La logica della doppiezza - Terza Parte (3/3)

  La logica della doppiezza
 
Terza Parte (3/3)

La dialettica al posto della scienza

Aristotele, codificando la dialettica, ha dato uno statuto legale a una situazione di disagio della ragione umana, desiderosa di verità, ma di fatto attratta da due forze contrarie, una che la spinge ad acconsentire al vero e l’altra a rifiutarlo, sicchè non riesce o non vuole trovare la certezza.  Non è sempre questione di cattiva volontà, ma si tratta di una reale debolezza o propensione agli opposti, insita nella stessa ragione.

Lo sbaglio che sarà quello di Hegel, è quello di adagiarsi o rassegnarsi a questa conflittualità, che può offrire un disonesto profitto facendone un assoluto anziché trovare la via per superarla e raggiungere l’identità del vero, che è ciò che è e non può essere e non essere ad un tempo la stessa cosa.

Aristotele, infatti, al quale non piacevano gli infingimenti e le ipocrisie, non seppe rassegnarsi a questo scetticismo ed anzi giustamente lo odiava,  per cui, preso atto di questa situazione apparentemente disperata, riuscì a trovarne  l’aspetto positivo e formativo, e capì che la ragione può giungere alla verità e alla scienza, ma solo a condizione di prepararsi ad essa col cammino della dialettica, ossia del confronto fra opinioni opposte, come del resto aveva già tentato Platone, solo che lui non era riuscito a costruire una logica della dimostrazione, perché, turbato dalla fluidità e vanità del divenire, troppo scettico nei confronti dell’esperienza sensibile,  si era rifugiato nel mondo delle idee, senza mostrarci come si fa a salire ad esse partendo dall’esperienza, cosa propria invece del metodo induttivo che costituisce il sapere scientifico.

Diamo un esempio di come Hegel applica il principio dialettico di contraddizione alla questione dell’opposizione fra il bene e il male. In base al principio di contraddizione il bene, per Hegel, s’identifica col male. Dice egli infatti:

 

«Essendo il male la stessa cosa che il bene, proprio il male non è male, né il bene è bene, ma piuttosto sono tolti ambedue; il male in genere, l’esser-per-sé entro se stesso essente; il bene, il semplice privo di sé. Mentre così ambedue vengono espressi secondo il loro concetto, diviene chiara nel tempo stesso la loro unità, perché l’esser-per-sé in se stesso essente è il sapere semplice; è il semplice privo di sé è altrettanto il puro esser-per-sé entro se stesso essente.

 

Come perciò si deve dire che il bene e il male secondo questo loro concetto in quanto cioè non sono il bene e il male, sono la stessa cosa, altrettanto devesi dunque dire che essi non sono la stessa cosa, ma semplicemente diversi, perché il semplice esser-per-sé o anche il puro sapere sono medesimamente la pura negatività o l’assoluta differenza in loro stessi. Soltanto queste due proposizioni compiono l’intero; e all’affermazione e all’assicurazione della prima devesi con inoppugnabile pervicacia opporre l’attenersi all’altra; mentre hanno ragione ambedue, ambedue hanno torto, e il loro torto consiste nel prender per alcunché di vero, di saldo, di effettuale tali forme astratte, quali lo stesso e il non lo stesso, l’identità e la non identità nel basarsi su di esse»[1]-

Ora, la logica del ragionatore sofista non è altro che la logica hegeliana, cioè non fondata sul principio di non-contraddizione, ma sul principio di contraddizione, ampiamente illustrato dallo stesso Hegel in un capitolo della sua Scienza della Logica appunto dedicato alla Contraddizione[2]. Siamo qui nel cuore della logica hegeliana. La contraddizione è la sua molla fondamentale così come la non-contraddizione è l’obbligo fondamentale della logica della sana ragione e quindi della logica cristiana.

Sfidiamo chiunque, anche il più esperto in logica, hegeliano convinto, a spiegarci che cosa Hegel vuol dirci in quelle 15 pagine dedicate alla contraddizione, che sono un susseguirsi vorticoso ed intricato, senza dar respiro, di termini che si rincorrono, si affermano, si negano, si escludono, si includono, si riflettono e si mediano, si pongono e si tolgono. Sono 60 anni che frequento il pensiero di Hegel, conosco hegeliani e antihegeliani, ma non mi è mai capitato di leggere qualcuno che si sia addentrato in quella «selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!», come dice il divino Poeta.   

