La falsa metafisica di George Berkeley - Terza Parte (3/3)

 La falsa metafisica di George Berkeley 

Terza Parte (3/3)

È così che Kant, pur ammettendo l’esistenza delle cose fuori del nostro spirito, sostiene che sperimentiamo queste cose, ossia questi corpi o sostanze materiali, non come cose in sé, ma come fenomeni:

«Il concetto trascendentale dei fenomeni nello spazio è un avvertimento critico, che in generale niente di quel che è intuìto nello spazio  è cosa in sé; e ancora che lo spazio non è una forma delle cose, la quale sia in qualche modo propria delle cose in se stesse; ma che gli oggetti in sé ci sono affatto ignoti e quelli che chiamiamo oggetti esterni, non sono altro che semplici rappresentazioni della nostra sensibilità, la cui forma è lo spazio, ma il cui vero correlato, la cosa in sé, rimane pertanto affatto sconosciuto e inconoscibile, né, del resto, nell’esperienza è mai questione di essa»[1].

In queste parole di Kant vediamo come egli nella conoscenza delle cose spaziotemporali, mette assieme contraddittoriamente il realismo con l’idealismo. Cede all’idealismo, ma non se la sente di arrivare fino in fondo. Continua a dar spazio alla cosa extramentale, anche se Kant prende da Berkeley la pretesa che la materia spaziotemporale della cosa non sia una materia reale, ma una materia pensata o, come si esprime Kant, pensa che la forma spaziotemporale del fenomeno non appartenga al fenomeno, ma sia data al fenomeno dall’intelletto, che la possiede a priori, mentre, contro Berkeley, conserva il principio realista che la materia della cosa esiste ed è fuori di noi.

Per Kant la cosa esterna c’è – e questo è realismo -; ma il suo essere materiale spaziotemporale è per essenza essere pensato – e questo è idealismo. Kant non si è accorto di tenere un piede su due staffe. Comincia col cogito cartesiano, ma poi gli viene uno scrupolo realistico e si ferma. Interverrà Fichte a dire: no, abbiamo cominciato il cammino, dobbiamo andare fino in fondo: nessuna cosa in sé fuori di me. Tutto dipende da me. Subito dopo arriverà Hegel a dire: il reale è il razionale. E dopo Hegel Gentile darà il tocco finale: la realtà non la crea Dio ma la creo io ed anzi io creo me stesso col mio atto di pensare (autoctisi). Si può andare oltre?

Da una parte dunque Kant riconosce che noi abbiamo esperienza di corpi o sostanze materiali esistenti fuori di noi; e tuttavia sostiene che noi non conosciamo queste cose come sono in se stesse, ma solo come ci appaiono in quanto fenomeni spaziotemporali, dove la materia del fenomeno ci è fornita dalla cosa mediante l’esperienza sensibile, mentre la nostra sensibilità dà la forma spaziotemporale al fenomeno.

Facciamo un esempio: una roulotte trasportata da un’auto in viaggio. In quanto cose in sé, l’essenza dell’auto e della roulotte mi sono ignote. Esse mi appaiono come fenomeni, ai quali i miei sensi danno la forma spaziotemporale: l’estensione, le dimensioni, la quantità, la distanza da un estremo all’altro dei due corpi secondo le parti al di fuori delle parti (spazio interno), la distanza fra i due corpi e da me che li osservo (spazio esterno), la loro collocazione e posizione nell’ambiente, la numerabilità del loro moto secondo il prima e il poi (temporalità).

Mi domando: chi presterà fede a Kant che vi dice: tutte queste forme, tutte queste proprietà dei due fenomeni non appartengono ad essi, ma le ha donate ad essi la mia sensibilità? E da dove le ha tirate fuori? Non si viene a dire quello stesso che sostiene Berkeley: esse est percipi? Ma quale persona di buon senso potrà prendere sul serio queste idee? Se l’idealismo di Berkeley è ridicolo, forse che quello di Kant è una cosa seria? Eppure questa è la famosissima e diffusissima concezione idealista dello spaziotempo.

La critica di Gentile

Già in Aristotele troviamo il concetto del pensiero che pensa se stesso (nòesis noèseos), e questo è giustamente Dio, il sommo pensante, che non può avere per oggetto del pensiero altro che l’ottimo intellegibile, che è se stesso come pensante. Quindi già il Dio di Aristotele è atto puro di pensare, prima che a Gentile venisse questa idea, che lo ha reso famoso. Tuttavia ci sono delle grosse differenze fra il Dio di Aristotele e quello di Gentile.

