La concezione idealistica del soggetto umano - Terza Parte (3/4)

 La concezione idealistica 

del soggetto umano

Terza Parte (3/4) 

Kant

La famosa rivoluzione copernicana di Kant non è che un’esplicitazione del cogito cartesiano: il pensiero non gira più attorno alle cose, ma sono le cose che devono girare attorno al pensiero; Kant riprende la pretesa cartesiana di non misurarsi più sulle cose, che giudica inconoscibili, ma pretende che sia esso stesso a stabilire l’oggetto del sapere.

Così la verità non nasce più dall’adeguazione del pensiero all’oggetto, ma dalla produzione del soggetto e dal fatto che il soggetto si adegua a se stesso. L’oggettività della conoscenza non è più data dal fatto che l’intelletto si adegua al suo oggetto, ossia all’ente reale esterno, oggetto che non ha prodotto, ma gli è dato e presupposto, ma è data dal fatto che l’intelletto stesso costruisce il suo oggetto in base alla propria autocoscienza. È quella che Rahner ha chiamato la «svolta al soggetto».

L’io penso kantiano non è atto di una sostanza, la res cogitans di Cartesio, ma è atto del pensare; l’io kantiano esplicita la virtualità dell’io cartesiano di essere una sostanza nella quale il pensare coincide col suo stesso essere sostanza. Già da adesso si profila quello che sarà il «soggetto» in Fichte, Schelling ed Hegel. Per Cartesio l’uomo non ha la facoltà di pensare, ma è un pensante in atto. Kant mantiene la dottrina delle facoltà, ma concependo l’io penso come pensiero in atto, fa un ulteriore passo verso la divinizzazione del pensiero

Dice infatti Kant:

«Che io che penso nel pensiero debba valer sempre come soggetto e come qualcosa, che non è considerato come annesso al pensiero semplicemente come un predicato, questa è una proposizione apodittica e anche identica; ma essa non significa che io, come oggetto, sia un ente sussistente per me stesso o una sostanza»[1].

C’è inoltre da notare che Kant, sempre esplicitando quanto è già contenuto nell’io cartesiano, abbandona la teoria cartesiana delle idee innate infuse da Dio nell’intelletto, e oggetto primario ed apriorico dell’intelletto, e la sostituisce con la dottrina delle forme a priori o concetti puri dell’intelletto, ovverosia delle categorie e delle idee della ragione. Vale a dire che Kant non ha più bisogno d’invocare l’illuminazione divina per spiegare la veracità e l’origine delle idee, perché per lui le idee non sono altro che forme strutturali della ragione, la quale pertanto diventa in Kant una potenza che resta umana e limitata nel campo teoretico, ma è del tutto autonoma ed autosufficiente come ragion pratica.

Quanto all’esigenza di razionalità, è mantenuta da Kant, benché fondata sull’io penso. Dice Kant:

«L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; chè altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe per nulla essere pensato, il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, almeno per me, non sarebbe. Quella rappresentazione che può essere data prima di ogni pensiero, dicesi intuizione. Ogni molteplice, dunque, della intuizione ha una relazione necessaria con l’Io penso, nello stesso soggetto in cui questo stesso molteplice s’incontra. Ma questa rappresentazione è un atto della spontaneità, cioè non può essere considerata come appartenente alla sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica o anche appercezione originaria, poiché appunto quella autocoscienza che, in quanto produce la rappresentazione Io penso – che deve poter accompagnare tutte le altre ed è in ogni coscienza una e identica – non può più essere accompagnata da nessun’altra. L’unità di essa la chiamo pure unità trascendentale della autocoscienza, per indicare la possibilità della conoscenza a priori, che ne deriva»[2].

Per Kant «l’unità sintetica dell’appercezione è il punto più alto al quale si deve legare tutto l’uso dell’intelletto, tutta la logica stessa e dopo questa la filosofia trascendentale, anzi questa facoltà è lo stesso intelletto»[3].

