non esistesse la Chiesa non parlerebbe di creatio ex nihilo o de nihilo.

Ma a questo punto i tomisti parmenidei, al seguito di Bontadini, vorrebbero escogitare una formula «rigorizzata», dove la parola nulla non ricorre. E allora ecco il concetto della creazione come «relazione di dipendenza» ab aeterno del mondo da Dio, come se il mondo non fosse prodotto da Dio ma dipendesse da Dio come i tre angoli del triangolo dipendono dalla superficie triangolare del triangolo. È chiaro che qui da Dio scompaiono l’actus essendi, la sussistenza, lo spirito, la vita, il pensiero, la parola, la volontà, la provvidenza, l’amore, la giustizia e la misericordia, per restare un’astrazione geometrica nella mente, alla maniera del Dio panteistico di Spinoza.

«Dal nulla» vuol dire che prima dell’atto creativo, della creatura creata non c’era nulla di quella creatura. Essa è preceduta dal suo non-essere. Al suo non-essere segue il suo essere. Prima del suo essere abbiamo il suo non-essere. Prima che il mondo fosse, Dio esisteva da solo e da sempre. Ovviamente questo prima non è temporale, dato che Dio ha creato il tempo dandogli un inizio: ab initio temporis, come dice il Concilio Lateranense IV. È un prima trascendentale di ragione e immaginario.

Ancora sul rapporto del pensiero con l’essere possiamo dire che, come osserva Aristotele ripreso da San Tommaso, l’intelletto in atto è l’inteso in atto (intellectus in actu est intellectum in actu). Parmenide ha il detto to autò to noèin kai to einai, dove non è chiaro se Parmenide si riferisce all’identità intenzionale di intelletto e cosa nell’atto del conoscere o intende riferirsi – cosa più probabile, dato il suo monismo – a una identità ontologica tra pensiero ed essere, che è il dogma fondamentale degli idealisti.

In base a quanto detto, dobbiamo aggiungere che è falso ciò che dice Bontadini con gli idealisti, che il pensiero sia intrascendibile e che l’essere sia solo nel pensiero. L’essere è distinto dall’essere percepito, è indipendente dal pensiero; l’essere non è posto dal pensiero, ma da Dio creatore dell’essere. Intrascendibile è solo il pensiero divino perché è lo stesso essere sussistente.

L’essere, salvo che non si tratti del pensiero divino, è nel pensiero quando è pensato, ma non prima di essere pensato. E l’essere non è pensato per essenza. Solo l’essere divino è pensato per essenza. Prima di essere pensato, l’essere è per noi semplicemente pensabile. È ancora ignoto. Esiste indipendentemente dall’atto del nostro pensarlo, ma non certo del pensiero divino, che per crearlo, lo ha pensato. Molte cose esistono anche se non le pensiamo, giacchè il loro essere non dipende dal fatto che le pensiamo, ma dall’atto creatore di Dio.

Solo in Dio il pensare coincide con l’essere perchè Egli è atto puro di essere e di pensiero sussistente che pensa se stesso come totalità dell’essere. Solo il pensiero divino è intrascendibile perché è pensiero della totalità dell’essere, mentre il nostro pensiero è trascendibile dall’essere perché la sua comprensione è finita, per cui resta fuori e al sopra una quantità infinita di essere.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli   

Fontanellato, 25 gennaio 2024

 

Ciò che dice Hegel assomiglia a ciò che dice Aristotele, e cioè che l’intelletto umano, all’inizio della sua attività, è vuoto di contenuti: la famosa tavoletta, nella quale non c’è scritto nulla. Non c’è nulla perché ci può essere scritto tutto. Ma Aristotele distingue l’inizio del nostro sapere dall’inizio dell’essere. Per Aristotele all’inizio dell’essere non c’è il nulla, ma il motore immobile, c’è Dio, la pienezza dell’essere, così come per la Bibbia all’inizio non c’è il nostro sapere, ma c’è Dio.

Anche Hegel dice che all’inizio c’è Dio, l’assoluto. E per questo dice che si deve cominciare da Dio. Ma ecco il solito equivoco idealista: Hegel confonde l’inizio del nostro sapere con l’inizio dell’essere, ossia con ciò che dà inizio all’essere, Dio. È chiaro che Dio, l’essere assoluto, è all’inizio di tutto con il suo atto creatore del mondo. Dio è il primo principio del mondo, l’archè, il fondamento di tutto. Ma il nostro sapere non può essere privo di presupposti, perché è creato da Dio e presuppone Dio.

Per la Scrittura e per Aristotele, Dio è il primo e l’ultimo, e in mezzo c’è il mondo. Anche per Hegel è così, solo che per lui questo ciclo dell’essere è lo stesso movimento del nostro pensiero, ed ecco la sua famosa dialettica. Come in Parmenide, tutto è in Dio e tutto avviene in Dio. Per Eraclito il divenire è l’Assoluto. Per questo Hegel trova facile congiungere Parmenide ed Eraclito nell’Assoluto. Come per Parmenide anche per Eraclito non c’è nulla di esterno all’Assoluto. È vero che al di fuori dell’essere non c’è nulla. E se l’essere è il divenire e questo è Dio, esiste solo Dio e non c’è nulla fuori di Dio. Ma questo è già Severino e Bontadini.