Per Gentile l’oggetto del pensiero non è il reale esterno al pensiero, ma è lo stesso atto del pensare. L’essere, infatti, è l’essere pensato, così come per Berkeley l’essere è l’essere percepito: è immanente, non trascendente il pensiero. Il che vuol dire che per Gentile, come per tutti gli idealisti, l’essere coincide col pensiero. Essi infatti ammettono questa coincidenza non solo in Dio, ma nell’essere come tale, sicchè per loro l’essere come tale è Dio: tutto è Dio. Da qui il loro panteismo.

L’idealismo di Gentile parte da quello di Berkeley. In esso egli già trova giustamente l’essenziale dell’idealismo: l’essere è l’essere pensato. Il pensiero pensa l’essere; ma siccome l’essere è pensiero, il pensiero pensa il pensiero. Teniamo però presente la differenza da Aristotele, della quale ho detto sopra.

Ora però c’è da tener presente che l’essere è tanto l’essere spirituale quanto quello materiale, tanto l’essere umano quanto l’essere divino, benché tra di loro assai differenti. È chiaro però che se, giusta il dogma idealista, l’essere è l’essere pensato e l’essere pensato è immanente allo spirito, allora tutto è spirito e la materia come realtà esterna al pensiero, non esiste. Oppure viene risolta nello spirito. Ma, come abbiamo visto, spiritualizzare la materia vuol dire materializzare lo spirito.

L’idealismo è un criptomaterialismo. Come direbbe San Paolo, l’idealismo è il parto di  una mente carnale, che non sa distinguere lo spirito dalla materia e quindi non sa porre il dominio dello spirito sulla materia e il dominio di Dio sull’uomo.

C’è da notare inoltre che l’io dell’idealismo è l’io sono di Cartesio. Esso è certamente presupposto all’esse est percipi di Berkeley, in quanto l’io sono di Cartesio vuol dire: il mio essere è il mio essere pensato da me; e come chiarirà Fichte: io pongo il mio essere come essere pensato da me.

Ma l’idealismo gentiliano ha fra Berkeley e lui quello di Kant ed Hegel. Hegel, però, dal canto suo, resta in qualche modo nella linea di Berkeley, quando afferma:

«la proposizione che il finito è ideale costituisce l’idealismo. L’idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come vero essere»[2]. E questo, secondo Hegel, sarebbe anche il contenuto della religione. Il vero essere, per Hegel, è solo «l’ultimo, l’assoluto, un che di non posto, l’increato e l’eterno»[3].

Si vede chiaramente che ad Hegel manca la nozione analogica dell’essere, che distingue l’essere necessario da quello contingente, lo spirito dalla materia, l’infinito dal finito. Non sembra accorgersi, come Berkeley, che la materia ha una sua propria dignità e consistenza ontologica, senza per questo pretendere di essere divina.

Per Hegel, come per Parmenide, l’essere è solo l’assoluto. Il finito e quindi la materia sono nulla. Salvo poi a cadere nell’estremo opposto di assolutizzare, alla maniera di Eraclito, il divenire, che è appunto la vicenda del finito e del materiale e quindi di aprire la strada al materialismo, come capirà bene Marx, che ricaverà il suo materialismo dal suo famoso «rovesciamento» dell’idealismo hegeliano.

Comunque è noto che Gentile parte direttamente da Hegel con la pretesa di realizzare un idealismo perfettamente compiuto rispetto ai quello di Hegel. Gentile pensa di portare a pieno compimento l’impresa del cogito cartesiano. Considerando infatti lo scopo ultimo dell’idealismo di identificare l’essere col pensiero, Gentile sostiene che mentre Hegel non ha raggiunto questo scopo, lo ha raggiunto lui.

E in che modo? In che senso? Gentile si esprime con una risposta lapidaria e perentoria: Hegel concepisce la dialettica del pensato; egli concepisce la dialettica del pensare in atto.  Atto del pensare, che non è atto d’essere, come l’essere divino sussistente, privo di potenza, del quale parla San Tommaso, ma è svolgimento, fare attivo, azione storica e pratica, azione umana nel mondo, anzi mondanizzazione, plurificazione e moltiplicazione dello Spirito.

