Cristo ha affidato alla Chiesa la interpretazione della Sacra Scrittura

 

Cristo ha affidato alla Chiesa

la interpretazione della Sacra Scrittura

Il piano della divina rivelazione

L’interpretazione della Sacra Scrittura è l’attività della mente umana con la quale essa mostra, spiega e chiarisce il senso di quanto la Scrittura insegna e racconta circa quanto Dio ha detto e fatto per la salvezza dell’uomo e per rivelargli il mistero della sua propria essenza.

La cosa tipica della Bibbia, che la distingue da tutte le altre opere letterarie dell’umanità, anche di carattere religioso, è che nel caso della Bibbia ci troviamo davanti a un complesso di dottrine che non nascono dalla pura ragione o dal semplice ingegno umano, ma da una fonte di verità ben superiore, che è Dio stesso, per cui la ragione non può chiedere alla Bibbia che le si dimostri razionalmente le sue tesi, ma deve porsi in fiducioso ascolto della verità, anche se essa supera le capacità della ragione.

L’esegeta allora dovrà accostarsi al testo biblico congiungendo sensi e intelletto, ma sapendo di trovarsi davanti a un Intellegibile infinito ed assoluto, che offre certo nelle creature un senso storico, ma che non può essere attinto se non nella fede mediante l’anagogia e l’allegoria, sì mediante il senso letterale e il sapere storico, ma superandolo col saggio uso critico dell’intelletto e della ragione, che apre al puramente intellegibile e al mondo dello spirito, dell’anima, degli angeli e di Dio.

La Scrittura rivela infatti verità di per sé proporzionate alla nostra capacità razionale di capire, accessibili anche a non-credenti e alla gente comune, ed altre che la superano e restano misteriose e indimostrabili, per cui richiedono di essere accettate per fede. Essa si esprime in un linguaggio umano da noi comprensibile; tuttavia quando rivela verità divine e soprannaturali i termini che usa diventano il linguaggio di Dio, Parola di Dio. Per capire allora che cosa Dio vuol dirci con quei termini, occorre dare ad essi non il senso tra noi corrente, ma il senso che Dio intende dare a quei termini.

In base a ciò appare evidente che l’Autore della Sacra Scrittura non può essere un semplice sapiente umano o un filosofo, ma è Dio stesso, perché solo Dio può parlarci di Se stesso e del suo intimo mistero rivelato a noi. Nel far questo però Dio ha voluto servirsi di strumenti umani, gli agiografi e i profeti, al culmine di Gesù Cristo stesso suo Figlio, il quale a sua volta ha incaricato gli Apostoli con a capo Pietro di spiegarci lungo il corso dei secoli fino alla fine del mondo, quelle parole che non fossero immediatamente chiare. Questo è il Magistero della Chiesa.

Il fatto però che Dio abbia voluto servirsi di strumenti umani di per sé fallibili per comunicarci la sua Parola di infallibile Verità non ha potuto evitare rischi e pericoli, dati dal fatto che nell’interpretare la Scrittura c’è il rischio di interpretare come Parola di Dio o verità di fede certi concetti, cosmologici o antropologici od ontologici o morali errati o superati, dell’agiografo o dei tempi nei quali è stata tramandata o messa per iscritto la Rivelazione.

È quella che oggi si chiama esegesi fondamentalista, la quale, lodevolmente mossa dal bisogno di evidenziare ciò che nella Bibbia c’è di fondamentale ed essenziale, scambia per dato rivelato le idee sbagliate dell’agiografo o del suo tempo, fosse anche Abramo, Mosè, Davide, San Pietro, San Paolo o San Giovanni, o fossero anche certe nozioni o certi modi di dire che si trovano nella bocca stessa di Gesù Cristo.

È chiaro d’altra parte che l’interpretazione della Scrittura, se da una parte richiede l’impegno della nostra ragione, questa non basta, ma occorre che crediamo che quanto la Bibbia ci rivela su Dio e sull’uomo è vero.

Per avere questa fede Dio avrebbe potuto illuminare direttamente ciascuno di noi. Invece Egli per mezzo di Cristo ha voluto istituire un ceto di persone, il Magistero della Chiesa, assistito dallo Spirito Santo, incaricato di interpretarci e chiarirci quei testi della Scrittura che non riusciamo a capire da soli con la nostra ragione. Gli insegnamenti della Scrittura in quanto chiariti e spiegati dalla Chiesa soni i dogmi o articoli della fede.

