La
concezione del piacere sensibile in S.Tommaso d’Aquino
Introduzione
L’attuale
ondata di deviazioni in campo sessuale pone in primo piano una questione ad un
tempo morale e psicologica, che è quella del piacere sensibile, con particolare
riferimento al piacere sessuale. Benchè, infatti, per dare una parvenza di
giustificazione a tali deviazioni, si faccia appello a grandi valori, come
quelli della diversità, della libertà e dell’amore, appare evidente che
l’interesse o fattore primario e fondamentale che genera e produce questa
impressionante molteplicità di fenomeni aberranti, è una forma di sfrenato
edonismo o epicureismo, è l’attrattiva pervasiva, morbosa e travolgente del
piacere sessuale sregolato, quale che sia il motivo o l’occasione, che lo
provoca o che conduce a cercarlo.
Non si
esclude, tuttavia, come sempre avviene in questi casi, una concezione libertina
della libertà e una concezione meramente carnale e libidinosa dell’amore.
Infatti tre fattori – ricerca smodata del piacere, falsa libertà e falso amore
- possono benissimo andare assieme ed influenzarsi a vicenda.
Tuttavia è
chiaro che, mentre una falsa libertà e un falso amore possono giocare anche in
altri campi dell’azione o degli interessi umani, ciò che sta specificamente
all’origine dei peccati sessuali non può che essere l’attrattiva smodata del
piacere sessuale, ossia il vizio della lussuria, che S.Tommaso definisce come «appetito di un piacere libidinoso»[1].
Per questo,
l’idea emersa di recente di porre il «clericalismo» all’origine di un uso aberrante
del sesso come la pedofilia, appare un’idea tutto sommato incongrua, anche se
non priva di qualche ragione indiretta ed occasionale. Ma il clericalismo non
appare affatto una causa propria e specifica, potendo esso causare propriamente
e direttamente molti altri generi di peccati, diversi dalla pedofilia.
Sappiamo
bene infatti come l’accusa a volte fondata di clericalismo trae origine dalle
polemiche ottocentesche, spesso pretestuose, della massoneria, del liberalismo
e del socialismo contro il potere temporale della Chiesa; per cui il
clericalismo è inteso come volontà di prepotere politico del clero nella
società.
Effettivamente
si può dire che il prete clericale svolge il suo ministero magari con impegno,
non però con spirito di servizio a Dio e alle anime, ma per la propria
affermazione o soddisfazione personale, per comodità, per vantaggi terreni o
per motivi di prestigio. Ma non è affatto detto che un prete del genere sia
necessariamente tentato dalla pedofilia. Anzi, un tal sacerdote può benissimo
comportarsi bene in campo sessuale, benchè sia vero che i vizi carnali – gola,
ira, avarizia e lussuria - si richiamino a vicenda.
Occorre
allora dire che il clericalismo di per sé non
ha nulla a che vedere con la lussuria, ma origina piuttosto dalla superbia,
dall’alterigia o dall’avarizia, che possono avere come sorelle l’ira e
l’invidia. E di per sé non produce lussuria, ma vizi d’altro genere. Un prete
può essere superbo, egocentrico, saccente, avaro, iracondo, invadente o
invidioso, ma nel contempo può essere casto. Dunque vediamo che il clericalismo
non produce affatto, almeno direttamente, la lussuria e quindi la pedofilia.
Per
correggere dunque efficacemente e in modo mirato le attuali deviazioni
sessuali, occorre attenersi strettamente all’orizzonte psicologico o morale specifico che le riguarda, e che ben poco
ha a che vedere con la voglia di dominio politico o economico, proprio del
clericalismo; mentre, come si è detto e dovrebbe essere evidente, il problema tocca il campo dell’etica sessuale.
Nell’ambito
del lavoro da fare per ovviare a tale problema, in questo articolo mi fermerò
con particolare attenzione sul tema della bontà
o malizia del piacere sessuale, mettendomi alla scuola di S.Tommaso
d’Aquino, aggiornato con gli insegnamenti di S.Giovanni Paolo II. Occorre dire,
al riguardo, che sorprende peraltro la saggezza di Aristotele, della cui Etica a Nicomaco l’Aquinate ci ha
lasciato un ben noto commento.
È ammirevole,
infatti, come lo Stagirita sappia
apprezzare ad un tempo, contro la diffidenza platonica della corporeità, la
dignità del corpo umano e quindi delle sue funzioni e del diletto, che sorge
dal loro normale esercizio. Nel contempo Aristotele mantiene il primato
platonico dello spirito sul corpo ed è ben consapevole della necessità,
all’occasione, di reprimere certi moti passionali per salvare la libertà dello spirito.
Per questo, egli
è lontanissimo dall’edonismo epicureo, di cui respinge l’assolutizzazione del
piacere sensibile, ed anche in ciò segue Platone, anche se vede nella
moderazione delle passioni, non la via
platonica per l’abbandono del carcere corporeo, ma al contrario la via per
edificare l’unità della persona umana, armonicamente composta (synolon) di «forma» (morfè) e di «materia» (yle), di anima (psyché)e di corpo (soma),
di senso (aisthesis) e di intelletto
(nus), di passioni (pathe) e di volontà (bùlesis). Certo ad Aristotele non si può
chiedere di ampliare lo sguardo al di là dei confini della vita presente,
segnata dalla lotta della carne contro lo spirito, perché egli, benchè ammetta
come Platone l’immortalità dell’anima, nulla sa dell’origine dell’uomo e quindi
del sesso, e del loro destino dopo la morte.
Aristotele,
quindi, non sa nulla né della protologia nè dell’escatologia del rapporto
uomo-donna, così come si ricava dalla rivelazione biblica. E non sa nulla neanche
della redenzione di Cristo, grazie alla quale, mediante la sofferenza espiatrice,
viene ritrovata l’armonia fra sesso e spirito propria dell’Eden ed anzi innalzata
alla dignità di figli di Dio nella resurrezione.
Tommaso, invece, da cristiano, sa bene che, se
Cristo si è astenuto dal piacere sessuale, non lo ha fatto perché non era un uomo
normale o per vincere le conseguenze di quel peccato originale, dalle quali
egli era esente, ma lo ha fatto per amor nostro, affinchè, mediante la
sofferenza espiativa e la rinuncia ascetica al sesso, fosse sostituito il
piacere onesto a quello disonesto, cosicchè uomo e donna potessero ritrovare
nella resurrezione, dopo la preparazione terrena, la comunione e la gioia
primitive distrutte dal peccato.
Quanto ad Aristotele,
egli conosce bene la necessità, in molti casi, della rinuncia al piacere
sessuale per promuovere, proteggere e difendere il libero e pieno esercizio
della ragione e quindi delle virtù. Un accorgimento importante sempre attuale,
ma del quale Aristotele non sa dare né le prime ragioni, nè le ultime finalità,
che sono rivelate solo dalla Bibbia.
Tommaso,
invece, naturalmente, è in possesso di questi dati e li utilizza. Interessante
soprattutto è la consapevolezza che Tommaso ha della resurrezione della differenza
sessuale, cosa che suppone un apprezzamento del corpo femminile del tutto assente
in Aristotele, per il quale la donna, come è noto, è un maschio imperfetto o
incompiuto (mas occasionatus).
Il piacere sensibile
umano
Il piacere,
in generale, presente anche negli animali, è per S.Tommaso un «moto dell’anima
causato dall’apprensione di ciò che avviene naturalmente»[2];
è la «quiete dell’appetito, considerata la presenza del bene piacevole, che
soddisfa l’appetito»[3],
cosciente della potenza appetitiva sensitiva, soddisfatta per il conseguimento
del suo fine o per il possesso di un bene adatto, proporzionato e conveniente[4].
«Il piacere segue l’ottenimento del bene conveniente»[5].
«Non ci può essere piacere senza operazione, e per converso non ci può esserci
operazione senza piacere»[6].
