Appartenenza spirituale e appartenenza giuridica a un Istituto religioso - Dedicato ai giovani alla ricerca della loro vocazione - Seconda Parte (2/3)

 Appartenenza spirituale e appartenenza giuridica

a un Istituto religioso

Dedicato ai giovani alla ricerca della loro vocazione

Seconda Parte (2/3)

L’impegno di vita religiosa è una cosa molto seria

Il giovane, cioè, che sente veramente la chiamata, non sente il farsi religioso come la proposta di un consiglio: «fa’ così se credi o se ti pare», ma la sente come un progetto affascinante, rispondente a un bisogno vitale, impellente ed irrinunciabile relativo alla conquista della vita eterna. Così e giustamente sentì Lutero – lo racconta lui stesso – quando avvertì perentoria e indiscutibile la vocazione a farsi monaco, a parte ciò che purtroppo è successo dopo.

Quando Dio chiama alla vita religiosa non ci chiede qualcosa, ma ci chiede tutto: «Figlio, dammi il tuo cuore e i tuoi sguardi siano attenti alle mie vie» (Pro 23,26). Questo vuol dire «lasciare tutto per Lui». Donarsi tutto a Dio, nulla anteporre a Cristo è già dovere di ogni cristiano. È già implicito negli obblighi del battesimo. Il donarsi a Dio proprio del religioso, al di sopra del modo secolare, consiste nel voto di rinunciare, in nome di un più alto bisogno di spiritualità e di una più grande carità, a quei beni secolari, che, nel suo caso, avverte come ostacolo alla soddisfazione di quel bisogno.

Dire che il religioso «lascia il mondo» non significa altro che questo. Il religioso non è affatto uno scrupoloso o pauroso, isolato dal mondo ed estraneo ai suoi bisogni, un egoista che vuol starsene in pace nella sua torre d’avorio claustrale. Neppure i monaci e gli eremiti[1] sono questo.

Questa è una mostruosa caricatura della vera vita monastica. Al contrario, i veri monaci, proprio nella e dalla loro solitudine con Dio, sono più che mai, come dice Santa Teresa di Gesù Bambino, «nel cuore della Chiesa», sanno più che mai comprendere i profondi bisogni e drammi del mondo e farli presenti a Dio intercedendo per la salvezza del mondo.

Ed è proprio questo suo lasciare il mondo, che, paradossalmente, consente al monaco di apprezzare, meglio del laico, i valori del mondo e di amarlo con maggiore generosità. Certo egli fugge il mondo del peccato, ma, possedendo meglio lo sguardo col quale Dio considera e valuta quel mondo che Egli stesso ha creato, sa operare per la salvezza del mondo meglio del laico.

Ciò evidentemente non vuol dire che il religioso possa avere più competenza del laico in quelli che sono i compiti e gli uffici specifici che si riferiscono alla conduzione concreta degli affari del mondo. Esistono religiosi che hanno più interesse a questi affari che non alla loro missione religiosa. Ma allora vuol dire che hanno sbagliato vocazione e che avrebbero dovuto restare nel mondo. Tuttavia essi fanno comodo ad un Istituto mondanizzato e rilassato.

Per questo il Concilio Vaticano II dice giustamente che la vocazione del laico è l’animazione evangelica delle realtà terrene. Ma il laico non saprebbe realizzare questa sua vocazione specifica, se non fosse illuminato, sorretto e incoraggiato dalla guida che nell’opera della salvezza del mondo e nella sua dedizione a Dio gli viene dal religioso.

Quando Gesù ci chiama non ci dice: «ti consiglio di seguirmi. Se no, fa’ quello che vuoi», ma dice: «SEGUIMI!»: Non è un consiglio, che ci lasci liberi di fare diversamente, tanto è lo stesso. No! È un ORDINE, è l’imposizione di un SACRO DOVERE, se manchiamo al quale siamo PERDUTI PER SEMPRE.

Gesù non scherza. L’amore non è uno scherzo. L’amore mette in gioco la morte (Ct 8,6). Chi non ama è punito con la morte. Cristo non ci ha amati per scherzo.  La vocazione religiosa non è un buon affare, non è una simpatica avventura, non è un salto nel buio, non è il vanto di poter appartenere a un Ordine prestigioso, non è un entusiasmo emotivo, una sistemazione piccolo-borghese, non è un calcolo vantaggioso, non è un’impresa dannunziana.