Se il principio di non contraddizione prescrive di non contraddire al vero e di non contraddirsi, la logica della contraddizione si basa sul contraddire e sul contraddirsi. Il contraddirsi, ossia l’incoerenza e contradditorietà del ragionare nascono dall’opposizione del giudizio nei confronti della verità; la ragione nega ciò che è vero, e dà per vero ciò che è falso. È il principio della menzogna. Doveroso invece nella logica della non-contraddizione è contraddire al falso, mostrando la ragione per la quale il falso è falso.

Ora bisogna distinguere il discorso contraddicente dal discorso contradditorio. Contraddire può essere un dovere, se si tratta di opporsi al falso, ma il discorso contradditorio è sempre da respingersi perché non costruisce niente, ma distrugge da una parte ciò che edifica dall’altra, trattasse anche un tema in sé validissimo.

Nel discorso contradditorio, infatti, la ragione afferma e nega simultaneamente del medesimo soggetto il medesimo attributo. Questo giudizio che nega se stesso si confuta o annulla da solo e quindi non ha senso. Non occorre confutarlo. Sarebbe come se dicessi che l’uomo è non è un animale razionale. Invece il discorso contraddicente ha senso perché afferma qualcosa di intellegibile. Tuttavia è falso perché contraddice alla verità. Se per esempio dicessi che l’uomo è uno spirito, la mia frase è intellegibile. Essa nasconde un’impossibilità, ma essa non appare immediatamente. Và dimostrata mediante la sua confutazione.

Viceversa, il metodo della logica hegeliana comporta un concetto di verità che sintetizza il vero col falso, assumendo l’uno e l’altro in un concetto di verità che non suppone l’esclusione del falso, ma lo assume come fosse fattore di verità. Per Hegel chi pretende di affermare il vero escludendo il falso assume una posizione unilaterale, non considera il vero nella sua pienezza, in quanto il falso secondo lui non si oppone al vero ma concorre alla sua costituzione.

Anzi per Hegel non l’affermazione, ma la negazione è il fattore della verità. L’affermazione è fatta per essere negata e in questo negare la negazione nega se stessa e ricostituisce l’affermazione. È questa la famosa dialettica hegeliana. È la stessa affermazione che nega se stessa ponendo un’antitesi a se stessa, la quale, per sua essenza nega se stessa e ristabilisce l’affermazione, in modo tale che la pienezza del vero è la sintesi dell’affermazione e della negazione, del sì e del no, esattamente l’opposto della logica evangelica dell’affermazione del sì e dell’esclusione del no.

Quindi per Hegel il vero non è vero senza il falso. E il falso è il lato negativo del vero. Non si deve mai pronunciare un sì assoluto con un no assoluto, ma si deve sempre affermare concedendo spazio anche alla negazione, perché il negativo è semplicemente un diverso, che concorre alla pienezza del vero. Non c’è nulla di certamente falso, perchè il vero può essere sempre smentito, per cui ha bisogno del falso per esistere come vero. La verità è solo la sintesi del sì e del no. Unendo il sì al no e riducendo il negativo al diverso Hegel confonde ciò che va separato e scambiando il diverso col negativo separa ciò che va unito. Dice Hegel:

 

«Che l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato nonchè reale solo nella sua connessione con altro guadagni una propria esistenza determinata e una distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare, del puro Io.

 

La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo il mortuum, questo è ciò a cui si richiede la massima forza. … Non la vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. … Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo, come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza solo perché sa guardare un faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»[3].

 

«Il processo che conduce alla scienza del vero che è nella forma del vero, sembra meramente negativo; e potrebbe darsi che si volesse evitare di avere a che fare con il negativo inteso come il falso e si pretendesse di venir condotti senz’altro alla verità; a che impacciarsi del falso? Sopra si è fatto cenno a quel modo  che vorrebbe cominciare subito con la scienza; a ciò si conviene ora rispondere più particolarmente, mostrando quale sia la natura del negativo inteso come falso.

