I beati del paradiso vedranno i dannati dell’inferno? - Terza Parte (3/3)

 I beati del paradiso vedranno i dannati dell’inferno?

Terza Parte (3/3) 

 

I guasti del relativismo

Un male dello spirito spesso denunciato da Benedetto XVI è il relativismo, che consiste nel relativizzare ciò che è assoluto.  Questo errore si verifica in modo disastroso nell’ambito del conoscere e della morale. La verità e il bene, che sono valori assoluti vengono relativizzati alla varietà degli individui tenuti al rispetto di questi valori. Non sono più gli individui che si relazionano con quei valori, ma ogni individuo diventa un assoluto rispetto al quale quei valori diventano relativi. La verità diventa relativa ai tempi: ciò che era vero ieri, oggi è falso e ciò che era falso ieri, oggi è vero.

Così, oggi, accanto all’illusorio ed imbelle pacifismo massonico-russoiano è assai diffuso il principio di Auguste Comte, strettamente connesso con la dialettica hegeliana: «Tutto è relativo. E questo è l’unico principio assoluto». Come Hegel, dal suo punto di vista idealista-cartesiano, costruendo sulla contraddizione anziché sull’identità, distrugge il suo sistema nel momento in cui lo costruisce, così Comte, dal suo punto di vista materialista, non si accorse di distruggere il suo principio nel momento in cui lo affermava, come avviene a tutti coloro che volendo costruire un pensare che nega le basi del pensare, distruggono il pensare nel momento in cui l’affermano e pretendono di pensare. Per questo non è necessario confutarli, perché si confutano da soli.

Infatti, il relativo è relativo a un assoluto. Se non c’è l’assoluto, non c’è neanche il relativo. Invece l’assoluto da solo è possibile, perché assoluto, ab-solutus vuol dire libero, sciolto, esente-da, indipendente. Ciò che è tale evidentemente non è relativo a niente. Il relativismo morale dipende dal relativismo gnoseologico. Ora la verità dottrinale e morale non può essere relativa ai singoli nello spazio-tempo. Ma sono questi che devono tutti misurarsi con questa verità oggettiva, assoluta, universale ed immutabile. Ed è su di essa che a loro volta si fondano i valori morali assoluti, universali, oggettivi ed immutabili, siano quelli razionali, siano quelli di fede.

Ora, come abbiamo detto, non è necessario confutare il relativismo, perché si confuta da sé, così come non è necessario uccidere il nemico che si suicida con le sue mani. Quando gli Alleati arrivarono al bunker di Hitler non fu necessario arrestarlo per sottoporlo a giudizio, perché aveva già pensato lui a giudicare se stesso, seppur in maniera così barbara. Così in filosofia. Esistono filosofie, come lo scetticismo, il fenomenismo, l’empirismo, il sensismo, l’agnosticismo, il soggettivismo, il relativismo, l’idealismo cartesiano-tedesco, i cui princìpi da esse posti con perentoria baldanza e ingiustificata sicurezza si negano da soli nel momento in cui si pongono. E del resto, queste filosofie spesso negano valore allo stesso principio d’identità e non-contraddizione, credendo di sfuggirvi o di stare al di sopra, mentre in realtà questi princìpi vengono necessariamente usati nel momento stesso dell’atto del pensare e del giudicare di qualunque cosa.

Nel relativismo manca la percezione dell’universalità e dell’oggettività dei valori. Il relativista percepisce il bisogno di un accordo sociale, ma siccome per un eccessivo attaccamento ai dati del senso, non riesce a cogliere delle verità o leggi morali oggettive, universali ed immutabili, si accorda, secondo Hobbes, all’interno di un gruppo sociale di sua scelta, i cui gusti sono affini ai suoi per un regolamento convenzionale di condotta giusto per assicurare un minimo di vivibilità della vita.

Il relativismo è strettamente congiunto allo storicismo, per il quale non esiste una verità assoluta immutabile sovratemporale e indipendente dal mutare dei tempi, ma ogni verità è relativa all’evoluzione storica. Veritas filia temporis. Ciò che fu falso ieri, è vero oggi e viceversa. E ciò che è vero oggi sarà falso domani e viceversa. Gli storicisti, per sostenere il loro errore, vorrebbero valersi del fatto innegabile e doveroso del progresso del sapere. Senonchè essi trascurano il fatto che quando oggetto del sapere sono valori assoluti, il progresso avviene nella continuità dell’identico significato, non nella rottura, ossia contraddicendo a ciò che si era creduto prima.

Così in un clima relativistico del genere ognuno si considera il fondamento, il centro e il vertice della realtà, che deve girare attorno a lui, partire da lui ed essere ordinata a lui. Ognuno vede non ciò che è ma ciò che sembra a lui. Quot capita, tot sententiae, come dicevano Terenzio e Cicerone. Non si deve condannare, ma comprendere. Ciò che è vero per me può essere falso per te.

