L’avventura della metafisica - Parte Quinta (5/6)

 

L’avventura della metafisica

Parte Quinta (5/6) 

 

Martin Heidegger

L’ontologia oltre la metafisica

Heidegger, che evidentemente ignora la metafisica di San Tommaso e conosce solo quella di Duns Scoto, di Suarez e di Wolff, ha creduto di poter riscoprire l’essere, dopo 2600 anni dall’avvento di Parmenide. La stessa cosa avrebbe fatto Severino qualche decennio dopo, stimolato da Bontadini, al seguito di Heidegger.  In realtà è dal tempo di San Tommaso che tutti i metafisici seri sanno benissimo che è stato Tommaso a evidenziare al di là di Aristotele, l’importanza dell’esse in metafisica, sicché, se Tommaso continua a dire con Aristotele che oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, è chiaro che Tommaso, quando dice ens, pensa all’esse come atto, forma, compiutezza, ultimità e perfezione dell’ente.

E si badi bene: come ha sottolineato opportunamente il Padre Fabro, non si tratta semplicemente dell’esistere o dell’esistenza (esse in actu), come semplice attuazione del possibile, perchè anche l’immaginario, il contradditorio, il nulla, il negativo, il vuoto e il male esistono, eppure non hanno essere, non sono realtà; anche il pensiero esiste, eppure è un semplice essere ideale o intenzionale.

Heidegger, allora, ignorante della storia della metafisica, si è sentito in dovere di proporre, seguìto poi da Bontadini e Severino, il «pensiero dell’essere»: e siccome credeva che a nessun metafisico prima di lui fosse venuto in mente di pensare l’essere, credette bene fondare una scienza suprema ed assolutamente fondante, da lui chiamata «ontologia» o «fenomenologia esistenziale»,  col compito di «superare» (überwinden) la metafisica, la cui visuale, ristretta all’ente  o, come lo chiama Heidegger, all’«ontico», sarebbe incapace di elevarsi all’«ontologico», ossia all’essere come lo concepisce lui, che poi non è il vero essere, come atto d’essere, atto dell’essenza, ma è un’invenzione di Heidegger, che lo intende come non concettualizzabile, coscienziale, privo di essenza, essere temporale e finito, aperto al nulla, sì da meritare una dura critica da parte di Edith Stein nella sua opera Essere finito ed essere eterno[1].

La cosa interessante è che la Stein, come Heidegger, era stata discepola di Husserl, del quale essa comprese e mantenne l’istanza interioristica di origine platonico-agostiniana, come esigenza di intuire o vedere l’essenza della realtà – la wesenschau - con lo sguardo rivolto alla coscienza.

Edith era adattissima, dunque, a richiamare Heidegger alla verità. Proprio perché comprendeva l’istanza heideggeriana desunta da Husserl di pensare l’essere, era in grado di fare una critica dall’interno dello stesso pensiero heideggeriano-husserliano mostrando che quell’istanza poteva essere soddisfatta solo con la metafisica tomista, da lei recentemente scoperta dopo l’incontro con Santa Teresa d’Avila, che le aveva aperto la strada.

La Stein, infatti, accostandosi per un fortunato caso, ma certo secondo un piano divino, alla spiritualità egologica di Santa Teresa di Gesù, si era accorta che la vera interiorità, il vero sguardo al proprio io, al proprio essere, alla propria coscienza e al mondo in essa presente, suppone l’apertura dei sensi e della mente alla realtà esterna, sensibile e spirituale, umile e sublime, a quell’essere extramentale, e quindi all’ipsum Esse divino, che invece Husserl aveva messo con alterigia e somma imprudenza tra parentesi, imprigionandosi nei limiti del proprio io, come era successo a Cartesio.

Ora, per Heidegger, evidentemente legato a Cartesio, l’essere è l’essere che sono io, io che mi interrogo sull’essere. L’essere è l’essere umano che pone la domanda sull’essere. L’essere si risolve quindi nell’essere umano qui ed ora, o cosiddetto «esserci» (Dasein). Per Heidegger l’essere (sein) è differente dall’ente (seiende) non nel senso tomista che l’essere sia l’atto dell’ente, sicchè sia possibile ed anzi esista necessariamente un essere sussistente per se stesso e da sé, al di là e al di sopra dell’ente inteso come ciò che ha un’essenza in atto d’essere.