È evidente
che per Tommaso il piacere sensibile è in linea di principio una cosa buona,
creata da Dio; è un fine e una perfezione della natura corporea dell’uomo. Come
vedremo, esso fa parte della felicità umana ed entrerà nella stessa condizione
gloriosa dei risorti. Solo per motivi ascetici e per facilitare o garantire la libertà
superiore dello spirito, a seguito del peccato originale, occorre, in certe
circostanze, la rinuncia al piacere.
La stima che
Tommaso ha per il piacere sensibile, in quanto creato da Dio e conseguenza
dell’esercizio di una potenza sensibile naturale, lo porta a deplorare il vizio
dell’insensibilità[7],
che, in campo sessuale, ha una sua manifestazione nella frigidità sessuale, che nulla ha a che vedere
con il voto di castità o con la verginità consacrata, perché mentre queste
scelte suppongono una normale sensibilità sessuale, che viene frenata per
motivi religiosi, la frigidità sessuale può esser provocata o da un difetto
psichico o da una coartazione irrazionale dell’istinto, per la quale il soggetto,
non interiormente convinto della bontà della misura adottata, soddisfa comunque
la libidine per vie mascherate o inapparenti.
La bontà del
piacere sensibile è conseguenza dell’antropologia tomista, la quale vede
l’anima spirituale come forma sostanziale del corpo; per cui l’intelletto si
serve del senso e la volontà governa le passioni ed in esse esprime la sua
forza. Nel contempo, il piacere sensibile è ordinato a quello spirituale, così come
l’intelletto nella conoscenza sale dal senso all’intellegibile e la volontà passa
nobilitandosi e perfezionandosi dal soddisfacimento dei bisogni materiali a
quelli spirituali.
Tommaso non
accetta la diffidenza platonica nei confronti dei sensi, né per conseguenza il disprezzo
per il piacere sensibile, visto da Platone come una catena che avvince l’anima al
carcere del corpo. Per Tommaso, invece, la volontà non deve reprimere o eliminare
la passione, ma purificarla, domarla con saggezza ed umanizzarla, perché per
Tommaso virtù come la fortezza e la temperanza hanno precisamente come soggetto
le passioni[8].
In
particolare qui a noi interessa la virtù della temperanza, che, «comporta una
certa moderazione delle passioni che tendono verso i beni sensibili, ossia la
concupiscenza e il piacere»[9].
Tommaso nota infatti che la nostra tendenza al piacere sensibile non sempre
corrisponde a quanto detta la retta ragione:
«Il
moto primo dell’appetito sensitivo ripugna alla ragione soprattutto per la sua
immoderatezza. Infatti, i beni sensibili e corporali, considerati secondo la loro
specie, non ripugnano alla ragione, ma piuttosto sono al suo servizio, come
strumenti, dei quali la ragione si serve per il conseguimento del suo fine. Le
ripugnano invece soprattutto in quanto l’appetito sensitivo non tende ad essi
secondo il modo della ragione. Per cui alla virtù morale propriamente compete
moderare tali passioni, che comportano la ricerca del bene sensibile»[10].
E questo è appunto il compito della temperanza, che, in campo sessuale si
chiama castità.
Per questo,
l’Aquinate, come è noto, preferisce l’etica aristotelica, basata su di
un’antropologia più consona alla Bibbia, che ammette certamente, come in
Platone, il primato dello spirituale, ma senza accanimento contro il corpo, che
invece fa parte della natura umana ed è destinato alla resurrezione.
Ovviamente Aristotele
non poteva pensare alla resurrezione e si limita ad ammettere come Platone l’immortalità
dell’anima separata, che contempla beatamente il sommo Bene. Aristotele non poteva
sapere che il contrasto del senso con la ragione dipende dal peccato originale.
E tuttavia comprese contro Platone che di per sè il senso dovrebbe andare d’accordo
con la ragione. Da qui la sua etica del controllo razionale delle passioni.
Il grande
merito dello Stagirita è quello pertanto d’aver compreso come dev’essere ed agire la natura umana normale. Aristotele ha
capito – e in ciò si avvicina al Vangelo - che l’origine del male nell’uomo non
sta nel contatto con il corpo o con la materia e quindi col sesso. Il male non
viene dalla materia e quindi dal sesso, ma dalla cattiva volontà, dall’uso cattivo o irragionevole del sesso. Per
questo, Aristotele, senza conoscere l’escatologia umana, lascia una porta aperta
alla resurrezione della sessualità, con l’ammettere una legittimità al piacere
sensibile, una porta, che in Platone resta assolutamente chiusa per la sua
ostilità contro il corpo.
Tommaso
distingue così l’appetito intellettivo, che è la volontà, dall’appetito
sensitivo. La prima desidera il bene intellegibile e spirituale; il secondo, il
bene sensibile, materiale o corporeo. La volontà ha il compito di guidare
l’appetito sensitivo, perché è solo lei che, illuminata dall’intelletto, può
volere il fine ultimo e quindi la
felicità dell’uomo[11].
Il piacere
consegue al compimento di un’azione naturale, alla quale il soggetto è
inclinato o verso la quale tende per soddisfare i suoi bisogni naturali.
«Nessuno – dice Tommaso[12]
– può vivere senza qualche piacere sensibile o corporale». «Il piacere è la
perfezione dell’operazione». [13]La
stessa azione, della quale l’uomo ricorda il piacere, attira e muove il suo
appetito per il piacere che appunto procura. Citando Aristotele, Tommaso dice
che «il piacere perfeziona l’operazione, come un certo fine sopraggiunto»[14].
«A ciascuno – dice ancora Tommaso citando Aristotele[15]
- è piacevole ciò che ama».
Se si tratta
di una potenza affettiva, presente nell’uomo come nell’animale, si ha il
piacere sensibile. Esso è «tanto maggiore, quanto è più pura la natura del
soggetto e il suo corpo è più sensibile»[16].
E il moto sensitivo così soddisfatto è la passione. Se invece, nell’uomo si
tratta della soddisfazione dell’intelletto o della volontà, abbiamo il piacere
spirituale, meglio chiamato «gioia».
Il piacere
sensibile umano è uno stato emozionale gratificante, che suppone una persona
umana, ossia un vivente costituito di corpo e anima razionale, dotato di senso
e di intelletto, di appetito sensitivo e di volontà. Esso consegue all’attività del senso e
dell’appetito sensitivo che colgono il loro bene.
Per
S.Tommaso il piacere, come il bene, è cercato per se stesso come fine della
potenza vitale, all’attuazione della quale segue il piacere. Ciò vale anche per
il piacere sensibile. Il che però non va inteso nel senso che Tommaso autorizzi
l’assolutizzazione del piacere propria, per esempio dell’edonismo epicureo. È
chiaro che per Tommaso la soddisfazione del piacere sensibile nell’uomo è subordinata
alla soddisfazione dei piaceri dello spirito, che sono quelli veramente
assoluti. L’idolatria del piacere, invece, è il peccato della lussuria[17].
Tommaso pone
giustamente la lussuria come causa della stoltezza[18], in quanto la lussuria, assorbendo più del
dovuto la ragione nel piacere sessuale, la rende stolta, ossia disattenta, priva
di giudizio, negligente, cieca e insensibile o addirittura ostile nei confronti
dei valori morali, trascendenti, religiosi e spirituali. Tutto ciò è vero, ma
sembra che Tommaso qui risenta di una punta di platonismo nell’esagerare il
fattore lussuria, proveniente dal corpo, fattore, che, per la verità, non è
quello veramente radicale e fondamentale della stoltezza, ma è la superbia, che è atto dello spirito, contrario
a quella umiltà o adaequatio dell’intelletto
davanti alla realtà, che conduce
all’acquisto della sapienza, che è la virtù opposta alla stoltezza.
Se una mente
è veramente umile e amante della verità, raggiunge la sapienza, nonostante la
fragilità della carne. Ma se è superba ed egocentrica, può dominare la passione
proprio al fine di affermare se stessa sugli altri e contro Dio. Così si dice
di Madre Angelica, la Superiora del famoso monastero di Port-Royal, che era
pura come un angelo e superba come il demonio.