L’io penso kantiano resta così inficiato dall’ambiguità dell’io penso cartesiano, oscillante fra il cogito come pensare umano e il cogito come pensiero sussistente, res cogitans. Da qui la duplicità della ragione kantiana, meschinamente umana in campo teoretico, incapace di elevarsi dalla fisica alla metafisica, e tracotante in campo pratico per il rifiuto di assoggettarsi alla legge divina.

Per Kant io penso il noumeno, che mi appare come fenomeno della cosa in sé, in se stessa inconoscibile, che ho davanti a me, indipendente da me: l’«oggetto». Sorge così il concetto idealistico di oggetto. L’oggetto, per gli idealisti, non è il termine di una potenza attiva o passiva, come quando si dice per esempio che la carità è oggetto della volontà o l’ente è oggetto dell’intelletto. L’oggetto, per loro, è il corrispettivo polare del soggetto, in modo tale che non esiste soggetto senza oggetto e oggetto senza soggetto. E se tra i due si ammette una subordinazione, allora non è più il soggetto che è ordinato all’oggetto, ma è l’oggetto ad essere dipendente dal soggetto.

Fichte

Anche Fichte, sulla linea dell’io cartesiano, intende l’Io come intuìto originariamente e riflessamente dalla ragione e come certezza iniziale e fondamento primo della scienza, opera massima della ragione.

Fichte è il filosofo che ha esplicitato le virtualità dell’io cartesiano facendo un ulteriore passo verso il panteismo. In lui il sum del cogito di Cartesio non è più solo il mio sum umano, ma è «Io sono» (Ich ist Ich) assolutamente, per cui dall’io trascendentale, che è ancora l’io finito, che peraltro Fichte non abbandona, scaturisce per opposizione l’Io assoluto, che sarà il Soggetto oscuro e preconcettuale schellinghiano e successivamente e conclusivamente il Concetto hegeliano.

L’Io di Fichte non è più un io insieme con altri io. Non è un io accogliente altri io; non è un io diverso dagli altri; non è un io che ha davanti a sé il tu; non è un io che si moltiplica nel noi, ma è un Io che esiste da solo, assolutamente, egocentricamente, del tutto autofondato e autosufficiente; perché è tutto, tutto è posto da lui e nulla esiste fuori di lui. Ciò che non è lui non è un diverso, ma è semplicemente la sua negazione: il non-Io. Eppure Io e non-Io stanno assieme nell’Io. Sono entrambi originari.

Occorre dunque un fattore di sintesi dell’io e del non-Io, che si limita ad essere la ricostituzione dell’Io. Ciò pertanto non impedisce un insanabile dualismo all’interno dell’Io e quindi dell’uomo e del reale, che avrà riflessi negativi in morale col rendere impossibile la concordia fra gli uomini ed istituzionale il confitto. Ed ecco nata la dialettica, che farà molta fortuna in Hegel.

Fichte pone l’Io come assoluta unità e totalità. Questa sua posizione suppone una concezione monista ed univocista dell’essere, per la quale è impossibile spiegare l’esistenza della diversità e della molteplicità, che sarebbe invece giustificata da una nozione analogica e partecipativa dell’essere, per la quale la nozione del’essere è una e molteplice ad un tempo.

L’Uno infatti di per sé è indivisibile e si oppone ai molti. D’altra parte, occorre ben ammettere che essi derivino in qualche modo dall’Uno. Tuttavia, per comprendere come questo sia possibile senza spezzare l’Uno, occorre una nozione analogica dell’essere e capire che i molti non possono avere origine dall’Uno se non per creazione dal nulla e non per opposizione interna all’Uno, opposizione per la quale, come capita a Fichte, non si fa altro che opporre l’Uno a se stesso, al monismo un dualismo, che non risolve niente. Invece la distinzione fra ente creato ed ente increato, possibile con una nozione analogica dell’essere ed applicando il principio di causalità, salva la molteplicità degli enti e la concilia con l’unità dell’ente assoluto divino.