La vita religiosa è una questione di amore: né più né meno. Questo lo capì benissimo San Bernardo. È una storia d’amore. Non è come dire «ci provo: se mi accorgo che la cosa non funziona, torno indietro». No assolutamente. Non ci si impegna così davanti a Dio. Hai paura di non farcela? Ma Egli che ha iniziato il lavoro non è capace di condurlo a termine?

Oggi spesso i giovani non sembrano essere in grado di garantire per il loro futuro, di prendere impegni definitivi. Sentono come un dovere di onestà il non prendere tali impegni, perché temono che possa capitare qualcosa di imprevisto, per cui non ha più senso andare avanti. Non riescono ad aver davanti agli occhi della mente tutto il senso della loro vita indipendentemente da quello che potrà succedere, come se questo senso non fosse eterno, ma corruttibile.

L’aria culturale che respiriamo oggi è inquinata dallo storicismo, e coloro che maggiormente sono esposti a questo virus sono i giovani, perché a differenza dell’adulto, la loro personalità non è ancora pienamente formata e consolidata, ma è ancora fluttuante ed incerta, per cui fanno fatica a comprendere i valori che non passano e tutto a loro sembra mutevole ed insicuro.

Per questo fanno fatica a donare la propria vita, perché non riescono a coglierla con lo sguardo nel suo senso totale. Eppure la vocazione religiosa suppone questa capacità di visione complessiva. Se no, che senso avrebbe la formula ego promitto usque ad mortem?

Fino a sessant’anni fa vivevamo un una società basata sulla stabilità dei valori, per cui generalmente i fedeli scoprivano la loro vocazione già nella fanciullezza ed erano in grado di restarvi fedeli per tutta la vita. Ma da allora la nostra cultura ha cominciato ad essere infetta da una mentalità storicista, che ha reso assai difficile alle persone trovare la certezza su sé stesse, sicché la scoperta della vocazione, magari dopo lunghe prove e ricerche simili al viaggio di Ulisse, si è spostata all’età adulta, ed anche così abbiamo avuto decine di migliaia di defezioni.

Occorre tuttavia notare che come esiste una perseveranza nel bene, così esiste una perseveranza nel male. Il religioso che, anche con vera vocazione, non custodisce la sua vocazione, non vuol superare le prove che Dio gli manda, prima o poi solitamente crolla e torna nel mondo.

Tuttavia, non è sempre detto che chi fa il religioso in queste condizioni o chi sta in convento senza vera vocazione prima o poi crolli. Esiste un saggio proverbio che dice: errare humaum est, perseverare est diabolicum. Come lo Spirito Santo aiuta a perseverare nella vera vocazione, così il demonio, soprattutto in un Istituto corrotto o decaduto, aiuta a perseverare in quella falsa, arrecando un immenso danno nel suo Istituto, allontanando le vere vocazioni, facendo crollare quelle deboli ed incrementando quelle false.

 

Ma perché ci si fa religiosi?

Al fine di allontanare questi ostacoli alla scoperta e all’apprezzamento della vocazione religiosa, chiediamoci: che cosa comporta sostanzialmente la vocazione religiosa e per qual motivo uno si fa religioso? La chiamata alla vita religiosa, come è noto, la ricevono solo alcuni di noi. Ma perchè proprio loro e non altri? Alcuni se la sbrigano presto rispondendo: è un mistero.

Se un giovane dice di avere la vocazione, ma non sa spiegare per quale motivo vuol farsi religioso o ha scelto proprio quel dato Istituto, magari tirando fuori il mistero divino, i formatori hanno ragione di sospettare che il giovane sia vittima di un’infatuazione o entri per calcoli umani.

Far riferimento al mistero non è sbagliato, ma non è sufficiente. Se ci si fermasse a questo, cadremmo in un pericoloso fideismo superstizioso senza basi razionali, che potrebbe portare o al fanatismo o, al contrario, ad un improvviso irrazionale mutamento di volontà, col pretesto che un’altra voce misteriosa altrettanto irrazionale ci dice che dobbiamo a tornare nel secolo. Ma queste sono fandonie che nulla hanno a che vedere col vero discernimento di una vocazione religiosa.