Lo Spirito Santo muove la Chiesa nel corso della storia, servendosi dell’opera degli esegeti e dei teologi, ad una sempre migliore interpretazione della Scrittura e ad uno sviluppo e migliore conoscenza del dato rivelato, nella fedeltà e nell’esplicitazione progressiva dei contenuti della Sacra Tradizione.

È questo il progresso dogmatico, che non cambia affatto il senso dei dogmi, come credono erroneamente i modernisti, ma al contrario lo capisce sempre meglio.

Restano così sempre per tutto il corso della storia, nonostante i chiarimenti definitivi continuamente fatti grazie al Magistero dei Papi, molti altri testi biblici e proposizioni che ancora rimangono oscuri e richiedono spiegazione. Su di essi si affatica la ricerca degli esegeti, i quali propongono una soluzione. Se essa è giusta, la Chiesa l’approva e viene dogmatizzata.

Accanto e successivamente al lavoro degli esegeti c’è quello perfettivo dei teologi, i quali, partendo dal dogma, dalla ragione e da una buona esegesi, approfondiscono il senso e i contenuti delle verità di fede mediante l’uso della filosofia e delle scienze, e seguendo un ordine sistematico, mostrano come le verità di fede si colleghino tra di loro in una meravigliosa armonia, tutte attorno al dogma del Dio Trino.

Inoltre essi collegano il sapere teologico con quello delle scienze umane e naturali, così da mostrare come l’intero sapere umano, nella molteplicità delle sue forme e delle sue discipline converga verso la teologia. La teologia dogmatica è poi la base della teologia morale, la quale a sua volta, arricchita dall’esperienza cristiana secondo i doni dello Spirito, assurge al livello della teologia mistica.

Il teologo offre e propone così alla Chiesa una migliore conoscenza del dato rivelato, che tocca tutte le forme e i gradi della concezione biblica di Dio, del mondo e dell’uomo, conoscenza che, se è autentica e ben fondata, può venire successivamente approvata e dogmatizzata dalla Chiesa.

Il teologo raccoglie i risultati dell’esegeta e si adopera per verificare se in essi è dato riscontrare qualche verità divinamente rivelata che possa essere oggetto di fede. Siccome i contenuti di fede concordano con le verità di ragione, il teologo, al fine di comprendere queste verità in accordo con la ragione, si adopera per mettere in luce il loro contenuto razionale valendosi dei concetti forniti da una buona filosofia.

Naturalmente questo contenuto non esaurisce l’intellegibilità del contenuto di fede, che, in quanto tale oltrepassa la capacità di comprensione della ragione; e tuttavia aiuta a comprendere il mistero rivelato. Così per esempio il concetto filosofico di sostanza è servito alla Chiesa per elaborare il concetto di transustanziazione, di sostanza divina o di persona come sostanza o di anima come forma sostanziale.

I sensi del linguaggio biblico

Come ho detto, il Magistero della Chiesa ha da Cristo il compito di chiarirci in modo definitivo quelle che sono le verità di fede contenute nella Scrittura per la nostra salvezza. Il che non vuol dire che col progredire dell’esegesi e della teologia, a una formulazione del dogma non possa aggiungersene una successiva più perfezionata, come è successo col passaggio dalla formulazione di Nicea del dogma cristologico a quella di Calcedonia. Col progresso dogmatico e l’aumento del numero dei dogmi non è che le verità rivelate aumentino: esse sono sempre quelle che Cristo ha consegnato agli apostoli; solo che vengono sempre meglio conosciute.

Ma ad ogni modo questa interpretazione infallibile, immutabile e definitiva fatta dalla Chiesa è preparata dal lavoro faticoso, a volte incerto e problematico, spesso discutibile, ma a volte anche geniale degli esegeti e dei teologi.

L’esegeta ci fa capire che cosa la Bibbia intende dire, come lo dice e perché a qual fine lo dice. Ci mostra il messaggio divino che essa contiene, ci fa capire qual è il linguaggio biblico, come la Bibbia esprime, i suoi modi di dire, i contenuti del suo linguaggio. Egli esamina un dato testo oscuro e ce ne dà la spiegazione stabilendone il senso. Questo senso può essere duplice: senso letterale o storico e senso allegorico o anagogico o spirituale. 

Il senso letterale è il senso inteso dall’agiografo in modo immediato. A volte è evidente e non ha bisogno di spiegazioni. A volte sembra evidente, ma in realtà dev’essere spiegato, oppure è oscuro. In questo caso occorre l’esegeta. Se la sua spiegazione è giusta può essere approvata dalla Chiesa e diventare dogma.