Per questo
c’è da notare o da temere che certe gnoseologie moderne dall’empirismo al
sensismo al positivismo all’esistenzialismo, che non sanno o non vogliono accedere
al pensiero metafisico o si fermano ad una raffinata concettualizzazione immaginaria,
senza raggiungere la realtà spirituale trascendente, come il kantismo, l’ontologismo,
la fenomenologia e l’idealismo, con la loro diffidenza nei confronti del
pensiero astratto, non diano garanzie sufficienti di rendere l’intelletto
indipendente dalla seduzione e dall’inganno dei sensi.
Il piacere
sensibile, per Tommaso, è suscitato dall’esercizio di qualunque azione corporea
naturale o dall’esperienza di oggetti piacevoli: dal soddisfacimento dei
bisogni fisici e dall’esercizio delle funzioni biologiche, dal normale
funzionamento della vita vegetativa, dalla gradevolezza dell’ambiente o del
clima, dallo stato di salute, dall’esercizio fisico, come può essere lo sport,
dal riposo, dallo svago, dal gioco, dal turismo
e simili.
Il piacere
sensibile è suscitato anche dalla percezione della bellezza, bellezza della natura,
bellezza delle opere d’arte, bellezza delle persone. Bello, infatti, per
Tommaso, è ciò che, visto, piace (id quod
visum placet)[19].
Qui è fondamentale il senso della vista, benchè giochi anche l’udito, come
nella recitazione, nella musica e nel canto. Qui abbiamo il piacere estetico,
suscitatore ed effetto di ammirazione e di contemplazione. Se il bello è moralmente buono, allora suscita
un piacere spirituale: piace alla volontà e suscita l’amore e l’azione
virtuosa.
La bellezza
sessuale suscita il piacere sessuale, il quale può essere frenato, trattenuto o
estinto per motivi ascetici o di convenienza. Il brutto favorisce la castità non nel senso della virtù, ma perchè
suscita una ripugnanza istintiva. La vera castità invece è messa alla prova
davanti alla bellezza. È bene che la donna sia bella, ma non provocante. La
bellezza di per sè stimola all’unione sessuale, per la quale, se viene usato l’organo
sessuale, si ha un’unione propriamente genitale. Nell’unione sessuale, osserva
S.Tommaso, entra in funzione l’uso del tatto, che dà il massimo dei piaceri
sensibili per i motivi che dico sotto. Essi sono i più attraenti e pertanto è
«difficilissimo contenerli»[20].
Nello stato
di natura decaduta, a differenza dello stato edenico, osserva l’Aquinate, «la
veemenza del piacere sessuale ritrae l’animo dal donarsi totalmente a Dio o
dalla piena intenzione di tendere a Dio»[21].
Da qui il voto di castità consacrata, funzionale a questa totale dedizione a
Dio propria dei Religiosi[22].
Secondo l’Aquinate, infatti, il piacere
sensibile e più elevato ed intenso è quel piacere che segue all’azione vitale
maggiormente coinvolgente, più importante,
più perfetta e più connessa con l’amore, come vertice del rapporto
sociale. E questa azione è l’unione sessuale dell’uomo con la donna. «Certi
piaceri sono tanto più veementi, quanto più conseguono ad azioni più naturali,
come la congiunzione del maschio con la femmina»[23].
«Il piacere sessuale è il massimo per la connaturalità di questo desiderio»[24].
«Il piacere sessuale è più forte ed opprime la ragione maggiormente che non che
il piacere del cibo»[25].
Tommaso riprende l’osservazione di Aristotele, secondo il quale «nella
congiunzione del maschio con la femmina si verifica una oscuramento (iactura) della ragione, perché a causa dell’intensità
del piacere essa è talmente assorbita, che in quel momento non può intendere (intelligere) nulla»[26].
È evidente che
qui Tommaso ha sott’occhio la dirompente pulsione sessuale del giovane, che è
alle prime armi nella lotta contro la concupiscenza, pulsione assai più forte e
meno controllabile di quella dell’anziano, soprattutto se esercitato nella pratica
della castità. Inoltre Tommaso non tiene conto di dipendenze psicologiche ben più
forti, come quelle dagli alcoolici e soprattutto – fenomeno dei nostri giorni –
dalla droga.
Tommaso distingue
la castità dalla continenza. La prima comporta un sereno dominio della passione
a seguito di una buona formazione; la seconda, invece, comporta una lotta aspra
e difficile, nella quale la violenta passione può prevalere sulla debole volontà.
È chiaro che in tal caso la colpa diminuisce per la mancanza di un consenso
sufficientemente deliberato. Ciò avviene soprattutto nei giovani, non ancora
formati alla castità o in soggetti psicolabili. Anzi, Tommaso, nella sua larghezza
di cuore, sebbene condanni la lussuria come peccato mortale, arriva a riconoscere
che
«se
le passioni crescono fino a togliere totalmente l’uso della ragione, come
succede in coloro che per la veemenza delle passioni cadono nell’infermità mentale,
allora non si dà più questione di continenza o incontinenza, perché non si salva
il giudizio della ragione, che il continente conserva, mentre l’incontinente
abbandona. E così resta che la causa dell’incontinenza è da parte dell’anima, che
con la ragione non resiste alla passione»[27].
Tommaso poi nel
Commento ad Aristotele si mostra legato
alla concezione aristotelica biologica del sesso, visto esclusivamente in funzione
della generazione. Tuttavia, l’Aquinate non è sempre coerente in questa visuale
meramente terrena, perché nel commento all’Etica
di Aristotele si limita a citare la finalità generativa del sesso, ma nella Summa Theologiae, nel trattato sulla
resurrezione, ammette un rapporto uomo-donna non generativo, anche se esclude il rapporto sessuale, pensando
probabilmente che quaggiù il corpo maschile e femminile è essenzialmente
strutturato in funzione della generazione, per cui noi non sappiamo immaginarne
uno diverso[28].
La potenza
appetitiva cerca il piacere
L’appetito
sensitivo tende al piacere. Dice Tommaso:
«è la stessa cosa appetire il bene ed appetire
il piacere, il quale non è altro che l’acquietamento dell’appetito nel bene.
Così, come il bene si appetisce per se stesso, anche il piacere si appetisce
per se stesso e non per altro, se questo “per” significa la causa finale. Se
invece ci si riferisce alla causa formale o piuttosto motiva, così il piacere è
appetibile per altro, cioè per il bene (propter
bonum), che è l’oggetto del piacere e per conseguenza è il suo principio e
gli dà forma. Da ciò infatti viene che il piacere sia desiderato, perché è la
quiete nel bene desiderato»[29].
Per Tommaso
la potenza appetitiva umana si pone a due livelli: quello spirituale, ed è la volontà;
e quello psicologico, che è l’appetito sensitivo[30].
Entrambi i livelli emanano o un’energia affettiva o un’energia aggressiva, a
seconda dei bisogni del soggetto. Affetto, desiderio e amore, se si tratta di
un bene appetibile per il soggetto. Repulsione, rifiuto o aggressione, se si
tratta di qualche male o di qualcosa di nocivo. Tommaso chiama «irascibile»[31]
l’aggressività sensitiva contro il nocivo sensibile.
La Sacra Scrittura
designa col termine «cuore» la sede degli appetiti umani, sia quelli sensibili
che quelli spirituali, senza escludere lo stesso potere conoscitivo, riservandosi
di volta in volta di valutare e distinguere i desideri, i moti o i sentimenti o
i diletti buoni da quelli cattivi; i primi, riconducibili all’amore o alla
carità o alla virtù; i secondi, alla concupiscenza o ai desideri della carne e
comunque al vizio. S.Tommaso usa pochissimo il termine cor, più adatto all’omiletica e, poiché abitualmente egli fa un
discorso scientifico, preferisce distinguere sempre le potenze che entrano in
gioco.