 

Le rappresentazioni che si hanno circa questo punto costituiscono il principale impedimento a penetrare nella verità. … Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che privi di movimento, vorrebbero valere come particolari essenze, delle quali l’una sta di qua e l’altra di là rigidamente isolate e senza reciproca comunanza. Contro una simile concezione si deve decisamente affermare che la verità non è moneta coniata, la quale, cos com’è, possa venir spesa e incassata. C’è un falso, quanto poco c’è un cattivo. Falso e cattivo non sono mica perfidi come il diavolo, tant’è vero che, volendoli prendere per diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolari; mentre essi, in quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali, pur avendo, l’uno rispetto all’altro, una propria natura. Il falso (chè solo di esso qui si vuol parlare) sarebbe l’altro, il negativo della sostanza, la quale, in quanto contenuto del sapere, è il vero. Ma la sostanza stessa è essenzialmente il negativo, vuoi come distinzione e determinazione del contenuto, vuoi come semplice distinguere, ossia come sé e sapere in genere. Si può ben sapere falsamente.

 

Alcunché viene saputo falsamente significa: il sapere è un’ineguaglianza con la sua sostanza. Ma proprio tale ineguaglianza è il distinguere in generale, che è momento essenziale. Da tale distinzione deriva l’uguaglianza della distinzione stessa e tale eguaglianza, divenuta, è la verità. Ma questa è verità non come se l’ineguaglianza fosse stata eliminata. … Anzi l’ineguaglianza stessa è ancora immediatamente presente nel vero come tale, è presente come il negativo, come sé. Il falso, non più come falso, è un momento della verità»[4].

 

«La filosofia non considera la determinazione inessenziale, ma la considera in quanto è essenziale. Elemento e contenuto della filosofia non è l’astratto o il non effettuale, ma l’effettuale, l’autoponentesi, ciò che vive in sé, l’essere determinato che è il proprio concetto. L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo e la verità del positivo medesimo, Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso, qualora potesse venir considerato come alcunché dal quale si debba fare astrazione.

 

Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato esso stesso come essenziale, cioè non è da considerare nella determinazione di alcunché di rigido, che, tagliato via dal vero, debba venire abbandonato, dove che sia, al di fuori di questo; né d’altronde il vero è da considerare come un qualcosa di positivizzato e morto, giacente inerte dall’altra parte.

 

L’apparire è un sorgere  e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l’effettualità e il movimento della vita della verità. Per tal modo il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro: e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve, il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice. Nel tribunale di tal movimento non sussistono né le singole figure dello spirito, né i pensieri determinati; ma essi, come sono momenti negativi e dileguanti, così anche sono positivi e necessari. Nell’intero del movimento, concependo l’intero come quiete, ciò che nel movimento medesimo viene distinguendosi e assumendo una particolare esistenza determinata è conservato come qualcosa che ha reminiscenza di sé; come qualcosa il cui essere determinato è il sapere di se stesso, mentre tale sapere è altrettanto immediatamente un essere determinato»[5].

 

Osservazioni critiche

La lettura di queste dichiarazioni di Hegel conduce a fare le seguenti osservazioni:

1.Hegel confonde l’affermazione con la negazione, per cui per lui è lecito affermare e negare uno stesso attributo di una stessa cosa. Per esempio, è vero dire tanto che Dio esiste quanto dire che non esiste. Dio esiste e non esiste, perchè l’essere è il non-essere e il non-essere è l’essere. Da qui proviene la tesi che Dio diviene, sulla base del concetto hegeliano del divenire come «unità dell’essere col nulla». Da qui la tesi hegeliana, mediata da Rahner, del Card. Martini, secondo la quale il credente ha sempre nella sua coscienza la tesi dell’ateo che lo contraddice. È ciò che nel linguaggio volgare si chiama «cerchiobottismo».

2. Hegel confonde la negazione con la contraddizione. Il negare serve per distinguere, per identificare, per determinare, per ordinare, per dividere, per unire, per diversificare, per proporzionare, per assimilare, per collegare, per comparare, per differenziare, per relazionare, per uguagliare, per opporre, per contrapporre, per limitare, per annullare, per includere, per escludere, tutte operazioni necessarie al procedere della ragione. La contraddizione è una proposizione che nega e confuta se stessa, annulla se stessa e diventa priva di senso.