Ora però oltre a ciò il senso letterale sottende spesso un altro senso, superiore e supremo, quello che sta a cuore a Dio. L’arte dell’esegeta deve esercitarsi su questi due piani. Infatti i sensi della Scrittura sono sostanzialmente due: senso letterale o storico e senso allegorico o analogico o spirituale. E questo perché? Perché una parola può avere sostanziante due sensi: o significare una cosa o significare una cosa che ne significa un’altra.

Il senso delle parole che rimandano alle cose è il senso letterale; mentre il senso allegorico è quello che significa delle cose che a loro volta significano o rimandano ad altre cose, superiori e supreme, alle quali ha di mira il senso letterale, che spesso non è sufficiente a rivelarci quanto Dio intende dirci, ma fanno solo da introduzione al vero messaggio divino.

Per questo, chi si ferma al senso letterale, quando questo senso rimanda al mistero, non coglie il mistero, a meno che il senso letterale non contenga già lo stesso mistero. Per esempio, quando Gesù dice: “Io sono la Verità”, qui il senso letterale coincide col senso allegorico o spirituale.

Se invece uno si ferma al senso letterale, trascurando quello allegorico o spirituale, è come uno che, per usare un’espressione di San Girolamo e Santa Caterina da Siena, davanti a un bel frutto si limitasse a mangiarne la buccia e ne scartasse la polpa. Cosa capirebbe della Scrittura?

Ora di solito nella Scrittura il significato letterale comporta realtà simboliche, parabole, modi di dire, metafore, creazioni poetiche, miti, fatti empirici, persone esistite o inventate, avvenimenti reali o fittizi, cose reali o immaginarie, materiali, sensibili, terrene, umane, temporali, le quali servono a purificare e a sollevare il nostro sguardo verso le realtà spirituali, intellegibili, soprannaturali, sovrarazionali, misteriose, celesti, divine, santificanti ed escatologiche. È qui che troviamo le verità di fede, quelle verità che la Chiesa formula e definisce nei dogmi.

L’indagine storica, che si serve delle scienze storiche, umane e letterarie, mira a determinare il senso letterale del dato, ossia ciò che immediatamente l’autore biblico ha inteso dire secondo il suo modo proprio di esprimersi. L’indagine intellettuale, altrimenti detta critica, che utilizza la filosofia e la metafisica, mira a innalzare la comprensione letterale a quella spirituale, che è allegorica e anagogica.

La verità di fede contenuta nel significato letterale esplicitamente, immediatamente o mediatamente può essere espressa sotto forma assertiva, poetica, narrativa, simbolica e liturgica.

Interpretazione allegorica vuol dire che la Scrittura significando certe cose sensibili presenti, naturali, fisiche, visibili, corruttibili, terrene ed umane, ne vuol significare altre, vuol rimandare ad altre, superiori, invisibili, spirituali, celesti, eterne, soprannaturali, escatologiche e divine. Il significato allegorico può essere anche simbolico, tipologico o figurativo.

Comprensione anagogica vuol dire che con questo metodo allegorico, detto anche tropologico, la Scrittura guida la mente e scalda il cuore per via induttiva o di causalità o di analogie, somiglianze, simboli, figure, parabole, paragoni e metafore, dalla considerazione dei suddetti fatti empirici narrati o realmente accaduti o inventati a scopo educativo o cose materiali proposte dalla Scrittura.

Il metodo storico-critico

Il metodo «storico-critico» del quale oggi si parla spesso come se fosse una raffinata invenzione della modernità o degli esegeti tedeschi, in realtà, rettamente inteso, non cioè in un senso modernista, ma corretto, non è altro che il metodo normale e naturale che gli esegeti hanno sempre usato ed usano anche per qualunque testo letterario dell’antichità. Il metodo storico-critico, in quanto congiunzione dell’interpretazione letterale con quella allegorica, per la verità, dato che costituisce l’essenza del metodo d’interpretazione della Scrittura, è stato usato sin dagli inizi del cristianesimo.

Indubbiamente esiste anche un modo di accostarsi alla Scrittura, un metodo storico-critico che, basandosi su di una gnoseologia empirista e positivista, non vede nella Scrittura altro e l’elemento umano e letterario, senza riuscire a percepire la presenza, la potenza, la grandezza della Parola di Dio, ma soltanto ciò che è proporzionato all’esperienza, alla storia umana e alle vicende della natura. È chiaro che in queste condizioni la questione di assoggettarsi nella fede a un Dio che si rivela, parla ed agisce nella storia, non si pone neppure e la sublimità della spiritualità biblica resta totalmente ignorata.

