L’antropologia di Karl Rahner
L’essenza
dell’uomo.
Rahner definisce l’uomo secondo la categoria della
spiritualità nella concretezza dell’esistenza e della storia, come soggetto
personale che plasma se stesso nella libertà. L’essenza dell’uomo, quindi, per
Rahner, è un’essenza «concreta», fattuale, storica, effetto di libera scelta,
diversa da individuo a individuo. L’uomo, quindi, per Rahner, non possiede una
natura universale, precisa, prefissata e definita con inclinazioni, finalità e
leggi precise e predeterminate, perché
ciò, secondo lui, ingabbierebbe la condotta umana in un determinismo ed in un
ventaglio di possibilità fisse, ripetitive e limitate come quelle dell’istinto
animale, mentre lo spirito apre l’attività umana ad un’infinità di possibilità
sempre nuove e diverse.
La definizione rahneriana dell’uomo più sintetica la potremmo trovare
laddove dice che “la natura dell’uomo è trascendenza e storia”[1],
definizione che risolve l’essenza dell’uomo nel suo agire spirituale, anche se
nella “storia” è possibile vedere un rapporto con la materia e col mondo. Ma
non appare l’unione del corporeo con lo spirituale, né appare lo specifico
dell’uomo, perchè una definizione del genere potrebbe andar bene anche per gli
angeli. L’idea di una natura umana universale sovrastorica ed immutabile sembra
a Rahner limitare e restringere l’uomo nell’orizzonte dell’animalità. Non si
rende conto che la finitezza e la determinatezza della natura umana e delle sue
leggi non pongono alcun ostacolo alle infinite libere realizzazioni dello
spirito, ma ne consentono al contrario le condizioni di possibilità.
Nel libro Uditori
della Parola Rahner espone poi una definizione dell’uomo strettamente relativa
all’ordine soprannaturale al fine di stabilire la fondazione metafisica della
potenza obbedienziale, ossia della disponibilità che si trova nello spirito
umano ad essere elevato all’ordine soprannaturale. La preoccupazione di Rahner
di assicurare una continuità stretta tra l’ordine della natura e quello della
grazia, lo porta a stringere troppo tale nesso, così da concepire il soggetto
umano come intrinsecamente e necessariamente orientato a trascendersi e mettersi
in ascolto di un’eventuale rivelazione divina per mezzo della parola umana, per
cui la divina rivelazione, che egli insistentemente asserisce provenire da una
libera decisione divina, in realtà appare necessaria all’«orizzonte ultimo»
dell’uomo, che per lui si definisce come relazione a Dio, mentre Dio è
relazione all’uomo. L’uomo sale per essenza a Dio e e Dio scende per essenza
nell’uomo.
Così, con tale presupposto che concepisce la natura umana come
essenzialmente orientata all’ascolto della rivelazione cristiana, non si riesce
poi più a comprendere con quale fondamento Rahner sostiene la libertà sia
dell’atto rivelatore divino, sia dell’adesione dell’uomo a questa rivelazione.
Non appare in Rahner la distinzione fra la natura umana e la volontà. La natura
sembra risolversi in uno slancio della
volontà. Si deve osservare infatti, che mentre l’attività del libero arbitrio
sceglie tra due opposti, l’inclinazione della natura è orientata in un senso
unico, per cui concependo la tensione verso Dio come costitutiva della natura,
diventa poi contraddittorio sostenere che questa direzione verso Dio sia
effetto del libero arbitrio.
In Uditori della parola Rahner
afferma di trattare di “filosofia della religione”, che poi però egli
identifica con l’antropologia, la metafisica e la teologia fondamentale. Ne
viene fuori una concezione dell’uomo come ente che per natura si pone in
ascolto di un’eventuale rivelazione che possa venirgli da Dio in parola umana.
La metafisica entra in gioco perché l’uomo è concepito come l’ente, ossia
s’identifica l’uomo con l’ente, ovvero, heideggerianamente si concepisce l’uomo
come quell’ente che si interroga sull’ente.
Qui l’antropologia funziona in quanto in pratica Rahner dà una definizione
dell’uomo. La filosofia della religione interviene in quanto questo disporsi ad
ascoltare una parola di Dio viene ricondotto da Rahner alla religione. Infine
la teologia fondamentale ha la sua parte, in quanto Rahner intende dare la
ragione per la quale l’uomo deve aprirsi al messaggio cristiano. In realtà poi
l’uomo, per Rahner, ogni uomo, è di fatto aperto al messaggio cristiano, in
quanto questa apertura all’ascolto sarebbe costitutiva dello stesso essere
umano.
Ci sarebbe però da domandarsi: che ne è di coloro che non intendono
ascoltare o che non si sentono interessati al messaggio cristiano? Non sono
esseri umani? Forse Rahner direbbe che tali esseri umani non esistono; ma in
ciò andrebbe evidentemente contro i fatti e a molte asserzioni della Scrittura,
dalle quali risulta che purtroppo queste persone che restano sorde alla parola
di Dio ci sono, e come!
Il fatto è che Rahner sbaglia nel risolvere la natura umana nella potenza
obbedienziale, peraltro da lui intesa non come semplice disponibilità, ma come
autentica attiva autotrascendenza dell’uomo verso l’essere assoluto, ossia
verso Dio. Inoltre Rahner non tiene conto del fatto che il mettersi in ascolto
di un’eventuale rivelazione divina salvifica come quella cristiana mediata
dalla parola, non risulta necessariamente dalla natura umana e nemmeno dalle
potenze dell’uomo, ma è un atteggiamento che può essere giustificato o motivato
solo dal fatto che il soggetto è già stato stimolato dal predicatore della
fede.
Bisogna dire allora che tutto quello che può sorgere nell’uomo sulla
semplice base della sua ragione naturale è la consapevolezza dell’esistenza di
Dio e la presa di coscienza di poter trovare una somma felicità nel conoscere
ed amare Dio come sommo bene e fine ultimo della vita. Ma il pensiero che Dio
possa rivelarglisi nella sua essenza, così come è prospettato dal
cristianesimo, può venire all’uomo solo se qualche predicatore del Vangelo glie
l’annuncia e l’uomo è disposto a credere al predicatore.
Inoltre dobbiamo rilevare che l’attitudine all’ascolto o l’atto
dell’ascolto della parola di Dio non è per nulla un costitutivo essenziale
della natura umana, ma è dono della grazia e frutto di libera scelta, che
quindi può esserci come non esserci e non per questo l’uomo perde la sua
natura. L’agire umano e il relazionarsi a Dio non nasce nell’uomo da un atto
costitutivo della natura, ma si pone sul piano del libero agire, per il quale
l’uomo resta uomo, anche se non ascolta o non tende a Dio.
In Rahner l’aspetto spirituale dell’uomo appare così coinvolgente, che lo
spirito sembra più unito al trascendente che non alla propria stessa
corporeità, mentre non mancano in altri luoghi delle sue opere altre visuali
sull’uomo, nelle quali l’aspetto storicistico ed evoluzionistico è così accentuato,
da compromettere la trascendenza dello spirito[2],
che pare - come vedremo - rimessa alle mutevoli decisioni dell’umana libertà,
nonchè i prodotti stessi dello spirito, come le dottrine ed i concetti, che sembrano
incapaci di sovrastare il tempo e lo spazio, per disperdersi in un pluralismo
“insuperabile” e andar soggetti ad una molteplicità irresolubile di
interpretazioni contradditorie[3].
Si domanda Rahner: «Cosa vuol dire che l’uomo è “spirituale”»? Che “vive la
sua vita in una continua tensione verso l’Assoluto, in una apertura a Dio.
Questo non è un fatto che può, per dir così, verificarsi o meno qua e là
nell’uomo a suo beneplacito. E’ la condizione che fà essere l’uomo ciò che è e
dev’essere ed è presente sempre anche nelle azioni banali della vita
quotidiana. Egli è uomo solo perchè è in cammino verso Dio, lo sappia
espressamente, lo voglia o no. Egli è sempre l’essere finito totalmente aperto
a Dio”[4].
Qui osserviamo una caratteristica fondamentale dell’antropologia
rahneriana: l’essenza dell’uomo è concepita come tensione o “trascendenza”
verso Dio; sicchè sorge subito il problema di che ne sia di coloro che non
orientano a Dio la loro vita: forse che non sono più uomini? Inoltre, con una
simile concezione dell’uomo, è chiaro che viene meno la libertà della scelta per
Dio: se l’orientamento o “apertura” a Dio costituisce l’uomo come tale, dove va
a finire la libertà della scelta?
Ciò che costituisce l’essenza di una realtà, è necessario e determinato:
non può costituire oggetto di scelta. E tuttavia vedremo come per Rahner
l’uomo, mediante la “libertà”, sembra poter determinare la sua stessa essenza, per
sè “indefinita”, e quindi indefinitamente plasmabile. Ma c’è anche da chiedersi
se definendo l’uomo come tensione verso Dio, non si scambi l’uomo per uno
spirito puro e si prenda inoltre la natura umana non in se stessa, come vuole
una corretta definizione, ma posta per sè in uno stato di perfezione morale,
che è appunto la tensione verso Dio.
Ma quel che più sorprende è che l’uomo rahneriano non si risolve solo in
una generica trascendenza verso Dio, ma questo autotrascendersi, questo
superarsi è “ricerca della presenza di Dio nella sua storia”[5],
quindi rapporto di comunione con Dio che non è assicurato dal semplice rapporto
naturale-creaturale, ma da qualcosa di più, il bisogno di quella presenza che
corrisponde al fatto dell’Incarnazione di Dio. Come infatti vedremo più avanti,
questo qualcosa di più non è altro che la vita soprannaturale, la vita in
Cristo, sicchè per Rahner l’uomo non è caratterizzato solo dalla tensione verso
Dio come fine ultimo naturale, ma dalla tensione verso Dio come fine ultimo
soprannaturale, ossia della rivelazione cristiana, per cui l’uomo appare come
un ente soprannaturale.
Ma se l’uomo è tensione-apertura a Dio, ciò avviene - e qui Rahner è
coerente con se stesso - perchè l’uomo è essenzialmente costituito da un
rapporto intellettivo-volitivo con l’essere: egli è “un ente che indaga
l’essere in ogni sua azione e in ogni suo pensiero. ... L’uomo si apre essenzialmente
all’essere” e questa apertura è “ineluttabile”[6].
E’ chiaro che l’apertura all’essere e l’apertura a Dio sono strettamente
collegate.
Ma ciò che quanto meno è ambiguo, in Rahner, è il senso di questo termine
“apertura”, di origine heideggeriana (Offenheit),
e che oggi circola comunemente nel linguaggio; un termine in sè bello, ma che
in Rahner viene a confondere la possibilità o virtualità con l’attualità: che
nell’uomo ci sia una disposizione, anzi un’inclinazione naturale alla
conoscenza dell’essere ed alla ricerca di Dio, è certissimo ed è verità di
capitale importanza; ma ciò poi non significa per nulla che di fatto e
necessariamente ogni uomo, in ogni suo pensiero ed azione, pensi e cerchi
l’essere come essere divino, ossia pensi e cerchi Dio.