Il fatto è che – salvo il vero mistero dell’iniziativa divina - esiste un motivo chiaramente umano per il quale uno sente il bisogno di farsi religioso, ed è il fatto che questo tale sente un superiore bisogno di spiritualità, per il quale egli, a causa di questo stimolo, sente un maggior bisogno di libertà spirituale dalle seduzioni della carne, dalle insidie demonio, e dalle pastoie del mondo.  Questo bisogno è espresso dalla famosa parola, per la verità non molto chiara, «lasciare tutto» (Mt 19,27) per seguire Cristo.

In realtà questa espressione significa semplicemente questo: ordinare a Cristo la nostra vita meglio di quanto sia consentito nella condizione laicale o secolare, vale a dire seguire una regola di perfezione evangelica – ecco i voti –, per la quale io sono più libero di soddisfare i miei superiori bisogni spirituali che se vivessi nella vita laicale o secolare.

Per usare il linguaggio paolino della lotta fra la carne e lo spirito: il mio spirito è più libero dalla carne facendomi religioso che non stando nel mondo. È ovvio allora che davanti a tanto amore per le realtà celesti, che Dio m’infonde, non sono davanti ad una scelta di vita come se mi fosse dato un semplice consiglio, ma sono davanti a un sacro dovere di corrispondere con tutte le mie forze sostenuto dalla grazia.

Non c’è dubbio quindi che è impossibile una vocazione religiosa in un soggetto psicologicamente immaturo o privo di virtù umane adeguate alla sua età. Per questo fanno bene i formatori a consultare il parere dello psicologo nei casi che fanno sospettare l’esistenza nel giovane di qualche anormalità psicologica. Se infatti non esiste nel giovane una sufficiente base umana per affrontare l’impegno religioso, vuol dire che Dio lo chiama a restare nel secolo e sarebbe un tentare Dio sperare, in un caso del genere, nel soccorso della grazia.

C’è ragione infatti ed anzi c’è obbligo di confidare in essa, quando è chiaro che esiste quella sufficiente base umana, perché la grazia non ha lo scopo di sostituire la natura e di agire al suo posto, ma, come in questo caso in cui sono in gioco le semplici virtù naturali, essa presuppone la natura e semplicemente la perfeziona.

Viceversa, la grazia della vocazione non è il semplice perfezionamento di qualità umane preesistenti, ma è l’aggiunta misteriosa di un’attitudine più alla vita cristiana, che non è per nulla esigita dalle inclinazioni naturali del soggetto. È vero che deve trattarsi di un soggetto con superiori esigenze spirituali, ma nel nostro caso si tratta per ipotesi di esigenze provocate in lui dalla grazia. Quindi resta sempre vero che la vocazione primariamente non è effetto di una decisione umana, ma è puro dono della grazia.

Per questo, se occorre, nel discernimento di una vocazione, accertarsi circa la normalità psicologica e le virtù umane del soggetto, i formatori devono evitare in questo delicato ufficio di loro competenza, di affidarsi troppo al parere dello psicologo, perché il giudizio ultimo sull’esistenza o meno della vocazione nel giovane spetta ai formatori e non allo psicologo.

Non si può escludere infatti che un giovane abbia vera vocazione pur con l’esistenza, entro certi limiti, di difetti morali e psicologici. Le stranezze e gli eccessi di certi comportamenti di San Francesco fanno ragionevolmente pensare che egli non fosse perfettamente normale dal punto di vista psicologico: il che non gl’impedì di diventare un gran santo e di fondare uno dei più gloriosi Ordini religiosi della storia della Chiesa.

E questo perché la vocazione non è un fatto naturale ma soprannaturale; per cui se per disgrazia i formatori non sanno fruire del necessario criterio soprannaturale nel capire se c’è o non c’è vocazione, fanno al giovane un danno enorme o frustrando una vocazione autentica o favorendo una vocazione falsa.

Viceversa è possibile che il giovane sia conscio della soprannaturalità della sua vocazione, per cui egli, nel constatare l’incompetenza dei formatori fa ottima cosa, se gli è possibile rivolgersi ad un altro Istituto che sappia apprezzare la sua vocazione. Non sono rari i casi di giovani i quali, respinti da un Istituto corrotto o in decadenza o di orientamento modernista, trovano accoglienza in un Istituto fedele alla Chiesa.