Per il relativista colui che pensa di conoscere o possedere la verità è un presuntuoso e un assolutista, uno che si ritiene infallibile, l’uomo della verità, che vuol imporre agli altri le proprie idee. Per lui è inconcepibile un uomo in possesso della verità assoluta, che pretenda che tutti obbediscano a lui sotto pena di perdizione eterna. Ora, poiché si dà il fatto che quest’uomo è Gesù Cristo, vediamo che cosa diventa Gesù Cristo nelle mani del relativista.

Inoltre, per il relativista io posso decidere come comportarmi in base a un criterio stabilito da me, cioè in base a ciò che è bene per me, ma non posso comandarti o correggerti in base a questo criterio, ma devo farlo in base al tuo criterio, diverso dal mio, perché come io ho il diritto di decidere del mio, così tu hai diritto di decidere del tuo.

Per il relativista ciò che è bene per me può essere male per te: dipende dal punto di vista. Così si può dire che una cosa simultaneamente esiste e non esiste, è simultaneamente vera e falsa, è buona e cattiva a seconda dei diversi punti di vista. Un’affermazione può essere interpretata in due maniere opposte, entrambe vere per quanto rispecchianti opposti punto di vista.

Nel relativismo non esiste un criterio universale ed oggettivo per decidere ciò che è vero e ciò che è falso e per conseguenza non esistono norme morali universali in base alle quali tutti devono essere giudicati. Il gruppo che si impone con la forza o con l’astuzia sugli altri sullo stile di Machiavelli impone agli altri la propria concezione della morale e della società.

Osserviamo che esiste certo una legittima varietà di gusti e di pareri, laddove l’universalità del vero e il bene comune non vengono intaccati; ma si capisce che se questo relativismo dovesse essere esteso ai fondamenti della scienza e della morale, se dovesse essere messo alla base del sapere, della società o della convivenza civile, si avrebbe un conflitto di tutti contro tutti, homo homini lupus, un detto di Plauto, ripreso da Hobbes, che rincara la dose col detto bellum omnium contra omnes. Unica legge allora diventa quella della prepotenza e della violenza. È interessante come il buonismo e il misericordismo, mancando di un punto di equilibrio fra le due opposte istanze della tenerezza e della forza, nascondono uno sfondo di violenza, di prepotenza e di crudeltà.

Non uccidere

Riguardo al nostro rapporto con gli altri la Sacra Scrittura sembra proporre due direttrici d’azione in opposizione tra loro: da una parte non esiste nella letteratura mondiale una dottrina morale riguardante l’amore del prossimo tanto nobile e tanto promotrice della vita umana quanto quella insegnata dalla Bibbia; non c’è morale che come quella biblica inculchi con tanta chiarezza il dovere di rispettare la dignità del prossimo, il dovere della misericordia, della giustizia, della solidarietà, del perdono, del sacrificio per gli altri e nel contempo condanni con tanta fermezza e severità l’omicidio, l’aborto, il furto, la crudeltà, l’ingiustizia, la violenza, la denigrazione, la diffamazione, l’inganno, la frode, l’oppressione del prossimo, il danno materiale e spirituale al prossimo, tanto da minacciare una pena eterna agli assassini, ai violenti, agli egoisti, agli ingannatori e prepotenti ; ma dall’altra la stessa Bibbia  presenta come voluta da Dio la coercizione del malfattore, la pena di morte, l’uccisione del nemico e l’omicidio per difesa personale.

La perfezione morale comporta la vittoria sul nemico e quindi in certi casi la sua uccisione. L’attuazione della castità comporta in certi casi la mortificazione dell’impulso sessuale, che pure è esaltato nel matrimonio. La salvezza della patria può richiedere l’uccisione del nemico o il sacrificio della propria vita. La libertà del popolo può richiedere l’abbattimento del tiranno. La tranquillità pubblica può richiedere la soppressione dell’assassino.

Voler vincere il nemico non è necessariamente volontà di dominio. La volontà di potenza solo per il gusto di prevalere sugli altri, come vuole Nietzsche, è cosa abominevole, ma noi ammiriamo la potenza di Cristo che vince il demonio e la potenza dell’eroe e del soldato che sconfigge il nemico della patria o difende gli oppressi dagli oppressori.

La vita cristiana ha un aspetto agonistico, per il quale la salvezza e la beatitudine si raggiungono solo dopo una lunga guerra che si deve combattere secondo le regole e con coraggio per tutta la vita contro il peccato, contro il mondo e contro Satana. Tale combattimento può esser segnato da sconfitte, ma non bisogna perdersi d’animo. Occorre ogni volta capire perché si è perso, affinchè la sconfitta non abbia a ripetersi, occorre rafforzare le difese, migliorare il proprio modo di combattere, conoscere meglio le arti del nemico, aumentare la propria forza perché normalmente gli attacchi del nemico aumentano di forza. La battaglia è soprattutto spirituale (Ef 6, 10-17), ma può essere anche fisica o militare.