Per Tommaso
nel campo spirituale è sufficiente per l’anima un’unica potenza, la volontà,
per orientare il soggetto o verso il bene o contro il male, grazie al libero
arbitrio[32],
per il quale la volontà si muove da sé o verso una direzione o verso l’altra.
Invece, nel campo dell’appetitività sensibile, occorrono due potenze diverse,
il concupiscibile e l’irascibile[33],
perché qui il moto o la tendenza hanno una diversa base neurovegetativa e quindi
corporale.
Tommaso chiama l’appetito sensitivo anche
«sensualità» (sensualitas)[34],
alla quale non dobbiamo dare quella connotazione negativa che le diamo noi
oggi, perché Tommaso, in questa sezione della Summa dedicata alle potenze dell’uomo, la considera in se stessa, da
un punto di vista psicologico, a prescindere dalla sua corruzione conseguente al peccato
originale. Invece nella parte morale della Summa,
Tommaso dà le norme morali per la correzione, la disciplina e la purificazione dell’appetito
sensitivo.
L’Aquinate
chiama anche «appetito concupiscibile»[35]
(appetitus concupiscibilis) o più
semplicemente «concupiscenza» (concupiscentia)
l’appetito sensitivo. «concupiscenza» in
Tommaso ha un significato oscillante, a seconda dei contesti. A volte significa
semplicemente l’appetito sensitivo in senso psicologico[36].
Altre volte assume una connotazione morale negativa, come di tendenza
passionale al peccato o ad un piacere illecito, conseguenza del peccato originale[37].
In ogni caso «la concupiscenza è sempre associata al piacere»[38].
«Il piacere è di una cosa presente; la concupiscenza è di una cosa futura»[39].
L’appetito tende al piacere e il piacere stimola l’appetito. Tra l’uno e
l’altro l’amore fa da motore del passaggio dall’uno altro:
«L’appetibile
– dice Tommaso[40]
- dà all’appetito innanzitutto un certo adattamento a sé, che è la compiacenza per
l’appetibile. Infatti, il moto appetitivo procede in circolo, come è detto nel
libro III del Sull’Anima di
Aristotele: l’appetibile infatti muove l’appetito, ponendosi in qualche modo nella
sua intenzione; e l’appetito tende all’appetibile da conseguire realmente, così
che ci sia la fine del moto, là dove era il principio.
La
prima mutazione dell’appetito da parte dell’appetibile si chiama amore, che non
è altro che la compiacenza per l’appetibile e da questa compiacenza segue il
moto verso l’appetibile, che è il desiderio; e da ultimo c’è la quiete, che è
il gaudio. Così dunque, consistendo l’amore in una certa mutazione
dell’appetito verso l’appetibile, è chiaro che l’amore è una passione: propriamente
senza dubbio in quanto è nel concupiscibile; in modo comune e in senso esteso
in quanto è nella volontà».
Il
concupiscibile e l’irascibile agiscono dunque mediante le passioni, che sono
moti con trasmutazione corporale, prodotti da quelle due potenze, per le quali
la prima è attratta dal bene appetibile, mentre la seconda aggredisce una forza
ostile.
Tommaso
stabilisce un rapporto fra amore, concupiscenza e piacere, che può invertirsi,
se passiamo dall’ordine dell’esecuzione all’ordine dell’intenzione:
«l’ordine delle passioni del concupiscibile si
può considerare o secondo l’intenzione o secondo la consecuzione. Secondo la
consecuzione viene prima ciò che per primo avviene in ciò che tende al fine.
Ora è chiaro che tutto ciò che tende a un certo fine, possiede anzitutto
un’attitudine o una proporzione al fine. Nulla infatti tende ad un fine non proporzionato.
In secondo luogo, si muove verso il fine. In terzo luogo, ha requie nel fine dopo
averlo conseguito. Ora, l’attitudine o proporzione al bene è l’amore, perché
esso non è altro che la compiacenza nel bene; invece il moto al bene è il
desiderio o concupiscenza: la quiete nel bene è il gaudio o piacere. E quindi
secondo quest’ordine l’amore precede il desiderio e il desiderio precede il
piacere. Invece, secondo l’ordine dell’intenzione, è l’inverso: il piacere
intenzionato precede il desiderio e l’amore. Il piacere infatti è la fruizione
del bene, che in qualche modo è il fine, come lo è il bene»[41].
Nella Sacra
Scrittura la concupiscenza (epithymìa)
è vista come un
vizio, una brama smodata[42],
in particolare in campo sessuale[43].
Qualcosa del genere troviamo nel buddismo, con la sua prospettiva
dell’estinzione del desiderio (kama).
Questo significato negativo resterà in S.Agostino, dal quale Lutero parte, per
una visione talmente pessimistica della concupiscenza, da identificarla col peccato.
Ed ancora in senso negativo la presenterà
il Concilio di Trento, che però corregge la visione luterana con le seguenti
parole:
«Che
nei battezzati rimanga la concupiscenza o il fomite, questo santo Sinodo lo sente
e lo riconosce; ed essendo essa rimasta per l’agone, non può nuocere a coloro che
non vi consentono e non ha forza contro coloro che la respingono virilmente
servendosi della grazia di Cristo. Chè anzi, “chi legittimamente combatterà,
sarà coronato” (cf II Tm 2,5). Questa concupiscenza, che a volte l’Apostolo
chiama “peccato” (cf Rm 6,12ss; 7, 7.14-20), il santo Sinodo dichiara che la
Chiesa cattolica non ha mai inteso chiamarla peccato, così che nei rinati sia
un vero e proprio peccato, ma che viene dal peccato ed al peccato inclina»[44].
Nell’uomo,
in certe circostanze, la passione può e deve essere regolata o moderata secondo
ragione, perché capita che essa, nello stato di natura decaduta, si lasci
attrarre da beni che non sono veri beni, per cui spinge l’uomo al peccato; alla
quale spinta, tuttavia, se non è troppo forte e la volontà è sufficiente, l’uomo
può, in linea di principio resistere, soprattutto se soccorso dalla grazia.
Tuttavia,
l’uomo non agisce onestamente, ossia da uomo ragionevole, per la semplice
attrattiva del piacere, perché essa può non essere conforme a ragione. Ma
agisce bene perché sa che l’azione è moralmente buona o doverosa, anche se non
percepisce un piacere sensibile.
Per questo,
l’uomo può compiere anche un’azione dolorosa o affrontare una sofferenza, se sa
che è bene o doveroso farlo. Sperimenterà però in questo caso un piacere
interiore, spirituale, più prezioso e degno dell’uomo, che Tommaso chiama «gaudio»[45]
(gaudium), che lo ripaga del dolore
subìto e che sorge dalla coscienza d’aver compiuto il proprio dovere.
Stando così
le cose, è evidente che quelle antropologie sedicenti «bibliche», nelle quali,
col pretesto dell’unità dell’individuo, non appare una chiara distinzione fra
materia e spirito e fra anima e corpo, con relativo primato dell’anima o dello
spirito, come per esempio quella di Rahner o di Teilhard de Chardin, non sono
in grado di riconoscere quelle situazioni umane, nelle quali, opponendosi la
carne allo spirito, occorre scegliere per lo spirito e rinunciare alla carne. Queste
antropologie addebitano con disprezzo al «dualismo greco» la distinzione fra
anima e corpo, accomunando con crassa ignoranza il dualismo platonico con l’ilemorfismo aristotelico.
Se capita, quindi,
per esempio, una situazione, nella quale è forte l’attrattiva sessuale, può
succedere che, a causa della confusione dello spirito col sesso, il soggetto
scambi per «spirituale» una semplice pulsione erotica, credendo magari di avere
un’esperienza mistica o «atematica». Inoltre, non si pone il problema di rinunciare
al piacere sessuale in nome delle esigenze dello spirito, dato che queste sono
ricondotte al sesso. Da qui la perdita di senso del voto di castità. E ciò
spiega, almeno in parte, la defezione di migliaia di religiosi nei decenni
seguìti al Concilio Vaticano II, non certo per colpa del Concilio, ma perché influenzati
dall’antropologia rahneriana.