Per Heidegger l’essenza non è, come per Tommaso, un poter essere, potenza rispetto al suo essere, non è una natura universale, ma coincide con lo stesso ente singolo; non è un universale, ma come per Ockham, è un singolare concreto e storico, un «evento» (Ereignis), come dice Heidegger, un «esistenziale», un ente situato, un essere-nel-mondo» (in-der-Welt-sein). Se Dio esiste, è un Dio essenzialmente mondano, un Dio-per-l’uomo, un Dio-uomo, come per Lutero.

Come per Hegel. un Dio prima del mondo e irrelativo al mondo, sarebbe un semplice Dio «astratto», il «dio greco» (cioè di Aristotele), immutabile, un’astrazione mentale. Il Dio reale e concreto, il cosiddetto «Dio biblico» è il Dio sperimentabile, immanente, spirito-materia, essere-divenire, essere-storia. Questo Dio oggi lo ritroviamo in Küng, Kasper, Bordoni, Rahner e Forte[2].

Inoltre, per Heidegger lo stesso essere (sein), benché distinto dall’ente (seiende), non può essere o immutabile ed eterno, atto puro come per San Tommaso, ma è finito, temporale e confina col nulla, in quanto essere umano.

Per Heidegger il chiedersi qual è il senso dell’essere è l’autentica domanda metafisica, che supera la metafisica di Aristotele, il quale si limita a chiedersi che cosa è l’ente. Questa domanda, tuttavia, osservo io, non supera affatto la metafisica in un supposto sapere superiore che Heidegger chiama «ontologia». La metafisica è il supremo sapere della ragione, per cui metafisica ed ontologia sono la stessa cosa, con la differenza che metafisica richiama l’idea che l’indagine dell’ente eleva la mente alla scoperta dell’ente spirituale supremo, mentre ontologia dice che oggetto della metafisica è l’ente universale.

Inoltre, il fatto che sia l’uomo, nella sua temporalità, precarietà e finitezza, ad interrogarsi sul senso dell’essere non giustifica affatto l’idea di Heidegger che l’ontologia debba limitarsi alla considerazione dell’essere umano. Qui si vede la persistente influenza di Cartesio. Invece l’essere non si esaurisce nell’essere che sono io, ma va ben al di là del mio io fino ad essere, come Dio, il creatore del mio io.

Inoltre Heidegger sbaglia nel definire lo stato d’animo del metafisico, che non è quello dell’angoscia (Angst), ma, come osserva Aristotele, è la meraviglia, il che implica la gioia della percezione dell’ente e il desiderio di conoscerne la causa. La Bibbia insiste molto sul fatto che la sapienza arreca la vera e più alta gioia dello spirito. La sapienza è sorgente di speranza e non di disperazione, perché ci fa scoprire che siamo creati da un Dio che ci ama e non siamo destinati alla morte o a cadere nel nulla.

Ma da dove viene l’angoscia della quale parla Heidegger? Lo si comprende bene: dal fatto che egli intende l’esistenza umana non fondata sull’essere divino, su Dio, ma sul nulla, similmente a quanto credeva Leopardi[3]. L’esistere dell’uomo è un «essere-per-la-morte» (sein zum Tode). E dopo la morte che cosa ci sarà?

In Essere e tempo Heidegger intende indagare e chiarire il senso dell’essere, dando prova di genuino interesse metafisico.  A tal fine fa un’osservazione più che ovvia, e cioè che è l’uomo ad interrogarsi circa il senso dell’essere. Prosegue notando giustamente che l’interrogante in quanto ente rientra nell’orizzonte dell’oggetto stesso circa il quale l’interrogante s’interroga. Fin qui tutto ovvio.

Ma ecco il passaggio indebito, l’artificio sofistico: siccome l’essere umano è una determinazione dell’essere, Heidegger non conclude che l’essere è comprensibile astraendo dall’essere umano, come fanno Aristotele e San Tommaso, ma che l’essere è comprensibile solo in relazione all’uomo e precisamente al mio io, confondendo l’interrogante, ossia l’uomo con l’interrogato, cioè lo stesso essere, come se il problema metafisico si risolvesse nel chiedermi qual è l’essenza del mio essere.