Occorre saper alternare la giustizia alla misericordia.

Una difficoltà nel discorso morale odierno è il saper dare un posto alla giustizia, non tanto a quella umana, alla quale invece si è molto sensibili, ma a quella divina, al nominare anche soltanto la quale, l’emotività di molti entra come in fibrillazione e scatta come un’istintiva reazione di rigetto per non dir di orrore.

Per esorcizzare la conturbante parola, si cerca allora di assimilarla ed omologarla alla misericordia, una misericordia, peraltro, che, a ben guardare, non è vera misericordia, ma concessione fatta all’altro di comportarsi seguendo gli impulsi emotivi o le fantasie del momento scambiati per ispirazioni dello Spirito Santo o determinazioni dell’Io trascendentale o attuazione della Parola di Dio.

Così la misericordia, privata di riferimenti morali oggettivi, diventa un eccesso di indulgenza e si degrada a connivenza col peccato altrui. Ma la misericordia non è affatto approvare i peccati degli altri. La misericordia non è perdonare tutti indiscriminatamente, ma solo coloro che sono pentiti. La misericordia è un dovere nell’orizzonte della giustizia e della carità. La si può bensì considerare una forma di giustizia, che comanda di dare a ciascuno ciò che gli spetta. Tuttavia la giustizia non è solo questo; essa, in senso pieno e specifico, è distinta dalla misericordia e le è complementare come suo presupposto. La misericordia è donare al misero. La misericordia è il perdonare: donare due volte; la prima per dare e la seconda per dare a chi aveva perduto ciò che aveva avuto e lo richiede.

Non bisogna credere che la misericordia richieda un abbassamento del livello della dottrina o la rinuncia ad esser fermi nella dottrina. È vero che la verità dottrinale proviene da un atto di giustizia, inquantoché l’intelletto, per essere vero, deve adeguarsi al dato oggettivo rispettando il suo diritto ad essere riconosciuto. Ciò vuol dire che nell’educazione morale e nell’azione pastorale la guida deve presentare l’ideale in tutta elevatezza, però con discrezione, perché in certi casi il messaggio potrebbe scandalizzare. A questo punto può intervenire la misericordia, la quale prende atto della debolezza e dei limiti dell’agente e propone un cammino graduale, senza con ciò nascondere l’elevatezza della meta da raggiungere.

La misericordia è anche giustificazione: rendere giusti da ingiusti. In questo senso la misericordia salvifica divina è una forma superiore di giustizia, come intuì Lutero, così come la giustizia in senso stretto è il compenso dell’attività svolta: se buona, è il premio; se cattiva, è il castigo.

All’origine del misericordismo sta l’esclusivo insistere, nei nostri rapporti con Dio, sulla confidenza, trascurando sistematicamente il dovere del timore. Nella predicazione s’inculca continuamente che Dio ci è favorevole, che ci assiste, ci è accanto, che ci perdona, non ci rimprovera, non ci incolpa, non ci castiga, non chiede pentimento, espiazione o penitenza, ci è vicino con immensa tenerezza e misericordia. Non si concepisce un Dio buono, un Dio che ama e che nel contempo accusi, ammonisca, avverta, minacci, disapprovi, castighi.

Se Dio è buono, per il misericordista, dev’essere solo tenerezza, dolcezza, promessa di salvezza, assicurazione che siamo a lui graditi, che non abbiamo nessuna colpa da togliere e scontare, nessun debito da pagare, che va tutto bene. Abbiamo solo bisogno di accogliere la grazia e confidare. Ora certo tutte queste assicurazioni sono molto consolanti, confortanti ed incoraggianti, necessarie a una serena e fruttuosa vita spirituale. Ma noi in questa vita, ancora orientati al peccato e sedotti dal peccato, non abbiamo solo bisogno di queste cose, ma abbiamo anche bisogno di essere illuminati sui nostri peccati, di sapere se siamo o no in colpa, di riconoscere i nostri peccati, di ricordare il rischio di perderci, di essere guidati, migliorati, istruiti, corretti, esortati, ammoniti, avvertiti, richiamati, convertiti, purificati, risanati, liberati.

La misericordia solleva, la sventura abbatte. Se pensiamo che Dio mandi solo la misericordia e non la sventura, saremo davanti ad un’alternativa irresolubile: o diremo che la misericordia abbatte, ma ciò è contrario alla stessa definizione della misericordia; oppure diremo che la sventura non la manda Dio, ma un Dio cattivo, suo nemico, che potrebbe essere la Natura. Assurdità anche questa.