 Immagine da Internet:
- Dio Padre con gli angeli, Perugino (ca. 1450-1523, Musei vaticani, palazzo apostolico


[1] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.91.

[2] Vedi l’interessantissima argomentazione di Tommaso, che qui dà alla metafisica un oggetto più alto di quello che gli aveva dato Aristotele;  Commento al Perì Hermeneias di Aristotele: libro I, cap.III, lect.V, nn.70-72, Edizioni Marietti, Torino 1964.

[3] É.Gilson, L’être et l’essence, Vrin,Paris 1981.

6 commenti:

  1. [Divido il commetno in più parti] PARTE 1
    Caro Padre Cavalcoli,
    La ringrazio per questo suo nuovo articolo, con cui ci nutre l'anima anche oggi e ci guarda dagli errori. Scrivo questo mio commento per suggerire una certa lettura di Hegel, lettura finalizzata a vedere quali i possibili elementi positivi. Anticipo: tale lettura naturalmente andrà a depotenziare la dottrina hegeliana (operazione questa di depotenziamento che non sarebbe ben accetta dagli hegeliani, ma che a noi verrebbe utile salvaguardando Tommaso), ma assieme mostrerebbe quale, forse, sia la vera istanza di fondo degli scritti hegeliani. Mi astengo dal dire se poi tale istanza sia portata effettivamente a compimento o meno, ma comunque può risultare utile considerarla. Aggiungo: forse tale istanza è la stessa che percorre l'intero percorso della filosofia moderna a partire dal Cartesio.
    Inizio facendo un passo indietro ricordando uno degli assiomi della psicologia aristotelica: nihil intelligit anima sine phantasmate. Stante ciò è ovvio che per il singolo uomo affinché si inizi ad intendere e dunque poi a giudicare occorrano in lui delle immagini ben consolidate. Prescindendo ora dai modi e dalle tecniche con cui acquisiamo a modelliamo i vari contenuti fantastici (i quali già rappresentano una forma di conoscenza), è ovvio che per vivere e ad agire in modo vero di immagini ne abbiamo bisogno di molte e inoltre queste sembrano porsi anche in una certa struttura. Qui non mi riferisco solo alle immagini più basilari, ma anche a quelle più elevate che poi andranno a simboleggiare in sede di filosofia i concetti più elevati (ripeto: persino i concetti più elevati, stando sempre ad Aristotele, possono essere presi e tematizzati solo con il concorso della fantasia; non che l'intelletto non concorra alla formazione di queste immagine più elevate, ma piuttosto che i concetti più elevati, già presenti per formazione spontanea nell'anima, possono essere tematizzati e, per così dire, presi di pancia, attraverso queste immagini e fissandosi su di esse). Quindi possiamo dire grossomodo che nel discente è primo il fissare le immagini vere e secondo il tematizzarne il "retroscena" concettuale e dunque seguire con gli enunciati delle varie scienze. Fatto questo preambolo faccio un passo avanti: questo plesso di immagini (il cui retroscena concettuale è esattamente l'oggetto dei vari saperi) si forma in primis certamente in modo spontaneo e attraverso le varie vicissitudini della vita, ma poi è come se poi l'uomo sentisse il bisogno di fissare queste immagini "ripercorrendo" questa struttura in cui esse immagini si dispongono. Mi sto avvicinando ad Hegel: questo "ripercorrere" è a tutti gli effetti un processo, posso azzardare anche a dire "un gioco di immagini" dove si va dalle più complesse alle più semplici e poi si ricompongono dando luogo quasi ad uno spettacolo pirotecnico nell'anima. Queste sono in noi grazie ai sensi, ma poi è come se dovessimo in solitudine ricordarle e ripercorrerle.

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    1. Caro Anonimo,
      sono d’accordo nel paragone che lei tra la dialettica della fantasia e la dialettica hegeliana della ragione.
      Salvo il principio di identità, il paragone tiene senz’altro e ci mostra come nella psicologia umana il dinamismo dell’immaginazione è collegato al dinamismo della ragione.