Ci domandiamo perciò ancora come abbiamo fatto con Cartesio: perché mai il sapere dovrebbe partire dall’io e fondarsi sull’io? L’oggetto del sapere non è la realtà? E il soggetto del sapere non è la ragione come tale, che pure Kant aveva mantenuto? Perché allora farla diventare la mia ragione?  Si tratta dell’evidente influsso dell’io cartesiano, per il quale a causa di un indebito passaggio logico la mia ragione diventa la ragione sic et simpliciter e quello che penso io deve valere per tutti.

Ma perché mai dovrei limitarmi a conoscere il mio io? Perché non esiste altro che il mio io. Non è questo forse, come abbiamo visto, l’effetto del cogito cartesiano? La riflessione sul sé certo non è nata con Cartesio, perché è un atto spontaneo della coscienza di chiunque. E non c’è dubbio che, riflettendo sull’atto del nostro pensare, noi ci accorgiamo con assoluta certezza di esistere.

Ma perché mai dovremmo restare bloccati nel nostro io? Perchè, cartesianamente, io devo dimostrare che esiste qualcos’altro oltre al mio io, che non sono io. Il cogito mi consente solo di sapere che io esisto. Del resto non so ancora nulla: lo devo ricavare dall’io, perché l’Io è tutto.

Senonchè bisogna dire con chiarezza che il fondamento del sapere non riguarda solo la conoscibilità della mia esistenza singola, bensì anche quella delle cose e della realtà in generale. La verifica della verità del sapere è fatta quando prendo coscienza del fatto che il mio intelletto ha per oggetto l’ente, partendo dall’esperienza sensibile degli enti materiali a me esterni. Il sapere ha per oggetto l’intera realtà e non soltanto il mio io, per quanto interessante esso possa essere. L’idealismo è affetto da uno spaventoso narcisismo.

L’autocoscienza certamente raggiunge l’esistenza dell’io, ma il modo col quale la realizza Cartesio, sulla base del dubbio circa l’esistenza delle cose e del proprio corpo, porta alla conclusione che esisto solo io senza saper se oltre a me esistono altre cose. Conclusione assurda, per la quale l’io si chiude in una gabbia senza la possibilità di uscirne, come osservò giustamente il Gilson.

Questa conclusione insana non spaventò gli idealisti a cominciare da Fichte, che per fare uscire l’io dalla gabbia ricorse all’espediente di elevare l’io umano evidentemente dipendente dalla realtà esterna, al livello di Io assoluto, produttore di se stesso e di tutto il reale. In tal modo non esiste più un Dio creatore dell’io e delle cose, ma adesso è l’Io che, al posto di Dio, è creatore di sé e della realtà.

Fichte, tuttavia, non se la sentì di negare la distinzione del punto di vista umano da quello divino, sostenendo che l’uomo può progredire indefinitamente, ma senza mai diventare Dio. Ciò però non bastò a scagionarlo dal ricevere l’accusa di ateismo e non senza ragione, giacchè, se per Lui l’io è tutto e nulla sta al di fuori, come questa non sdarà una divinizzazione dell’io e quindi la negazione dell’esistenza di Dio?

Come si sa, Fichte intende la cosa in sé come prodotto dell’Io, per cui non esiste nulla al di fuori dell’Io, ma l’Io infinito divino pone in se stesso il non-io, che è il finito umano. Tra finito e infinito resta una distinzione ed anzi un’opposizione, per cui l’uomo può indefinitamente avvicinarsi all’Infinito senza mai identificarsi con Esso. Tuttavia Fichte con la sua dottrina dell’Io che pone se stesso e il non-io all’interno di se stesso, aveva ormai aperto la strada alla totale identificazione dell’io con Dio o, per dirla in termini usati poi da Schelling, dell’identificazione del soggetto con l’oggetto.