In tal modo la metafisica viene a coincidere con l’antropologia e viceversa. Conducendo alle estreme conseguenze questa ontologia antropocentrica, siccome l’essere assoluto è l’essere sussistente, che è Dio, identificando l’uomo con l’essere, si arriva a dire che l’uomo è Dio.  

Heidegger ragiona come uno che dicesse: la chimica è oggetto di una scienza umana; ora, dato che l’uomo è composto di elementi chimici, allora la chimica ha per oggetto l’essenza dell’uomo.

Quando Heidegger ci invita a cercare il senso dell’essere, mi si allarga il cuore, provo un senso di esaltazione e di libertà. Ma quando poi vedo che egli, con la parola «essere» non intende l’actus essendi di San Tommaso, non è l’Io Sono di Es 3.14, ma intende finitezza, precarietà, mortalità, nulla, temporalità, mi cadono le braccia ed ho la sensazione di essere preso in giro.

D’altra parte, Heidegger, se da una parte divinizza l’uomo assimilandolo all’ipsum esse, dall’altra lo polverizza nel contingente e nell’effimero. Infatti In Essere e tempo egli è talmente preso dalla considerazione della temporalità dell’uomo, e connette talmente il tema dell’essere con quello dell’uomo, che non riesce a vedere un essere al di sopra del tempo e indipendente dal tempo. In tal modo egli non sembra percepire la spiritualità e quindi l’eternità dell’essere. Che ne è dell’immortalità dell’anima? Del fine ultimo dell’uomo? Della vita eterna?

Ciò fa sospettare che Heidegger veda solo l’essere contingente e non quello necessario. Ora è chiaro che solo questo può essere eterno. Da qui il trionfo del divenire sull’essere, del nulla sull’essere e della morte sulla vita.

Come ad Heidegger vengono in mente idee così angoscianti e sconfortanti? Dal fatto, mi sembra, che egli prende per saggia la domanda che si fa Leibniz[4], il quale, dando prova di scarso senso dell’essere, si chiede perché c’è l’essere e non piuttosto il nulla, senza rendersi conto che l’essere esiste necessariamente appunto come causa dell’essere contingente. Ha dunque senso chiedersi perché esiste il contingente, ma non perché esiste il necessario.  

Chi si fa una domanda come quella di Leibniz forse identifica l’essere con l’essere contingente. Infatti non ha senso chiedersi perché esiste l’essere necessario ed assoluto. Eppure, chi si pone una simile domanda, ipotizza la possibilità della non esistenza dell’essere assoluto e della necessità di essere spiegato, se esiste è un’ipotesi evidentemente assurda, perché supporrebbe che l’essere necessario non sia necessario. Dunque l’ipotesi assurda dell’esistenza del nulla assoluto, al quale Leopardi credeva seriamente.

Infatti è chiaro che se non esiste l’essere assoluto e necessario, ma solo il contingente, questo è sospeso sul nulla, viene dal nulla e  orna al nulla, proprio come pensava Leopardi.  Ora, invece, la domanda intelligente e profonda, la domanda metafisica non è perché esiste l’essere, ma perché esiste l’essere contingente.

Come a Leibniz è venuta in mente la possibilità dell’esistenza del nulla assoluto? Sì, la si può immaginare; ma come e con quale buon senso ipotizzare seriamente che il nulla assoluto possa esistere? La domanda intelligente e giustificata è: perché esistono gli enti contingenti piuttosto che solo Dio esista? È questa la domanda che si pone San Tommaso. Certo il nulla esiste, se è vero che Dio crea dal nulla. Ma allora si tratta semplicemente del nulla relativo agli enti.

Ma una volta che constatiamo l’esistenza del contingente, appare subito assurda la possibilità che nulla esista o l’ipotesi del nulla assoluto. Forse infatti che Dio esce dal nulla? Se l’esistenza del contingente rimanda all’essere necessario, come si può immaginare che possa esistere il nulla assoluto o che nulla possa esistere?