Che cosa sono pertanto i voti religiosi? Perché uno li emette? A che cosa servono? Sono promesse fatte davanti a Dio, alla Chiesa e all’Istituto di esercitare le pratiche ascetiche da essi ordinate al fine di rendere lo spirito libero secondo quel grado di libertà del quale il soggetto sente il bisogno, in ottemperanza a un proposito ispirato e sorretto dalla grazia.

Diciamo, dunque, che la vocazione religiosa, come dice la parola, nasce da una chiamata di Dio, della quale la Scrittura ci offre molti esempi, soprattutto nei profeti, ma anche, nel Nuovo Testamento, negli Apostoli e nei discepoli del Signore.

In che consiste la chiamata divina 

Ma concretamente, che vuol dire che Dio chiama? Come nasce la vocazione religiosa? Vuol dire che sentiamo nell’intimo e nel profondo della coscienza con assoluta certezza l’attrattiva per un certo ideale di vita religiosa, per esempio quella domenicana, come assolutamente confacente alla direzione che intendiamo dare alla nostra vita, come rispondente alle nostre più profonde attitudini ed inclinazioni pratiche e teoriche, ai nostri più elevati bisogni ed aspirazioni spirituali e morali  della nostra vita in ordine al conseguimento della vita eterna, al servizio del prossimo e ad una più profonda comunione con la Chiesa e col Papa.

È molto importante per la guida spirituale del giovane fargli capire che la cosa essenziale è farsi santi e compiere la volontà di Dio, dovunque Egli ci voglia e qualunque cosa sia ciò che dobbiamo fare. Farsi religiosi o sacerdoti o restare nel mondo è cosa secondaria, seppur necessaria, che si chiarisce confrontando, se è possibile,  i carismi dei vari Istituti per vedere qual è quello che preferiamo, questa cosa va verificata misurandosi con le proprie forze, facendo attenzione ai segni della chiamata divina o chiarendo quali sono le proprie attitudini.

È molto importante altresì per la guida spirituale conoscere la differenza tra il modo maschile e quello femminile di sentire e seguire la chiamata del Signore. È chiaro che se una donna si sente chiamata al sacerdozio, questa non è una vera vocazione.

Non c’è dubbio che modello della divina chiamata è la vocazione profetica, della quale abbiamo gli esempi nell’Antico Testamento, come in Geremia, Giona o Samuele.

Geremia sente il Signore che gli comunica: «ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5). Geremia si spaventa ed oppone al Signore quella che egli ritiene essere la sua incapacità. Ma Dio insiste e lo incoraggia prospettandogli una grandiosa missione di edificazione e di correzione di popoli e nazioni. Geremia obbedisce ed accetta la missione.

Giona riceve da Dio un incarico davanti al quale si spaventa e si allontana dal Signore. Dio allora lo castiga, Giona si pente, compie la sua difficile missione, la quale ha un enorme successo. Di nuovo però Giona si trova in difficoltà e di nuovo si ribella al Signore, il quale lo fa ragionare e Giona si calma e si riconcilia con Dio.

Samuele  ha inizialmente difficoltà a riconoscere la voce del Signore e la scambia per la voce di Eli. Ciò significa che il giovane è facile a sopravvalutare il prestigio di qualche guida carismatica che sa attirare i giovani ed è portato a diventarne fanatico. Sorge allora qui una prova di onestà per la guida.

Davanti al fanatismo che le mostra il giovane, la guida deve resistere alla tentazione di tiranneggiarlo approfittando dell’esagerata fiducia del giovane. Deve poter capire che il giovane, al di là della voce umana della guida, avverte indistintamente e confusamente la voce di Dio, confondendola però con quella della guida. Allora essa deve avere l’umiltà e l’onestà di tirarsi indietro e deve avere la franchezza di far capre al giovane che non la guida lo vuole attirare a sé, ma Dio stesso lo sta chiamando. Questo amore disinteressato di Eli ha successo: Samuele si mette veramente in ascolto e questa volta sa riconoscere veramente la chiamata divina distinguendola da una semplice voce umana.