Dice Fichte:

«Io sono Io; o, se Io sono posto, sono posto. Ma poiché il soggetto della proposizione è il soggetto assoluto, il soggetto senz’altro, così in quest’unico caso insieme con la forma della proposizione è posto in pari tempo il suo contenuto interno: Io sono posto perché mi sono posto. Io sono perché sono»[4].

«L’Io determina se stesso, si attribuisce all’Io l’assoluta totalità della realtà. L’Io non può determinarsi se non come realtà, poichè esso è posto come realtà assoluta ed in esso non è posta affatto alcuna negazione. Tuttavia esso doveva essere determinato da se stesso: questo non può significare che l’Io annulli in sé una realtà, poiché ciò lo metterebbe immediatamente in contraddizione con se stesso; ma deve significare che l’Io determina la realtà e, per mezzo di questa, se stesso. Esso pone ogni realtà come una quantità assoluta. Fuori di questa realtà non ce n’è punto altra. Questa realtà è posta nell’Io. L’Io è dunque determinato in quanto è determinata la realtà.

È da notare ancora che questo è un atto assoluto dell’Io e propriamente quello stesso dove l’Io pone se stesso come quantità e che qui, in ragione delle sue conseguenze, doveva essere esposto distintamente e chiaramente.

Il non-Io è l’opposto all’Io; in esso vi è negazione, come nell’Io vi è realtà. Se nell’Io è posta l’assoluta totalità della realtà, dev’esser posta necessariamente nel non-Io l’assoluta totalità della negazione. L’una e l’altra, l’assoluta totalità nell’Io e l’assoluta totalità della negazione nel non-Io debbono essere unificate mediante la determinazione. Perciò l’io in parte si determina e in parte è determinato»[5].

«L’Io si pone. In ciò consiste la sua realtà assolutamente posta; la sfera di questa realtà è esaurita e comprende perciò la totalità assoluta della realtà dell’Io assolutamente posta. L’Io pone un oggetto. Questo porre oggettivo dev’essere necessariamente escluso dalla sfera del porsi dell’Io. Tuttavia questo porre oggettivo dev’essere attributo all’Io e otteniamo così la totalità finora illimitata degli atti dell’Io. In conformità della presente sintesi le due sfere debbono determinarsi reciprocamente. Ora l’Io che pone è un oggetto e non il soggetto, o il soggetto e non un oggetto, in quanto esso si pone come ciò che pone secondo questa regola. E così le due sfere coincidono e unite riempiono una singola sfera limitata; e per questo riguardo la determinazione dell’Io consiste nella determinabilità per mezzo di soggetto e oggetto»[6].

«L’Io vuole abbracciare in sé ogni realtà e riempire l’infinito; a questa esigenza serve necessariamente di fondamento l’idea dell’Io assolutamente posto, dell’Io infinito e questo è l’io assoluto. … L’Io deve, e questo è compreso anche nel suo concetto, riflettere su se stesso, se esso comprenda realmente ogni realtà. Esso pone quell’idea a base di questa riflessione; con quell’idea, perciò, va nell’infinito e, sotto questo riguardo, è pratico»[7].

Fichte avrebbe potuto ammettere accanto all’io un altro io senza bisogno di porre un non-io che neghi l’Io. Ma Fichte ignora l’analogia dell’essere; e questo è il difetto di tutti gli idealisti, i quali, per operare le distinzioni non hanno altro mezzo che la negazione. Il diverso diventa con ciò stesso il nemico. Tra soggetto e oggetto, come spiegherà Schelling, c’è un’eterna lotta. Il soggetto la può attenuare, ma non può mai spegnersi del tutto.

In tal modo Fichte, riprendendo l’io penso kantiano, di origine cartesiana, elabora la dottrina dell’Io ovvero del Soggetto che pone l’oggetto non solo logicamente, ma anche ontologicamente, ossia il mio affermare una cosa equivale a creare quella cosa. Pensare, per Fichte, è fare, creare, produrre non solo il pensiero, ma l’essere stesso, che non è altro che pensiero.