Ciò, come si è detto, non è un dato dell’essenza umana, ma salva la vera
universalità dell’essenza umana come animale ragionevole, dipende dalla volontà
dei singoli, per cui il detto rapporto con Dio è rimesso alle libere e
imprevedibili scelte del libero arbitrio: può esserci ma anche non esserci; può
esserci in alcuni e non esserci in altri; può esserci in un tempo e non esserci
in un altro. Altrimenti, dove finirebbe l’alternanza del peccato e della
grazia? Tutti sarebbero in grazia e il peccato non esisterebbe.
Per quanto riguarda questa apertura-tensione (trascendenza) naturale e
soprannaturale ad un tempo, originaria ed apriorica, dell’uomo verso Dio,
quindi costitutiva dell’essenza umana, si deve dire che qui Rahner, oltre a
confondere l’essere con l’agire dell’uomo riducendo quello a questo alla maniera
di un Fichte, confonde tre piani dell’agire umano:
1. l’agire dell’uomo in quanto ente vivente,
che è agire naturale, spontaneo e necessario;
2. l’agire dell’uomo come ente psichico, che è l’agire psicologico (libertà
psicologica), per il quale l’uomo mette in atto la volontà finalizzata al bene
in assoluto o in generale;
3. l’agire dell’uomo come ente morale,
che è l’agire morale (libertà morale), per il quale egli agisce liberamente
decidendo se porre o non porre Dio come fine ultimo dell’agire del volere.
Il primo piano dell’agire comporta un agire necessario e deterministico (motio ad unum), che sorge dall’essenza
stessa dell’uomo come vivente, per esempio il respirare o il muoversi. Tale agire
è distinto da quello volontario, che è libero e contingente. La libertà
psicologica tuttavia va distinta da quella morale. Ecco perché abbiamo allora
altri due piani dell’agire. Io sono libero nei confronti dei beni relativi
(azione riguardo ai mezzi), ma non nei confronti del bene in assoluto (azione
relativa al fine in generale), perché per sua natura la volontà non può non
volerlo.
Ma qual è,
concretamente, il vero bene assoluto? Questo è il punto decisivo dell’agire
umano. E’ qui che appare l’agire che decide del destino dell’uomo nel bene o
nel male: l’agire morale, per il quale io decido liberamente come riempire la
forma dell’assoluto alla quale spontaneamente e inevitabilmente tendo: io ho la
possibilità di scegliere come assoluto o Dio, che è il vero assoluto, o una
creatura (o il mio io), che non è il vero assoluto. Non posso non tendere ad un
assoluto; ho invece la facoltà e il dovere di dire: questo per me è l’assoluto.
Dire dunque che
l’uomo tende naturalmente all’assoluto, non vuol dire ancora che ogni uomo
tende a Dio, perché se uno assolutizza o se stesso o le ricchezze o i piaceri o
gli onori, ecc., non tende affatto a Dio, pur tendendo ad un assoluto. E’ qui
che Rahner confonde e diventa il fondatore del buonismo, fino ad arrivare
all’assurdo di sostenere che anche gli atei e i “peccatori” tendono a Dio e si
salvano (simul iustus et peccator)[7].
Rahner, in tal
modo, riducendo tutto l’agire umano a questo terzo piano, incastra per forza
ogni uomo nella scelta per Dio, costringe tutti ad andare in paradiso, dimenticando
ad un tempo sia il libero arbitrio sia la realtà del peccato e della
dannazione. Per lui, però, nessuno si danna, neanche volendolo[8].
Tutti necessariamente buoni, salvi e beati. E’ il principio teorico del
buonismo, oggi così largamente diffuso e deresponsabilizzante per molti illusi,
che hanno modo di prendersela molto comoda con la scusa dell’infinita bontà di
Dio.
Per quanto
riguarda poi il concetto rahneriano della “trascendenza”, egli la intende, nel
definire l’uomo, non in senso statico - ciò che sta oltre, il trascendente – ma
in senso agostiniano, ossia dinamico (transcende
et teipsum), come attività con la quale lo spirito umano supera, travalica
se stesso, sale oltre se stesso, l’“autotrascendenza” verso Dio. Occorre a tal
riguardo osservare, inoltre, che questo moto, per Rahner, non avviene dopo ma
prima o quanto meno contemporaneamente alla percezione delle cose finite[9];
per cui queste non servono, come nelle prove classiche dell’esistenza di Dio,
come punto di partenza per quell’elevazione dello spirito che conduce
all’affermazione di Dio, ma al contrario è questa “trascendenza” originaria ed
apriorica a fondare l’intellegibilità delle cose dell’esperienza o, come li
chiama Rahner, degli oggetti “categoriali”.
Inoltre la trascendenza rahneriana non sembra
limitarsi ad un semplice atto intenzionale - il che andrebbe ancora bene -, ma
appare anche come una tensione pratica e nel contempo ontologica, cosa che
lascia trasparire da una parte una certa confusione dell’intelletto con la
volontà e dall’altra, cosa ben più grave, una confusione dell’essere con
l’agire e dell’essere col pensiero, conformemente del resto al principio
fondamentale della metafisica e della gnoseologia rahneriane, che appunto
identificano l’essere col pensiero.
Dice infatti
Rahner che l’uomo, “nel mentre pone la possibilità di un orizzonte
semplicemente finito di interrogazione, ha superato tale possibilità[10]
e dimostra di essere l’essere di un orizzonte infinito”[11].
“L’uomo è l’esistente necessariamente trascendentale, che in ogni azione
categoriale della conoscenza e della libertà è sempre al di là di se stesso e dell’oggetto
categoriale, ... proiettato verso quel mistero inesauribile, che in quanto
tale, dischiude e sostiene l’atto e l’oggetto, e che viene chiamato Dio”[12].
Si vede come
per Rahner l’esistenza di Dio non è conosciuta per induzione, passando
dall’effetto alla causa, ma per una specie di simultaneità tra la conoscenza
del mondo e la conoscenza di Dio o, come risulta da altri passi, Dio è
conosciuto prima del mondo, per cui il mondo è dedotto da Dio. Si tratta di
un’evidente forma di ontologismo, peggiorato dall’impostazione
gnoseologica idealista di Rahner.
Per questo, secondo Rahner, “l’assoluta vastità ed illimitatezza della
trascendenza dello spirito umano” è la “condizione che rende possibile la
conoscenza oggettiva dell’ente finito e l’autonomia dell’uomo”[13].
L’orizzonte della trascendenza, in tal modo, non è solo meta del movimento
dello spirito, ma in qualche modo definisce i confini infiniti dello stesso
spirito umano: “Il soggetto uomo - dice altrove Rahner[14]
- si sperimenta e si definisce come quell’essere che è «‘quodammodo omnia’, non
un oggetto particolare di natura cosale tra molti altri, bensì quell’esistente
incomprensibile, in cui tutta la realtà perviene a se stessa, così che egli può
essere capito in maniera adeguata solo quando si sperimenta e si comprende come
la realtà in genere».
L’uomo si trascende infinitamente, per cui l’infinito è l’orizzonte del suo
trascendersi, ma è al contempo il limite illimitato del suo spirito, è in
qualche modo tutto, in cui tutta la realtà perviene a se stessa, è la realtà in
genere: tutta una serie di affermazioni spropositate, che esagerano la
grandezza dell’uomo fino al punto che non lo si distingue quasi più da Dio.
Che cosa infatti Dio viene ad avere in più dell’uomo definito in questo
modo come non definibile e non delimitabile? Nessuna meraviglia, allora, se
l’antropologia coincide con la metafisica: “L’antropologia metafisica, se ben
compresa, non è perciò una scienza settoriale particolare accanto ad altre,
bensì la filosofia, che si occupa dell’essere in generale, anche se tale
filosofia come antropologia considera la realtà nel suo complesso da un punto
di partenza particolare e cioè dal soggetto finito eppur aperto sull’infinito”[15].
Ma che finito è il finito che si supera all’infinito? Un finito infinito o un
infinito finito? Finiamo nei giochi di parole.
Secondo Rahner, l’uomo non è comunque un ente particolare o categoriale fra
gli altri, racchiuso in un genere e in una specie, ma è semplicemente l’essere,
anche se considerato “da un punto di partenza particolare”. Ma questa
precisazione non è sufficiente a garantire la finitezza e determinatezza
dell’essenza dell’uomo. Non si tratta semplicemente di un punto di vista
particolare, ma dell’oggetto stesso di tale punto di vista - l’uomo -, che in
realtà è un oggetto particolare fra gli altri. Anche Dio è studiato dall’uomo
da un punto di vista particolare, ma ciò non basta a porre dei limiti in Dio.
Ma la natura umana, per Rahner, sembra potersi determinare non solo
mediante questa “precomprensione” dell’essere e di Dio, ma anche mediante una
“decisione”: “L’obbiettivo presente della nostra decisione - egli dice[16]
- di accettazione o di rifiuto, come atto dell’esistenza, è il mistero che
siamo noi, e questa è la nostra natura”. Dunque la nostra natura non è un
qualcosa di presupposto alla nostra decisione, e quindi da essa indipendente;
ma è l’“obbiettivo della nostra decisione”: in tal modo la natura umana non è
più l’effetto della decisione del Creatore, ma della nostra. Noi stessi decidiamo chi siamo. L’uomo
in tal modo si rende indipendente da Dio e totalmente rimesso alla decisione
con la quale fonda la propria essenza. L’uomo si sostituisce a Dio e il Dio
trascendente creatore dell’uomo, diventa inutile[17].
Ci domandiamo: ma secondo Rahner si può definire la natura umana? Se essa
viene concepita, come abbiamo visto, come “illimitata” trascendenza, non pare
possa propriamente definirsi. Ed infatti, per Rahner, è proprio così: “La
natura umana è l’orientamento ... verso il mistero permanente chiamato Dio. ...
Questa natura indefinibile, il cui limite, la cui ‘definizione’ è
l’orientamento illimitato al mistero infinito della pienezza, perviene, quando
è assunta, là dove essa tende sempre in forza della sua essenza”[18].
Osservazioni.
1.L’errore, già visto, di definire la natura umana come tendenza verso Dio,
con la conseguenza che chi non tende verso Dio, non è un uomo.
2. L’errore presupposto a quello precedente e cioè l’identificazione
dell’essere con l’agire, che è proprietà esclusivamente divina.
3. La natura umana è “indefinibile”: ma solo Dio è indefinibile. Di nuovo
la tendenza panteistica di Rahner.
4. La natura umana non è affatto “assunta da Dio come sua propria realtà”,
si trattasse pure dell’umanità di Cristo. Infatti in Cristo la natura umana non
diventa realtà della Persona del Verbo, ma viene assunta in unità ipostatica
col Verbo restando da Lui distinta, per cui essa non tende affatto a quella
confusione come ciò verso cui tende la natura umana “in forza della sua essenza”.