Il tempo e lo spazio, per Gentile in quanto molteplicità del dove e del quando, sono spazializzazione e temporalizzazione del pensare in atto, che è atto della Spirito e nel contempo atto mio e di noi tutti umanità. Atto di autopormi, anzi autocrearmi, autoporci ed autocrearci, ecco la famosa «autoctisi» di Gentile.

L’idealismo hegeliano, dice Gentile, non riconduce totalmente il soggetto, ossia lo Spirito, a se stesso, il circolo non si chiude totalmente, ma rimane il dualismo Spirito-natura, perché, al dire di Gentile, l’idealismo hegeliano non è idealismo dell’atto, ma del fatto; la natura non è atto del naturalizzarsi, ma è un fatto opposto allo Spirito; l’Idea, come dice Hegel, «lascia uscire da sé la natura». Tuttavia, dice Gentile non si tratta di idealismo del Soggetto, dello Spirito soggettivo, ma dello Spirito oggettivo, idealismo dell’oggetto; il Soggetto (Idea, Spirito, Concetto, Ragione) ha ancora davanti a sé l’oggetto (Natura, Sostanza, Mondo, Storia), benché sia oggetto pensato; ma non è ancora oggetto nell’atto del pensare in cui viene pensato, che è atto dell’Io pensante in atto, e così si giunge fino all’estremo sviluppo il cogito-sum cartesiano. Giunti a Dio, non si può andare oltre. Questo è vero, ma qui è il Dio dell’uomo stesso che si fa Dio[4].

Gentile osserva inoltre come l’idealismo kantiano invece è una fase ancor precedente, la quale lascia sussistere in sè il mondo materiale esterno, benché, come cosa in sé. resti ignoto, e in ciò, come abbiamo visto, Kant torna a quel realismo che Berkeley aveva abbandonato col negare l’esistenza della realtà materiale esterna.

Ma nel contempo, come abbiamo visto, l’idealismo kantiano fa un passo avanti verso l’idealismo assoluto, diventando «trascendentale», ossia ponendo – cosa che Berkeley non aveva fatto – l’intelletto come forma del fenomeno spaziotemporale, e quindi dando all’intelletto un potere creativo del reale, seppur solo per adesso riguardo alla forma e non riguardo alla materia, potere creativo che al vescovo Berkeley non era assolutamente venuto in mente, giacchè anzi egli credeva col suo immaterialismo di fare l’apologia di Dio creatore.

In realtà il povero Berkeley non si era accorto che il suo esse est percipi portava diritto a quell’idealismo assoluto che sarebbe stato realizzato da Fichte, Schelling, Hegel e Gentile, ossia l’immanenza al pensiero non del semplice essere materiale, ma addirittura dello stesso essere divino.

Nelle prime pagine della sua Teoria generale dello Spirito come atto puro, Gentile fa notare questa incompletezza ed anzi contradditorietà dell’idealismo berkeleyano, quando da una parte afferma il principio dell’esse est percipi, ma dall’altra lo nega affermando l’esistenza del Pensiero divino, al quale solo compete, per la sua infinità, applicare in modo assoluto il principio dell’esse est percipi, mentre al pensiero umano, nella sua finitezza, sarebbe concesso applicarlo solo in minima parte. Il che significa per Berkeley che, se l’infinita estensione e diversificazione dell’essere per Dio è semplice rappresentazione, per l’uomo l’esse est percipi vale solo per quelle poche e limitate cose che riesce a pensare lui.

Ora il panteista Gentile non può sopportare un simile affronto fatto dal bigotto Berkeley all’infinita dignità del pensare umano, che, in quanto pensare, è pari al pensare divino ed anzi è divino, benché anche Gentile distingua un io empirico, ossia umano da un Io trascendentale, ossia divino, ma la distinzione tra i due io non è distinzione fra due soggetti, ma tra due piani del medesimo soggetto, del medesimo io cartesiano, esplicitato in questa dualità, destinata a far fortuna tra gli idealisti, perché servirà a spiegare la dualità spirito-materia e ogni altra dualità, come uomo e Dio, bene e male, uno e molti, ecc.

Infatti l’io in Fichte si sdoppia in io e non-io, e sorge così la dialettica della contraddizione, mentre in Schelling appare come opposizione soggetto-oggetto. In Hegel l’io si attua come opposizione Spirito-natura. In tutti comunque c’è il problema di come spiegare e risolvere l’innegabile opposizione che il nostro spirito incontra da parte di un’alterità, di qualcosa di esterno e contrario, la cosa in sé kantiana, il mondo materiale esterno, che invano di vorrebbe ridurre a un esser percepito.