3. La mediazione è confusa con la negazione. Per Hegel la mediazione non è un termine che partecipa degli estremi, ma è l’opposizione degli estremi. Il concetto è la negatività di sé mediata dall’opposizione di sé a sé; nel giudizio soggetto e predicato sono in contraddizione, mediati dalla copula che identifica il soggetto col predicato. Nel sillogismo il termine medio oppone la premessa alla conseguenza identificando la loro esclusione reciproca.

4. Hegel confonde anche la distinzione con la negazione. Le determinazioni dell’essere avvengono in Hegel solo per mezzo della negazione, ossia in modo dialettico, non analogico. Per questo il distinto, il differente, l’altro, il diverso non sono inquadrati nell’analogia, ma vengono interpretati solo con la categoria della negazione, non solo, ma anche della contraddizione.

In tal modo scompare ogni forma di proporzione, armonia, accordo, corrispondenza, somiglianza, affinità, convergenza, reciprocità e tutto si riduce e viene spiegato dialetticamente: posizione, negazione, negazione della negazione. Così non c’è altra scelta che tra l’opposizione e l’identità, la separazione e la confusione, la dualità e l’unità.

5. La dialettica sostituisce l’opposizione alla posizione: l’essere non esiste senza il nulla, il vero non esiste senza il falso, il bene non esiste senza il male, la vita non esiste senza la morte, l’infinito non esiste senza il finito e così via. Queste coppie di categorie che si richiamano a vicenda nella logica, diventano necessarie anche nella realtà ridotta a ente di ragione.

La dialettica hegeliana afferma negando, dissolve ciò che è stabile, assolutizza ciò che è relativo, confonde ciò che è distinto, attizza il conflitto anziché risolverlo, mette il contrasto dove c’è proporzione, legalizza la conflittualità scambiandola per una sintesi, unisce ciò che va separato, scambia l’alterità e la diversità con la negazione, vorrebbe conciliare ciò che è che incompatibile, relazionare ciò che non può aver rapporto,  sciogliere  la contraddizione reale come se fosse solo apparente.

San Tommaso ci mette in guardia, sei secoli prima di Hegel, contro l’impostura diabolica della logica hegeliana in un brano di alta sapienza nel quale egli distingue il vero filosofo dal sofista. Da come egli descrive il sofista, ne risulta un ritratto dell’idealista, ossia di colui che riduce l’essere all’apparire soggettivo, mentre il vero filosofo risulta essere il realista, ossia colui che riconosce essere ciò che è e non essere ciò che non è. Si riconosce facilmente nel sofista la logica hegeliana. Dice l’Aquinate:

«I dialettici e i sofisti si vestono dei panni del filosofo, quasi avendo somiglianza con lui: ma i dialettici e i sofisti disputano circa le cose predette» (ossia dell’ente, delle sue proprietà e dei contrari); «e dunque anche ai filosofi spetta considerare quelle cose. Per manifestare ciò Aristotele mostra come la dialettica e la sofistica assomigliano alla filosofia, ma anche se ne discostano.

Convengono in ciò che al dialettico spetta considerare tutte le cose (de omnibus). Ma ciò non sarebbe possibile, se non considerasse tutte le cose in quanto esse convengono in una qualche unità, poiché di una sola scienza unico è il soggetto e di una sola arte unica è la materia, circa la quale essa opera. Dato dunque che tutte le cose non convengono se non nell’ente, è chiaro che la materia della dialettica è l’ente e le proprietà dell’ente, delle quali anche il filosofo s’interessa.

Similmente anche la sofistica ha una qualche somiglianza con la filosofia. Infatti la sofistica è una sapienza solo apparente e non reale. Ora ciò che ha l’apparenza di qualcosa, deve in qualche modo assomigliargli. E quindi è necessario che il filosofo, il dialettico e il sofista considerino le stesse cose. Tuttavia differiscono fra di loro. Il filosofo differisce dal dialettico per il suo speciale potere. Infatti il filosofo possiede una potenza di pensiero superiore a quella del dialettico. Il filosofo infatti, circa quei suddetti valori comuni procede argomentativamente.