Rahner è restio ad ammettere che le possibilità dell’uomo abbiano un
limite, e per questo gli ripugna “definire” la natura umana, giacchè sa bene
che il nostro definire è sempre un delimitare: “La trascendenza dell’uomo - egli
dice[19]
- ... esclude come falsa una definizione e una delimitazione che ponga termine
alle sue possibilità”. Se le possibilità dell’uomo sono infinite, che cosa
allora impedisce all’uomo di diventare Dio? Era il vecchio sogno di Adamo
ingannato dal serpente. Volendo in qualche modo salvare questa affermazione di
Rahner, si potrebbe dire che in realtà le possibilità dello spirito umano sono
infinite non in un senso assoluto, ma solo relativamente al fatto che
l’intelletto umano può concepire un ente infinito (Dio), e nella ricerca della
verità può avanzare continuamente oltrepassando ogni limite conquistato.
Ma il fatto è che Rahner confonde le possibilità ontologiche dell’uomo con
quelle intenzionali, vittima dell’errore idealista che confonde l’essere col
pensiero. Infatti, le possibilità intenzionali, ossia le possibilità del
pensiero, certamente sono infinite, in quanto esse – intelletto e volontà – hanno
per oggetto l’assoluto divino, per cui il progresso nella conoscenza e nella
volontà non hai mai termine; ma dovrebbe essere evidente per tutti che le
possibilità psicofisiche dell’uomo, in riferimento alla sua essenza ed alle
capacità di questa essenza, ossia in senso ontologico, sono limitate sia dal
punto di vista della natura umana specifica, sia dal punto di vista
dell’individuo.
Questi limiti invalicabili sono evidenti dal punto di vista fisico; ma
questo condiziona anche lo spirito; e anche lo spirito umano, nella sua essenza
e nelle sue possibilità, è limitato, benchè il suo esercizio, come si è detto,
possa esser soggetto ad un progresso intenzionale continuo. Lo spirito umano
può progredire indefinitamente, ma ad ogni tappa di questo cammino c’è sempre
un limite. Esistono inoltre limiti dello spirito umano, i quali, a prescindere
da ogni progresso, restano assolutamente invalicabili per l’intera specie
umana, considerata nelle sue forze naturali.
Essi sono dovuti al fatto che la ragione umana deve servirsi dei sensi e
che l’essenza stessa dello spirito umano, come quello di ogni creatura,
compreso l’angelo, non coincide col suo essere (ciò è proprio esclusivamente di
Dio), per cui ha un essere limitato dalla sua essenza. Da qui il fatto che la
ragione umana non è in grado di giungere ad una conoscenza che vada al di là di
quella che essa può ricavare dai sensi, benchè possa giungere alla conoscenza
di Dio; ma tale conoscenza coglie Dio solo per la mediazione del creato e non
nella sua intima essenza: cosa possibile solo se la ragione accoglie nella fede
la divina rivelazione.
Nella visione rahneriana sembra invece che la ragione umana possa giungere
alla visione del Dio trinitario non accogliendo una rivelazione che viene
dall’esterno, ma per un semplice sviluppo delle sue intrinseche possibilità.
Altrove Rahner dice senza mezzi termini che “definire” la natura umana “è
impossibile”[20].
“Si potrebbe definire - egli dice - all’incirca così: come la indefinibilità
ritornante e riflettente su se stessa”. Ma questa definizione si attaglia
propriamente solo alla natura divina. E allora, siamo daccapo col panteismo. Osserviamo
infatti che l’uomo certamente è capace di tornare su se stesso con
l’autocoscienza; ma questa è solo un atto dell’uomo e non lo definisce come
tale.
Ed oltre a ciò tale autocoscienza è atto di una natura definibile (la
natura umana) e non di un’essenza indefinibile, che, come si è detto, è solo la
natura divina. E’ sorprendente questa cecità di Rahner nei confronti dei limiti
dell’uomo, limiti come essere corporeo, come spirito e come creatura. Salvo,
poi, come si è detto, in altre circostanze, e come vedremo, degradare la
dignità umana con una concezione relativistica della conoscenza e con una
concezione materialistica dello spirito umano (evoluzionismo teilhardiano).
a) Anima e corpo
Circa il delicato problema della distinzione fra anima e corpo Rahner è
estremamente confusionario. Affastella, una dietro l’altra, in varie opere, una
serie di affermazioni infondate, con la pretesa di avallarle con la autorità
della Sacra Scrittura. Ci limiteremo qui a presentare, a mo’ di esempio, un
campionario di simili affermazioni. Innanzitutto Rahner mette le mani avanti
affermando che “se teniamo presenti i dati della teologia biblica, ... dobbiamo
convenire che non siamo di fronte alla concezione di un soggetto spirituale immateriale,
che in quanto ‘anima’, supera la morte biologica del corpo e ‘continua ad
operare’, bensì di fronte ad una concezione che considera l’uomo colpito in
modo radicale dalla morte”[21].
Secondo Rahner, dunque, la Bibbia non ammetterebbe l’immortalità
dell’anima. Se ciò fosse vero, la Bibbia, su questo argomento importantissimo,
sarebbe contraria alla sana ragione, che invece dimostra il contrario. In
realtà la tesi rahneriana è contraria ad una sana esegesi biblica da duemila
anni a questa parte e soprattutto è contraria al dogma dell’immortalità
dell’anima definito nel Concilio Lateranense V nel 1513.
Ma la Bibbia, ci dice Rahner, insegna dell’altro: “Dal punto di vista della
teologia biblica si può senz’altro essere dell’opinione che tutta
l’antropologia del Nuovo Testamento è ancora teologia biblica
veterotestamentaria, nella quale esiste solo l’uomo corporeo unitario, che
naturalmente, in quanto interlocutore di Dio, è anche quello che chiamiamo
spirito, ma lo è in modo tale che nel Vecchio Testamento propriamente non si
distingue mai tra corpo e anima nel nostro senso filosofico platonico,
scolastico”[22].
Qui, per la verità, non è questione di platonismo o di “scolastica”, ma di
dogma. Sorprendente l’ignoranza
(affettata?) di Rahner.
Ma secondo lui, per la Bibbia l’uomo non è composto di anima e corpo come
comprincìpi reali e sostanziali di quell’unica sostanza che è la natura o la
persona umana. Si tratterebbe solo di una distinzione di atteggiamenti
dell’unico “uomo corporeo unitario” nei confronti di Dio. Anche questa tesi di
Rahner è contraria alla sana filosofia e, se fosse vera, metterebbe la ragione
contro la fede o viceversa, dato che, come è noto, anche la distinzione fra
anima e corpo è stata definita dal Concilio Lateranense IV nel 1215.
Rahner parte dal presupposto erroneo che non si può dare sussistenza dello
spirito umano separatamente dal corpo, e per questo egli rigetta la dottrina
dell’anima separata, ossia dell’anima che continua a sussistere anche dopo la
morte del corpo. Questo rifiuto egli crede di poterlo trarre dalla stessa
Bibbia, quando invece, citando i passi della Scrittura nell’interpretazione
della Chiesa, la Rivelazione insegna esattamente il contrario.
Prendendo a pretesto la nozione
biblica dell’unità dell’individuo umano, Rahner non ammette una separabilità
dell’anima dal corpo, che per lui sarebbe un infausto lascito del «dualismo
greco». Invece per lui il corpo è il
materializzarsi dell’anima, così come l’anima è lo spiritualizzasi del corpo.
«Il corpo, per Rahner[23],
è ciò in cui l’anima raggiunge l’attuazione della sua essenza». Ma le cose non
stanno così. L’anima non è o non ha un’essenza incompleta che abbia bisogno di
essere attuata e tanto meno dalla materia. L’anima come forma è già completa in
se stessa. E per questo può sussistere da sé senza il corpo. Nei confronti del
corpo l’anima non attua la propria essenza, ma svolge la funzione informante o
formatrice, che è quella di dare forma al corpo o essere forma del corpo.
Si può dire semmai che l’anima è
un’essenza umana incompleta, perché è
parte dell’essenza dell’uomo, essenza che si completa con l’aggiunta del corpo.
Ma l’anima in se stessa è un’essenza compiuta e completa, per cui l’essenza dell’anima
si definisce indipendentemente dalla sua unione col corpo, anche se si deve precisare che è fatta per
unirsi al corpo. Ma l’anima dei defunti è
veramente anima anche senza il corpo.
Ma ciò che poi rassicura Rahner definitivamente è il riferimento alla “filosofia
contemporanea”, come la intende lui, ossia il modernismo contemporaneo, che per
lui ha l’ultima parola, anche sulla dottrina della fede: “La filosofia
contemporanea - egli dice[24]
- conosce la vita spirituale dell’uomo solo come nel contempo materiale; essa
non se la immagina nè può capirla diversamente. L’atto più spirituale
concretamente possiede anche un momento materiale. Sul piano astratto lo si può
pur pensare come del tutto spirituale, ma in tal caso si è fatto proprio un’astrazione”.
Si vede che in Rahner manca una vera dottrina dello spirito, perché non
capisce che caratteristica dello spirito è proprio quella di poter sussistere
anche senza esser unito a un corpo (anima separata, angelo, Dio). E pretende di
assegnare alla Bibbia la sua ignoranza, anche se si vale dell’appoggio di molti
modernisti come lui. Viceversa, la sussistenza autonoma dello spirito è
dimostrata dalla filosofia e confermata dalla fede (gli invisibilia, dei quali si fa professione di fede nel Credo). E’
ovvio che per concepire la pura spiritualità occorre fare un’operazione
astrattiva, come del resto per pensare qualunque cosa, ma questo non significa
affatto, come pare voler insinuare Rahner, che lo spirito puro sia un ente di
ragione, un ente puramente astratto. Al contrario, esso è nobilissima realtà,
ben più elevata della realtà materiale.
L’essere persona - dice l’Aquinate -, ossia lo spirito, che non implica
necessariamente un corpo, è l’ente più nobile di tutto il reale. Si deve osservare a questa tesi di Rahner che
la presenza della corporeità è indubbiamente necessaria per la natura umana
completa e per il normale esercizio delle sue funzioni, e per questo il dogma
della resurrezione della carne viene incontro a tale esigenza dell’uomo. Tuttavia
la Rivelazione insegna che, anche separatamente dal corpo, lo spirito umano può
essere in attività, ed anzi in un’attività così alta - la visione beatifica -, che
costituisce la stessa somma beatitudine dell’uomo. Si vede da ciò come la
spiritualità rahneriana nasconda un sostanziale materialismo.
Per Rahner infatti “non si deve vedere nella materia e nello spirito due
entità semplicemente disparate e contrastanti, ma si deve pensare la materia
come in fondo ‘spirituale’ e orientata allo spirito (coscienza) e addirittura
(per quanto in maniera essenzialmente graduata) come momento costitutivo
intrinseco della spiritualità creaturale - le quali affermazioni la fede
cristiana, lungi dal proibire, impone di fare”[25].
