Perché Dio permette il male? - Seconda Parte (2/3)

Perché Dio permette il male?

Seconda Parte (2/3)

Occorre che ci decidiamo a recuperare

la nozione biblica del castigo divino del peccato

Al riguardo, occorre chiarire alla luce della teologia naturale e della Sacra Scrittura qual è il vero concetto del castigo divino, oggi frainteso e rifiutato da molti, con grave danno al nostro cammino di salvezza.

Inoltre, dobbiamo riscontrare che spesso si è perso di vista il concetto del castigo divino, che è certamente un atto col quale Dio causa sofferenza, ma a fin di bene, ossia per richiamare il peccatore dal suo peccato, per correggerlo e indurlo a penitenza.

Esiste bensì anche un castigo meramente afflittivo, che è la dannazione eterna, ma questa è giustificata dal fatto che il peccatore, angelo o uomo che sia, si è fissato per sempre nella sua volontà peccaminosa, quindi senz’alcuna volontà o possibilità di pentirsi, condizione, questa, necessaria per ottenere il perdono divino.

La nozione biblica del castigo divino viene oscurata, fraintesa o addirittura respinta a causa di idee sbagliate sul castigo divino, come quella, per esempio, pur presente nella Scrittura, ma negli ambienti rabbinici, che il fatto di essere colpiti dalla sventura è segno che si è commesso qualche grave peccato. Invece ciò non è affatto detto, come lo fa notare Gesù stesso nel racconto del cieco nato (Gv 9).

Ed appare anche nell’episodio del lebbroso sanato (Mt 8,1-4): la legge lo considerava un peccatore punito da Dio, per cui non poteva essere toccato e stare in società. Gesù, trasgredendo questa legge ingiusta, e col guarirlo, mostra che non si trattava di un castigo divino meritato, ma semplicemente di una sventura, dalla quale aveva tutto il diritto di essere liberato.

Così si spiegano le parole de Papa all’Angelus del 14 febbraio scorso: «La sua malattia era considerata un castigo divino, ma, in Gesù, egli può vedere un altro volto di Dio: non il Dio che castiga, ma il Padre della compassione e dell’amore, che ci libera dal peccato e mai ci esclude dalla sua misericordia».

Occorre tuttavia interpretare bene queste parole del Papa. Esse non vanno intese come avallo a certi misericordisti, i quali, male intendendo la volontà di Dio di fare a tutti misericordia, vedono sistematicamente in qualunque peccatore, anche il più arrogante, ostinato e spavaldo, solo una povera fragile persona da compassionare e da scusare, un semplice sofferente, mentre a volte capita anche che il peccatore pecchi volontariamente per malizia e allora non dev’essere compassionato, ma corretto o punito.

Circa questa delicata nozione di castigo, bisogna dire che non è vero, come sostengono alcuni, che la nozione di castigo divino è un’applicazione metaforica del castigare umano, che sarebbe un concetto meramente univoco significante la sanzione penale irrogata dall’autorità giudiziaria umana.

A questo livello infatti che avviene? Che commettendo un crimine, il malfattore si pone contro la ragione e forzatamente oltre (trans-gredit) i limiti del lecito e viola così l’ordine comunitario della giustizia fissato dalla legge Giustizia vuole che il reo sia ricondotto coercitivamente secondo ragione dal tutore dell’ordine comunitario all’interno dell’ordine di tanto di quanto il criminale col suo delitto ha oltrepassato il limite dell’ordine fissato dalla legge. Se per esempio ha rubato un tot, deve restituire un tot. In base a questo contrappasso, in passato l’omicida era punito con la morte. Oggi l’ordinamento giuridico tende ad abolire la pena di morte per sostituirla con una pena correttiva o rieducativa.

Invece la nozione di castigo è una nozione trascendentale di analogia di proporzionalità, che si applica sia al castigare umano che al castigare divino. Infatti tale nozione trascende la materialità, che è il fondamento dell’univocità concettuale, per librarsi nel cielo della pura spiritualità, quindi conveniente anche a Dio purissimo Spirito, in quanto sostanzialmente non è che una volontà di bene nell’ordine della giustizia retributiva, ossia che quell’atto della volontà della persona, col quale essa vuole una pena per il peccato.