È chiaro che se sono io a creare me stesso e il mondo, di Dio non c’è più bisogno. Il mio io e il mondo sono sufficientemente spiegati. E per questo Fichte fu giustamente accusato di ateismo. Come l’idealismo conduca all’ateismo apparirà chiarissimo con Hegel, dal quale Marx ricaverà l’ateismo implicitamente contenuto nel panteismo hegeliano, che identifica l’uomo e il mondo con Dio.

Se sono Io, bontà assoluta, a creare il mondo dove esiste il male, non c’è più spiegazione al perché e all’origine del male e al limite si confonde il male col bene. Infatti, se Io bontà assoluta, creo il mondo, bisognerà dire che il mondo è buono e che in esso il male è solo apparente. Ma se invece il male esiste veramente, allora dovrò essere Io, bontà assoluta, a dare origine del male. In ogni caso si casca in due assurdi; o quello di porre l’origine del male nell’Io o quella di negare l’esistenza del male. Non esiste un Io libero dal male, ma il male, come non-Io, è intrinseco allo stesso Io e prodotto dall’Io.

Schelling si arrabatterà invano attorno a questo problema senza trovarne la soluzione, perché si ostina respingere la dottrina della creazione che è quella che permette di riconoscere l’esistenza e l’origine del male e il modo di liberarsi dal male. Per Hegel bene e male sono la stessa cosa in quanto logici e necessari poli dialettici del divenire del’Assoluto.

Se il pensare umano è divino e l’uomo è l’Autocoscienza assoluta, che bisogno c’è di un Dio trascendente e creatore dell’uomo e del mondo? L’attributo della divinità passa dal Dio trascendente all’uomo. Ora l’ateismo è la negazione del Dio trascendente e creatore. Hegel conservava la parola «Dio», ma gli dava come soggetto l’uomo. L’ateo potrà anche conservare quella parola, ma per farne l’attributo dell’uomo, come fece lo stesso Marx.

Schelling

Schelling inizia la sua attività filosofica col commentare l’Io di Fichte. Egli si lancia in una costruzione ideologica creativa, nella quale, con una sbrigliata fantasia, che egli vorrebbe far passare per una catena di ragionamenti dimostrativi, ingigantisce oltre ogni dire l’Io umano fichtiano già di per sé spropositato, unendo e mescolando assieme i più sublimi attributi dell’Io divino con quelli più miserabili dell’io umano vittima della contraddizione, della divisione interiore e del’opposizione agli altri io. Sia sufficiente a dimostrare ciò la lettura dei seguenti brani tratti dal Sistema dell’idealismo trascendentale[8]. Qui l’Io appare chiaramente come Io divino:

«Dell’Io non si può dire che è perché è l’essere stesso. Quell’atto dell’autocoscienza, atto eterno e non concepito in alcun tempo, che noi chiamiamo Io, è ciò che dà l’esistenza alle cose tutte: ciò, dunque, che non ha bisogno di alcun essere che lo porti, ma che portandosi e sostenendosi da se medesimo, apparisce obbiettivamente come l’eterno divenire, soggettivamente come l’infinito produrre»[9]. Qui abbiamo già l’Io di Hegel.

Ma questo Io è anche l’io del filosofo:

«Se la proposizione Io sono è il principio di tutta la filosofia, non potrà esservi alcun’altra realtà, se non quella che è uguale alla realtà di questa proposizione. Ma questa proposizione non dice che io sono per qualche cosa al di fuori di me, sibbene e solamente che io sono per me stesso. Dunque, tutto ciò che è, in generale, potrà essere solo per l’Io; un’altra realtà, in generale non esiste»[10].

Successivamente Schelling, con la scoperta di Spinoza, introduce il concetto dell’Assoluto che passa dallo stato inconscio come Natura all’autocoscienza come Spirito. A questo punto Schelling, a contatto con i romantici, ritiene di poter superare la ragione e la concettualità per realizzare un’intuizione intellettuale dell’Assoluto. Egli ritrova il realismo nelle scienze della natura e riserva l’idealismo nella dottrina dello Spirito o dell’Assoluto.