Da una parte ci si rende conto che lo spirito è esente dallo spaziotempo, ma dall’altra ci si scontra con l’esternità fatta di spazio e tempo. Come raggiungere l’unità? Gli idealisti avrebbero potuto raggiungerla concependo un Dio creatore tanto degli spiriti che dei corpi.

Ma fissi e bloccati nel cogito cartesiano, che tutto vuol chiudere nelle nostre idee, privi del gusto del reale e di una nozione analogica dell’essere, digiuni delle fondamentali categorie del pensare metafisico acquisite da millenni, non hanno saputo far nulla di meglio che confondere l’essere col pensiero, la materia con lo spirito, l’uomo con Dio.

Così negli idealisti dopo Kant, l’io empirico, come uomo, sublimandosi e trascendendosi, appare a se stesso come Io trascendentale, uno, universale, assoluto, puro Spirito e sovraspaziotemporale, mentre l’Io trascendentale, come Dio, che è fondamentalmente l’io sono cartesiano, determinandosi, individualizzandosi, moltiplicandosi, finitizzandosi e materializzandosi come spaziotemporale, appare all’io empirico come io empirico.

Gli idealisti interpreti del cristianesimo

Colpisce come la storia dell’idealismo si affianca a quella del pensiero cristiano, che da Cartesio va fino ai nostri giorni, fino al modernismo del secolo scorso, a Maréchal, Rahner, a Bontadini e al neomodernismo di oggi. Lo stesso Cartesio era cattolico praticante, aveva studiato presso la famosa scuola di La Flèche dei Gesuiti ed era convinto d’aver reso al cattolicesimo un utile servizio in ordine ad una rinnovata fondazione della verità del sapere.

Già fin dai tempi di Cartesio sorsero suoi ammiratori convinti che la sua filosofia potesse servire alla teologia cattolica. Basti citare per tutti i nomi di Malebranche e del Card.de Bérulle. Un Berkeley in Inghilterra, insieme con molti altri anglicani suoi seguaci, si inserisce in questa corrente di pensiero convinta che non il realismo, considerato vicino al materialismo, ma l’idealismo renda alla fede cristiana il servizio e l’onore che le spetta.

Gli idealisti tedeschi si considerano interpreti, meglio dei cattolici, dell’istanza spiritualistica ed interioristica del cristianesimo, male interpretando, come aveva fatto Lutero, la spiritualità agostiniana, che essi avevano contaminato con l’occamismo. Hegel dichiara esplicitamente il suo intento di dar fondamento filosofico alla sua fede luterana.

I modernisti primi novecento, come Blondel e Laberthonnière, credettero che l’utilizzo del pensiero kantiano potesse servire per una fondazione della fede adatta all’uomo moderno. È nota la convinzione di Maréchal, di Rahner o di Bontadini che non il realismo, ma l’idealismo sia la filosofia cristiana per il nostro tempo.

E ciò, nonostante che la Chiesa non abbia mai approvato l’idealismo ed anzi lo abbia condannato ed abbia invece sempre raccomandato la filosofia aristotelico-tomista come tra tutte la più adatta ad interpretare il dato di fede e ciò fino al Concilio Vaticano II e all’attuale Pontefice.

La vicenda intellettuale di Giovanni Gentile, maestro di Bontadini, si inquadra in questa lunga storia di manipolazione della filosofia cristiana nella convinzione di svecchiarla da categorie superate ed oggi incomprensibili, e di aver trovato il modo di parlare di Cristo all’uomo d’oggi.

La cosa stupefacente è che Gentile, con tutta la sua sfrontata e sofistica polemica contro il realismo, ha l’audacia di dichiararsi cristiano e addirittura cattolico[5]. La sua concezione dello Spirito come Atto, Tutto, uno, unico, assoluto, universale, concreto, immanente, soggettivo, Spirito che è io e che siamo noi, Spirito che esclude gli spiriti, che non sono altro che sue determinazioni o sue moltiplicazioni, che Spirito è?

«Questo essere, si domanda Gentile[6], donde può sorgere in noi, se non dal moto stesso dell’animo, che, come Io o coscienza di sé, si volge a se stesso e vede se stesso come altro, oggetto; l’oggetto, che gli sta innanzi come Tutto e che come tale esclude e stermina il suo opposto, cioè lui stesso, il soggetto e si pone come l’Assoluto, oltre e fuori del quale nulla è più pensabile?».