Si deve rispondere che materia e spirito, nell’uomo, sono realtà disparate,
ma niente affatto contrastanti, e si separano solamente al momento della morte,
nel quale l’insieme degli elementi chimici componenti il corpo diventa non più
informabile e governabile dall’anima. Durante la vita, certamente, materia e
spirito formano un’unica sostanza con un unico essere; ma ciò non elimina la
diversità essenziale fra le due componenti. Ma Rahner si guarda bene dal citare
passi della Scrittura o pronunciamenti del Magistero che suffraghino questa sua
tesi della “spiritualità” della materia, perchè essi non esistono ed anzi
parlano del tutto in senso contrario. Egli pertanto pretende presentare come di
fede ciò che la Chiesa presenta come eresia.
“La distinzione tra anima e corpo - per
Rahner [26]
- non equivale ad affermare la possibilità che tra quello che chiamiamo corpo e
quello che chiamiamo anima esista una diastasi esistenziale concreta ... una
distinzione metafisica e metaesistentiva, nel senso che non incontra mai
concretamente un semplice corpo e una semplice anima. ... Nè possiamo mai
separare concretamente le due cose”.
Rispondiamo dicendo che nell’individuo vivente non si dà effettivamente una
distinzione reale totale e completa come fra due sotanze complete perché
assieme formano un unico ente, un’unica sostanza, con un unico atto d’essere;
si dà invece di una distinzione reale incompleta o modale, benchè essenziale,
in quanto mentre l’anima è forma sostanziale del corpo, capace di sussistere da
sola senza il corpo, questi è corpo animato dall’anima, per cui si distingue
dall’anima in quanto, privo dell’animazione dell’anima, muore, mentre questa si
distingue dal corpo in quanto sopravvive alla morte del corpo.
Tra corpo e anima, nell’individuo vivente, non c’è distinzione esistenziale
e concreta come tra due sostanze, ma una distinzione reale come tra un’essenza
incompleta - l’anima spirituale - e un’altra essenza incompleta - la materia
prima del corpo umano. Essenza completa (e sostanza completa) è solo il
composto di corpo e anima. Si parla anche di distinzione modale in riferimento
al fatto che un corpo vivo è sempre un corpo animato, per cui in questo caso la
distinzione, pur restando essenziale, fa riferimento al modo col quale il corpo
si unisce all’anima.
Pertanto, si può incontrare o può esistere una semplice anima separata dal
corpo (l’anima dei defunti), ma non si può incontrare un semplice corpo vivo
che non sia informato dall’anima a formare un unico individuo, che è la persona
umana vivente. Un semplice corpo umano da solo, senz’anima, è un corpo morto, è
un cadavere, che, come tale, non si può dire propriamente nemmeno corpo umano,
ma è un ammasso di elementi chimici in via di reciproca separazione.
Osserviamo ancora dicendo che mentre il senso sente il corpo, solo
l’intelletto intuisce l’esistenza dell’anima e le sue manifestazioni nella
realtà del corpo (linguaggio, gesti, espressioni del volto, ecc.). Per questo,
se ci fermiamo alla pura esperienza fisica, con metodo crassamente positivista,
è evidente che dell’anima non sappiamo nulla; ma dobbiamo anche stare attenti a
non lasciarci sedurre da una mentalità docetista e idealista, che vede nel
corpo una mera apparenza soggettiva e risolve l’uomo nella pura autocoscienza e
autotrascendenza.
Rahner parla poi della “positività spirituale della realtà materiale”, come
“momento dello spirito (am Geist) e
della sua stessa pienezza d’essere”[27].
Ed afferma: “Ciò che noi sperimentiamo come anima, è anzitutto totalità
unitaria interna; quello che denominiamo come nostro corpo è la stessa totalità
e unità vista dall’esterno”[28].
E ancora: “Quando diciamo che il corpo è ciò che io posso vedere con gli occhi
... e ciò che è interiore apparterrebbe all’anima, allora dovremmo dire in
maniera ancor più esatta: no, questo”(cioè l’“anima”) “è un altro brano della
mia realtà, ma è pure corporeo-spirituale esattamente come ciò che posso
contemplare dall’esterno”.
Questo parlare che fà Rahner di “spiritualità” del corpo e di “materialità”
dell’anima, nonchè della distinzione fra i due come diversi modi di considerare
la medesima realtà (come già pensava Spinoza), ci fà comprendere chiaramente
l’incapacità di Rahner di capire veramente che cosa è lo spirito e di distinguere
chiaramente, secondo una sana ragione filosofica e gli insegnamenti della fede
che abbiamo visto, l’anima dal corpo. E’ vero che Paolo parla di un “corpo
spirituale”(I Cor 15,44) e di una “mente carnale”(Col 2,18): ma queste
espressioni, in Paolo, come appare dal contesto, hanno un significato morale e
non ontologico, la prima riferentesi alla vita escatologica del corpo glorioso,
mentre la seconda si riferisce al vizio della superbia. Paolo qui non intende
dare una definizione della natura umana, ma parla di due diverse situazioni
pratiche dell’uomo.
Questa confusione fra spirito e
corpo porta Rahner, come avviene nel personalismo idealista, a considerare il
corpo come “manifestazione” o “estrinsecazione” dello spirito, negando quindi
manifestazioni peculiari dello spirito distinte da quelle del corpo. Di nuovo
vediamo il materialismo sotto lo spiritualismo. Dice infatti: “Il corpo è già
spirito, colto in quel momento dell’autoattuazione in cui la spiritualità
personale perde se stessa allo scopo di poter incontrare in maniera diretta e
tangibile il diverso da sè. La corporeità perciò non è qualcosa che
ontologicamente si aggiunge alla spiritualità, bensì è l’esistere concreto
dello spirito stesso nello spazio e nel tempo. La corporeità corporea o
umano-corporea non è qualcosa che esisterebbe già, bensì è l’autoespressione
dello spirito dentro lo spazio e il tempo”[29].
Ossia - così almeno sembra voler dire Rahner - la corporeità non esiste prima
del manifestarsi dello spirito, ma è autoespressione dello spirito. Il corpo
umano, dunque, per Rahner, avrebbe origine dallo stesso spirito umano, che
“perde se stesso” allo scopo di poter “incontrare il diverso da sè”, cioè il
corpo stesso. Si tratta di una spiegazione che utilizza la dialettica
hegeliana: l’oggetto (materia, corpo) vien posto dal soggetto (spirito,
persona, io), in quanto il soggetto nega se stesso nell’altro da sé (cioè
appunto il corpo). Lo spirito umano, quindi, per Rahner, non viene ad
aggiungersi, nel processo generativo, ad una materia preesistente atta ad
essere da lui informata, come risulta dall’ontogenesi dell’individuo ed insegna
il dogma cattolico, ma è lo spirito stesso, in quanto all’origine dell’essere,
che pone il corpo attuando se stesso ed esprimendo se stesso nello spazio e nel
tempo.
Notiamo qui che è vero che il nostro spirito attua se stesso ed esprime se
stesso nel tempo e nello spazio mediante il corpo; ma questo non vuol dire
affatto che il corpo sia una pura e semplice autoattuazione ed autoespressione
dello spirito. Al contrario, lo spirito ha un suo modo proprio di attuarsi e di
esprimersi (il pensiero e la volontà), che è spirituale per se stesso, anche se
utilizza il corpo e si manifesta nel corpo. Ma sono proprio le manifestazioni
proprie, spirituali, dello spirito, empiricamente rilevabili nel loro
manifestarsi nel corpo, che ci consentono di dimostrare, come da effetto
dimostriamo la causa, l’esistenza e le prerogative proprie dello spirito, ben
distinte da quelle del corpo ed a queste ontologicamente ed assiologicamente
superiori.
La confusione fra spirito e corpo, in Rahner, si verifica non solo nel
determinare il rapporto dello spirito col corpo, per cui questi viene
falsamente spiritualizzato, alla maniera della filosofia idealistica ed
indiana, ma porta Rahner ad errare anche in direzione del materialismo positivista
e freudiano, considerando lo spirito niente più che una manifestazione ed
un’autosublimazione della materia: “L’uomo - dice Rahner[30]
- è l’essere in cui la tendenza fondamentale della materia a ritrovare se
stessa nello spirito perviene, mediante la autotrascendenza, alla sua
definitiva fioritura, sicchè l’essenza dell’uomo può pure venir considerata,
alla luce di questi dati, come inclusa nella concezione complessiva e
fondamentale del mondo”.
In tal modo questo intendere l’uomo come autosublimazione della materia
sembra venir ad identificare l’antropologia con la cosmologia, così come, dal
lato opposto, il concepire l’uomo come “illimitata autotrascendenza spirituale”
viene ad identificare l’antropologia con la metafisica e con la teologia, ed
addirittura, come vedremo, con la cristologia. Da notare inoltre che questa
“autotrascendenza” della materia sino a diventare spirito è un’assurdità che và
contro il principio di causalità efficiente, giacchè gli effetti dello spirito
sono immateriali, e quindi superiori alle possibilità della materia e, come
amava dire il Padre Garrigou-Lagrange, “il più non viene dal meno”. La causa
sufficiente degli effetti dello spirito postula una forza superiore a quella
della materia: porre come causa la materia non spiega niente, giacchè nella
causa dev’esserci qualcosa di più che nell’effetto, altrimenti non riceviamo
alcun aumento di conoscenza. Inoltre, in queste situazioni l’essere proverrebbe
dal non-essere senza l’intervento di una causa creatrice, il che è del tutto
assurdo perchè viene a confondere l’essere col non-essere. Un ulteriore segno
di materialismo.
Indubbiamente, da un punto di vista empirico noi constatiamo che dal seme
umano, che non ha anima spirituale, sorge poi l’uomo dotato di spirito: ma,
come dicevano già gli scolastici, non bisogna confondere un “post hoc” con un
“propter hoc”: il fatto che l’uomo evolutivamente sia posteriore al seme, non
significa che il seme sia ontologicamente la causa sufficiente dell’uomo,
giacchè l’anima umana non viene dal seme, ma è infusa da Dio al momento
opportuno nella materia preparata dal seme.
Inoltre, se il corpo cresce, questo non dipende da una energia esistente
nella materia, ma dalla potenza dell’anima, la quale, nel corso del tempo,
svolge una attività di autoalimentazione, che consente al corpo di aumentare di
volume. La materia ha manifestazioni proprie che non giungono mai al livello dello
spirito e, se un vivente materiale come l’uomo mostra di avere capacità o
possibilità che superano quelle della materia, questo è proprio il motivo che
ha indotto la ragione filosofica ad ammettere l’esistenza di un potere
superiore alla materia, che è quello dello spirito.
E per concludere, su questo argomento, con due tesi rahneriane molto
significative, sentiamo ancora come vede Rahner, nel complesso, il rapporto
materia-spirito.
1.Prima tesi.
“Il corpo - egli dice[31]
- è in qualche modo ciò che dell’anima, per usare un’immagine plastica, si
condensa da se stesso nel tempo e nello spazio preesistenti come suo stato di
aggregato”.