Ma la vocazione religiosa può nascere o per lo meno aver occasione di nascere anche da motivi molto semplici e apparentate poco rilevanti, come l’aver conosciuto un frate di quel dato Ordine o l’aver trovato soddisfazione nel confessarsi da quel dato frate oppure la bellezza di quel dato abito religioso o oppure semplicemente perché nella propria città esisteva un convento di quel dato Ordine e cose del genere. Tuttavia, è evidente che questi dati vanno attentamente verificati e controllati con prudente discernimento.

La vocazione divina ad un Istituto religioso vuol dire un essere scelti da Dio. Dio ci chiama a Sé come Mosè,  ci mostra il suo Volto, ci soddisfa nel nostro desiderio di contemplarlo, ci rivela Chi È, ci dà il comando di santificarci, di testimoniare il suo Nome, e di metterci a sua disposizione; ci rivela un suo piano di salvezza a nostro beneficio ed una missione a servizio del prossimo e della Chiesa, che c’impegna per tutta la vita, dà senso e sapore a tutta la nostra vita ed attività, ci persuade e ci radica così profondamente in questa vocazione e in questa missione, che nulla e nessuno ce ne potrà mai strappare, se non saremo noi stessi a volerlo.

Neppure con un provvedimento di espulsione, potrebbero strapparcene i superiori dell’Istituto nel quale siamo entrati, allo stesso modo che Gesù benché espulso dall’appartenenza alla Comunità d’Israele, non per questo non continuò a farne sostanzialmente anche se non giuridicamente parte ed anzi ad esserne il Capo legittimo e il vero legislatore, contro un’autorità prevaricatrice, se non proprio illegittima.

Siamo scelti ma nel contempo scegliamo. Scegliamo perché siamo scelti. E la nostra scelta è mossa dalla grazia di Dio. Tuttavia per appartenere effettivamente, giuridicamente e non solo spiritualmente ad un Istituto, occorre di nuovo essere scelti o quanto meno accettati. E questa volta dagli uomini. Quali uomini? I dirigenti e i formatori dell’Istituto che abbiamo scelto.

Questa volta non avviene più un moto verticale dall’alto al basso: Dio ci sceglie e noi scegliamo. Ma si verifica un moto orizzontale fra esseri umani: noi scegliamo l’Istituto e l’Istituto, se ci giudica adatti, sceglie noi. Dopo di che, alla fine di questo iter, possiamo dire di appartenere all’Istituto a tutti gli effetti.

Il problema della perseveranza

Una volta accolti nell’Istituto che avevamo scelto, occorre essere fedeli alla propria vocazione. Tale fedeltà richiede che il religioso sappia superare le prove, superate le quali, sarà ancora più saldo nella sua vocazione e avrà compiuto un progresso nelle virtù. Egli quindi deve saper sopportare umiliazioni, emarginazioni, maltrattamenti, ingiustizie o invidie da parte dei superiori, scandali presenti nell’Istituto, tradimenti da parte di confratelli.

Qui viene messa alla prova la sua umiltà, la sua carità, la sua perseveranza e la sua pazienza, giacchè senza queste virtù nessuna vocazione può resistere, anche se autentica. La vicenda di Lutero, in fondo, è la vicenda di un religioso, che non ha saputo superare la prova che Dio gli aveva mandato per migliorarlo. E il formatore, dal canto suo, deve mettere alla prova il novizio, per provare o verificare l’autenticità della sua vocazione, senza chiedergli troppo e facendo in modo che la prova gli dia occasione di crescere e migliorarsi. Deve provare la sua obbedienza, ma avendo cura di dare ordini saggi e giusti.

L’obbedienza religiosa non esclude che possano verificarsi circostanze nelle quali i superiori abusano della loro autorità comandando o proibendo cose che esulano dalla loro competenza o che sono in contrasto con i doveri imposti dalla Regola dell’Istituto o addirittura con le leggi della Chiesa o le leggi divine o con la dottrina della fede o col magistero della Chiesa.

In questi casi l’ordine o la proibizione non sono moralmente o giuridicamente legittimi e quindi non obbligano in coscienza, ma anzi vanno ignorati, giacchè occorre obbedire a Dio piuttosto che gli uomini (At 5,29), fossero pure suoi rappresentanti.