Heidegger prende in considerazione la domanda di Leibniz, anche come spunto per una meditazione sul nulla come possibile oggetto per la metafisica. In ciò ha ragione. Bisogna però vedere come si tratta del nulla.

Per Heidegger la metafisica ha per oggetto l’ente, che è negato dal nulla, l’ontologia invece ha per oggetto il nulla, che è la verità dell’essere. E siccome l’essere trascende l’ente – e in ciò si può fare un accostamento a San Tommaso -, ecco che il sapere supremo per Heidegger non è la metafisica ma l’ontologia come la intende lui, ossia la scienza dell’essere, che è il nulla degli enti. In tal senso Heidegger dice che il «nulla nullifica». Ma Heidegger non convince: come può esistere l’essere senza l’ente? Solo l’ipsum Esse è essere senza ente, in quanto può esistere anche senza l’ente.

Per Heidegger il nulla non è solo ciò che comunemente intendiamo con questa parola, non è il semplice non-essere; non è il nulla-essere di Hegel; non è il non esistere o non essere di qualche cosa («in questa camera non c’è nulla»); non è il nulla dal quale Dio trae l’essere; non è un ente di ragione; non è il nulla attribuito a Dio quando diciamo che Dio è nulla di ciò che noi comprendiamo come essere. 

Il nulla, per Heidegger esiste. Egli non accetta la tesi parmanidea che il nulla non è. Ma non accetta neppure la tesi hegeliana che nulla ed essere siano due opposti che s’identificano nel divenire. Al contrario, per Heidegger il nulla è lo stesso essere: l’essere è il nulla e il nulla è l’essere, non quindi nel senso nichilistico inteso da Leopardi, ossia che l’essere viene dal nulla e torna al nulla, no: Heidegger entifica o sostanzializza il nulla, mentre nel contempo afferma che il nulla nullifica l’ente ma rivela l’essere.

Il nulla è la verità dell’essere, è l’essere come evento e come presenza, che si rivela all’uomo, lo illumina (Lichtung) e ne costituisce la casa, l’abitazione, il rifugio, la protezione. Ma allora che cosa è questo nulla? È Dio o non è Dio? Heidegger è teista o è ateo? Egli ha detto di non essere ateo, e sembra credere a un Dio personale, ma non a un Dio causa prima, ente supremo, essere sussistente.

Ma allora che cosa è l’essere di Heidegger? È l’essere che gli appare e si nasconde, che precomprende e non comprende, verso cui tende e che non raggiunge, che sperimenta senza  rappresentare, essere che non dà la vita ma accoglie la morte, che è tutto e non è nulla, che ricorda per aver dimenticato, che è nel linguaggio e nel silenzio, essere del quale parla ma senza esprimere, essere sul quale s’interroga, ma che non risponde, essere che lo attrae e lo respinge, essere che gli si propone e davanti al quale non sa decidersi, essere desiderato e respinto. Forse perché Heidegger vuol servire due padroni? Heidegger dice di non essere ateo. Ma non sa che chi non è per Dio è contro Dio?

Gustavo Bontadini

ovvero l’impossibilità del divenire

Anche la metafisica di Bontadini è nella linea di Cartesio con l’aggravante che il cogito cartesiano gli arriva nei suoi sviluppi estremi idealistici gentiliani, per cui il cogito che pone il sum è diventato il  pensiero che pone l’essere e nulla gli giova credersi un neoclassico per il fatto di ammettere che oggetto della metafisica è l’essere, giacchè egli concepisce poi idealisticamente l’essere come immanente al pensiero e il pensiero come identico all’essere, come leggiamo da queste sue dichiarazioni con le quali nega l’esternità dell’essere al pensiero e la sua indipendenza riguardo al pensiero. Dice Bontadini:

«Il pensiero, che è identico all’essere, non può nulla presupporre»[5] (ossia un essere presupposto al pensiero). «L’essere, si può ben dire, è pensiero»[6]; «non c’è nulla fuori del pensiero»[7]. «Prendendo il pensiero come manifestazione dell’essere, è il senso in cui bisogna prenderlo per poterne affermare l’identità con l’essere»[8]. «Come non deve adombrare il concetto della idealità del reale, così neppure quello della soggettività»[9].