Può capitare peraltro che si dia un’esegesi di tipo idealistico, la quale, enfatizzando la spiritualità mistica del messaggio biblico, guarda il testo biblico dall’alto al basso in modo gnostico, come se fosse l’espressione mitologica del proprio sapere assoluto, che fa svanire l’oggettività dei fatti storici.

Oppure all’opposto, schiavi di una mentalità che risolve tutto nella storia e nel divenire, non si riesce a vedere il significato spirituale ed anagogico dell’allegoria come guida della mente alle realtà trascendenti, divine, immutabili ed eterne. Nell’uno e nell’altro caso è chiaro che viene negato il valore del concetto e quindi del dogma come interpretazione della divina rivelazione[1].

La storia dell’esegesi biblica

La storia dell’esegesi passa attraverso tre grandi periodi: l’esegesi antica, quella medioevale e quella moderna. L’esegesi antica, che va fino al rinnovamento del sec. XIII, è basata sull’uso del senso allegorico a volte eccessivo ed arbitrario come negli Alessandrini ed Origene. Però suppone una forte attenzione al contenuto spirituale della Scrittura, anche se condizionato dallo spiritualismo dualista platonico.

L’esegesi medioevale con San Tommaso, che utilizza la sintesi gnoseologica aristotelica di senso ed intelletto, dà il via ad un’esegesi attenta al senso letterale, relativo alla conoscenza storico-empirica, ma con l’apertura al trascendente, presente nella metafisica di Aristotele, in modo da non chiudere l’esegesi nel letteralismo storico  come faceva la scuola di Antiochia, ma da consentire ad essa l’edificazione della teologia dogmatica, come scienza deduttiva del dato rivelato, accolto indubbiamente nella fede, ma come principio dal quale ricavare conclusioni ed esplicitazioni che consentano di migliorare la conoscenza della verità di fede e preparare eventualmente la  formulazione di nuovi dogmi

A partire dal secolo XVII inizia il periodo moderno, nel quale gli esegeti cattolici migliorarono la loro esegesi, stimolati da quelli protestanti, i quali, rifiutando Magistero e Tradizione, si concentravano esclusivamente sulla Bibbia utilizzando le scienze positive, che nel frattempo stavano ottenendo grandi successi.

Così l’esegesi andò soggetta a un decisivo miglioramento col progresso degli studi storici, con la conoscenza delle antiche civiltà, lingue, luoghi, monumenti e costumi orientali, con l’esegesi rabbinica, con la considerazione dei generi letterari,  delle letterature coeve e col miglioramento della critica testuale.

L’opera del Padre Lagrange

Il metodo «storico-critico» andò continuamente perfezionandosi per tutto il corso dell’800. Di esso si vantavano i protestanti e i razionalisti. Non si può negare che esso presentasse aspetti di serietà scientifica e critica. Di essa si rese conto agli inizi del ‘900 l’esegeta cattolico domenicano Joseph Lagrange[2], il quale in tal modo concepì il disegno, allora ritenuto da molti pericoloso, data la sua matrice protestante liberale, di utilizzare i lati positivi di quel metodo depurato dagli elementi ereticali.

Fu così che egli, in mezzo a numerose difficoltà, vittima di calunnie e incomprensioni, sospettato all’inizio da San Papa Pio X e dal Beato Maestro dell’Ordine Giacinto Cormier, riuscì tuttavia, grazie alla sua tenacia e alla sua fede, convinto della sua buona causa, a fondare nel 1990 la Scuola Biblica di Gerusalemme, dove questo metodo ulteriormente perfezionato è impiegato su larga scala con l’utilizzo delle scienze umane, storiche, archeologiche e filologiche, correggendo gli errori dell’esegesi protestante.

Lagrange possedeva un’ottima formazione tomista, sinceramente fedele al Magistero della Chiesa, ma, trovatosi a lavorare nel clima agitato del modernismo e dell’antimodernismo, fu per un certo tempo sospettato dai suoi Superiori e dallo stesso Pio X, finché il Papa, accortosi della sua buona volontà e grande competenza, capì che la intenzione di ammodernamento era buona, per cui fu egli stesso a favorirlo e ad appoggiarlo.

Così l’opera della Scuola di Gerusalemme, seguita con premura, e all’inizio non senza qualche preoccupazione da San Pio X, e poi con pieno appoggio dai Papi successivi, ha dato progressivamente prova di serietà ed ortodossia, fino a rendere possibile, insieme con l’Istituto Biblico, frattanto fondato dai Gesuiti, l’importante documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993 «L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa»[3], ampia sintesi dei metodi della moderna critica biblica cattolica.