Al riguardo, occorre distinguere un castigo interno del peccato da un castigo esterno e successivo. Questo a sua volta può essere o naturale o convenzionale.  Ogni peccato genera necessariamente nella coscienza uno stato di confusione o turbamento o disagio più o meno forte a seconda dell’entità della colpa. È l’accusa o rimprovero della coscienza.

Questo è il castigo interno all’atto stesso del peccato, quindi inscindibile dal peccato stesso e costituente lo stato di colpa o di peccato, per il quale il soggetto perde la grazia e la può riacquistare solo mosso dalla grazia al pentimento e alla conversione, che comporta la remissione del peccato.

Questa sofferenza è causata dal fatto che la volontà si trova in uno stato innaturale e chiede di essere raddrizzata. Il perdono divino rimette la volontà nella sua posizione naturale, sicché essa torna a muoversi con scioltezza nell’operare il bene.

Quanto al castigo esterno, è la pena che Dio irroga successivamente, anche dopo lungo tempo, ma immancabilmente o nella vita presente o nella vira futura, in purgatorio per i peccati veniali non scontati nella vita presente, oppure nell’inferno per i peccati mortali, nel cui stato l’anima dovesse trovarsi in punto di morte.  

Mentre il castigo interno è ineliminabile dall’atto peccaminoso, perché concorre a definirlo, diversamente non sarebbe peccato, il castigo umano esterno e successivo, può mancare a causa di un difetto della giustizia umana. Quanto invece a Dio, Egli lo può procrastinare. Ma in ogni caso, se il peccatore nel frattempo non ha scontato il suo peccato, egli viene punito da Dio anche a riparazione di eventuali difetti della giustizia umana. Oppure Dio, per la grande bontà, vedendo il peccatore sinceramente pentito, può annullargli il castigo insieme col suo peccato, come sembra avvenire nella famosa parabola del figliol prodigo, il quale sente di meritare un castigo («non sono più degno di essere chiamato tuo figlio» (Lc 15, 18), ma il padre glielo annulla.

Occorre dire altresì che certi reati meritano la punizione da parte dell’autorità umana o divina e certi altri sono puniti di necessità da una pena che è conseguenza necessaria del peccato stesso. Esempio dei peccati del primo tipo: il castigo divino per la mancata osservanza del precetto festivo o la sanzione penale per un’infrazione al codice della strada. La sanzione dei primi è stabilita per convenzione dalla legge positiva. Il castigo dei secondi consegue al peccato per legge di natura. Esempio di reato del secondo tipo: l’avvelenamento conseguente all’ingestione di funghi avvelenati.

Come non paragonare l’attuale pandemia ai «flagelli» escatologici dei quali parla l’Apocalisse? All’inizio di questo spaventoso fenomeno, quando non aveva ancora raggiunto le proporzioni di oggi, Mons. Delpini, Arcivescovo di Milano, rifiutò di chiamare la pandemia «flagello» in questo senso. Ma io credo che, se S.Giovanni vivesse oggi, non esiterebbe a vedere in essa esattamente ciò che intendeva dire.

E probabilmente Mons. Delpini si adeguerebbe al giudizio dell’Apostolo, il quale nota poi come gli uomini, colpiti dai flagelli, «si mordevano la lingua per il dolore e bestemmiarono il Dio del cielo a causa dei dolori e delle piaghe, invece di pentirsi delle loro azioni» (Ap 16,11). Ma quando gli uomini non si pentono neppure davanti a questi estremi avvertimenti, che cosa li attende? Si stanno pentendo oggi gli uomini davanti alla pandemia?

Una risposta immediata viene dalla metafisica

e dall’etica naturale 

La ragione naturale offre già con le sue forze conforto, incoraggiamento e speranza all’uomo angosciato e turbato dal gravissimo dramma del male, mostrandoci la maggior forza del bene sul male. Il bene è invincibile, mentre il male può essere eliminato. Ma come? E poi, qual è l’origine prima del male? E qual è la meta ultima del bene? E da ultimo: perché esiste il male?

La prima cosa da fare per rispondere filosoficamente alla domanda sul perché della sofferenza è quella di allargare il discorso all’essenza del male, giacché la sofferenza è una specie di male; è il male legato al patire, mentre il peccato è un male legato all’agire.