Gentile intende riferirsi a Dio. Dice infatti poco sopra:

«Questo divino essere, la cui immediata presenza nel fondo della nostra coscienza costituisce l’ineffabile sentimento umano di Dio, suprema certezza in cui è la radice di ogni certezza; questo divino essere ci annienta e ci esalta, ci fa piegar le ginocchia e chinare la fronte nella polvere, ma c’infonde la forza per alzare gli occhi al cielo e ci fa sentire nel cuore quella superiore grazia, quella possente ispirazione, onde l’uomo trasumana ad ora ad ora nell’eterno»[7].

Ma questo Dio, descritto in tal modo, che «sorge dal moto dell’animo, che come Io o coscienza si volge a se stesso come altro», che «stermina il suo opposto, cioè lui stesso, il soggetto», è il vero Dio trascendente, creatore degli spiriti e dei corpi, realmente distinto dal mondo, provvidente, giusto e misericordioso?

Ancora:

«L’uomo e Dio sono certamente distinti; ma non sono separati se non come termini astratti della vivente realtà che è sintesi. Sintesi di Dio che si fa uomo e uomo che la grazia adegua a Dio, facendo della sua la divina volontà (fiat voluntas tua). Senza l’unità che è la ragione di questa sintesi, non c’è cristianesimo, non c’è religione dello spirito, che, per dir tutto con una formula, è dualità ma dualità che è unità»[8].

Ancora qui vediamo che dietro l’apparente accettazione del mistero dell’Incarnazione c’è la dialettica hegeliana della sintesi come concretezza risultante dall’opposizione delle astratte tesi e antitesi. Gentile confonde il rapporto dell’uomo in generale con Dio col mistero dell’Incarnazione inteso peraltro non come unità della persona nella dualità delle nature, ma come unità di un concreto nella dualità di due astratti. Invece il mistero dell’Incarnazione comporta la dualità di due sostanze in un’unica sussistenza.

Gentile, quindi, oltre a vanificare le due nature per confonderle in una falsa sintesi, precorre l’antropologia buonista di Rahner, il quale pure confonde il rapporto dell’umanità di Cristo con Dio, rapporto evidentemente indissolubile, col rapporto degli altri uomini con Dio nella vita presente, i quali uomini, essendo peccatori, possono spezzare col peccato l’unione con Dio.

Certo i discepoli e i seguaci dei cattolici idealisti non mancano; ma quali sono i risultati? Un aumento della pratica religiosa e dei fedeli? Delle conversioni al cattolicesimo? Un aumento delle vocazioni religiose e sacerdotali? Un miglioramento o quanto meno un mantenimento dei costumi cristiani? Un maggior prestigio della Chiesa nella società? Non sembra affatto, a differenza dei tempi in cui godeva di prestigio la filosofia scolastica realista.

Non si tratta ovviamente di usare superati linguaggi, modi o metodi di comunicazione e di formazione o di riproporre di peso antichi concetti oggi maggiormente approfonditi o esplicitati, ma, stanti le importanti indicazioni che ci vengono dalla riforma conciliare, si tratta di adoperarsi con zelo, preparazione e fiducia nello spendere energie e fatiche nella convinzione di lavorare per una causa, la cui validità ci è garantita dalla lealtà delle promesse divine.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 gennaio 2023

Kant riconosce che noi abbiamo esperienza di corpi o sostanze materiali esistenti fuori di noi; e tuttavia sostiene che noi non conosciamo queste cose come sono in se stesse, ma solo come ci appaiono in quanto fenomeni spaziotemporali, dove la materia del fenomeno ci è fornita dalla cosa mediante l’esperienza sensibile, mentre la nostra sensibilità dà la forma spaziotemporale al fenomeno.

Facciamo un esempio: una roulotte trasportata da un’auto in viaggio. In quanto cose in sé, l’essenza dell’auto e della roulotte mi sono ignote. Esse mi appaiono come fenomeni, ai quali i miei sensi danno la forma spaziotemporale

 

Il tempo e lo spazio, per Gentile in quanto molteplicità del dove e del quando, sono spazializzazione e temporalizzazione del pensare in atto, che è atto della Spirito e nel contempo atto mio e di noi tutti umanità. Atto di autopormi, anzi autocrearmi, autoporci ed autocrearci, ecco la famosa «autoctisi» di Gentile.