I grandi risultati esegetici da allora fino ad oggi  sono stati quelli di chiarire l’appartenenza di taluni racconti biblici al genere didascalico e non storico, – per esempio la storia di Giona -, l’esame dei reperti di Qumran, il confronto con l’esegesi ebraica, il dialogo con quella protestante, il riconoscimento dell’autenticità dei miracoli di Cristo, del progresso della coscienza morale dall’Antico al Nuovo Testamento, della presa di coscienza della pari dignità della donna con l’uomo superando un’inveterata concezione che voleva attribuire l’inferiorità della donna alla volontà divina, dell’estraneità delle idee cosmologiche ed astronomiche della Scrittura dal dato rivelato, come pure dell’estraneità dalla Parola di Dio dalla legge della distruzione totale del nemico  (lo herem), nonché dell’espulsione o uccisione dei residenti in Palestina da parte degli Ebrei, senza per questo negare la loro condizione e missione di popolo eletto con capitale a Gerusalemme, la estraneità del sacrificio di Isacco-Abramo, in quanto sacrificio umano, dalla volontà di Dio.

È chiaro che tutte queste conquiste hanno avuto come risultato una migliore comprensione dell’inerranza biblica, comportante la distinzione in precedenza non chiara o addirittura negata con gravissimi inconvenienti tra il vero dato rivelato e la mentalità dell’agiografo, soggetta ad errori come la mentalità di qualunque uomo sulla faccia della terra. L’inerranza biblica non è l’inerranza dell’agiografo o dell’autore biblico come povero essere umano, fosse anche San Pietro, San Paolo o San Giovanni.

È stata chiarita la differenza della sapienza biblica, verità sapienziale rivelata, dalla mentalità semitica, propria degli agiografi biblici. Da questo punto di vista la ragione filosofica rifulge meglio in Aristotele che non in questa mentalità, che, se dovesse essere scambiata per Parola di Dio, creerebbe delle confusioni terribili. Si pensi solo all’antifemminismo rabbinico di San Paolo, che nulla ha a che vedere con la vera concezione biblica della donna.

Per questo, se San Tommaso ha utilizzato le nozioni aristoteliche di ente, sostanza, accidente, potenza, atto, materia e forma, termini assenti nella Scrittura, non per questo mancano i concetti, ma anzi essi oltrepassano, in quanto impiegati nel dogma, il significato che lo stesso Aristotele aveva concepito.

A tal riguardo l’esegeta gesuita Ignace de la Potterie cade vittima di questo equivoco quando nel commentare «Io sono la verità» (Gv 14,6), prendendo a pretesto la concezione semitica della verità come rivelazione, vorrebbe sostenere che qui Cristo non si presenta come Verità sussistente, quindi non dichiara la sua divinità, ma semplicemente direbbe: «io vi rivelo la verità»[4].

Il problema delle traduzioni

Se Dio ha prediletto tra tutte le lingue quella ebraica per renderla la lingua della Parola di Dio, posto che tutti i popoli e tutte le lingue devono conoscere quella Parola ed usarla, è evidente che quanto Egli vuol comunicarci attraverso quella lingua, povera peraltro di termini, anche se spesso polisemici, può essere fedelmente tradotto in tutte le lingue, benchè gli errori di traduzione siano sempre possibili. Lingua privilegiata al di sotto di quella ebraica, è quella greca, essendo il Nuovo Testamento scritto in greco. La Chiesa, poi, come si sa, ha uno speciale stima la traduzione dei Settanta, tanto che se ne è servita per formare addirittura il dogma della verginità di Maria, dato che Matteo (1,23) utilizza il termine greco parthènos dei Settanta, benché in ebraico ci sia almà (Is 7, 14).

Tuttavia si sa che ai tempi di Isaia il termine che designa la giovane donna non sposata è almà, perché era sottinteso che essa non aveva ancora avuto rapporti sessuali. Certamente oggi, se dicessimo «la ragazza partorirà», come si trova in certe traduzioni per il passo di Mt 1,23, non saremmo così sicuri che essa non possa aver già avuto rapporti.

Altra testimonianza della Settanta per il Magistero della Chiesa è la traduzione del passo di Is 11,2 dove sono elencati i doni dello Spirito Santo fatti al Messia e per conseguenza al cristiano in grazia. Nel testo ebraico sono sei perché il dono del timore (Yireat) è ripetuto due volte. Invece i Settanta hanno due termini, quindi due doni diversi: fobos, timore, ed eusebeia, pietà. Ora questa distinzione è stata accolta dalla Chiesa con la dottrina dei sette doni dello Spirito Santo, come risulta dall’Enciclica Divinum illud munus di Leone XIII del 1897 e di San Giovanni Paolo II Dominum et vivificantem del 1986.