2.Seconda tesi:
“Quella che noi chiamiamo realtà materiale è sempre stata vista, per lo meno in
una filosofia tomista[32],
come spirito incapsulato, quasi gelato, come ente limitato, il cui essere in
quanto tale ... è precisamente quell’essere che, al di fuori di una tale
limitazione, significa essere-presso-di-sè, conoscenza, libertà e trascendenza
verso Dio”[33].
Qui Rahner pretenderebbe di seguire S.Tommaso, ma in realtà si lascia
sopraffare da grossolane fantasie, sbalorditive in un pensatore che per altri
versi mostra sensibilità e intelligenza nei confronti dei valori dello spirito.
L’anima,
dunque, per Rahner, parrebbe essere una specie di gas che si condensa o di
vapore acqueo che si trasforma in ghiaccio: la condensazione o il ghiaccio che
ne risulta sarebbe il “corpo”. Qui possiamo vedere una totale e quasi
incredibile incomprensione, in un teologo pur sensibile alle esigenze dello
spirito, di quello che è l’abisso ontologico esistente fra la realtà materiale
e quella spirituale, le quali, come insegna la filosofia scolastica, non
convengono neppure dal punto di vista categoriale, ma solo da quello
trascendentale; vale a dire che materia e spirito sono sostanze così diverse
fra loro, che si usa per essi il termine “sostanza” solo in senso analogico e
non univoco; si tratta di due generi diversi di sostanza che convengono solo
nel fatto di appartenere entrambe all’ordine della realtà e dell’esistenza.
Spirito e materia non sono diversi nell’esser tale, ma sono diversi nell’essere
come tale. E se l’intelletto, che è spirituale, non sa fare da solo il balzo
dalla materia allo spirito, a nulla gli vale la conoscenza della materia.
Che cosa hanno infatti in comune la sostanza chimica e
la Sostanza divina? Eppure entrambe, in modo infinitamente diverso, sono enti
in se sussistenti: definizione, questa, che conviene alla sostanza e ad ogni
sostanza, sia materiale che spirituale. E se noi uomini possiamo farci questa
idea del mondo dello spirito, quest’idea, nella vita presente, è semplicemente
indiretta ed analogica, salvo quella che possiamo ottenere dalla autocoscienza
e dall’esperienza interiore, che però, più che essere un’“idea”, è
un’esperienza, certo verace, ma semplicemente soggettiva ed incomunicabile[34].
Ciò vuol dire che, mentre del mondo materiale possiamo
conoscere l’essenza mediante il processo mentale che astrae l’essenza
universale dal particolare, per quanto riguarda l’essenza della sostanza o
della forma spirituale, possiamo averne, nella vita presente, solo una
conoscenza indiretta o simbolica mediante gli effetti nel mondo sensibile, studiando
di elevare, per quanto ci è possibile, il nostro spirito, alla dignità
misteriosa di quella realtà.
In base a quello che abbiamo visto, possiamo
concludere dicendo che Rahner oscilla fra una concezione materialista dell’uomo
- l’uomo come misto inscindibile di materia e spirito e come risultato
dell’evoluzione della materia - e una concezione ultraspiritualista - l’uomo
come autocoscienza e autotrascendenza -, e per questo cade, nonostante il suo
intento monistico, in un irresolubile dualismo, in una contradditoria
antropologia materialistico-idealista, nell’intento disperato, eppure
seducente, condiviso da molti, di appoggiare tale antropologia sulla Sacra
Scrittura; ma l’errore di molti non basta a costituire la verità.
Questo fenomeno preoccupante testimonia invece di
quanta distanza separi molti esegeti e teologi dalla vera concezione biblica
dell’uomo e dalla stessa concezione che è possibile formare in base ad una sana
filosofia, che rispetti veramente le esigenze della ragione e dell’esperienza.
b) Persona e
natura.
Se nella tematica del rapporto spirito-corpo Rahner
presenta accenti materialistici, nella tematica della “persona” si mostra
invece, come abbiamo visto, ultraspiritualista, tanto da farci pensare
all’idealismo panteista o alla filosofia indiana. Per lui l’“essere originario dell’uomo
in quanto soggetto e persona” è addirittura l’“l’orizzonte e l’origine della
trascendenza”, che altrove dice essere Dio[35].
L’“esperienza trascendentale” o “esperienza della trascendenza”, per Rahner, è
“esperienza di Dio”, e costituisce l’attuazione essenziale dell’uomo[36].
E’ il tema già visto dell’identificazione dell’essenza
dell’uomo con la tendenza verso Dio, sicchè non si vede come possa essere uomo
chi non tende verso Dio, come il peccatore e l’ateo. Il concetto di natura
umana in Rahner sembra avere due aspetti: a) da una parte, quando egli tratta
del rapporto natura-grazia, la vede come una semplice essenza possibile, un
ente astratto o, come egli si esprime, un “in sè”; b) dall’altra, invece,
quando parla del rapporto natura-persona, la “natura” appare come una specie di
“materiale” preesistente alla “persona” intesa come “spirito”, un materiale col
quale la persona deve fare i conti, un materiale informe o casuale, che le
oppone una certa resistenza, e che la persona può utilizzare, plasmare e
modificare a suo arbitrio in nome della “libertà” e della “cultura”. Pertanto è
assente o negato, in Rahner, il concetto, pur così importante nella morale
cristiana e nel Magistero della Chiesa, di una “natura umana”, con le sue
proprie leggi morali oggettive, universali ed immutabili, stabilite dal
Creatore, che faccia da criterio certo ed assoluto per il retto agire della persona.
Al contrario, per Rahner, è la persona a legiferare
nei confronti della natura, sia pur sempre, come egli dice, “davanti a Dio”. Ma
ciò ha il sapore di una perfetta ipocrisia, dopo che Rahner toglie a Dio ogni
diritto di normare e guidare la natura e lo assegna esclusivamente all’uomo.
Infatti, con quale lealtà e tranquillità di coscienza possiamo agire “davanti a
Dio”, quando con sfrontatezza regoliamo la nostra natura non secondo quella
legge che Egli stesso ha posto nella natura creandola, ma secondo l’arbitrio di
una nostra pretesa “libertà”, che ignora il dato oggettivo e fuoriesce dai
termini e le norme stabilite dal Creatore?
Dice Rahner: “Dove si ha una persona ivi si ha una
libertà, un unico centro personale di attività. Di fronte ad esso ogni altra
realtà (natura, nature) non può essere, in questa persona e per lei, che
materiale strumento, che riceve ordini e manifesta quest’unico centro personale
e libero”[37].
Rahner tende a ridurre la natura alla materia, che resiste all’azione dello spirito
(cioè la persona): egli parla di un “dualismo tra persona e natura, del
contrasto fra l’essenza previa alla decisione libera”(cioè la natura) “e la
tendenza del soggetto libero a disporre totalmente della sussistenza della
propria realtà”[38].
Dunque per Rahner la natura non è ordinata
originariamente da Dio, sì che l’uomo sia autorizzato ad ordinarla solo
fondandosi sull’ordinamento divino; ma l’uomo appare come un divino demiurgo,
plasmatore a piacimento della natura, sicchè in pratica viene ad usurpare ciò
che spetta soltanto a Dio. Di nuovo il tema panteistico e prometeico dell’uomo
che pretende ad una divina onnipotenza. Sorge peraltro a questo punto, e nella
sua versione peggiore, persino il tema del dualismo materia-spirito, che pure
Rahner, in altra sede, come abbiamo visto, pretende di aver superato col suo
monismo confusionario e materialistico falsamente attribuito alla Bibbia. E non
si tratta del dualismo paolino carne-spirito, che riflette il contrasto della
ragione con le passioni conseguente al peccato originale, ossia di un contrasto
di tendenza insito al medesimo soggetto umano, ma siamo di fronte ad un vero
antagonismo tra due soggetti - la persona - spirito e la “natura”- materia -,
dove la persona svolge il ruolo del principio del bene e della libertà, mentre
la natura è principio del male e della schiavitù.
La “persona”, allora, ha il compito di mettere ordine
nel caos della “natura” e di liberarsi dalla sua schiavitù. Non si tratta
dunque del dualismo paolino, del tutto rispondente alla situazione della natura
umana decaduta, ma dell’antico dualismo gnostico-platonico-indiano, e che nulla
ha a che vedere né con una sana antropologia né con la Sacra Scrittura.
Rahner
definisce così l’essenza umana mediante la categoria del suo libero agire,
sicchè l’essenza dell’uomo non appare predeterminata all’agire della persona,
ma pare effetto della stessa libera azione della persona; l’uomo non decide di
sè soltanto nel senso morale di scegliere il proprio fine ultimo, ma anche nel
senso ontologico di determinare i caratteri della sua stessa natura, di per sé,
come abbiamo visto, indeterminata, indefinibile ed illimitata, ossia senza
termini netti e precisi. Si tratta di un concetto idealistico dell’uomo - l’uomo
creatore di se stesso -, che troviamo in Fichte, in Hegel ed in Gentile; ma
che, in chiave materialistica, si ritrova anche in altri, come in Marx e in
Nietzsche.
“L’atto libero
dell’uomo - dice al riguardo Rahner[39]
- ... non può venire inteso come un epifenomeno estrinseco, sotteso, ma solo
dall’esterno, da un’essenza sostanziale ed immutabile, mentre diviene invece la
determinazione più profonda e più vera di tale essenza. ... L’uomo comincia
come essenza radicalmente aperta e non definita, e quando la sua essenza è
completata, ciò è avvenuto attraverso la sua libera azione”[40].
Osserviamo che
l’atto libero certamente non è un “epifenomeno” della natura umana, perché
l’uomo è essenzialmente libero; tuttavia esso è esterno alla natura umana, in
quanto ne è un’attuazione appunto libera e non necessaria. Rahner confonde la
facoltà del libero volere con l’atto libero. La facoltà esiste necessariamente
nell’uomo, perché è un accidente proprio della sua essenza. Ma l’atto libero
può anche non esserci e non per questo il soggetto che non lo emette manca
della natura umana. Un embrione, un demente, un agonizzante, un dormiente che
non possono emettere atti liberi, non per questo non posseggono l’essenza
dell’uomo. L’atto libero non ha lo scopo di “completare” o “determinare”
un’essenza di per sé indeterminata e “aperta”, ma ha quello di attuare le
inclinazioni e le potenzialità proprie della natura umana in base alle sue
finalità ed alle norme della legge morale, che sono contenuti oggettivi,
determinati ed universali, anche se indubbiamente, all’interno del loro
orizzonte, è consentito al singolo e alla società di stabilire ulteriori
determinazioni pratiche, come per esempio i precetti privati o la legge
positiva.
C’è da notare
che la natura umana, come è già stabilito dall’antropologia filosofica e dalla
rivelazione cristiana, non è per nulla un qualcosa di indeterminato o una mera
materia arbitrariamente plasmabile a proprio piacimento. L’uomo non è l’essere
in generale, ma è un ben determinato ente -animale razionale chiamato da Dio
alla figliolanza divina -, per cui i suoi atti liberi, affinché possano
condurlo alla felicità, non possono regolarsi su se stessi, ma su quelle leggi
che discendono dagli stessi fini della natura umana e dalla sua vocazione alla
vita cristiana.