Il piacere
corporale è parte integrante della felicità
S.Tommaso
concorda con Aristotele[46]
nel riconoscere che ogni uomo cerca spontaneamente la felicità, così come ogni agente cerca il
proprio bene o agisce necessariamente per un fine, che lo soddisfi. Come tutti
cercano la felicità, così tutti cercano il piacere[47].
Ma il problema è sapere dov’è il vero
piacere, in quali beni consiste la felicità o che cosa occorre per essere
felici, e che cosa dà la vera felicità. Non tutti infatti sanno che questo fine
ultimo ed assoluto, questo sommo bene è Dio. E quindi non tutti dicono con S.Agostino:
«cor nostrum inquietum, donec requiescat in Te».
Tommaso, nel
Commento (expositio) all’Etica a Nicomaco
di Aristotele dà una definizione formale o astratta della felicità, sulla quale
tutti possono convenire, perché corrisponde ad un’inclinazione propria della
natura umana come tale. Invece nella Summa
Theologiae dà una definizione materiale o di contenuto, ossia definisce in che consiste la vera felicità.
Tommaso, infatti,
dopo aver passato in rassegna una serie di valori, chiedendosi per ciascuno se in
esso si trova la beatitudine, giunge alla fine a concludere che solo in Dio
l’uomo può trovare la sua vera felicità[48].
Di particolare interesse per il nostro tema è l’articolo nel quale Tommaso si chiede
se la beatitudine consiste nel piacere sensibile. E risponde:
«Il
bene che riguarda il corpo, che si apprende col senso, non può essere il bene
perfetto dell’uomo. Dato infatti che l’anima razionale eccede la proporzione
della materia corporale, quella parte dell’anima che è sciolta dall’organo corporeo,
ha una certa infinità rispetto allo stesso corpo ed alle parti dell’anima legate
(concretarum) al corpo. Così come le cose
immateriali sono in qualche modo infinite rispetto alle materiali, per il fatto
che la forma nella materia in qualche
modo si contrae e si finitizza, per cui la forma sciolta dalla materia è in qualche
modo infinita. Per questo, è evidente che il bene che conviene al corpo, il
bene che in forza dell’apprensione sensibile causa il piacere corporale, è un che
di minimo a confronto del bene dell’anima. Per questo, il piacere corporale non
è la beatitudine e non è per sé neppure un accidente della beatitudine»[49].
Da notare
che qui Tommaso sta parlando del bene perfetto, che soddisfa pienamente le più
alte aspirazioni dell’uomo. Ma l’Aquinate non esclude affatto nei bisogni e
nelle inclinazioni o aspirazioni naturali dell’uomo una gerarchia di beni, di valori
e di fini tra di loro collegati ed ordinati, sì che se c’è un bene sommo e perfetto,
esistono anche beni imperfetti, esistono gradi di perfezione e di appetibilità,
tutti appartenenti alla natura umana, cosicchè la vera e piena beatitudine non si
esaurisce affatto nel solo conseguimento dei beni di grado massimo, ad
esclusione di quelli inferiori, ma, al contrario, nel soddisfacimento di tutti i bisogni, dai minimi ai massimi.
Per questo, Cristo avverte che non perderà la sua
ricompensa chi avrà dato un solo bicchiere di acqua fresca ad uno dei suoi piccoli
(cf Mt 10,42). Per questo Tommaso dice che la beatitudine dell’anima separata
non ha ancora raggiunto quella pienezza, che otterrà, allorchè essa alla
resurrezione riassumerà il suo corpo.
Ma di fatto certamente
non tutti convengono nel fare di Dio il proprio fine ultimo e la propria
felicità, perché ognuno, in forza del suo libero arbitrio, ha la possibilità di
scegliere ciò che per lui è la felicità. Da qui la possibilità di scegliere una
falsa felicità, che lascia insoddisfatti.
Commentando
Aristotele, Tommaso dice
«che cosa sia la felicità diventa manifesto considerando
l’operazione dell’uomo. Di ogni cosa infatti che ha la sua propria operazione,
questa è il suo bene. E la ragione di ciò è data dal fatto che il bene finale
di qualunque cosa è la sua ultima perfezione. Ora, la forma è la perfezione
prima, ma l’operazione è la perfezione seconda. E così resta che il bene finale
di qualunque cosa va cercato nella sua operazione. Se esiste dunque un’operazione
propria dell’uomo, è necessario che nella sua operazione propria consista il suo
bene finale, il che è la felicità. E dunque la felicità è l’operazione propria dell’uomo»[50].
Più avanti
Tommaso aggiunge:
«la felicità è il massimo di tutti i beni
umani»[51].
Essa «si cerca per se stessa e non per altro»[52].
Essa comporta una certa requie (requies)
o riposo (vacatio) dall’azione[53].
«La felicità è contenuta in quelle operazioni che sono eligibili di per sé e
non in vista di altro»[54].
Qui appare un aspetto contenutistico: «La felicità è l’operazione dell’anima razionale
secondo le virtù»[55],
«secondo la virtù ottima»[56]
e che procura piacere[57].
«Il piacere che consegue al bene perfetto
è la stessa essenza della beatitudine»[58].
Tommaso
viene così a distinguere una felicità oggettiva
e reale, che è il vero sommo bene per tutti in se stesso, ossia Dio, da una
felicità soggettiva, che è il
riflesso emotivo nel soggetto di ciò che il soggetto ha scelto come suo bene e
sua felicità. È il piacere (delectatio),
piacere sensibile o spirituale, che è buono, se l’oggetto è moralmente buono o permesso,
mentre è cattivo e peccaminoso, se l’oggetto è moralmente cattivo o illecito.
Il soggetto
è veramente felice, se prende piacere nel bene oggettivo sensibile o
intellegibile. Resta invece infelice, checché ne dica il suo orgoglio, se invece
prende piacere non nell’adeguarsi al bene oggettivo, ma nella pretesa o nella presunzione
di decidere lui del bene e del male, al posto di Dio, come ha voluto fare Adamo
nel paradiso terrestre.
Tommaso inquadra
il discorso sul piacere sensibile in quello più ampio concernente la felicità (felicitas) o la beatitudine (beatitudo). Questi due concetti sono
pressochè identici. Se vogliamo trovare una
differenza, essa è data dal fatto che la felicitas,
l’eudaimonìa aristotelica, riguarda il fine naturale dell’uomo, e
quindi la filosofia[59],
mentre la beatitudine (gr. makarìa)
tocca di più il conseguimento del fine soprannaturale, la visione beatifica.
Così corrispettivamente il piacere (delectatio)
tocca di più il naturale e il fisico, mentre il gaudio o la gioia (gaudium) riguarda di più lo spirituale e
il soprannaturale.
S.Tommaso,
come è noto, ammette la beatitudine dell’anima separata in grazia dopo la
morte, nell’attesa di riprendere il proprio corpo alla Parusia di Cristo. L’intelletto
dell’anima separata in cielo gode dell’eterna beatitudine, che consiste nella
visione intellettuale immediata dell’essenza divina, senza che occorra l’uso
dei sensi, che peraltro sono assenti[60]. La volontà gode senza che occorrano le
passioni, qui inutili, data la pura spiritualità dell’oggetto divino, e del
resto esse pure assenti per la mancanza del corpo.
Ora il
piacere spirituale, benchè superiore a quello sensibile, non lo può sostituire,
perché è di differente qualità. Questo lo sperimentiamo già nella vita presente:
la gioia che dà la divina contemplazione non ci ripaga dell’assenza dei beni
sensibili necessari alla vita personale e di relazione, a cominciare dal
rapporto uomo-donna, che è quello più radicale.