Così similmente le parole del Salmo 8,6 dei Settanta «l’hai fatto poco meno degli angeli» (anghelos) sono molto importanti per l’angelologia, mentre l’attuale traduzione fatta direttamente da testo ebraico (elohim), da cui viene «l’hai fatto poco meno di un dio» perde tutto il suo significato.

Quanto alla Vulgata di San Girolamo, essa resta importante, ma ha perduto della sua importanza dopo che di recente la Chiesa ha approvato una nuova traduzione in latino della Scrittura. Segnaliamo alcuni errori.

«In meditatione mea exardescet ignis» (Sal 38,4). Questo passo era utilizzato per mostrare l’utilità della meditazione per stimolare il fervore della carità. Il principio ovviamente resta vero, ma non ci si può più appoggiare su queste parole di Girolamo, perchè la traduzione esatta è tutt’altra: «al ripensarci è divampato il fuoco»: lo sdegno al pensiero dei peccati che si commettono.

Così pure «inclinavi cor meum ad praecepta tua propter retributionem» (Sal 118, 112). Santa Teresina - pur essendo ignara di critica biblica, provava una ripugnanza istintiva per queste parole, sembrandole dettate da un interesse egoistico. E di fatti la traduzione esatta è la seguente, nella quale il Salmista constata semplicemente l’esistenza della ricompensa, senza metterla al primo piano: «ho piegato il mio cuore ai tuoi comandamenti; in essi è la mia ricompensa per sempre»: quello che m’interessa è obbedirti; se poi c’è un compenso, tanto meglio.

Passo particolarmente delicato è Es 3,14. Tanto i Settanta quanto la Vulgata sbagliano. I Settanta: «Egò eimi o On, Io sono l’Ente». La Vulgata: «Ego sum Qui Sum, Io sono Chi Sono». Il testo ebraico ha: «Ehièh escèr Ehièh: Io Sono Colui Che È». L’ente è ciò che esiste. Nessuno, neppure Dio può dire di Sé: io sono ciò che esiste, perché ciò che esiste è un trascendentale. Piuttosto, come dice San Tommaso: io sono l’esistere per essenza, l’ipsum esse per se subsistens.  Io sono chi sono lo può dire chiunque: non è altro che l’enunciato del principio di identità. Per i Settanta e per Girolamo la metafisica non era il loro forte.

Una traduzione in italiano completamente e sorprendentemente sbagliata è quella della Bibbia della CEI di un passo che, pur sarebbe importantissimo, essendo un apax legòmenon, un detto una sola volta, riguarda proprio un attributo divino di Cristo. Cristo ha appena detto di Sé «Io Sono» (Gv 8, 25). I giudei, che evidentemente non hanno capito, chiedono a Gesù: «Tu chi sei?». Gesù non ripete ciò che ha detto, ma si dà un attributo divino, che corrisponde all’Io Sono, e che ricorre solo qui in tutti e quattro i Vangeli: «Io sono il Principio, che parlo a voi» (ten Archèn o ti kai lalò ymìn). Ad esso corrisponde l’«Io sono il Primo» e si ritrova solo nell’Apocalisse[5].

Le traduzioni della Scrittura nelle lingue volgari sono evidentemente necessarie e inevitabili. Nessuna di esse è infallibile. La stessa lingua ebraica, per quanto scelta da Dio, non è priva di difetti, ai quali possono rimediare altre lingue, soprattutto quella latina, che è la lingua della Sede Romana, e il greco, nel quale è stato scritto il Nuovo Testamento.  

Tradurre direttamente dall’ebraico può essere utile, purchè si tenga conto della Settanta e della Vulgata di San Girolamo, sotto la sorveglianza della Chiesa e non come ha fatto Lutero lavorando per conto proprio e come fanno i biblisti modernisti.

Resta sempre il fatto che tutte le lingue sono semplice opera umana. Neppure alla lingua ebraica Dio ha garantito una perfezione assoluta. Solo il Logos è la perfetta espressione del Padre. Ma anche il Logos si serve del logos umano già nella sua stessa Persona di Logos incarnato. Per questo la Chiesa vigila sulle traduzioni con la massima cura. Ad ogni modo, non dobbiamo temere, grazie agli apporti della critica testuale, in comunione con la Chiesa, di poter accedere mediante una fede vissuta alla pienezza della verità e così raggiungere la salvezza.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 9 novembre 2023

 

Lo Spirito Santo muove la Chiesa nel corso della storia, servendosi dell’opera degli esegeti e dei teologi, ad una sempre migliore interpretazione della Scrittura e ad uno sviluppo e migliore conoscenza del dato rivelato, nella fedeltà e nell’esplicitazione progressiva dei contenuti della Sacra Tradizione.