Anche nel parlare di “apertura” - parola oggi tanto di
moda - bisogna esser cauti: la natura umana, in quanto spirituale, ha sì
un’apertura all’assoluto e in fin dei conti a Dio. Ma essa - e siamo sempre
daccapo - non si risolve in questa apertura. Non si deve temere di dire che la
natura umana come tale, non è “aperta”, ma chiusa nei suoi limiti essenziali,
che essa, da sé, non riesce a superare: il che non le impedisce, con la grazia
divina, di oltrepassarli per vivere una vita divina superiore alla natura,
appunto perché, nell’ambito delle sue facoltà spirituali (non come essenza),
essa è effettivamente aperta al trascendente (mens capax Dei). Ma tale apertura riguarda il suo agire, non il suo
essere e si aggiunge all’essere come proprietà essenziale dell’essere. Ma
l’essere umano esiste completo e definito già prima e indipendentemente
dall’aprirsi all’assoluto e a Dio. Quando dormo non mi apro a nessun assoluto,
ma non per questo sono privo della mia essenza umana. Inoltre, c’è da osservare
che per “apertura” possiamo intendere due cose: o la facoltà o capacità di
cercare Dio (mens capax Dei) oppure
l’atto col quale effettivamente cerchiamo Dio attuando, mediante l’esercizio
del libero arbitrio, questa facoltà che Dio ci ha dato. Nel primo caso
certamente si tratta di un’apertura che entra nell’essenza dell’uomo, anche se
non si risolve in questa essenza; invece
nel secondo l’apertura effettiva dipende da ciascuno di noi, per cui c’è chi si
apre e c’è chi non si apre.
Rahner avanza le esigenze della “cultura” e della
“civiltà” per sostenere il diritto della persona a completare e modificare a
proprio piacimento la natura dell’uomo: “è vero che l’uomo ha una natura di cui
deve tener conto nelle azioni, è vero anche che egli è l’essere che attraverso
la cultura e la civiltà ... forma e configura attivamente questa natura e non
può semplicemente presupporla come un’entità categorialmente fissata in
assoluto”[41]
.
Rispondo dicendo che è vero che la cultura e la
civiltà arricchiscono in modo prezioso l’esistenza e la vita dell’uomo, portandola
ad un ulteriore perfezionamento che non è dato dalle condizioni naturali di
partenza della vita umana. Ma la vera cultura e la vera civiltà non si limitano
affatto a “tener conto” di una natura umana preesistente, come fosse un
semplice materiale che fà resistenza e che si ha diritto di completare o
trasformare a piacimento. Al contrario, la vera cultura e la vera civiltà
presuppongono una conoscenza quanto più precisa possibile della verità circa la
natura umana, le sue inclinazioni, le sue leggi ed i suoi fini e, nell’ambito
indicato da queste tendenze ed all’interno dei limiti consentiti dalla legge
morale, si studiano di attuare le tendenzialità, di svilupparne le virtualità, di
stimolarne la creatività, di soddisfarne i bisogni, correggendo cattive
inclinazioni, colmando lacune e rafforzando i punti deboli.
E’ questa
l’opera educativa. Pensare ed agire diversamente non sarebbe affermazione ma
negazione di libertà; non sarebbe né cultura né civiltà, ma barbarie e
tragedia, come quelle dei regimi di Hitler e di Stalin, che appunto lasciarono
libero corso a dottrine morali così perverse. Purtroppo una dottrina morale
così smaccatamente liberale e permissiva si è largamente diffusa negli ambienti
della teologia morale cattolica: è quanto è denunciato da Giovanni Paolo II nella
sua enciclica Veritatis splendor, nella
quale l’etica rahneriana viene appunto severamente condannata, pur senza che si
faccia il nome di Rahner. Tuttavia, non è difficile riconoscerlo nella
descrizione dettagliata fatta dal Papa della dualità di trascendentale e
categoriale, la quale costituisce una struttura portante del sistema rahneriano[42].
c) L’umanesimo
cristiano
L’errore grave di Rahner è, a mio avviso, la sua
pretesa di definire l’essenza dell’uomo in termini soprannaturali, come se la
vita cristiana o soprannaturale fosse una proprietà essenziale dell’uomo. Rahner
è giustamente preoccupato di mettere in armonia natura e grazia, mostrando
l’infinita importanza di quest’ultima ai fini di un pieno umanesimo e come, in
concreto, l’uomo non è ordinato ad un semplice fine naturale, ma alla vita
soprannaturale che deve sfociare nella visione beatifica in paradiso. Egli è
preoccupato di sostenere e mostrare che la grazia, pur distinta dalla natura, non
va vista come un qualcosa di posticcio, - “come l’olio al di sopra dell’acqua”
-, per dirla con S.Agostino, e tanto meno di superfluo, come un “frontone
decorativo in un palazzo”, come diceva Maritain, ma essa pervade intimamente
tutta la natura dell’uomo nella sua intimità, divenendo vita della sua vita, come
dice S.Paolo: “Non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Tutto ciò è più che giusto; ma purtroppo Rahner và
anche ben al di là di questa legittima istanza e si esprime ripetutamente in
modo da far pensare che la grazia sia una specie di compimento o esigenza della
natura e sia necessaria ed obbligatoria perchè l’uomo sia quel che dev’essere
in quanto uomo. Invece, nella vera dottrina cattolica, è vero che la grazia è
necessaria per guarire la natura decaduta (grazia sanante). Ma la funzione più specifica
della grazia è quella di elevare l’uomo stesso (grazia elevante) alla dignità
di figlio di Dio, mosso dallo Spirito Santo ed erede della vita eterna.
Rahner invece non vede questo secondo tipo di grazia,
limitandosi a parlare della funzione salvifica della grazia (come fà Lutero) e
trascurando quindi il fatto che lo scopo più alto della grazia è quello di
condurci a contemplare il Padre così come lo contempla il Figlio e ad amare il
Padre così come lo ama lo Spirito Santo.
Dice egli infatti che “l’uomo è per essenza uno spirito in ascolto di
una possibile rivelazione di Dio”[43].
Ed altrove afferma che “l’effettiva natura dell’uomo” non va intesa come “pura
natura”, ma è “una natura nell’ordine soprannaturale, dal quale non può uscire”[44].
“La trascendenza dell’uomo ... viene costituita nella sua concretezza
dall’autocomunicazione divina”, cioè dalla vita di grazia[45].
“L’uomo è l’evento dell’autocomunicazione assoluta e perdonante da parte di
Dio”[46].
“L’uomo è l’evento dell’assoluta autocomunicazione divina, sempre, inevitabilmente
e fin dall’inizio”[47].
“Che cosa significa la nostra vita, che in fondo possiamo comprendere solo se
la consideriamo in quanto è, anzitutto e in definitiva, la vita di Dio?”[48]
.
In questa visuale di Rahner non si vede come sia
possibile l’esistenza del peccatore, privo della grazia, o come sia possibile
lo stesso peccato, che in definitiva è una perdita della grazia. Infatti, se
per essere uomo bisogna essere in grazia, ne viene che chi non è in grazia non
è uomo: il che è assolutamente contrario alla dottrina cattolica tradizionale. Ma Rahner è ancora più esplicito e nomina
espressamente la necessità che l’uomo, proprio per uomo, sia anche cristiano, come
se il non-cristiano non fosse neppure un uomo.
Ciò sembra segno di stima per il cristianesimo, ma in
realtà è un abbassare il soprannaturale a costitutivo della natura. Dice
infatti Rahner:
“L’uomo è una
domanda radicale di Dio, la quale può anche avere una risposta, ... che, in
quanto apparsa storicamente e radicalmente tangibile, è l’uomo-Dio”[49].
L’uomo, secondo Rahner, “nella sua storia guarda sempre con ansietà se non gli
venga incontro la suprema attuazione ... del suo essere e della sua
aspirazione”. Fin qui và bene, ma poi prosegue con una conclusione più ampia delle
premesse: “L’uomo è quindi l’essere che ha da attendersi la libera epifania di
Dio nella sua storia. Tale epifania è Gesù Cristo”[50].
Rahner cerca di rimediare a questo difetto con la sua
famosa teoria dei “cristiani anonimi”, ma il rimedio è peggiore del male, perché
questi cosiddetti “cristiani anonimi”, che in altra occasione chiama
“impliciti”, in realtà non sono neanche impliciti, giacchè Rahner ammette che
possono salvarsi anche gli atei contro quello che dice espressamente la Lettera agli Ebrei, secondo la quale per
essere graditi a Dio bisogna credere che esiste e che è rimuneratore delle
buone opere.
Osservo che Cristo non è la semplice risposta ai
bisogni naturali dell’uomo; e non è neppure la semplice risposta ad un bisogno
di salvezza o di perdono dei peccati. E non è neanche vero che l’uomo va
spontaneamte alla ricerca di Cristo, se nessuno glie ne parla. Ciò non risulta
dalla Rivelazione. È vero che il Logos illumina ogni uomo e che tutti devono
rispondere davanti al suo tribunale. Ma ciò non avviene perché hanno cercato il
Logos e reclamato il Giudice, ma perchè il Logos si è loro rivelato e perchè il
Giudice li ha convocati.
Cristo certamente è il Salvatore e l’Uomo completo; ma
è nel contempo infinitamente di più: è una pienezza, una felicità che l’uomo
con la sua mente non avrebbe mai potuto nemmeno immaginare, se non fosse stato
Dio stesso a rivelarlo. L’uomo di per sè avrebbe potuto esser felice
semplicemente con la soddisfazione dei suddetti bisogni. Il fatto che il Padre
ci abbia donato Cristo e lo Spirito Santo, vuol dire che non si è accontentato
di andare incontro alle necessità dell’uomo, ma ha voluto fargli un dono del
tutto insperato, non cercato, gratuito e sovrabbondante rendendolo, in Cristo, partecipe
della vita divina trinitaria.
Rahner, invece, facendo della vita divina un bisogno ed addirittura un
costitutivo dell’essenza dell’uomo, si avvicina pericolosissimamente al panteismo,
anche se forse era nelle sue intenzioni solo esaltare la bellezza e la
grandezza dell’umanesimo cristiano (la famosa “svolta antropologica”). La vita
di grazia, per Rahner, non è una semplice possibilità data all’uomo, non è, per
esprimerci con le sue parole, un “dover essere, ma un esserci, che è intimo
all’uomo”; non è solo “un decreto giuridico esterno”, cioè un qualcosa che
dipende puramente dal beneplacito divino positivamente e giuridicamente
manifestato nella rivelazione storica (o almeno mi pare così intenda Rahner), ma
è una “disposizione obbligatoria”: non si capisce bene da parte di chi: se
dell’uomo o di Dio; ma in ogni caso siamo fuori strada, perché né Dio è
obbligato a darci la grazia, se non per premiare la grazia, né noi siamo
obbligati a chiederla, se non quando siamo già in grazia.