Inoltre Bontadini, convinto di valorizzare la cosiddetta «metafisica classica» secondo lui conciliabile con quella «moderna», cioè quella dell’idealismo tedesco nato da Cartesio, e in particolare quello di Gentile, del quale era entusiasta, invece di rifarsi alla scuola aristotelico-tomista, cosa che era da attendersi in un’Università Cattolica come quella di Milano, intendendo per «classica» quella dell’antica Grecia e seguendo l’esempio di Heidegger, andò a ripescare Parmenide non senza aver capito che egli aveva avuto l’intuizione dell’einai e quindi implicitamente dell’ipsum Esse, ma ebbe buon gioco nel collegare Parmenide   con l’idealismo gentiliano, perché in Parmenide, ancor prima che in Cartesio troviamo le prime origini dell’identificazione idealista del pensiero con l’essere.

In tal modo Bontadini potè dimostrare che tanto la metafisica parmenidea quanto quella idealista sono un pensiero dell’essere, accusando falsamente la metafisica e il realismo tomisti di rendere l’essere estraneo al pensiero e di annullare la dignità del pensiero davanti ad un essere impensabile ed inintellegibile, quando, se c’è una gnoseologia metafisica che accorda il pensiero e l’essere senza confonderli, mentre  mostra l’intellegibilità dell’essere insieme con l’altissima dignità del pensiero, questa è proprio la metafisica tomista.

Ma l’adesione a Parmenide Bontadini l’ha pagata a caro prezzo, giacchè Parmenide non distingue affatto l’essere necessario dal contingente, il diveniente dall’immutabile, l’uno dai molti, l’identico dal diverso, il pensiero dall’essere, il finito dall’infinito, la materia dallo spirito, ma per lui, come già aveva notato Aristotele, tutto è uno ed un solo essere, assoluto, immutabile ed eterno negando qualunque differenza o distinzione all’interno dell’essere.

Così Bontadini, ingabbiato nel monismo idealista ed eternalista parmenideo, ed ostinatamente attaccato ad esso, ingaggiò con Severino suo ex-alunno, anch’egli sedotto ancor peggio da Parmenide, un esasperante dibattito durato quindici anni, durante il quale, in un continuo  tira e molla, i due si sforzarono di confutarsi a vicenda senza alcun risultato, Bontadini nel sostenere la realtà del divenire nonostante il suo parmenidismo, Severino nel tentativo sempre reiterato quanto vano di indurre il maestro a negare il divenire in nome di Parmenide, quando per i due docenti all’Università Cattolica di Milano sarebbe stato ben facile accordarsi col far capo alle ben note dottrine in merito di Aristotele e San Tommaso[10].

Karl Rahner

La confusione dell’essere con l’essere umano

Rahner propone un concetto di metafisica ispirato ad Heidegger con la pretesa di darle uno sbocco teologico, cosa che Heidegger rifiuta coerentemente con la sua visione dell’essere.  Senonchè Rahner, al fine di ottenere lo sbocco teologico, senza abbandonare l’ontologia antropocentrica heideggeriana che esclude Dio, congiunge la concezione heideggeriana dell’essere con quella di Hegel dove troviamo l’essere puro, assoluto e divino, che fa pensare allo stesso esse tomistico o all’essere parmenideo e tuttavia troviamo la coincidenza dell’essere col pensare.

In tal modo la metafisica rahneriana è ad un tempo heideggeriana nel ridurre l’essere all’essere umano ed hegeliana nel confondere l’essere col pensare o identificare l’essere con l’essere divino. Hegel si riconosce benissimo in questa che egli chiama «prima proposizione dell’ontologia generale»:

 

«l’essenza dell’essere è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria, che noi vogliamo chiamare coscienza o trasparenza (“soggettività”, “conoscenza”) dell’essere di ogni ente»[11].