Ma per Schelling l’Assoluto, che è l’Io di Fichte, non è solo intuìto intellettualmente come Spirito ineffabilmente autocosciente e sentito come natura, ma è anche prodotto, come in Fichte, per posizione di Sé. Ma per Schelling questo autoporsi attivo non è solo pratico o morale, come in Fichte, ma è anche, come suggerito dai romantici, musicale, poetico, creativo ed artistico. Esso è anzi Volontà e Libertà: è infinita bontà, ma nel contempo, in forza della lotta tra soggetto e oggetto, corrispondente all’Io e non-Io di Fichte, l’Assoluto è anche all’origine del male, che esso però vince in se stesso, ma non nel mondo.[11]

Il mondo che a noi pare fuori di noi è in realtà una limitazione libera del nostro Io:

«Noi vediamo nel mondo oggettivo non già un esistente fuori di noi, ma solamente la limitazione interna della nostra propria attività libera. L’essere in generale è solo espressione di una libertà impedita»[12]: un tema già fichtiano.

L’Io è ad un tempo limitato e illimitato. Io sono uomo e Dio allo stesso tempo:

«L’Io come Io può essere illimitato solo un quanto è limitato, e viceversa esso è limitato solo n quanto è illimitato»[13]. «Il limite adunque dev’essere insieme tolto e non tolto. Tolto, affinchè il divenire sia un infinito: non tolto, affinchè non cessi mai di essere divenire»[14].

L’Io è in contrasto con se stesso; ma ciò può avvenire solo nel mio io umano. O forse Dio può essere in contrasto con se stesso? Leggiamo:

«Si separa nell’Io l’interno dall’esterno: con tale separazione è posto nell’Io un contrasto, che è da spiegare solo con la necessità dell’autocoscienza. Non si può spiegare più oltre perché l’Io debba diventare originariamente conscio di sé, non essendo altro che autocoscienza. Ma nell’autocoscienza appunto è necessaria una lotta di opposte tendenze»[15]. «Due direzioni opposte si sopprimono, si annientano. Il contrasto, dunque, parrebbe, non può durare. Ne verrebbe un’assoluta inazione, poiché, non essendo l’Io altra cosa che sforzo di essere uguale a se stesso, l’unica ragione per l’Io di determinasi all’attività è una persistente contraddizione in lui stesso»[16].

È un tema, questo, già fichtiano: un Dio che si sforza di essere se stesso e che a tal fine è in contrasto con se stesso. Un Dio veramente disgraziato.

A contatto con l’ambiente romantico Schelling resta affascinato dalla tematica del sentimento creativo e aggiunge all’io fichtiano già attivo una componente poetica, che finisce per confondere il sapere col poetare. Il problema, allora non è più quello di tenersi a contatto col reale, misurarsi al reale, mostrare il reale e guidare al reale, ma quello di attirare l’attenzione sul proprio sistema, di esibirsi in un sorprendente gioco di idee astratte, che prende dal reale solo quanto gli occorre per esprimere la propria originalità e genialità.

Successivamente Schelling accentua il superamento della ragione concettuale nella fase finale mitologica, gnostica e sincretistica del suo pensiero con l’introduzione di elementi pagani e teosofici, che servono a rappresentare o a simboleggiare il sentimento o l’esperienza dell’Assoluto oscuro alla ragione, ma luminoso per l’autocoscienza.

Schelling tenta di risolvere la difficoltà dell’Io che è non-Io col principio dell’indifferenza: nell’Assoluto, ossia nel Soggetto, non ci sono determinazioni ovvero l’Assoluto è indifferente ad una determinazione o al suo opposto. Ma in tal modo l’Assoluto viene avvolto da una totale oscurità, quando il voto più profondo della ragione è quello di conoscere l’Assoluto.