Per questo gli è concesso di raggiungere la scienza circa quelle cose. E le conosce con certezza. Infatti la conoscenza certa è l’effetto della dimostrazione.  Invece il dialettico, circa tutte le cose predette procede per mezzo di probabilità, per cui non produce scienza, ma una certa opinione. E ciò avviene perché l’ente è duplice, ossia l’ente di ragione e l’ente reale (naturae), Ora, ente di ragione si dice propriamente di quelle intenzioni, che la ragione trova nelle cose che essa considera, come l’intenzione di genere, specie e simili, le quali non si trovano nella realtà (natura rerum), ma conseguono alla considerazione della ragione. E questo ente, ossia l’ente di ragione è il soggetto della logica.

Ora, queste intenzioni intellegibili sono equiparate alla realtà (entibus naturae aequiparantur), per il fatto che tutte le realtà (entia naturae) cadono sotto la considerazione della ragione. E per questo il soggetto della logica si estende a tutte quelle cose delle quali si predica la realtà (de quibus ens naturae praedicatur).

Per cui Aristotele conclude che il soggetto della logica è equiparato al soggetto della filosofia, che è l’ente reale (ens naturae). Dunque il filosofo, partendo dai suoi princìpi procede a provare quelle cose che sono da considerarsi circa gli accidenti comuni dell’ente. Invece il dialettico procede a considerarle valendosi di enti intenzionali (ex intentionibus) della ragione, che sono estranei alla realtà (natura rerum). E per questo si dice che la dialettica va per tentativi, perché il tentare è proprio di un procedere da princìpi estranei.

Invece il filosofo differisce dal sofista per una scelta o per suo piacere o per un impulso vitale. Infatti il filosofo e il sofista ordinano la loro vita e le loro azioni in modo diverso: il filosofo certamente alla conoscenza della verità; il sofista invece a sembrare di sapere, mentre in realtà non sa. …

La sofistica teorica insegna per mezzo di ragioni necessarie e dimostrative in un modo di argomentare apparente. Usata in pratica, vale meno del processo della vera argomentazione. … Invece l’uso della dimostrazione consiste nel valersi dei princìpi delle cose, circa le quali si opera la dimostrazione, che riguarda le scienze della realtà, non usando intenzioni logiche»[6] .

Conclusione

L’uso della logica è una cosa serissima, come dimostra lo stesso Gesù Cristo[7] mettendo in campo addirittura l’azione di Satana. È dunque in gioco la nostra salvezza. È un avvertimento per ogni uomo che vuol ragionare bene e in modo particolare per noi cattolici, che troppo spesso usiamo con leggerezza la nostra ragione, ignorando che circa il suo uso esiste un grave dovere di giustizia e di onestà.

Il demonio impiega uno studio tutto particolare nell’imbastire ed inventare sottili e pericolosi sofismi, che hanno l’apparenza della saggezza, della fede, della pietà, della mistica, della spiritualità. Ciò indubbiamente non ci obbliga ad intraprendere studi scolastici, obbligatori solo per i futuri sacerdoti, educatori e filosofi e teologi. Ognuno di noi, salvo casi eccezionali di difetti psicologici, possiede una naturale inclinazione al retto ragionare, avverte istintivamente quando un ragionamento non funziona o è sofistico, ma fa sempre bene ascoltare chi, sapendone più di noi, ci guida nel retto ragionare e ci avverte dei ragionamenti sbagliati.

Come abbiamo visto, lo stesso Nuovo Testamento ci dà preziose indicazioni di fondo circa l’arte con la quale il demonio si adopera per allontanare la nostra ragione dal cammino della verità e quindi dal cammino verso Cristo. Scopo del demonio è sostanzialmente renderci disobbedienti a Dio e procurarci quindi la perdizione eterna inducendoci a peccare. In tal modo egli si propone come nostro maestro di pensiero e di logica in opposizione al Logos divino e così facendo ci inganna e c’insegna ad essere come lui dei bugiardi, ipocriti e omicidi.

Il meccanismo della logica diabolica spinge da una parte a creare la conflittualità contrapponendo anziché unire i diversi e i reciproci, come per esempio la corrispondenza fra uomo e donna o tra Dio e l’uomo, mentre dall’altra spinge alla doppiezza e alla confusione mescolando ciò che deve stare separato ed è inconciliabile, come l’opposizione fra bene e male, vero e falso.