 

Posta questa identità hegeliana di pensiero ed essere, Rahner procede poi allo stesso modo di Heidegger a connettere metafisica ed antropologia in modo tale che l’antropologia si amplia e si trascende nella metafisica e questa si riduce ad essere antropologia:

 

«Il problema dell’essere in genere è assunto come punto di partenza positivo e autosufficiente per ogni risposta e affermazione metafisica non solo per il suo significato contenutistico, ma anche per la sua esistenza reale e necessaria nell’uomo che indaga»[12].

È ovvio che il problema dell’essere è presente ed è posto dall’uomo che indaga sull’essere. Fin qui nulla da eccepire. Ma andiamo avanti.

«Non si può fare a meno della metafisica nel rispondere al problema dell’essere, perché questo è parte integrante e necessaria dell’esistenza umana»[13]. Notate già qui l’ambiguità: che cosa è parte integrante dell’esistenza umana? Il fatto di porre il problema dell’essere o la risposta alla domanda sull’essere? Il porre la domanda certo entra nell’esistenza umana.

Ma la risposta giusta alla domanda circa l’essere non è che l’essere è «parte integrante dell’esistenza umana», perché l’essere è un valore che va infinitamente oltre l’esistenza umana. Semmai è questa che partecipa del valore dell’essere. Simile confusione di nota in Jaspers, che chiama «esistenza» simpliciter l’esistenza umana, mentre d’altra parte dice che «Dio non esiste, ma Dio è»[14].

Vediamo allora come Rahner sposta abilmente l’attenzione del lettore dall’uomo che s’interroga sull’essere alla risposta che dice che cosa è l’essere e in questa definizione fa entrare l’esistenza umana. L’essere è l’essere umano. Il gioco è già fatto. Ma vediamo gli ulteriori sviluppi ed esplicitazioni.

Successivamente compare la «conoscenza previa dell’essere»[15], che ha un ruolo importantissimo e fondamentale nella gnoseologia rahneriana, quello che egli chiama Vorgriff e che egli desume da Heidegger, quella che egli chiama la «precomprensione» dell’essere, la Vorverständnis. Previa a che cosa? A tutte le conoscenze determinate.

Quindi per Rahner la nozione dell’essere non è ricavata per astrazione e giudizio dall’esperienza delle cose sensibili, ma al contrario precede a priori la loro nozione, per cui non è che per lui l’intelletto ricava la nozione dell’ente dalle nozioni degli enti particolari, ma al contrario l’intelletto si fa la nozione degli enti particolari perché già possiede innata la nozione dell’ente, come per Cartesio: «ogni affermazione si riferisce a un ente determinato e si attua sullo sfondo di una precedente conoscenza, anche se implicita dell’essere in genere»[16].

La base di questa tesi è il principio idealista hegeliano che il pensante coincide col pensato, la metafisica è un atto di autocoscienza col quale l’essere, che è l’uomo, riflette su se stesso come essere. Per questo Rahner afferma che

 

«posta questa conoscenza dell’essere, non è più l’uomo a dovere, per dir così, essere “ricondotto all’essere”, ma è la conoscenza stessa dell’essere già esistente in lui a dover essere “ricondotta a se stessa”[17]».

Cioè, non siamo qui in ambito realista di un conoscente, l’uomo, distinto dall’essere a lui esterno, oggetto del conoscere, ma tutto si svolge nel pensiero che è allo stesso tempo essere. A questo punto Rahner, ritenendo di avere ormai convinto il lettore, esce francamente allo scoperto:

 

«Poiché si concepisce a priori questo punto di partenza di ogni problema metafisico come nota caratteristica dell’essere umano, ne consegue che ogni problema metafisico circa l’essere in genere riguarda nello stesso tempo l’essere di colui che lo deve necessariamente porre: l’uomo. Perciò la metafisica umana è necessariamente e nello stesso tempo anche un’analisi dell’uomo.

 

Il problema dell’essere e dell’uomo stesso che indaga costituiscono un’unità originaria e costantemente integrale. Questo rapporto nello stesso tempo ci garantisce che non distogliamo lo sguardo dall’uomo quando di primo acchito ci sembra di muoverci nel campo universalissimo della metafisica»[18].