Schelling compie un passo avanti verso il panteismo affermando l’identità di soggetto e oggetto nell’Assoluto, ma lascia sussistere la dottrina dell’intuizione intellettuale dell’Assoluto, che sottintende la distinzione fra soggetto intuente, l’uomo, ed oggetto intuìto, Dio. Soltanto Hegel edificherà il panteismo compiuto considerando il Soggetto come Concetto o in altre parole: Dio è identico al concetto di Dio. Ma l’uomo può concepire Dio. E dunque l’uomo può essere Dio.

Infatti per Schelling nell’io ovvero nel Soggetto avviene tale identificazione, per cui il Soggetto ovvero l’Assoluto, come lo chiama Schelling, è indifferente al soggetto e all’oggetto, al reale all’ideale, alla luce del concetto e alla notte della mistica, alla libertà e alla necessità, al sentimento o alla ragione.

Benchè Schelling assuma l’Io fichtiano come uno-Tutto, quindi come divinizzazione dell’io umano, l’uomo secondo lui ha un’intuizione intellettuale dell’Assoluto, per cui viene a distinguersi da Esso. Rifiuta invece di racchiudere Dio nel concetto, cosa che invece Hegel farà portando a termine la parabola idealistica di progressiva identificazione dell’uomo con Dio.

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 15 giugno 2022

Ci domandiamo ancora come abbiamo fatto con Cartesio: perché mai il sapere dovrebbe partire dall’io e fondarsi sull’io? L’oggetto del sapere non è la realtà? E il soggetto del sapere non è la ragione come tale, che pure Kant aveva mantenuto? Perché allora farla diventare la mia ragione?  Si tratta dell’evidente influsso dell’io cartesiano, per il quale a causa di un indebito passaggio logico la mia ragione diventa la ragione sic et simpliciter e quello che penso io deve valere per tutti.

Ma perché mai dovrei limitarmi a conoscere il mio io? Perché non esiste altro che il mio io. Non è questo forse, come abbiamo visto, l’effetto del cogito cartesiano? La riflessione sul sé certo non è nata con Cartesio, perché è un atto spontaneo della coscienza di chiunque. E non c’è dubbio che, riflettendo sull’atto del nostro pensare, noi ci accorgiamo con assoluta certezza di esistere.


 

Ma perché mai dovremmo restare bloccati nel nostro io? Perchè, cartesianamente, io devo dimostrare che esiste qualcos’altro oltre al mio io, che non sono io. Il cogito mi consente solo di sapere che io esisto. Del resto non so ancora nulla: lo devo ricavare dall’io, perché l’Io è tutto. 

Senonchè bisogna dire con chiarezza che il fondamento del sapere non riguarda solo la conoscibilità della mia esistenza singola, bensì anche quella delle cose e della realtà in generale. La verifica della verità del sapere è fatta quando prendo coscienza del fatto che il mio intelletto ha per oggetto l’ente, partendo dall’esperienza sensibile degli enti materiali a me esterni. Il sapere ha per oggetto l’intera realtà e non soltanto il mio io, per quanto interessante esso possa essere. L’idealismo è affetto da uno spaventoso narcisismo.

Immagini da internet:
- Il pensatore, Munch
- Narciso, Caravaggio
 


[1]Critica  della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.330.

[2] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.137.

[3] Ibid., p.138.

[4] La dottrina della scienza, Editori Laterza, Bari 1971, p.41.

[5] Ibid., p.104.

[6] Ibid., p.160.

[7] Luigi Pareyson, Fichte, Edizioni di «Filosofia», Torino 1950, p.131.

[8] Edizioni Laterza, Bari 1990.

[9]Ibid., p. 47.

[10] Ibid., p.49.