È questo il progresso dogmatico, che non cambia affatto il senso dei dogmi, come credono erroneamente i modernisti, ma al contrario lo capisce sempre meglio.

Restano così sempre per tutto il corso della storia, nonostante i chiarimenti definitivi continuamente fatti grazie al Magistero dei Papi, molti altri testi biblici e proposizioni che ancora rimangono oscuri e richiedono spiegazione. Su di essi si affatica la ricerca degli esegeti, i quali propongono una soluzione. Se essa è giusta, la Chiesa l’approva e viene dogmatizzata.


Accanto e successivamente al lavoro degli esegeti c’è quello perfettivo dei teologi, i quali, partendo dal dogma, dalla ragione e da una buona esegesi, approfondiscono il senso e i contenuti delle verità di fede mediante l’uso della filosofia e delle scienze, e seguendo un ordine sistematico, mostrano come le verità di fede si colleghino tra di loro in una meravigliosa armonia, tutte attorno al dogma del Dio Trino. 


Immagini da Internet:
- San Girolamo, Cesare Dandini, Galleria degli Uffizi, Firenze
- Il Rotolo di Isaia, esposto nel Museo della Bibbia a Gerusalemme

Video: https://www.youtube.com/watch?v=PLH55E27c8I 



[1] Qui potremmo portare ad esempio due teologi, i quali, partendo entrambi da Hegel, ne sviluppano l’uno, Karl Rahner, l’aspetto gnostico-idealista, mentre l’altro, Walter Kasper, ne sviluppa l’aspetto storico-immanentista.

[2] Bernard Montagnes, Marie-Joseph Lagrange. Un biblista al servizio della Chiesa, Edizioni ESD, Bologna 2007.

[4] LA VERITA’ ETERNA IN Sant’AGOSTINO, I, Sacra Doctrina, 5, pp.590-611; LA VERITA’ ETERNA IN Sant’AGOSTINO, II, Sacra Doctrina, 6, pp.665-687, 1987. Ciò stupisce se pensiamo che San Tommaso prese proprio dal filosofo ebreo Isacco d’Israele del sec. X il suo concetto di verità come adaequatio intelletcus et rei, da cui scaturisce il principio della verità come verità sussistente.

[5] Ap 1,17: 2,8; 3,14; 21,6; 22,13.

8 commenti:

  1. Non esistono “opinioni” errate, discutibili o superate dell’agiografo. Una proposta di questo tipo è tipicamente progressista e va contro l’inerranza biblica. Citatemi un solo documento del Magistero dove si dice qualcosa del genere. Una cosa è il modo di esprimersi, la cultura, il genere letterario, un'altra sono le opinioni.

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    1. Anonimo: Si può affermare senza alcun problema che nella Bibbia si trovano "opinioni" dell'agiografo errate o discutibili o superate. D'altra parte, che problema c'è nel dire che tale affermazione è “progressista” rispetto all'errata interpretazione dei secoli precedenti in cui il testo della Bibbia veniva talvolta preso alla lettera, senza distinguere cosa sia la Parola di Dio e cosa parere dell'agiografo. Non ho alcun problema con l'esistenza di "interpretazioni progressiste". Un'altra cosa è parlare di interpretazioni “moderniste” della Scrittura. Questo è qualcosa di molto diverso. E mi sembra che lei non distingua tra progressismo e modernismo. Mi sbaglio?

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    2. No, Sabino, non hai idea di cosa sia l'inerranza biblica e, da buon progressista, ricorri all'accusa di letteralismo. Sicuramente le lettere di san Paolo, come ogni buon progressista, sembrano piene di opinioni "errate o discutibili o superate dall'agiografo". Lo dicono tutti i progressisti, per evitare gli aspetti politicamente scorretti della Bibbia. Per quanto riguarda il progressismo, ovviamente è un’altra maschera del modernismo. Consiste, in sostanza, nel leggere la Scrittura “alla luce della modernità”. Adeguarsi allo Zeitgeist, come dice il cardinale Ratzinger. E pensare che le epoche passate sono finite e abbiamo l'ultima Coca-Cola nel deserto, perché il pensiero “progredisce”, che è come dire che Mozart “progredì” e divenne reggaeton.

