Dio ci parla
nella pandemia
Egli non ci toglie mai la sua misericordia,
ma, correggendoci con le sventure,
non abbandona il suo popolo.
II Mac 6.16
Per questo vi è capitata questa sventura
Ger 44,23
Non
dobbiamo temere di sentirci castigati,
perché
col castigo Dio ci corregge
Il Padre
Raniero Cantalamessa, Predicatore Pontificio, ha tenuto un’omelia nello scorso
Venerdì Santo alla presenza del Papa. In essa egli ha voluto mettere in luce
cosa possiamo ricavare dalla Scrittura per capire alla luce della fede il
significato di questa pandemia, che cosa Dio vuol dirci attraverso di essa.
Egli dunque ha affermato che nella concezione
cristiana,
«ogni sofferenza, fisica e morale
non è più un castigo, una maledizione. È stata redenta in radice da quando il
Figlio di Dio l’ha presa su di sé». È divenuta, cioè, da castigo via di
salvezza ed espiazione della colpa.
Ora, io direi che, per il Vangelo è vero che
ogni sofferenza grazie a Cristo è stata redenta, ma non è vero dire che essa
non è più un castigo. Essa resta originariamente un castigo, perché il peccato merita
il castigo e noi continuiamo ad essere castigati per i nostri peccati, fino al caso
deprecabile di chi rifiuta la redenzione di Cristo, nel qual caso egli viene
castigato con l’inferno, a parte quello che è castigo del peccato originale,
che tutti ci coinvolge, anche i più innocenti, esclusi Gesù e Maria.
Certamente Cristo con la sua redenzione ha
trasformato il castigo in via di salvezza: «il castigo che ci dà salvezza si è
abbattuto su di lui» (53, 5), «per le sue piaghe siamo stati guariti» (ibid.).
Egli ha fatto questo per noi perché Egli, per proprio conto, non aveva bisogno
di redimersi da alcun peccato e di liberarsi da alcun castigo. Sta a noi,
dunque, approfittare di questa possibilità di salvezza trasformando a nostra
volta i nostri castighi in vie di salvezza con l’unire le nostre sofferenze
alla Passione di Cristo. Ma è chiaro che per coloro che si rifiutassero di
valersi della redenzione di Cristo nel modo che ho detto, i loro castighi
resterebbero castighi.
Padre Cantalamessa evoca le famose parole di
Sant’Agostino per spiegare il motivo per il quale Dio permette il male:
«“Essendo supremamente buono, – ha
scritto sant’Agostino – Dio non permetterebbe mai che un qualsiasi male
esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono, da
trarre dal male stesso il bene”».
Per esprimerci col linguaggio della
Scrittura, dobbiamo dire che Cristo ha preso su di Sé il castigo dei nostri
peccati, «si è caricato delle nostre sofferenze» (Is 53,4), pur senza aver
peccato e, grazie alla potenza della sua divinità, soddisfacendo al Padre al
nostro posto per le nostre colpe col sacrificio della Croce, ci ha reso
benevolo il Padre, prima adirato per l’offesa ricevuta dal peccato, ed «offrendo
sé stesso in espiazione» (cf 53,10), ci ha ottenuto il perdono del Padre. Ha
pagato per noi un debito che da soli non potevamo pagare. Per questo San Paolo
ci ricorda: «Siete stati comprati a caro prezzo» (I Cor 6,20).
Continua Cantalamessa:
«sulla croce Cristo ha bevuto, al
cospetto del mondo, il calice del dolore fino alla feccia. Ha mostrato così che
esso non è avvelenato, ma che c’è una perla in fondo ad esso».
Osserviamo che nessuno pensa che il calice
che ha bevuto Gesù fosse un calice avvelenato. Fu certamente un calice amaro,
tanto che Gesù nel Getsemani chiese al Padre che, se fosse stato possibile, lo
allontanasse da lui. Il calice amaro era la morte di Gesù, e quale morte! Ma
calice amaro non vuol dire calice velenoso.
Quindi Gesù, bevendolo, non ha affatto voluto
mostrarci che non era avvelenato, ma ha voluto incoraggiarci a berlo benché
disgustoso. Ma non è affatto detto che ciò che è disgustoso sia dannoso,
tutt’altro: esistono anche medicine amare. Gesù ha voluto incoraggiarci a bere
ad un calice disgustoso ma salutare. E questo è il senso cristiano della
sofferenza: una sofferenza che fa bene. Un male di pena che toglie il male di
colpa.