Chiediamoci allora che cosa è il male in se stesso e nel suo rapporto col bene. Il male infatti ha un rapporto di contrarietà nei confronti del bene. Non lo si può intendere se non in rapporto col bene. Il male presuppone il bene. Ma il bene di per sé non implica il male.

Dal punto di vista dialettico o concettuale esiste una perfetta parità o reciprocità, un perfetto scambio tra bene e male, sono allo stesso livello: possiamo concepire il male negando il bene, come possiamo concepire il bene negando il male. Non ci può essere bene senza male e viceversa.  Invece sul piano dell’essere, il bene può stare senza il male: Dio potrebbe esistere da solo senza il mondo peccatore; Maria Santissima è esente da ogni difetto dello spirito e del corpo. Tota pulchra es, Maria, canta un inno domenicano.

Il male, invece, non è una sostanza, ma è un accidente, non però nel senso di un’essenza accidentale, ma di un esistere accidentale; ossia esiste accidentalmente; è la privazione di un bene dovuto ad una sostanza, alla quale spetta il possesso di quel bene per essere perfetta. Il male inerisce alla sostanza, che è un bene, e senza quel bene il male non esisterebbe, tanto è vero che se il male dovesse distruggere tutta la sostanza, distruggerebbe se stesso: il cancro in un malato di cancro esiste finché il malato vive; ma nel momento in cui il cancro uccide il malato, il cancro scompare, perché il malato è morto.

Per questa ragione il bene può essere infinito e illimitato, come il bene divino; il male è sempre finito e limitato, perché è un accidente e non una sostanza. Il male è finito nello spazio e nel tempo, salvo la pena dell’inferno, che dura in eterno, tuttavia è anch’essa limitata e moderata dalla divina Provvidenza[1], perché anche nell’inferno la pena, benché severa, è mitigata dalla misericordia, la quale, secondo San Tommaso, non manca neppure nell’inferno. In questo senso non che tutti si salvino, però tutti, in diversi gradi, sono oggetto della misericordia.

Il bene può essere ontologicamente necessario, come il bene divino o gli enti incorruttibili; può essere necessario anche in senso morale. È necessario, per esempio, per poter insegnare, possedere la scienza. Invece il male è contingente; se esiste, potrebbe non esistere; è causato dalla creatura e può essere soppresso o può estinguersi, come avviene per i traumi, le malattie o per i peccati.

Il male può essere necessario di fatto, come per esempio è necessario che manchi l’ossigeno perché avvenga l’asfissia. Ma non è necessario di diritto: non è affatto necessario che uno muoia per asfissia. Il male esiste di fatto, ma non ha diritto ad esistere, se non per disposizione della giustizia divina od umana, per esempio nel caso del castigo.

Il fatto che il male sia contingente e accidentale è il segno che il male può essere tolto o vinto. Così anche l’azione cattiva dell’agente libero può essere perdonata e la sofferenza può essere eliminata. Invece l’agente buono spirituale è insopprimibile e la sua buona azione vale per sempre.

Il male non è un semplice non-essere, una semplice negazione: non è una semplice limitazione del bene, se questo bene è eccessivo. Anzi è bene che il bene stia nel suo giusto limite. Male è se un bene si trova al di sotto del suo giusto limite. Il primo è un male per eccesso; il secondo un male per difetto.

La semplice negazione corrisponde al giusto limite. Non è male se io non posseggo un terzo occhio; non è male la negazione del terzo occhio. Sarebbe un male se ne avessi uno solo, perché mi spettano due occhi. Il non-essere altro da sé non è un male, ma è la condizione della distinzione fra gli enti.

Il male può essere nella sostanza oppure nell’azione o nella passione della sostanza. Il male nella sostanza è la corruzione. Il male del vivente sensitivo, uomo o animale, che patisce un’azione nociva è la sofferenza. Il male dell’azione volontaria nell’uomo è il peccato.

Il male esiste realmente ma non è un qualcosa di reale, non è una realtà, non è un ente reale, non è una sostanza. È accidentale, ma non è un accidente. È un ente di ragione (ens rationis); ossia è pensato sul modello dell’ente (ad instar entis), pur essendo un non-essere. Il male ha come effetto qualcosa di drammaticamente e concretamente esistente, che sono il dolore e la sofferenza. Il peccato formalmente si pone sul piano del non-essere, dell’ens rationis, anche se è connesso con azioni molto reali e concrete.