[11] Luigi Pareyson ha ripreso questa teoria di Schelling secondo la quale Dio esiste per un atto di libera volontà che vince il male radicalmente esistente in Lui come non-Io, ma non può non dar luogo al male nel mondo come non-Io. L’errore di queste visioni dualistiche e manichee non sta tanto nell’avvertire l’opposizione del bene al male, ma nel non riuscire a capire che il vero Assoluto è un bene perfettissimo del tutto esente dal male. Cf il suo libro Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995.

[12] Sistema dell’idealismo trascendentale, Editori Laterza, Bari 1990, p.51.

[13] Ibid., p.54.

[14] Ibid., p.55.

[15] Ibid., p.63.

[16] Ibid.


2 commenti:

  1. Carissimo p. Giovanni, grazie per le sue riflessioni chiare, profonde e documentate proposte dal suo lavoro: la concezione idealistica del soggetto umano, che confermano quanto ho scritto nel mio lavoro personale: Piccolo trattato sulla conoscenza della verità. A riguardo mi permetto di riportarle quanto ho scritto nel mio libro riguardo al pensiero idealista.
    “Per l’idealismo, la realtà non avrebbe una sua sussistenza indipendentemente dalla mente umana che la percepisce. Questa affermazione evidenzia un pensiero chiuso in se stesso, impegnato a dimostrare e provare che non c’è una realtà esterna ed indipendente dal soggetto pensante (in se stessa inconoscibile) ma che tale realtà esiste solo in quanto pensata, è il cogito di cartesiana memoria che determina l’essere delle cose. Un tale pensiero non sarà mai in grado di intercettare un Altro (che chiamiamo Dio) che gli si rivela proprio perché questo Altro si adegua, in qualche modo, al mondo delle cose, al mondo dell’esperienza a cui l’uomo appartiene e si rende ad esso intellegibile e quindi conoscibile.
    Si capisce allora che se è impossibile pensare che esistano cose fuori dal pensiero, è questa la formula del principio idealista di immanenza e questo “fuori” ha un significato spazio-temporale, la conseguenza logica è che non esiste nulla fuori dal pensiero, né fuori dal tempo in cui è pensato, nulla verrà a noi fuori da esso, nulla potrà essere riconosciuto, accolto al di là di esso neppure un Dio.
    Portato all’estreme conseguenze questo modo di intendere la conoscenza diventa un processo interno della mente umana, la cosa pensata diventa della stessa natura del pensiero che la pensa, viene esclusa la cosa in sé, l’oggetto esterno, il mondo esterno diventa una rappresentazione della coscienza, un suo prodotto, la materia, la cosa in sé rimane estranea ad ogni conoscenza, la materia non avrebbe nessun fondamento oggettivo in quanto è solo una forma del pensiero.
    Sta qui la pretesa e l’errore di ogni idealismo, il pensiero non fonda niente perché il suo compito non è quello di fondare la realtà ma semplicemente di riconoscerla ed indagarla.
    La filosofia contemporanea è erede di questo pensiero “debole” che nega che l’intelletto e la coscienza possa uscire dai propri limiti e riconoscere come esistente una realtà esterna da sé, ciò che è conosciuto deve essere nel pensiero altrimenti non è reale”.
    Questo pensiero è alla base del soggettivismo, del relativismo, dell’immanentismo, tutto è un prodotto del mio io, del mio pensiero, così lo stesso mio essere, il mio io diventa il mio dio, con tutte le rovinose conseguenze in termini di rapporto con se stessi, con gli altri, con il mondo, con la natura.
    Cordiali saluti e buon lavoro. Don Vincenzo Sarracino

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    1. Caro Don Vincenzo, la sua analisi è fatta molto bene. Lei ha notato bene le conseguenze immanentistiche e panteistiche dell’idealismo, cioè dell’uomo che si fa Dio e che in qualche modo ascolta il suggerimento del serpente genesiaco.
      Il Santo Padre è più volte venuto a criticare l’idealismo contrapponendogli il realismo. Un principio di Papa Francesco è che è la realtà ad essere superiore all’idea, e non viceversa. Inoltre il Papa collega l’idealismo con lo gnosticismo.

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