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  2. PARTE 2
    Se è vero dunque "nihil anima intelligit sine phantasmate" e che prima che il singolo uomo tematizzi in modo rigoroso i vari concetti (e dunque riportarsi alla stessa verità delle cose) occorre non solo averle le immagini, ma inoltre ripercorrerne il mosaico, allora sembra necessario, per entrare nell'agone filosofico a ragion veduta e in modo metodicamente giusto, affrontare detto processo di ripercorrimento.
    Tutto quanto detto finora non è riscontrabile nella littera hegeliana; quanto detto è piuttosto un uso dell'assioma della filosofia aristotelica e un suo approfondimento con la tesi del "ripercorrimento". Ora prendiamo quanto detto e facciamo questa ipotesi: e se le parole degli scritti hegeliani non stiano affatto a significare concetti ed enunciati (né tantomeno le sue beneamate "proposizioni speculative), ma piuttosto significhino quelle stesse immagini che si succedono in vario modo nel processo di "ripercorirmento"?? Questo spiegherebbe 1) perché Hegel parli continuamente di processo dell'intelletto (in realtà sta parlando del processo di ripercorrimento tramite rimeniscenza) 2) spieghi perché i contrari si identifichino (in realtà tale identità sarebbe la fusione di più immagini che ne darebbero una terza, la cosiddetta sintesi) 3) spiega perché si debba passare attraverso la Fenomenologia per arrivare alla Scienza della Logica (nel "ripercorrimento" ci si deve allontanare dal senso, ovvero l'inizio della Fenomenologia, e risalire verso le immagini più semplici, ovvero la fine della Fenomenologia e l'inizio della Scienza della logica. Scrivo "ci si deve allontanare dai sensi" non perché essi siano falsi, ma perché ormai ad un certo punto della vita abbiamo memorizzato di essi l'essenziale e dunque possiamo procedere a considerare non ciò che è esternamente, ma ciò che abbiamo internamente, il che sarebbe nient'altro che un riflesso dell'esterno) 4) spiega la differenza hegeliana fra intelletto e ragione (le verità dell'intelletto sarebbero le verità enunciate senza che l'anima del singolo sia stata preparata da quel lavorio del processo di "ripercocrrimento", le verità delle ragione invece quelle verità enunciate con una giusta preparazione della singola anima).
    In questo modo spostiamo le parole di Hegel da un piano concettuale (dove esse non sarebbero che pazzia) su un piano psicologico: per questo anticipavo che avremmo depotenziato Hegel disinnescando la sua carica distruttiva. E dunque quale sarebbe l'istanza di Hegel, che forse prima di lui non era stata esplicitamente considerata (seppur è chiaro che fosse già presente seppur in modo implicito o non rigorizzato)? L'istanza di sottolineare in primis che ci debba essere, affinché la singola anima enunci autenticamente delle verità, una preparazione di tipo psicologico e in secundis di dire ed enunciare quali siano i passaggi di questa preparazione. Naturalmente se si vuol compiere tale istanza tale compimento non risulterebbe affatto una premessa logica del lavoro filosofico, ma piuttosto un "secondo Organon", ovvero un'ulteriore chiarificazione del campo entro cui si muove la speculazione filosofica (analogamente a come la Logica spiega come le parole non indichino direttamente la realtà, la indichino mediatamente attraverso i concetti).

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    1. 2.
      Se ho ben capito la sua argomentazione, lei vorrebbe scagionare Hegel dall’accusa di offendere il principio di identità, invitando a considerare i procedimenti contraddittori di Hegel non come riferiti al dinamismo dei concetti, ma a quello dell’immaginazione.
      Avrei gradito che lei mi facesse qualche esempio della sua tesi ermeneutica. Provo allora a farlo io, per vedere se ho capito quello che lei intende dire.
      Hegel aveva una forte sensibilità per i fatti concreti e una grande capacità di immaginazione per rappresentare la dinamica dello spirito. Lei forse intende dire che Hegel sapeva rappresentare questa dinamica dello spirito mediante delle rappresentazioni conflittuali?

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  3. PARTE 3
    Se mi si permette un'ultima aggiunta chiederei: perché da un punto di vista storico Hegel si sia sobbarcato di questa istanza? La risposta forse è questa: in quel periodo assistiamo ad una grande diffusione di libri e conoscenze, all'apertura di molte scuole, fenomeni tutti che potevano ingannare gli uomini nel pensare che l'accesso alle verità, soprattutto a quelle più profonde, non richiedesse un apprendistato dell'anima, ma che anzi le parole pronunciate fossero di per sé già "dense e intrese" di verità. A mio modo di vedere questo è ancora oggi il problema dell'educazione su larga scala: i grandi della filosofia e gli scolastici possiamo dire essere immuni da questo errori, perché sanno che la ricerca della verità va di pari passo con un certo stile di vita e una certa conduzione di pratiche.
    Spero di non aver detto errori e fesserie; le porgo questo commento, perché è da molto che cerco ci capire da quale parte prendere Hegel per non buttarlo del tutto ("non esiste dottrina a tal punto falsa...") e questo suo post sul filosofo di Stoccarda mi ha permesso di esprimere i miei pensieri. Aspetto che mi dica se ho detto degli errori nella parte iniziale (più prettamente aristotelica e dunque quella a cui tnego di più) e se può essere probabile questa lettura di Hegel per capire cosa gli passasse veramente nella testa.

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  4. PARTE 4:
    p.s. naturalmente non intendo dividere nettamente la vita del filosofo in una prima fase in cui si cura solo delle immagini e in una seconda in cui si cura invece dei concetti, ma sottolineare semplicemente un ordine psicologico e dunque un certo ordine pedagogico.

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