La vocazione viene provata anche quando il religioso deve affrontare le conseguenze di tale gesto da parte dei superiori o dei confratelli. In tali casi può capitare che egli, sia in formazione o sia già professo, sia dimesso o addirittura espulso dall’Istituto. Ne conserverà lo spirito, anche se non potrà più appartenervi giuridicamente. Ma riceverà dal Fondatore che è in cielo maggiore protezione di quella che egli concede ai suoi rappresentanti ufficiali ma infedeli.

La disobbedienza alle leggi dell’Istituto peraltro non costituisce di per sé peccato perché si tratta di norme convenzionali, che non toccano la legge morale. Tuttavia di fatto esse servono a praticarla meglio rispetto alla vita secolare. Per cui di fatto, se sono trascurate o violate, costituiscono peccato o di negligenza o di infedeltà o di superbia o di accidia o altri.

La partecipazione all’ufficio divino comune delle 7, per esempio, non è né un comandamento divino né una legge della Chiesa. Ma se il religioso non vi partecipa per mancanza di pietà religiosa o perché preferisce dormire di più, è chiaro che fa peccato. Alcuni furbi trascurano le osservanze regolari col pretesto che non obbligano a peccato, ma non si rendono conto che non conviene fare i furbi con Dio.

E se l’Istituto si sbagliasse nel valutare la vocazione del giovane respingendolo? Può capitare, perché è possibile che quel giovane, bene informato in precedenza da buone letture riguardanti i fini dell’Istituto e la sua storia, si sia fatto un concetto giusto sulla vera natura dell’Istituto e del suo compito, mentre può succedere che i superiori e formatori dell’Istituto che l’accoglie siano infedeli al carisma del Fondatore e che l’Istituto si sia allontanato dall’ispirazione originaria, per cui succede che essi mancano di un giusto criterio di valutazione.

Il risultato si può immaginare: quel giovane viene respinto e viceversa succede che vengano magari accolti elementi che si accordano con la mentalità mondana assunta dall’Istituto. Capita altresì che Istituti di questo tipo mettano in difficoltà o perseguitino i membri veramente fedeli al carisma ed assicurino viceversa successo ed onori a quelli che rappresentano e promuovono la sua mondanizzazione.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 marzo 2021


i veri monaci, proprio nella e dalla loro solitudine con Dio, sono più che mai, come dice Santa Teresa di Gesù Bambino, «nel cuore della Chiesa», 

sanno più che mai comprendere i profondi bisogni e drammi del mondo e farli presenti a Dio intercedendo per la salvezza del mondo


 

La vita religiosa è una questione di amore: né più né meno. Questo lo capì benissimo San Bernardo. È una storia d’amore. 

 

 Immagini da internet

 


[1] Questo fu l’errore gravissimo dell’illuminismo massonico e della conseguente mentalità napoleonica, che portò ad una barbarica persecuzione della vita religiosa soprattutto contemplativa a causa di concezione meramente pragmatica della vita umana, chiusa all’influsso del Trascendente e all’interesse per l’unione affettiva  con Dio.


6 commenti:

  1. Carissimo Padre,
    Come sempre seguo le sue rubriche e ne traggo giovamento spirituale. Leggendola, mi resta tuttavia una domanda sulla possibilità di salvarsi nonostante, per varie ragioni, si segua una vocazione che non era probabilmente quella a cui Iddio chiamava l'anima in questione. Un suo confratello ha avuto modo di scrivere in proposito (se ho ben capito la mens che soggiaceva al post, e se ne interpreto correttamente il senso), che la presenza di un'eventuale vocazione religiosa non sopprime (questo il termine usato) la vocazione naturale alle nozze, che tutti ricevono in forza della propria appartenenza alla specie umana. Il che significa che, se per caso un'anima, per varie ragioni, non dovesse seguire la vocazione religiosa e dovesse restare nel mondo e farsi una famiglia, non avrebbe commesso peccato o in ogni caso non dovrebbe disperare della sua salvezza, perché in fondo ha realizzato la vocazione "di default" (mi si passi la locuzione) che tutti gli uomini e le donne ricevono. Immaginiamo, p. e., il caso di una giovane che non abbia seguito la vocazione religiosa per pusillanimità o per l'opposizione della famiglia, che si sia maritata e abbia poi realizzato che probabilmente si è sbagliata, ma ormai non può lasciare il marito e gli eventuali figli. In tal caso, non mi pare che si possa dire che costei, per non aver seguito l'iniziale vocazione religiosa, debba disperare delle propria salvezza. Mi sbaglio?
    La ringrazio per il suo tempo!