Dunque la
beatitudine della visione di Dio in cielo non è perfetta sotto ogni punto di
vista, perché mancano i piaceri sensibili. Tommaso non si addentra in questa
questione per chiarire come allora si può parlare di beatitudine. Possiamo
allora distinguere con Tommaso una beatitudine oggettiva, che è Dio stesso, da
una beatitudine soggettiva, che è la gioia che deriva da Dio[61].
Dio certo, come oggetto della visione, è purissimo Spirito. Probabilmente il nirvana buddista è la beatitudine
soggettiva, senza riferimenti oggettivi o verbalmente espressa.
Ma, dato che
Egli è il creatore tanto del piacere spirituale che di quello sensibile, si può
pensare che nella gioia della visione, che Egli infonde nel soggetto, sia contenuto
virtualmente anche quel piacere sensibile, che l’uomo avrebbe, se possedesse il
suo corpo.
Comunque è
chiaro per Tommaso, che concepisce l’uomo come composto di anima e di corpo, a
differenza di Platone, per il quale l’uomo è beato liberandosi dal corpo, che l’anima,
con la riassunzione escatologica del suo corpo, raggiunge la pienezza assoluta
della sua beatitudine. Infatti, come egli dice,
«per
la beatitudine perfetta sotto ogni aspetto, si richiede la perfetta
disposizione del corpo»[62].
«Bisogna dire che è manifesto che la beatitudine dei santi dopo la resurrezione
aumenta estensivamente non solo nell’anima, ma anche nel corpo. Ed anche la
beatitudine della stessa anima aumenterà estensivamente, in quanto l’anima
godrà non solo del bene proprio, ma anche del bene del corpo. Il corpo umano,
infatti, si può considerare in due modi: in un modo, in quanto è perfettibile
dall’anima; in un altro modo, in quanto c’è in lui qualcosa che contrasta con l’anima
nelle sue operazioni, in quanto il corpo non è perfettamente perfezionato
dall’anima.
Secondo
la prima considerazione del corpo, la sua congiunzione con l’anima aggiunge
all’anima una certa perfezione, perché ogni parte è imperfetta e trova compimento
nel suo tutto; per cui il tutto si rapporta alla parte come la forma alla materia.
Per cui l’anima è più perfetta nel suo essere naturale quando è nel tutto,
ossia nell’uomo composto di anima e corpo, che quando è di per sé separata. Ma
l’unione del corpo quanto alla seconda considerazione, impedisce la perfezione dell’anima.
Per questo, in Sap 9,15 è detto che
“il corpo che si corrompe aggrava l’anima”.
Se
dunque si toglie dal corpo tutto ciò che fa resistenza all’anima, semplicemente
l’anima sarà più perfetta nel corpo che non per sè separata. Ma quanto più
qualcosa è perfetto nell’essere, tanto più perfettamente può operare. Per cui
l’operazione dell’anima congiunta a tale corpo sarà più perfetta dell’operazione
dell’anima separata. Ora, tale corpo è il corpo glorioso, che sarà totalmente
soggetto allo spirito. Per cui, dato che la beatitudine consiste in un’operazione,
la beatitudine dell’anima sarà più perfetta dopo la riassunzione del suo corpo
che prima; per questo, come l’anima separata dal corpo corruttibile può operare
più perfettamente che non ad esso congiunta, così, dopo che sarà congiunta al corpo
glorioso, sarà più perfetta nella sua operazione di quando era separata. Ma
ogni imperfetto appetisce la sua perfezione.
E
quindi l’anima separata naturalmente desidera la sua congiunzione col suo
corpo. E per questo appetito, procedente dall’imperfezione, la sua operazione, con
la quale si porta in Dio, è meno intensa»[63].
Una soluzione
sbagliata di come l’anima separata potrà essere felice senza il corpo fu quella
del Card.Giacomo Biffi, il quale negò l’intervallo eviterno fra la morte dell’individuo
e la resurrezione alla fine del mondo, asserendo che la sua resurrezione avviene
subito dopo la morte. Ma la CDF nel 1979 emanò una Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia, nella quale condannò
la posizione di Biffi, il quale si ritrattò poco tempo prima della morte[64].
Sebbene la resurrezione
gloriosa avvenga dopo la morte alla fine del mondo, S.Paolo sembra accennare
alla possibilità di una qualche pregustazione o di un certo anticipo della resurrezione
sin dalla vita presente, simili ai primi bagliori dell’alba, quando parla di
«primizie» (Rm 8,23) e di «caparra» (II Cor 1,22) dello Spirito, oppure della «nuova
creatura») Gal 6,15), dell’«uomo nuovo» (Ef 2,15) e del’«uomo spirituale» (I
Cor 2, 15; cf 15,48-49), nati dal Battesimo.
Non si tratta
forse degli inizi del superamento della natura corrotta e dei prodromi della natura
risorta? Indubbiamente Paolo si riferisce anzitutto all’«uomo interiore» (II
Cor 4,16), dal quale inizia il lavoro della grazia; ma esso, nel corso della vita
del cristiano, produce frutti anche all’esterno, nelle opere buone e negli
stessi sentimenti dell’animo e del cuore. I sensi si affinano, anche nel
deperimento fisico dell’anzianità, le agitazioni si placano, le passioni sono
più docili e si purificano, le emozioni si elevano e lo stesso piacere
sensibile diventa più intenso e nel contempo più onesto.
Il corpo
risorto per Tommaso ha tutti i sensi in atto: «Tutti ammettono che nei corpi risorti
vi sia qualche sensibilità»[65].
«L’occuparsi dei sensi circa i sensibili non impedirà in nulla la divina
contemplazione»[66].
La gioia dell’incontro fra uomo e donna sarà scevra di qualunque turbamento:
«Sarà assente la confusione del mutuo vedersi, perché non ci sarà la libidine
che incita ad atti turpi, dai quali nasce la confusione»[67].
Tommaso vede
tuttavia l’unione sensibile tra uomo e donna solo nel quadro dell’atto
generativo della vita presente e non come espressione dell’amore («una sola
carne»), che trascende le condizioni di quaggiù; per cui, considerando che nella
futura condizione dei risorti non occorrerà più la riproduzione della specie, Tommaso
esclude in loro l’unione sessuale[68].
Ci potremmo
chiedere, però, se, considerando che nella resurrezione l’amore tra uomo e
donna sarà perfetto, la tesi di Tommaso possa reggere, anche se naturalmente,
in caso negativo, dobbiamo comunque riconoscere con franchezza ed umiltà che nella
vita presente non abbiamo idea di come potrà
configurarsi ed esprimersi una differenza sessuale non generativa, perché questa
differenza per adesso è fatta per servire alla generazione.
Essa può
essere immaginata solo in rapporto al sesso come lo conosciamo adesso, ma è
chiaro che questo è un’immagine del tutto inadeguata a rappresentare la misteriosa
e sublime bellezza e dolcezza dell’unione escatologica, nella quale uomo e donna
resteranno animal rationale, ma
questa animalità sarà trasfigurata dallo spirito in un modo che oltrepassa la nostra
immaginazione di quaggiù, inquinata dalle conseguenze del peccato originale.
Occorre fare
attenzione, riguardo al conseguimento
della felicità, che un conto è l’inclinazione universale e necessaria dell’uomo
verso la felicità e un conto è l’inclinazione attuale della volontà umana verso
Dio. In base a quanto ho detto, è chiaro che le due cose non coincidono sempre
e necessariamente in ogni uomo, perché vi sono anche coloro che scelgono di non
porre la loro felicità in Dio, ma nelle creature.
Tutti, in
verità, hanno bisogno di Dio per essere felici. Ma con tutto ciò non tutti
pongono in Dio la loro felicità. La tendenza verso la felicità è essenziale ed inevitabile
in ogni uomo. Nessuno vuol essere infelice. Possono bensì esserci casi di
masochisti autolesionisti, che provano gusto nell’essere infelici o nell’autodistruggersi.