Per quanto riguarda la condotta divina nei confronti del male, possiamo rilevare che alcuni distinguono in Dio il volere dal permettere e sostengono che Dio vuole il bene e permette il male[2]. È una buona distinzione, ma non va al fondo del discorso. Non ci dice fino in fondo, per quanto possiamo saperne, che cosa opera la volontà divina. In realtà anche il permettere è un volere. 

Occorre allora dire al riguardo con franchezza che Dio, se avesse voluto, poteva impedire che la creatura peccasse e la poteva condurre immediatamente in paradiso, senza sottoporla ad alcuna prova, dalla quale purtroppo è uscita male. Perché non lo ha fatto? Non avrebbe risparmiato alla creatura immense sofferenze ed infinite occasioni di peccato? Non avrebbe potuto fare una cosa del genere? Non sarebbe stata questa la vera gloria di Dio? Questa è la domanda più radicale sul perché esiste il male.

Infatti, siccome il male di fatto esiste, e se Dio non avesse voluto, avrebbe potuto non esistere, occorre logicamente dire – senza mancar di rispetto a Dio – che Dio ha voluto non impedire che il male esistesse, quindi non diciamo che Dio sia cattivo o abbia voluto peccare, ma proprio in quanto il peccato non è commesso da Lui, ma dalla creatura. La quale soltanto, benché creata buona da Dio, è responsabile per colpa propria del peccato, perché la causa prima del peccato è lei e non Dio, mentre Dio è solo la causa prima del bene naturale e soprannaturale compiuto dalla creatura. 

Dio ha creato la creatura buona e le ha ordinato di fare il bene, proibendole di peccare. Ma, creandola libera, doveva mettere in conto che potesse peccare, come di fatto ciò è avvenuto.  Se però quindi la creatura è malvagia, la colpa non è di Dio, neppure indirettamente, ma è esclusivamente della creatura. Se invece essa è buona, il suo libero agire nel bene e in grazia è mosso da Dio. Dio punisce il peccato proprio perché non lo vuole assolutamente e lo proibisce.

Se infatti Dio veramente non avesse voluto impedire che il peccato esistesse, e tuttavia esso esiste, vorrebbe dire che il peccato è comparso da sé, quasi fosse non l’atto malvagio di un agente moralmente malvagio, benché ontologicamente buono perché creato da Dio, ma fosse un agente esso stesso, al di fuori del controllo di Dio. Si confonderebbe il peccato col peccatore e il peccato verrebbe sostanzializzato, come fosse una persona malvagia per natura. È, questo, il manicheismo.

Se dicessimo invece che Dio vuole il male nel senso che pecca Egli stesso e approva sia il bene che il male, sia il vero che il falso, sia la santità che l’empietà, sia il sì che il no, cadremmo nell’orribile teologia monistica di Hegel e nella sua etica della doppiezza e dei due padroni, che giustifica sia l’azione dei buoni che quella dei malvagi. Per un bisogno scriteriato di unità, in Dio c’è sia il bene che il male. Cadiamo nel suo monismo assoluto, nel quale tutto è bene, anche il male. Tutti buoni perché non c’è differenza tra il bene e il male. È il trionfo dell’attuale buonismo[3].

Dire dunque che Dio permette il male va bene, ma non basta a soddisfare gli spiriti più esigenti.  Si potrebbe eventualmente dire che Dio permette in senso ontologico, così come si dice che l’esistenza del caldo permette o consente l’esistenza del freddo o che la luce permette l’esistenza del buio. Senonché qui non si tratta di una questione meramente metafisica, ma delle decisioni del libero arbitrio divino.

D’altra parte, si fa fatica a concepire un permettere in senso morale, come la maestra che permette a Pierino di andare al gabinetto. L’iniziativa qui è di Pierino e la maestra acconsente. Se poi si tratta del compimento del peccato, ci viene spontaneo ricordare che chi permette che esso sia compiuto da un altro pur potendolo impedire, non avrà colpa direttamente, però diventa complice e corresponsabile del peccato commesso da quell’altro. Ma allora Dio permette in questo senso che l’uomo pecchi? Gli dà il permesso? Non sia mai! E allora come vanno le cose?