 

Fine Quinta Parte (5/6)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 marzo 2024


Edith era adattissima a richiamare Heidegger alla verità. Proprio perché comprendeva l’istanza heideggeriana desunta da Husserl di pensare l’essere, era in grado di fare una critica dall’interno dello stesso pensiero heideggeriano-husserliano mostrando che quell’istanza poteva essere soddisfatta solo con la metafisica tomista, da lei recentemente scoperta dopo l’incontro con Santa Teresa d’Avila, che le aveva aperto la strada.

La Stein si era accorta che la vera interiorità, il vero sguardo al proprio io, al proprio essere, alla propria coscienza e al mondo in essa presente, suppone l’apertura dei sensi e della mente alla realtà esterna, sensibile e spirituale, umile e sublime, a quell’essere extramentale, e quindi all’ipsum Esse divino, che invece Husserl aveva messo con alterigia e somma imprudenza tra parentesi, imprigionandosi nei limiti del proprio io, come era successo a Cartesio.


Heidegger sbaglia nel definire lo stato d’animo del metafisico, che non è quello dell’angoscia (Angst), ma, come osserva Aristotele, è la meraviglia, il che implica la gioia della percezione dell’ente e il desiderio di conoscerne la causa.

Come ad Heidegger vengono in mente idee così angoscianti e sconfortanti? Dal fatto, mi sembra, che egli prende per saggia la domanda che si fa Leibniz, il quale, dando prova di scarso senso dell’essere, si chiede perché c’è l’essere e non piuttosto il nulla.  

Chi si fa una domanda come quella di Leibniz forse identifica l’essere con l’essere contingente. Infatti non ha senso chiedersi perché esiste l’essere necessario ed assoluto. Eppure, chi si pone una simile domanda, ipotizza la possibilità della non esistenza dell’essere assoluto e della necessità di essere spiegato, se esiste è un’ipotesi evidentemente assurda, perché supporrebbe che l’essere necessario non sia necessario. Dunque l’ipotesi assurda dell’esistenza del nulla assoluto, al quale Leopardi credeva seriamente.


Immagini da Internet:
- Edith Stein
- Martin Heidegger


[1] Editrice Città Nuova, Roma 1999.

[2] Cf il mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004.

[3] Vedi l’interessante studio di Severino Cosa arcana e stupenda, Edizioni Rizzoli, Milano 2018.

[4] Vedi in Che cosa è la metafisica? Adelphi Edizioni, Milano 2001, pp.125-116.

[5] Conversazioni di metafisica, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1995, tomo I, p.9.

[6] Ibid., p.10.

[7] Ibid,. p.11.

[8] Ibid.

[9] Ibid.

[10] La penosa storia, che ha quasi del ridicolo, se non fosse carica di sofferenza da ambo le parti, è narrata con dovizia di documentazione da Marco Berlanda, L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metafisica dell’essere, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2022.

[11] Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977,  p.66. Vedi la critica di Fabro a questa tesi di Rahner in La svolta antropologica di Karl Rahner, Edizioni Rusconi, Milano 1974.

[12] Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977, p.63.

[13] Ibid.

[14] È vero che l’etimologia di esistenza è ex-sistere, esistere-da, quindi esser causato. Ma non sempre l’etimologia serve a capire il senso attuale, corrente e comune di un termine. Il voler rifarsi con ricercati preziosismi linguistici all’etimologia in questi casi non crea chiarezza, ma confusione. Nelle discussioni circa l’esistenza o non esistenza di Dio, che si fanno da tre secoli a questa parte, nessuno va a pensare all’ex-sistentia, ma tutti, atei e teisti, sappiamo che cosa significa il termine «esistenza». Il termine exsistere o existere è rarissimo in San Tommaso. Egli usa di solito il verbo esse oppure subsistere. Così, come è noto, egli non si chiede utrum Deus existat, ma utrum Deus sit, ma si può benissimo tradurre: Dio esiste? Come fa notare il Fabro, Tommaso non distingue essentia ed existentia, ma essentia ed esse e sarebbe bene mantenere questa terminologia anche in italiano. Fabro propone opportunamente di riservare il termine esistere all’esse in actu come attuazione del possibile e riservare l’essere  all’esse ut actus potentiae.

[15] Ibid., p.64.

[16] Ibid.,p.64.

[17] Ibid.

[18] Ibid., pp.64-65.

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