La logica diabolica guasta tutti i famosi avverbi del dogma cristologico calcedonese: le due nature umana e divina di Cristo sono unite in unità di persona divina asynchìtos, senza confusione, atreptos, senza mutamento, adiairetos, senza divisione, acoristos, senza separazione, ma nella distinzione, nell’immutabilità, nella convergenza e nella corrispondenza.

Viceversa la logica del Vangelo avvince la ragione alla certezza, assoggetta la ragione alla fede, distingue per unire senza separare e senza confondere, si oppone a ciò che è incompatibile, accorda ciò che compatibile, risolve le apparenti contraddizioni, crea la conciliazione e la pace.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato 5 gennaio 2023


La logica del ragionatore sofista non è altro che la logica hegeliana, cioè non fondata sul principio di non-contraddizione, ma sul principio di contraddizione.

Siamo qui nel cuore della logica hegeliana. La contraddizione è la sua molla fondamentale così come la non-contraddizione è l’obbligo fondamentale della logica della sana ragione e quindi della logica cristiana.

Sfidiamo chiunque, anche il più esperto in logica, hegeliano convinto, a spiegarci che cosa Hegel vuol dirci in quelle 15 pagine dedicate alla contraddizione, che sono un susseguirsi vorticoso ed intricato, senza dar respiro, di termini che si rincorrono, si affermano, si negano, si escludono, si includono, si riflettono e si mediano, si pongono e si tolgono. 

Sono 60 anni che frequento il pensiero di Hegel, conosco hegeliani e antihegeliani, ma non mi è mai capitato di leggere qualcuno che si sia addentrato in quella «selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!», come dice il divino Poeta.   

 

Se il principio di non contraddizione prescrive di non contraddire al vero e di non contraddirsi, la logica della contraddizione si basa sul contraddire e sul contraddirsi. Il contraddirsi, ossia l’incoerenza e contradditorietà del ragionare nascono dall’opposizione del giudizio nei confronti della verità; la ragione nega ciò che è vero, e dà per vero ciò che è falso. È il principio della menzogna. Doveroso invece nella logica della non-contraddizione è contraddire al falso, mostrando la ragione per la quale il falso è falso.

 
Immagini da Internet:
- La Verità che scaccia la Frode e fa smascherare da un genio la Calunnia, Pelagio Palagi, Bologna
- Dante si smarrisce nella selva, Gustave Doré
- Un Sentiero Alberato in Autunno, Hans Andersen Brendekilde 
 

[1] Fen II 278

[2] Edizioni Laterza, Bari 1984, pp.481-495.

[3] Fenomenologia dello Spirito, Nuova Italia, Firenze 1988, I, p.26.

[4] Fenomenologia, I, op.cit., pp30-32.

[5] 37-38

[6] Commento alla Metafisica di Aristotele, libro IV, c.II, lect.IV, nn.572-576.

[7] Mi permetto di segnalare il mio libro Gesù Cristo fondamento del mondo, Edizioni L’Isola di Patmos, Roma 2019.

2 commenti:

  1. Grazie, padre Cavalcoli, per questo articolo molto utile negli insegnamenti per tenerci al sicuro dalla logica diabolica.
    Permettetemi di farvi una domanda per chiarire un problema di terminologia.
    Solitamente i termini doppiezza e duplicità sono usati come sinonimi, e infatti, credo che il dizionario lo ammetta, ammettendo una varietà di significati. Ma sono propenso a pensare che il termine doppieza abbia più di un preciso significato negativo, e il termine duplicità no.
    La doppieza indica astuzia o malizia nel modo di agire, sottintendendo l'opposto di ciò che si prova.
    Duplicità, anche se a volte è usata con lo stesso significato di doppieza, sembra indicare in modo generico piuttosto la qualità di un duplice, cioè doppio.
    Grazie.

    Nadia Marquez

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    Risposte
    1. Cara Nadia,
      sono abbastanza d’accordo con queste sue distinzioni.
      Aggiungerei che, mentre il termine doppiezza è abbastanza usato, duplicità è piuttosto raro.

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