La cosa da tener presente al riguardo è che l’iniziativa del compiere il peccato non è di Dio, ma della creatura. Dio, motore di tutti gli agenti dell’universo, muove l’atto materiale del peccato, ma non il suo aspetto formale. Fa sì che la pallottola esca dalla rivoltella, ma non è responsabile del peccato dell’assassino che spara. Ha fatto funzionare i treni che conducevano gli ebrei ad Auschwitz, ma non è responsabile dell’assassinio degli ebrei. Dio non ha voluto che esistesse il peccato e tuttavia ha voluto non impedirlo, pur potendolo impedire.

Dio proibisce di fare il male e castiga chi lo fa, eppure vuole non impedire quel peccato che Egli stesso non commette assolutamente, e vuole questo perché, se avesse voluto, il peccato non sarebbe entrato nel mondo. Se Dio avesse voluto, poteva creare angeli e uomini direttamente in paradiso. Perché non lo ha fatto? Perchè ha permesso il peccato? Perché non lo ha impedito, pur potendolo impedire?

Appare, impressionante, da queste considerazioni il mistero più profondo circa il perchè dell’esistenza del male, mistero per noi impenetrabile, che Cristo non ci ha svelato, limitandosi a farci comprendere che Dio sa ricavare dal male un maggior bene. Una constatazione tuttavia s’impone: è bene o è meglio che esista il male, data l’infinita bontà divina, che è fuori discussione.

Dunque Dio ha voluto non impedire il peccato senza tuttavia volere Egli stesso peccare, perché è cosa impossibile che voglia peccare. Dio non può essere peccatore. Quindi è restato innocente. Dire dunque che vuole non impedire che esista il peccato non vuol dire che spinge la creatura a peccare, non induce in tentazione, come credeva Lutero con la sua teoria della predestinazione all’inferno, per cui egli riteneva che Dio avesse voluto tanto la conversione di S.Paolo quanto il peccato di Davide. Bella scusa per chi non vuol lottare contro la concupiscenza!

Così in Lutero Dio appare sommamente e insopportabilmente ingiusto e crudele, perché spinge a peccare e punisce il peccatore, mentre per Lutero l’autore primo, la causa prima del peccato è proprio Dio. Invece Dio è causa prima delle buone azioni della creatura. Egli, con quella che il Bañez chiama «premozione fisica» divina, muove il libero arbitrio dell’uomo a fare il bene e, donandogli la grazia, fa sì che l’uomo in grazia meriti la vita eterna.

Occorre allora distinguere in Dio una volontà che possiamo continuare a chiamare permissiva, ma che è vera volontà e decisione libera, che si riferisce al non impedire il male, da una volontà di beneplacito, che si riferisce al volere bene sic et simpliciter. Per quanto poi riguarda il male di pena, possiamo dire tranquillante che Dio lo vuole senz’altro con volontà di beneplacito, benché non in senso assoluto, ma in quanto condizionata dall’esistenza del peccato, sia come castigo che come purificazione, perché se non la volesse sarebbe ingiusto e mancherebbe anche di misericordia, perché dobbiamo ricordarci che anche il castigare correttivo è dettato dalla misericordia. In questo senso tutta l’opera divina, come dice il Card.Kasper[4], dietro l’insegnamento di S.Paolo, si riconduce alla misericordia.

Fine Seconda Parte (2/3)

 P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 11 febbraio 2021

 

 

Ed appare anche nell’episodio del lebbroso sanato (Mt 8,1-4): la legge lo considerava un peccatore punito da Dio, per cui non poteva essere toccato e stare in società. Gesù, trasgredendo questa legge ingiusta, e col guarirlo, mostra che non si trattava di un castigo divino meritato, ma semplicemente di una sventura, dalla quale aveva tutto il diritto di essere liberato.

Così si spiegano le parole de Papa all’Angelus del 14 febbraio scorso: «La sua malattia era considerata un castigo divino, ma, in Gesù, egli può vedere un altro volto di Dio: non il Dio che castiga, ma il Padre della compassione e dell’amore, che ci libera dal peccato e mai ci esclude dalla sua misericordia».

 

 

 

Miniatura medievale

 Immagini da internet

 
 


[1] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2011.

[2] Cf il libro, peraltro ottimo, del Maritain: Dieu et la permission du mal, Desclée de Brouwer, Paris 1963.

[3] Cf il mio libro L’eresia del buonismo. Il buonismo e i suoi rimedi, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2017.          

[4] Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo. Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013.

 

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