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    3. Caro Anonimo,
      l'esegesi biblica è migliorata col progresso degli studi storici, con la conoscenza delle antiche civiltà, delle lingue, dei luoghi, dei monumenti e dei costumi orientali, con l'esegesi rabbinica, con la considerazione dei generi letterari, delle letterature contemporanee e con il perfezionamento della critica testuale.
      Per questo, soprattutto nel secolo scorso, si è verificata una chiarificazione e una distinzione tra ciò che è dato rivelato nella Bibbia e ciò che è dato culturale o l'opinione dell'agiografo: ad esempio, ciò che si presenta come storia e non lo è, o il progresso della coscienza morale dall'Antico al Nuovo Testamento, ovvero la consapevolezza della pari dignità della donna rispetto all'uomo, superando la concezione della donna come inferiore, distinguendo i dati rivelati dalle idee cosmologiche e astronomiche di ogni epoca, ovvero la legge della distruzione totale del nemico, ecc.
      Ciò non ha nulla a che fare con il modernismo, come, ad esempio, si rese conto un secolo fa Papa San Pio X, quando riconobbe finalmente l’opera di Padre Lagrange, fondatore della Scuola di Gerusalemme.
      Devo dirli che l'amalgama che lei fai tra "progressismo" e "modernismo" non è corretta. Almeno no, se con “progressismo” si tenta di negare la necessità nella Chiesa di un progresso nella conoscenza della divina Rivelazione, progresso che Cristo stesso ha promesso sarebbe il frutto dell'azione del suo Spirito nella Chiesa, fino alla conoscenza della piena verità nel cielo.

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    4. Anonimo: se non è possibile distinguere ciò che nella Bibbia è la Parola di Dio... i dati rivelati..., da un lato, e ciò che è, dall'altro, la parola dell'agiografo, ossia , la loro cultura, la cultura del loro tempo..., espressa in opinioni, che a volte possono essere errate..., allora... è inevitabile cadere nel letteralismo e nel fondamentalismo più grossolano, gareggiando con i fondamentalisti più rigidi del campo delle sette evangeliche fondamentaliste più estreme... e non si può evitare di cadere in enormi problemi di interpretazione, in grandi contraddizioni, finendo per trasformare la Bibbia in un insieme di favole incredibili, adatte solo agli ingenui e ai creduloni...

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    5. Caro Anonimo,
      la consapevolezza che nel testo biblico possono esserci delle proposizioni che non esprimono la verità divina, ma la mentalità e la cultura dell’agiografo, è una acquisizione relativamente recente, frutto dell’esegesi storico-critica.
      Qui il modernismo non c’entra per nulla, anche se è vero che i protestanti, che non accettano il magistero della Chiesa, intendono questo metodo in una maniera che risulta offensiva per le verità dogmatiche.
      Tuttavia, già con i primi decenni del secolo scorso, grazie all’opera dell’esegeta domenicano P. Joseph Lagrange, la Chiesa cominciò a recepire questo tipo di esegesi, fino a che nel 1993 la Pontificia Commissione Biblica ha pubblicato su questo argomento l’importante documento “L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa”:
      https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_doc_index_it.htm https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html
      Per quanto riguarda l’inerranza biblica, essa si riferisce al fatto che Dio, quando ci parla, non si sbaglia, e questo è ovvio, sennò non sarebbe Dio, perché Dio è la sorgente della verità, ma l’uomo può sbagliare. Ed inoltre, quando l’agiografo ci riferisce la Parola di Dio, non si sbaglia. E questa è la cosiddetta ispirazione biblica.
      Tuttavia, quando l’esegeta esprime le sue opinioni o credenze del proprio tempo, è soggetto alla normale fallibilità umana. Si potrebbero fare di ciò molti esempi nella Sacra Scrittura, come la dottrina della superiorità dell’uomo sulla donna o la violenza nella distruzione dei nemici oppure certe concezioni cosmologiche.

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    6. Caro Don Sabino,
      ho notato con molta gradita sorpresa che lei ha detto esattamente le stesse cose che io avevo scritto all’Anonimo, prima di leggere il suo intervento. Ho gioito molto nel constatare questa perfetta coincidenza di idee, che del resto non sono le nostre, ma che ricaviamo dal comune patrimonio della nostra santa fede.
      Con tutti i conflitti che oggi troviamo attorno a noi, anche tra Pastori e teologi, è di somma gioia constatare questa unità di pensiero tra due sacerdoti nella medesima verità e nella medesima Parola di Dio.

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    7. Cara Rosa Luisa,
      la ringrazio molto per il suo intervento pieno di buon senso e di espressioni persuasive, con un linguaggio molto adatto al comune fedele, che viene ad integrare il discorso che avevo fatto io.

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