Come si esce da questo dilemma? Semplicemente accettando ciò che ci insegna la fede e cioè che Dio è buono e amorevole, anzi è misericordioso anche e soprattutto quando è giusto, severo e ci punisce con la sventura, conseguenza del peccato originale e a volte dei nostri stessi peccati, sventura che colpisce anche gli innocenti affinchè si uniscano alla sofferenza dell’Agnello immolato.

La fede ci dice che la sventura è effettivamente mandata da Dio come avvertimento o come appello alla penitenza e alla conversione, come castigo correttivo affinchè espiamo in Cristo e grazie a Cristo i nostri peccati, cosa che ci è possibile unendoci alla croce di Cristo, grazie alla quale, per misericordia del Padre otteniamo la nostra riconciliazione con Lui, il pagamento dei nostri debiti e il perdono dei peccati.

Finché all’arrivo di una sventura noi trascuriamo di dare ad essa l’interpretazione salutare, che ne dà la fede, noi trascureremo di approfittare di una preziosa occasione – il kairòs -, l’occasione favorevole (II Cor 6,2) che Dio ci offre e che potrebbe non ripetersi, per guarire dai nostri peccati. Allo sguardo della fede e della carità noi sappiamo che effettivamente la sventura solleva, e che è segno della misericordia divina, ma non evidentemente in quanto sventura, bensì in quanto sofferenza fatta nostra in Cristo e per amore di Cristo in espiazione dei peccati nostri e di quelli del mondo.

La saggezza cristiana, che è la sapienza della croce, sa volgere a proprio vantaggio anche ciò che, come la sofferenza, di per sé produce solo morte e distruzione. Ma questo lo fa non perché stoltamente ami la sofferenza come tale, ma perché fa propria la sofferenza per amore vissuta da un Dio che, come Dio, vince la sofferenza.

Il cammino della salvezza comporta dunque il saggio contemperamento e l’alternanza di questi due sentimenti o stati d’animo: l’avvertire che Dio ci ama e che ci è vicino, anzi che è in noi, con noi, nel nostro cuore, che non ci abbandona, non ci tradisce, non si smentisce, e il dovere della confidenza, della speranza, della fiducia, dell’abbandono, pensando che Egli è morto per noi, ci vuole in paradiso e ci dà i mezzi per arrivarci.

Ma dall’altra, occorre evitare la presunzione e una vana fiducia, occorre temperare questi sentimenti col ricordo delle nostre colpe, col pensiero di averLo offeso, di averGli disobbedito, col timore che non sia contento di noi, col timore di essere in colpa. Da qui la necessità di addolorarci dei nostri peccati, di un continuo, diligente esame della nostra coscienza, con la richiesta e l’implorazione insistente e fiduciosa di pietà, perdono e misericordia.

Solo operando continuamente questa delicata e preziosa sintesi, che va continuamente ricostruita perché sempre daccapo tende a spezzarsi, possiamo avere la serenità che viene dalla coscienza di essere in cammino verso il regno di Dio. Da sola la confidenza senza il timore genera la superbia. Da solo il timore senza la confidenza genera la disperazione. Sintetizzati tra di loro ed alternati a seconda delle circostanze e dei bisogni del nostro spirito, questi sentimenti generano assieme la santità e la pace.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 giugno 2023


Il cammino della salvezza comporta il saggio contemperamento e l’alternanza di questi due sentimenti o stati d’animo: l’avvertire che Dio ci ama e che ci è vicino, anzi che è in noi, con noi, nel nostro cuore, che non ci abbandona, non ci tradisce, non si smentisce, e il dovere della confidenza, della speranza, della fiducia, dell’abbandono, pensando che Egli è morto per noi, ci vuole in paradiso e ci dà i mezzi per arrivarci.

Ma dall’altra, occorre evitare la presunzione e una vana fiducia, occorre temperare questi sentimenti col ricordo delle nostre colpe, col pensiero di averLo offeso, di averGli disobbedito, col timore che non sia contento di noi, col timore di essere in colpa. Da qui la necessità di addolorarci dei nostri peccati, di un continuo, diligente esame della nostra coscienza, con la richiesta e l’implorazione insistente e fiduciosa di pietà, perdono e misericordia.

Solo operando continuamente questa delicata e preziosa sintesi, che va continuamente ricostruita perché sempre daccapo tende a spezzarsi, possiamo avere la serenità che viene dalla coscienza di essere in cammino verso il regno di Dio. Da sola la confidenza senza il timore genera la superbia. Da solo il timore senza la confidenza genera la disperazione. Sintetizzati tra di loro ed alternati a seconda delle circostanze e dei bisogni del nostro spirito, questi sentimenti generano assieme la santità e la pace.

Immagine da Internet: Pellegrini in una miniatura medievale

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