Lorenzo Lotto, La Sacra Famiglia

Gentile confonde il rapporto dell’uomo in generale con Dio col mistero dell’Incarnazione inteso peraltro non come unità della persona nella dualità delle nature, ma come unità di un concreto nella dualità di due astratti. Invece il mistero dell’Incarnazione comporta la dualità di due sostanze in un’unica sussistenza.

Gentile, quindi, oltre a vanificare le due nature per confonderle in una falsa sintesi, precorre l’antropologia buonista di Rahner, il quale pure confonde il rapporto dell’umanità di Cristo con Dio, rapporto evidentemente indissolubile, col rapporto degli altri uomini con Dio nella vita presente, i quali uomini, essendo peccatori, possono spezzare col peccato l’unione con Dio.


Immagini da Internet


[1] Ibid., p.75.

[2] Logica 159

[3]

[4] Il dotto Padre Domenicano Mariano Cordovani, Maestro dei Sacri Palazzi ai tempi di Pio XII, in una critica al pensiero di Gentile, formulò coraggiosamente questa grave accusa durante il periodo fascista, nel quale Gentile era portato dal regime in palmo di mano. Vedi Cattolicismo e idealismo, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1928.

[5] La religione, Edizioni Sansoni,Firenze 1965, pp.408-409.

[6] Ibid., p. 420.

[7] Ibid., pp.419-420.

[8]422


2 commenti:

  1. Carissimo p. Giovanni, come lei ha giustamente scritto, illustrando il pensiero idealista di questi autori, i quali sostengono che l’oggetto del pensiero non è il reale esterno al pensiero, la realtà extra mentale come afferma Kant in se stessa inconoscibile fino ad affermare che l’essere coincide con il pensiero, sfociando nel panteismo: tutto è Dio, questo pensiero ha una gravissima ricaduta sull’accoglienza dell’evento dell’Incarnazione.
    Mi spiego, la Rivelazione divina nella modalità del Verbo fatto carne, giunge a noi come realtà altra, extramentale e rendendosi conoscibile, adeguandosi così al nostro intelletto, e alla nostra volontà, di conseguenza si rende visibile, udibile, toccabile, cade sotto i nostri sensi. Il presupposto metafisico che permette l’accoglienza e il riconoscimento di una realtà trascendente come la Rivelazione di Dio nell’immanenza spazio temporale della storia umana non può che fondarsi su di un sano realismo, il quale non è un prodotto del nostro pensare, delle nostre idee. Purtroppo la riflessione odierna è figlia di un pensiero che afferma che non è possibile conoscere la verità delle cose perché la realtà delle cose risulta in se stessa inconoscibile (Kant) e pertanto risulterà inconoscibile anche un’eventuale rivelazione divina e Dio viene ridotto ad un prodotto dell’attività mentale, un prodotto dell’io, una proiezione delle aspirazioni più profonde dell’uomo.
    Come ci ricordava Papa Benedetto XVI, viviamo in un tempo segnato dal relativismo, figlio dell’Idealismo che ha contaminato ogni ambito della nostra esistenza, un relativismo secondo il quale è impossibile all’uomo conoscere alcuna verità assoluta, necessaria, universale, eterna anche quando essa gli giunge attraverso una rivelazione. Pertanto tutto viene negato anche la verità del Vangelo, la verità di Cristo di un Dio che si fa prossimo a noi.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Don Vincenzo,
      purtroppo quello che lei denuncia è vero.
      L’impostazione idealistica della conoscenza ha una grave ricaduta nel concetto stesso della Rivelazione. Infatti, l’interpretazione idealistica della Rivelazione e della Cristologia, fu già fatta a suo tempo da Fichte, Schelling ed Hegel.
      Secondo questa interpretazione viene negato il dogma cristologico di Calcedonia, che distingue le due nature e viene fuori un panteismo cristologico per il quale il cristiano si identifica con Cristo.
      Questo panteismo si trova già in nuce in Meister Eckhard, mistico tedesco del sec. XIV, condannato nel 1329 da Papa Giovanni XXII.
      Inoltre nella teologia di Hegel, oggi tornata di moda, Dio non può essere Dio senza il mondo. Probabilmente si tratta qui di uno sviluppo della cristologia di Lutero, il quale sostiene che il vero Dio non è quello dell’Antico Testamento, ma è il Dio Incarnato del Nuovo.

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.