Ma questi sono rari casi patologici. Invece, la tendenza volontaria ed
intenzionale verso Dio è effetto, in ciascuno, di libera scelta. Erra quindi
Rahner, quando identifica l’orientamento apriorico dell’uomo verso la felicità
con l’orientamento dello spirito verso Dio o, come la chiama, con
l’«autotrascendenza verso Dio», con la conseguenza ereticale che tutti tendono
a Dio e tutti si salvano. Con questa tesi Rahner misconosce l’oscillazione
propria del libero arbitrio, che può scegliere per Dio ma anche sottrarsi.
Al riguardo,
occorre fare attenzione che, quando S.Tommaso dice che il libero arbitrio può scegliere
i mezzi[69],
ma non il fine, perché esso è precostituito, si riferisce all’aspetto formale del fine, ossia al fine appunto
come ciò in vista di cui si scelgono i mezzi. Ma Tommaso non esclude affatto la
necessità di dare un contenuto al
fine. E ciò è nelle mani del libero arbitrio, come risulta evidente, quando Tommaso
si chiede in che consista la beatitudine, ovvero in che consista il vero fine ultimo
dell’uomo[70].
E qui, passando in rassegna le varie possibilità, è evidente che elenca delle scelte
possibili e quindi mette in gioco il libero arbitrio.
Il piacere
sensibile è ordinato a quello spirituale
Siccome il corpo
è al servizio dell’anima, il senso al servizio dell’intelletto e l’affettività
deve servire la volontà, ne segue che il piacere sensibile, effetto delle
potenze più basse, dev’essere finalizzato al piacere dello spirito, effetto
della potenza più alta. «Le operazioni e i piaceri dell’intelletto sono più
puri delle operazioni e dei piaceri sensitivi, in quanto più immateriali»[71].
Tommaso dedica
allora una parte della sua dottrina sul piacere a dimostrare il primato dei
piaceri spirituali, e che, se quelli inferiori li ostacolano, non bisogna avere
dubbi a sacrificare gli inferiori ai superiori, per quanto ciò possa costare,
sapendo che ciò che viene lasciato quaggiù per il regno di Dio, ci viene
ridato centuplicato già dalla vita presente,
insieme con tribolazioni e la certezza della gloria futura (Mt 19,29).
Riprendendo
Aristotele, Tommaso ricorda che il diletto propriamente umano, al di sopra del
piacere animale, è il piacere di agire secondo retta ragione, ossia secondo
virtù. Si tratta di un piacere che tocca la volontà e quindi lo spirito. Tale
piacere non necessita del concorso del piacere sensibile, ma basta a se stesso,
mentre il piacere sensibile non sarebbe umano, se non fosse moderato dalla
ragione. Dice l’Aquinate:
«Per
coloro che amano il bene della virtù, sono piacevoli quelle cose, che lo sono secondo
natura, ossia quelle cose che convengono secondo ragione, che è la perfezione della
natura umana. E per questo gli uomini virtuosi si dilettano di queste cose.
Tali sono le operazioni secondo virtù, che sono naturalmente piacevoli per l’uomo,
in quanto compiute secondo retta ragione. Per cui non sono solo piacevoli rispetto
agli uomini stessi, ma lo sono anche per
se stesse. Invece le operazioni viziose sono piacevoli per quegli uomini, ai
quali sono conformi secondo gli abiti corrotti, che essi posseggono. Dato
dunque che ciò che è di per sè ed è tale
secondo natura, vale di più, il piacere secondo virtù è migliore degli altri piaceri»[72].
Aristotele
giunge a comprendere il primato del piacere della ragione rispetto a quello del
senso, ma come pagano ignora naturalmente le gioie superiori dello spirito, che
vengono dalla vita di fede. E qui abbiamo il paradosso cristiano della gioia
della Croce, tema ovviamente importante nel cristiano Tommaso, ma sul quale non
ci fermiamo per non uscire dal nostro tema, che tratta del piacere sensibile.
Un criterio
che Tommaso usa per sostenere il primato del piacere spirituale è dato dal
fatto che i beni sensibili, una volta
goduti, saziano e se se ne aggiungono altri, infastidiscono e fanno
male, come per esempio i cibi. Invece il godimento dei beni dello spirito può
stancare per motivi estrinseci legati al corpo, ma questi godimenti non hanno mai
termine, perché questi beni in se stessi non stancano ed anzi perfezionano il soggetto[73].
In secondo
luogo non il piacere sensibile, ma quello spirituale fa da criterio per
giudicare della condotta morale di un uomo: «È secondo il diletto della volontà
che si giudica se un uomo è buono o cattivo»[74].
È buono l’uomo che si diletta della virtù; cattivo, quello che si diletta del
vizio. Il piacere sensibile non è un criterio sufficiente per giudicare della
bontà di un atto umano, se questo piacere non è secondo virtù. Quindi, siamo
sempre ricondotti al piacere della virtù, che è un piacere spirituale.
In terzo
luogo, Tommaso paragona i peccati spirituali a quelli carnali. Entrambi i generi
di peccati comportano un piacere, spirituale nel primo caso; sensibile, nel secondo, ma ovviamente
peccaminoso. Siccome i primi offendono valori più alti, sono più gravi ed hanno
più malizia. Assimilano l’uomo al demonio. I secondi, invece, per quanto
abbrutiscano l’uomo, rispecchiano maggiormente la sua fragilità. Assimilano l’uomo
alle bestie.
In quarto
luogo, Tommaso riprende il tema platonico, che poi troviamo anche nella
Scrittura, della transitorietà, precarietà ed incertezza dei piaceri sensibili,
a confronto con la permanenza, immutabilità e certezza di quelli spirituali: «i
piaceri sensibili e corporali si realizzano nel movimento e nella generazione»[75].
L’argomento non pare troppo persuasivo, considerando che i piaceri sensibili
sono destinati a risorgere nella vita futura.
Le ragioni
dell’astinenza sessuale
Il
conseguimento dei beni più alti può richiedere la rinuncia al piacere
sensibile. Ma l’astinenza sessuale nella vita presente («eunuchi per il regno
dei cieli», Mt 19,12) non è motivata dalla prospettiva di una totale estinzione
dell’unione tra uomo e donna nella vita futura; al contrario, serve a
purificarla e a prepararla per un suo nobilitato ripristino così come essa era
ed era stata voluta da Dio nell’Eden («una sola carne»).
Similmente,
se uno si frattura un braccio, deve tenerlo immobile ed inutilizzato, finchè la
frattura non si sarà ricomposta, perché nella sua condizione di arto
fratturato, non può essere utilizzato. Così l’unione sessuale, espressione di
per sé naturale dell’unione spirituale, nella vita presente, a causa della
concupiscenza, di fatto è di ostacolo alle alte elevazioni dello spirito.
S.Tommaso
motiva pertanto il voto di castità con l’esigenza di consentire al soggetto,
nella vita presente, la massima libertà possibile di consacrarsi a Dio[76].
Tuttavia, quando tratta del proposito di verginità, sotto l’influsso di
S.Ambrogio, loda questo proposito perché manterrebbe l’«integrità della carne»[77]
evitandone la «corruzione», come se l’atto sessuale non fosse attuazione di una
potenza naturale. È evidente qui l’influsso platonico, che fa dimenticare a
Tommaso il principio aristotelico che l’esercizio di una potenza vitale
sensibile non corrompe il soggetto, ma lo perfeziona. Ma, come sappiamo, per
Platone l’attività del corpo non favorisce, ma imprigiona l’anima nella
materia.
Il compito
di quaggiù, per Tommaso, è pertanto quello di far sì che gradatamente, per mezzo di un’opportuna e
perseverante disciplina ascetica, sostenuta dalla grazia, torni a costituirsi
quella unità della persona e quella concordia fra uomo e donna, quella
congiunzione fra anima e corpo, quell’armonia tra spirito e sesso, tra volontà
e passione, tra mente e cuore, tra appetito sensibile e appetito spirituale,
che esisteva nell’Eden e che dovrà tornare e rivivere in pienezza nella futura
resurrezione.