    Pietro

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    1. Caro Pietro, la colpa grave c’è quando un religioso di professione perpetua tradisce volontariamente i propri voti. Tuttavia anche in questo caso egli può riparare e riprendere il suo impegno religioso. Se invece mettiamo che si sia sposato ed abbia famiglia, è chiaro che deve mantenere fede a questo nuovo impegno. Mentre, se si è pentito di avere lasciato la vita religiosa, può essere perdonato da Dio, con una adeguata penitenza.
      Per quanto riguarda il caso di chi, pur sentendosi chiamato alla vita religiosa e avendo avuto la possibilità di entrarvi, si sposa, commette peccato. Tuttavia, anche in questo caso la misericordia di Dio può andargli incontro nel caso che si penta, anche se non può più riparare.
      Ci sono poi dei casi nei quali il soggetto non entra in religione non tanto per una sua libera decisione, ma perché pressato da circostanze sfavorevoli o perché impegnato in obblighi inderogabili di lavoro o di carità.
      In questo caso non commette nessun peccato. Può capitare che, anche in età matura, liberatosi dai vincoli che lo trattenevano, egli decida di soddisfare al suo segreto desiderio entrando in convento.

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  2. Spiegazioni utilissime che spero servano ai giovani di oggi.

    Potrebbe p.f. aggiungere una considerazioneo sulla formazione dei catechisti, sempre secondo il suo modo di vedere, magari in articolo separato, alla luce del recente motu proprio di Papa Francesco?

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    1. Caro Alessandro, l’idea di Papa Francesco è stata molto buona, opportuna ed utile, perché stiamo vivendo in un clima di ignoranza spaventosa a proposito non soltanto delle basi della fede, ma addirittura della stessa ragione naturale e della morale naturale.
      Il riconoscimento ufficiale del titolo di catechista è un gesto adatto a dare all’incaricato un notevole conforto e incoraggiamento nello svolgimento di un incarico che nella tradizione della Chiesa è sempre stato fondamentale per l’educazione alla fede del popolo di Dio. Certamente questo ufficio si accompagna a quella che è la responsabilità dei genitori e della scuola, sotto la presidenza del parroco o del vescovo.
      Da questa istituzione di Papa Francesco c’è da attendersi un gran bene per la ricostruzione della istruzione religiosa di base e per la formazione della coscienza morale del popolo di Dio.
      E’ chiaro che il testo base dovrà essere il Catechismo della Chiesa Cattolica e che il catechista dovrà avere una certa preparazione non solo nel riconoscere i valori religiosi, che oggi sono sentiti anche di altre religioni, ma dovrà anche essere dotato di discernimento critico nei confronti degli errori.

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    2. Il fatto é che il catechismo della Chiesa Cattolica non viene neanche preso in considerazione da parte del formatore presunto nella diocesi che conosco. Si parla solo dello studio della Bibbia, di "abbandonare le strade del ..dottrinalismo, della disisitima verso tutto quello é cultura biblica e teologica e sensibilità interculturale e religiosa". E' più un programma di studio biblico modernista con tanto di testo che riporta Andrea Grillo fra i maestri. Spero che il Vaticano raccomandi il Catechismo della Chiesa Cattolica come libro di base per tutti i corsi di formazione di catechisti, invece, come dice anche Lei.

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    3. Caro Alessandro, il CCC (Catechismo della Chiesa Cattolica) l’ha fatto la Chiesa Cattolica. Come ti viene in mente di dubitare che la stessa Chiesa non lo raccomandi? L’ostacolo semmai verrà dagli opposti estremismi dei modernisti e lefevriani.
      Quindi il lavoro impegnativo dei catechisti dovrà essere lo sforzo di seguire il CCC e di non lasciarsi attirare dalle ali estreme.

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