L’errore di Rahner, qui, lo abbiamo già visto: è il trasformare in dato di
fatto, e per lo più universale, costitutivo e necessario (“obbligatorio”)
quella vita di grazia nei confronti della quale certo l’uomo ha una
disponibilità - la cosiddetta potentia
oboedientialis -, ma alla quale non ha nessun diritto e nei confronti della
quale Dio non ha nessun dovere. Se Dio non ci avesse donato Cristo, certo non
avrebbe mostrato così tanto la sua infinita bontà; ma non avrebbe mancato di
giustizia e di bontà nei confronti delle esigenze della natura umana, che
avrebbe potuto ugualmente godere di una felicità naturale, ed anche
soprannaturale, benché non al livello della grazia di Cristo, come era la
grazia della coppia edenica.
Rahner confonde la possibilità data a tutti di vivere in grazia, cosa
questa verissima ed importantissima, col fatto che tutti siano in grazia, cosa
questa circa la quale invece non abbiamo alcuna certezza, ed anzi sappiamo, come
dice Paolo, che “non di tutti è la fede” (II Ts 3,2). Sappiamo anche, come
abbiamo visto a suo luogo, che non tutti si salvano. Egli trascura il fatto che
la vita di grazia si aggiunge alla natura come proprietà o abito soprannaturale,
e non costituisce la sostanza dell’essere umano, ma è un “accidente”, che può esser
perso e di fatto purtroppo alcuni lo perdono, e non per questo perdono la loro
essenza umana, anche se possono esser paragonati, come dice la stessa
Scrittura, ad “animali senza ragione”(Gd 10).
Per Rahner, invece, l’“essenza metafisica” dell’uomo sarebbe data dal fatto
di essere, “nella struttura che di fatto lo costituisce, un ente
soprannaturale”[51]
. Per essenza, invece, da un punto di vista metafisico, l’uomo è un ente
naturale che diventa “soprannaturale” solo per partecipazione e non mai per
essenza. Ente soprannaturale per essenza, propriamente parlando, è solo Dio.
Non c’è da meravigliarsi, allora, che nella visuale rahneriana dell’uomo
soprannaturale, la natura (pura) diventi poco più che una possibilità astratta,
mentre la realtà concreta è totalmente assorbita dal soprannaturale[52].
Non sorprende neppure che egli a un certo punto perda di vista la stessa
possibilità di distinguere il naturale dal soprannaturale, e lo confessa con
schiettezza: “Questa natura ‘pura’” (cioè la realtà naturale dell’uomo)“non è
un’entità chiaramente delimitabile e definibile, né si può tracciare, per dirla
con Philipp Dessauer, una netta linea orizzontale tra questa natura e il
soprannaturale”. Non abbiamo, secondo Rahner, gli strumenti “per poter dire
sempre esattamente ciò che nella nostra esperienza esistenziale spetta ad essa”
(=alla natura) “e ciò che si deve al soprannaturale”[53].
Ora bisogna rispondere che la pura natura non è altro che l’animal rationale, il quale, nella
condizione presente, è ben distinguibile dalla sua vita di grazia soprattutto
quando si trova in stato di peccato mortale, privo della grazia. Ora, però,
sappiamo bene come purtroppo Rahner, al seguito di Heidegger, disprezza questa
definizione dell’uomo e non ne parla mai, quando invece una corretta analisi di
questa definizione gli avrebbe risparmiato la sua visione erronea del
rapporto dell’anima col corpo, nonché l’incapacità che qui mostra di capire
che cos’è la natura pura e la sua distinzione dalla vita di grazia.
Se le cose stanno come dice Rahner, non si riesce neanche più a vedere dove
sta la distinzione fra antropologia filosofica e antropologia cristiana. E di
fatti Rahner, coerente con se stesso (ma sempre nell’errore), nega la
distinzione affermando che “un’antropologia teologica non può concepirsi come
complementare all’antropologia profana, ma come il centro più intimo”
(dell’antropologia profana) “che è pervenuto a se stesso”[54].
“La dimensione teologica del problema uomo si identifica con tutte le
dimensioni dell’uomo alle quali guardano le antropologie profane, a patto che
queste dimensioni con tutta la loro profondità radicale, vengano viste, accettate
e tematizzate in quanto tali”[55].
“Le affermazioni antropologiche apparentemente solo profane si rivelano
come proposizioni segretamente teologiche non appena le prendiamo seriamente
nella loro radicalità in loro insita”[56].
Rahner sembra voler vedere il soprannaturale niente più che uno sviluppo totale
del naturale o un approfondimento radicale di quest’ultimo, come se l’uomo, elevandosi
al massimo delle sue possibilità, potesse divenire Dio. Ma ciò toglie
evidentemente la distinzione tra natura umana e natura divina, che è dogma di
fede definito a Calcedonia. Certo, con la proposta rahneriana, gli studenti di
teologia, a causa della mescolanza della filosofia con la teologia, potrebbero
vedersi ridurre la durata dei corsi. Ma ne varrebbe la spesa, soprattutto per
dei futuri sacerdoti?
Possiamo adesso trarre le
conclusioni di questa analisi del pensiero di Rahner. In lui, come in Hegel, metafisica,
antropologia e teologia fanno un tutto unico, un unico Soggetto, un unico
essere come autocoscienza, peraltro diviso in se stesso fra trascendentale e
storia, finito e infinito, materia e spirito. Tutto si gioca nell’essere, ma
l’essere è autocoscienza, quindi Dio. Dunque tutto in Dio. Ma le distinzioni in
Dio non possono che essere di ragione, non reali. Non dunque distinzione reale
tra due persone reali: uomo e Dio. Quindi non c’è in Rahner un vero dialogo
interpersonale fra l’uomo e Dio, ma solo fra la polarità-uomo e la polarità-Dio
dell’unico Essere autocosciente che è al contempo agire e divenire, passaggio
fra l’una e l’altra delle due polarità.
Come è stato fatto notare, benchè Rahner amasse la preghiera ed abbia
composto delle preghiere, dato che l’essere si risolve nell’autocoscienza, alla
fine resta il solo Io, sicchè l’orante non ha davanti a sè un vero Tu divino personale,
ma solo se stesso, anche perchè, come è noto, per Rahner in Dio non ci sono tre
persone, ma tre modi di sussistenza dell’unico Soggetto divino. L’uomo in
Rahner è essenzialmente relazione (“autotrascendenza”) a Dio e Dio è
essenzialmente relazione (“autocomunicazione”) all’uomo. L’uomo termina in Dio
come trascendenza illimitata e Dio termina all’uomo come Dio che diviene
finito, diviene uomo. Dio è l’“orizzonte” dell’uomo e l’uomo è il “destino” di
Dio. L’uomo diviene Dio e Dio diviene uomo. Con l’atto del trascendere sembra
che l’uomo superi se stesso, vada oltre se stesso uscendo da se stesso, ma pur
restando se stesso e quindi ampliando la portata del proprio essere, fino a
raggiungere Dio come “orizzonte” di questo essere.
Ma come l’uomo compie questo atto? Come si pone in questa relazione con
Dio? E in che cosa consiste tale relazione? Che cosa è esattamente questa
“trascendenza”? Dio resta trascendente? Dio mi trascende? Sono trasceso da Dio?
Per Rahner il soggetto, umano o divino che sia, è autocoscienza, è essere in
quanto pensiero, è pensiero sussistente. Infatti per Rahner l’essere come tale e
quindi qualunque essere è autocoscienza. Dunque questo autotrascendersi sarà
all’interno dell’io, un non-io posto dall’io, come dice Fichte: è al contempo
intenzionale ed ontologico, perché l’intenzionale e l’ontologico sono lo
stesso. Allora l’uomo diviene Dio non solo intenzionalmente, nel pensiero, ma
realmente e nel contempo resta uomo, anzi è massimamente uomo. Siamo nel
panteismo.
Quindi non si concepisce Dio senza l’uomo e non si concepisce l’uomo senza
Dio. L’uomo entra nel concetto di Dio e Dio entra nel concetto di uomo. L’uomo
si definisce con attributi divini e Dio si definisce con attributi umani.
Questo, secondo Rahner, sarebbe il Dio “cristiano”. Un gravissimo
fraintendimento del dogma dell’Incarnazione che confonde persona e natura e non
distingue, alla maniera di Eutiche e di Hegel, le due nature, ma l’una passa
nell’altra, male interpretando il detto giovanneo “Il Verbo si fece carne”. L’uomo
si risolve nella relazione con Dio e Dio si risolve nella relazione con l’uomo.
L’uomo è nel suo compimento Uomo-Dio e Dio nel suo abbassamento è Dio-uomo. Se
l’uomo non si relaziona con Dio non è uomo; se Dio non si relaziona con l’uomo
non è Dio.
Nell’uomo l’essere si identifica con
l’azione e con la relazione come in Dio: l’uomo è relazione a Dio, apertura a Dio
e trascendenza verso Dio così come Dio è relazione all’uomo, autocomunicazione
all’uomo, divenire-uomo. Ora, dato che invece nella creatura in realtà la
sostanza si distingue dall’agire e dalla relazione, e solo Dio è azione e
relazione sussistenti, scompare la distinzione fra l’uomo e Dio. Infatti nella
creatura l’azione è attuazione di una potenza, sicchè la creatura è composta di
potenza ed atto, mentre Dio è atto puro di essere, essere sussistente. Per
questo in Dio l’azione non è attuazione di una potenza, ma è lo stesso essere
divino.
In Rahner la cristologia media fra l’antropologia e la teologia. E fin qui
tutto bene. Ma questa mediazione appare troppo stretta, tanto da togliere i
confini tra l’antropologia e la cristologia e quindi tra l’antropologia e la
teologia. Infatti Cristo in Rahner è al contempo da una parte l’uomo nel quale
la grazia raggiunge il suo vertice divino ed è l’orizzonte ultimo della
trascendenza dell’uomo in grazia e dall’altra è il vertice
dell’autocomunicazione della grazia divina all’uomo. In questo modo non
appaiono più i confini tra la natura umana e la natura divina, tra la grazia
creata e la grazia increata. Cristo non è altro che la pienezza dell’uomo e
l’uomo è l’autocomunicazione di Dio.