Sappiamo che
nella resurrezione vi sarà l’unione dell’uomo con la donna, che è l’unione più
perfetta che possa esistere tra due persone umane e che procura, come riconosce
S.Tommaso, il massimo di tutti i piaceri sensibili, appunto perchè è un’unione
amorosa interpersonale in una perfetta complementarità reciproca. Infatti,
tutti gli altri piaceri sono legati al sostentamento ed all’interesse
dell’individuo, mentre quella unione è l’attuazione della più perfetta e più
intima relazione sociale dell’individuo, che è un bene superiore a quello
stesso dell’individuo.
Tuttavia,
dato che il sesso di quaggiù è costitutivamente strutturato in funzione della
generazione, che sarà assente nella resurrezione, noi non sappiamo, per adesso,
come si configurerà fisicamente la comunione escatologica, ossia come saranno
esattamente il corpo maschile e quello femminile non generativi dei
risorti. L’assenza del matrimonio (Mt
22,30), della quale parla il Signore, non vuol dire assenza dell’unione
uomo-donna, ma assenza della generazione, che è appunto il fine del matrimonio.
Quella donna non avrà sette mariti, ma sette amici.
Il Salmo esprime in modo terreno queste
amicizie escatologiche: «Figlie di re stanno tra le tue predilette; alla tua
destra la regina in ori di Ofir» (Sal 45,10). L’amore esclusivo, necessario e
caratteristico per il matrimonio, sarà sostituito da un amore preferenziale.
Questa pluralità di rapporti uomo-donna ha un qualche riscontro, se vogliamo,
nell’istituto veterotestamentario del concubinato, usuale nei sovrani o in
personaggi eminenti, anche santi, come vediamo in Abramo, Davide e Salomone.
Naturalmente è chiaro che questo istituto è solo un simbolo grossolano ed una
pallida ombra delle amicizie celesti, giacchè lassù la concupiscenza sarà
totalmente scomparsa, e sostituita da una serena reciprocità personalistica fra
uomo e donna su di un piede di pari dignità.
Invece il
concubinato biblico suppone una mascolinità connotata da una travolgente
sensualità, che Gesù chiama «durezza di cuore» e legata a una concezione del rapporto uomo-donna sul
modello signore-suddito, per non dire padrone-schiavo, conseguenza del peccato
originale (Gen 3,16).
Certamente
esiste l’istituto veterotestamentario del matrimonio, per cui abbiamo che la
moglie si accompagna alla concubina, la
prima omologata a una suddita; la seconda a una schiava. Ma in ogni caso la
donna non è considerata dal maschio come una persona alla pari, che gli sia
«simile» (Gen 2,18) e con la quale interloquire (Gen 2,23), sì da essere con
lei «una sola carne» (Gen 2,24), ma bensì uno o più soggetti attraenti e
piacevoli, dei quali il maschio è proprietario per soddisfare la sua
concupiscenza, così come si possiede una cantina di vini pregiati o una
dispensa piena di formaggi francesi. Qualcosa di questa concezione lo
ritroveremo persino nella concezione paolina del matrimonio, benché monogamico,
inteso come «rimedio alla concupiscenza».
Cristo, come
è noto, propone il modello edenico (Mt 19,8) e quello escatologico (Mt 22,30),
benché siamo ancora nella vita terrena. Nei riguardi del rapporto uomo-donna,
come in tutte le cose, Cristo è venuto per restaurare ciò che era «al
principio», per condurlo alla fine, ossia alla pienezza della resurrezione
finale, attraverso la croce. L’astinenza sessuale rappresenta il momento della
croce necessario per ritrovare l’Eden e condurlo alla resurrezione. È
l’ingessatura del braccio, che prepara il riacquisto della sua motilità. È il
digiuno quaresimale dopo l’eccesso, per preparare il banchetto della Pasqua.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 19 aprile 2019
[1] Summa Theologiae, II-II, q.153, a,1, ob.3.
[2]
Ibid., I-II, q.31, a.1.
[3] Ibid., q.31, a.1, 2m; q.2, a.6,
1m; cf I-II, q.34, a.1.
[4] Ibid., I-II, q.32, a.1.f
[5] Ibid.
[6] In X libros Aristotelis Ethicorum ad Nichomacum expositio, l.X,
c,IV, lcet.VI, n.2037. p.529.
[7] II-II. q.152, a.2.
[8] I-II, q.22.
[9] II-II. q,141, a.3.
[10] Ibid.
[11] Ibid., I, q.80, a.2.
[12] Ibid., I-II. q.34, a.1.
[13] In X libros Ethicorum Aristotelis ad Nichomacum expositio,
Marietti,Torino 1964, l.X, c.IV, lect.VI, nn.2022, 2025.
[14] Ibid., q.33, a.4.
[15] Ibid., q.31. a.6.
[16] Ibid., I, q.98, a.3.
[17] II –II, q.153, a.1, ob.1.
[18] Ibid., q.46, a.3; cf anche II-II,
q.15, a.3 e q.153, a.5.
[19] I, q,5, a.4, 1m. Cf J.Maritain, Art et scolastique, Desclée de Brouwer,
Bruges 1965.
[20] II-II, q.155, a.2.
[21] Ibid., II-II, q.186, q.4.
[22] Ibid.
[23] Ibid., q.141, a.4.
[24] Ibid., q.153, a.4.
[25] Ibid., q.151, a.3, 2m.
[26] Suppl., q.49., a.1.
[27]
II-II, q.156, a.1.
[29] Ibid., I-II, q.2, a.6. 1m.
[30] Ibid., I, q.80, a.2.
[32] Ibid., q.83.
[33] Ibid., q.81, a,2.
[34] Ibid., q.81.
[35] Ibid.
[36] Ibid., I-II, q.26, a.1; a.4; q.30,
a.1; a.2.
[37] Ibid., II-II. q.153, a.2, 2m;
a.5; I, q.81, a.3; Suppl., q.49, a.4, 2m.
[38] In X libros Aristotelis, op.cit., l.III, c.IV, lect.V, n.441, p.125.
[39] Op.cit., l.X,c.V, lect.VIII,
n.2052, p.535.
[41] Ibid., I-II, q.25, a.2.
[42] Sir 23,5; Gc 1,14; II Pt 1,4; Rm
7,7.
[43] I Gv 2,16.
[44] Denz.1515.
[45] Ibid., I-II, q.35, a.2.
[46] Vedi l’importante studio di
Maritain sull’etica di Aristotele: La
scoperta della morale. Aristotele, in La
filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana,
Brescia 1971, c.III.
[47] I-II. q.34, a.2, 3m.
[48] Ibid., q.2, a.8.
[49] Ibid., q.2, a.6.
[50] In Ethicorum Aristotelis ad Nichomacum expositio, l.I, c.VI, lect.X,
nn.119-120, Marietti, Torino, 1964, pp.32-33.
[51] Ibid., n.172.
[52] n.2097.
[53] nn.2098-2099.
[54] n.2069.
[55] n.173.
[56] n.2080.
[57] n.2078.
[58] I-II, q.2, a.6.
[59] Ecco allora i commenti ad
Aristotele.
[60] I-II, q.3 ,a.8.
[61] Ibid., q.34, a,3.
[62] Ibid., q.4, a.6.
[63] Suppl., q.93, a.1.
[64] Io ho confutato la tesi di Biffi
nel mio libro La Gloria di Cristo,
edizioni ESD, Bologna 2001, pp.173-178.
[65] Ibid., q.82, a.3.
[66] Ibid.
[67] Ibid., q.81,
a.3.
[68] Ibid, q.81, a.4.
[69] I. q.84, aa.3-4.
[70] I-II, q.2.
[72] Op. cit,. l.I, c.IX, lect.XIII,
n.156, p.42.
[73] I-II, q.33, a.2.
[74] Ibid., q.34, a.4.
[75] Ibid., q.34, a.3.
[76] II-II. q.186, a.4.
[77] Ibid., q.152, a.1.
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