In Rahner l’Incarnazione non è l’atto divino col quale il Logos assume una
natura umana in unità personale con Sé, ma è il fatto che il Logos, pur
restando immutabile in sè, diviene altro da sé, ossia uomo, nell’umanità di
Cristo, la quale umanità perciò, corrispettivamente, si innalza (si
“trascende”) alla dignità del Logos. Poiché dunque per Rahner il Logos divino è
il vertice dell’umano, si capisce perché secondo lui l’Incarnazione non può che
riguardare il Logos, mentre per lui sarebbe assurdo pensare, come invece fa la
teologia tradizionale, che in linea di principio anche il Padre o lo Spirito
Santo avrebbero potuto incarnarsi. Infatti in quest’ipotesi si verrebbe a
negare all’uomo la possibilità di raggiungere il vertice della sua perfezione.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 7 ottobre 2019
52. Questioni di antropologia teologica, Corso ISSR, A.A. 2010, Docente: P. Prof.
Giovanni Cavalcoli O.P., Bologna, 2010, pp. 82 - (documento
PDF - 866 KB)
Bibliografia su Karl Rahner. Sin dagli inizi della sua attività teologica
Rahner è stato un teologo molto controverso. Soprattutto a partire dall’epoca
del Concilio Vaticano II, al quale dette un importante contributo, il suo
prestigio e la sua fama conobbero un crescente aumento in tutto il mondo sia
negli ambienti accademici che in generale nel mondo cattolico. Sennonché però
sin dai primi anni del postconcilio eminenti teologi gli contestarono gravi
errori o quanto meno gravi equivoci, come quelli che ho cercato di esporre in
questo corso. Sono nati così due schieramenti, uno a favore di Rahner e l’altro
di tono critico. Il primo schieramento sembra godere di una maggioranza ed è
riuscito a conquistare posizioni di potere all’interno della Chiesa. Ma l’altro
che a suo tempo contò tra le sue file lo stesso Joseph Ratzinger, sta pure
acquistando forza e ciò che si può prevedere ed auspicare è che l’aspetto
negativo del rahnerismo dovrà essere tolto in quanto esso tende a deformare la
natura della Chiesa, la quale viceversa ha ricevuto dal suo Fondatore la
promessa della indefettibilità.
Una bibliografia aggiornata
degli autori favorevoli a Rahner è di facile reperimento. Per questo qui rimando
invece ad una bibliografia di orientamento critico che è possibile trovare nel
mio libro Karl Rahner. Il Concilio
tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.311. Bibliografia
generale-S.Tommaso spesso tratta dell’uomo, oltre che nella Summa Theologica (I, qq.75-102;117-119),
nel Commento al De Anima di
Aristotele, nella Summa Contra Gentes,
l.II, cc.46-101, in molti luoghi del Commento
alle Sentenze, in molte delle Quaestiones
disputatae, nel Compendio di Teologia,
cc.75-94, ed in altre opere di minore importanza. T.M.Zigliara, De mente
Concilii Viennensis in definiendo dogmate de unione animae humanae cum
corpore iuxta doctrinam S.Thomae, Typographia Polyglotta Sacrae
Congregationis de Propaganda Fide, Romae 1878; J.Maritain, L’immortalité du soi, in De Bergson à Thomas d’Aquin, Ed.Hartmann,
Paris 1944, pp. 149-185; R.Garrigou-Lagrange, La synthèse tomiste, Ed.Desclée de Brouwer&Cie, Paris 1947,
pp.325-342; G.Montanari, Determinazione e
libertà in S.Tommaso d’Aquino, Edizioni della Pontificia Università
Lateranense, Roma 1962; U.Degl’Innocenti, Il
problema della persona nel pensiero di S.Tommaso, Edizioni della Pontificia
Università Lateranense, Roma 1967; A. Boccanegra, De Homine, dispense scolastiche presso lo STAB, Bologna 1974,
pp.23-46; L’uomo e il mondo nella luce dell’Aquinate, Atti dell’VIII Congresso
Tomistico Internazionale, Libreria Editrice Vaticana 1982, vol.VII; L’anima nell’antropologia di S.Tommaso
d’Aquino, Atti del Congresso Internazionale della SITA, a cura di A.Lobato,
ed.Massimo, Milano 1987; Antropologia
tomista, Atti del IX Congresso Tomistico Internazionale, Libreria Editrice
Vaticana 1991; L’animale razionale, monografia
di Divus Thomas,1,1992; Giorgio
Carbone, L’uomo immagine e somiglianza di
Dio. Uno studio sullo Scritto sulle Sentenze di San Tommaso d’Aquino, ESD,
Bologna 2003. 312. Altri Autori-A.M.Weiss, L’uomo
intero, Ed.Mondauni, Torino 1894; E.Barbado, Introduzione alla psicologia
sperimentale, Ed. Angelicum, Roma 1930; R.Garrigou-Lagrange, L’altra vita e la
profondità dell’anima, Ed. La Scuola, Brescia 1947; J.Fröbes, Compendium psychologiae experimentalis,
Ed. dell’Università Gregoriana 1948; G.Klubertanz, The philosophy of human nature, St.Louis 1951; P.C.Landucci, Il mistero dell’anima umana, Ed.Pro
Civitate Christiana, Assisi 1952; AA.VV., L’anima, a cura di M.F.Sciacca,
Ed.Morcelliana, Brescia 1954; J.Fröbes, Psychologia
metaphysica, Ed. dell’Università Gregoriana, Roma 1956; P.Siwek, Psychologia experimentalis, Ed.Marietti
1958; R.Jolivet, L’uomo metafisico,
Ed.Paoline 1958; P.Carosi, Psicologia,
Ed.Paoline 1960; R. Verneaux, Psicologia, Ed.Paideia, Brescia 1966; E.Mounier, Il personalismo, ed.AVE Roma 1966;
K.Rahner, Saggi di antropologia
soprannaturale, ed.Paoline 1969; C.Tresmontant, Le problème de l’âme, Editions du Seuil, Paris 1971; L.Bogliolo, Antropologia filosofica, Ed.Città nuova
1972; J.Gevaert, Il problema dell’uomo,
Ed. LDC-Torino-Leumann 1973; B.Häring, La
morale è per la persona, Ed.Paoline 1973; E.Ducci, Essere e comunicare,Ed.Adriatica,
Bari 1974; B.Mondin, L’uomo: chi è? Ed.Massimo,
Milano 1975; Il personalismo, a cura
di A.Rigobello, Ed.Città nuova 1975; M.Marini, La relazione interpersonale e l’incontro con Dio in Maurice Nédoncelle,
Ed.Morcelliana, Brescia 1977; K.Rahner, Uditori
della parola, Ed.Borla Torino 1977; M-J.Nicolas, Evoluzione e cristianesimo, Ed.Massimo, Milano 1978; AA.VV., Persona, società, educazione in J.Maritain,
a cura di G.Galeazzi, Ed.Massimo, Milano 1979; K.Wojtyla, Persona e atto, Libreria Editrice Vaticana 1982; J.Maritain, L’immortalità dell’anima, in Ragione e ragioni, Ed.Vita e Pensiero,
Milano 1982, p.81-101; Riflessioni
sull’intelligenza, Ed.Massimo, Milano 1987; J.Seifert, Essere e persona,
ed.Vita e Pensiero, Milano 1989; AA.VV., Homo
loquens, Ed.ESD, Bologna 1989; M.Lorenzini, L’uomo in quanto persona. L’antropologia di J.Maritain,ed.ESD 1990;
M.Rossignotti, Persona e tempo in
Berdiaev, Ed.ESD, Bologna 1993; Franco Giulio Brambilla, Antropologia
teologica, Ed.Queriniana, Brescia 2005; Ignazio Sanna, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica,
Ed.Queriniana, Brescia 2006; V.Mancuso, L’anima
e il suo destino, Raffaello Cortina
[2] Cf il libro Il problema dell’ominizzazione,
Ed.Morcelliana, Brescia 1969.
[3]Cf il mio
articolo La ‘rivelazione originaria’ in
Karl Rahner, in Sacra Doctrina
n.6, 1985, pp.537-559.
[7] Cf il mio articolo La
radice teoretica della dottrina rahneriana del cristianesimo anonimo, in Fides Catholica, 2, 2007, pp.289-314.
[8] Lo so che è difficile pensare come sia possibile che
uno scelga l’inferno, con l’eterna pena che esso comporta. La risposta è legata
ad un tempo alla dignità della volontà umana e alla coscienza delle estreme
conseguenze di quella tendenza alla superbia, che è nata dal peccato originale,
dalla quale nessuno di noi, in questa vita, per quanto santo, è immune. Si
sceglie l’inferno ovviamente non per la pena che esso comporta, che non piace a
nessuno, ma per dare piena e libera soddisfazione alla propria superbia. Chi si
danna dice: Dio non m’interessa; decido io al suo posto. Riflettiamo allora:
quando pecchiamo, anche col peccato veniale, non sentiamo forse anche noi, sia
pure in piccola misura, questa spinta a ribellarci a Dio? Ebbene, ricordiamoci
allora che anche per noi l’inferno, in quel momento, non è molto lontano.
Certamente c’è da supporre che noi, con l’aiuto di Dio, ci fermiamo prima di
cadere nell’abisso.
[9] È, questa,
un’idea già presente nella teologia di Joseph Maréchal, che egli attribuisce
erroneamente a S.Tommaso.
[10]
E’ questo il famoso
Vorgriff rahneriano, che potremmo
tradurre con “precomprensione”, ispirato alla gnoseologia heideggeriana (Vorverständnis) come comprensione
preconcettuale ed atematica dell’essere, essere che in Rahner diventa l’essere
divino presente nell’autocoscienza.
[12] Ibid., p.275.
[17] Da questo punto
di vista è perfettamente centrata la critica che Joseph Ratzinger fa alla
concezione ranheriana della libertà umana di identificarsi con la libertà
divina. Cf di Ratzinger, Les principes de la théologie catholique, Téqui, Paris 1982,
pp.179-190.
[23] Saggi di Spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 1969, p.148.
[24] Ibid., p.566
[32] Vorrei chiedere a Rahner, se fosse ancora vivo, quali
sono i passi di San Tommaso dove ha trovato questa tesi.
[36] Cf Corso fondamentale, p.207-208 e il mio articolo La “rivelazione originaria” in Karl Rahner,
in Sacra Doctrina, 6,1985,
pp.537-559.
[40]
Analogamente
Rahner afferma altrove: “La libera decisione tende essenzialmente anche a
determinare tutta l’essenza derivante dal centro della persona, a disporre
davanti a Dio del soggetto agente quale realtà totale” (Saggi di antropologia soprannaturale, p.305). Ancora: “L’uomo è
l’essere che non si limita solo a fare qualcosa ‘d’altro’”(ossia ad operare
sulla natura esterna e sugli altri), a “sopportare” se stesso, ma si fà invece
da sè. Ora, siccome ciò va direttamente a toccare la sua essenza, egli è in
grado di operare anche questa “automanipolazione”, se si ammette che la morale
è un agire conforme all’essenza” (Nuovi
saggi, III, p.343).
[42] Per una critica alla morale
rahneriana, cf. D.Composta, La nuova
morale e i suoi problemi, Libreria Editrice Vaticana, 1990, pp.22-27;
A.Galli, La legge morale, in Sacra Doctrina, n.6 (1985), pp. 504-424;
Premesse filosofiche della teologia
morale, Studium Teologico Domenicano, Bologna 1974.
[46] Ibid., p.163.
[47] Ibid., p.193.
[52] Cf Ibid.
[53] Ibid., p.70.
[55] Ibid.,p.483.
[56] Ibid.,p.487.
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