Non dobbiamo aver timore a chiamare «castigo»
la sofferenza, perché per la Bibbia la sofferenza in linea di principio è
effetto del peccato e il peccato per definizione è causa di sofferenza, se no, non
è peccato. Un peccato può dare un piacere illusorio, ma lascia l’amaro nella coscienza.
Ebbene, quello è il castigo del peccato, anche se il malvagio fa fortuna nel mondo.
E non è detto che il peccatore sia castigato subito, ma Dio lo attende alla
resa dei conti e gli dà tempo e modo per convertirsi.
Un’azione buona non è causa di sofferenza, ma
di bene e di gioia. E il castigo è appunto l’effetto del peccato. Certo uno può
subire una pena ingiusta o da innocente subire una disgrazia, come Giobbe, ma
allora vuol dire che Dio vuol provarne la virtù e non mancherà di compensarlo,
se non perde la fiducia in Lui, nonostante tutto.
Certamente Cristo ci insegna che il male di
pena non è il male in senso assoluto, come lo è il peccato. Ma è un male che,
grazie alla Croce, può essere cambiato in bene e diventare fonte di bene. E ciò
è possibile togliendo il peccato, che è all’origine del male di pena, ossia del
castigo.
Cristo ci indica la via per togliere il
dolore e il castigo: togliere il peccato, ossia il male di colpa, che ne sta
all’origine. E con quale mezzo? Appunto mediante la Croce, ossia la sofferenza offerta
al Padre in Cristo in espiazione del peccato. Così, mediante la Croce, quella
sofferenza che sarebbe solo castigo, diventa redenzione e salvezza.
È questo il motivo per il quale il cristiano
ama e desidera la sofferenza, come l’ha desiderata Cristo, certo non per sé stessa,
come Gesù dimostrò nel Getsemani, ma per amor nostro e per obbedire al piano del
Padre, che ha voluto sacrificare il Figlio in riparazione del peccato e per la salvezza
del mondo, come via di salvezza e di liberazione dalla stessa sofferenza, se
non qui in terra, certamente in cielo.
È chiaro che il cristiano lotta con ogni mezzo
contro la sofferenza in lui e negli altri. Ma, ben consapevole del fatto che le
forze umane quaggiù a volte in questa lotta restano sconfitte, ecco che egli, sull’esempio
di Cristo, sa utilizzare a beneficio suo e del prossimo quella sofferenza, che non
riesce a vincere, sicché da essa in Cristo ricava un maggior bene per sé e per
il prossimo. Per questo Padre Cantalamessa dice bene quando afferma che
«Grazie alla croce di Cristo, la sofferenza è
diventata anch’essa, a modo suo, una specie di “sacramento universale di
salvezza” per il genere umano».
E prosegue:
«Così fa a volte Dio con noi: sconvolge
i nostri progetti e la nostra quiete, per salvarci dal baratro che non vediamo».
Esatto. Ma subito dopo uno scivolone: «Se questi flagelli fossero castighi di
Dio, non si spiegherebbe perché essi colpiscono ugualmente buoni e cattivi, e
perché, di solito, sono i poveri a portarne le conseguenze maggiori. Sono forse
essi più peccatori degli altri?».
Meraviglia che l’illustre Predicatore si
areni davanti ad una domanda del genere, alla quale non dico il teologo, ma il
comune credente possiede dalla fede la risposta. Tutti sono colpiti dai
flagelli di Dio perché tutti sono figli di Adamo peccatore.
E il fatto che i malvagi prosperino e i
giusti siano perseguitati dalla sorte è un’altra delle conseguenze del peccato originale,
per il quale la natura è divenuta ribelle al dominio dell’uomo, mentre la giustizia
umana, sempre a seguito del peccato originale, è difettosa. Ma da una parte la provvidenza
divina provvederà a ricostituire l’uomo signore della natura, e dall’altra la
giustizia divina avrà cura di rimediare, al momento opportuno, ai difetti della
giustizia umana.
Dobbiamo
capire meglio
che
cosa ha fatto Cristo per noi in obbedienza al Padre
Cristo patì per voi, lasciandovi
un esempio,
perché ne seguiate le orme
I Pt 2,21
Il Predicatore fraintende gravemente la
condotta del Padre verso il Figlio con le seguenti parole: «Sì, Dio “soffre”,
come ogni padre e ogni madre». Non è affatto così. La Chiesa, già nei primi
secoli condannò i cosiddetti «teopaschiti» e «patripassiani», i quali sostenevano
appunto che Dio per e nella passione di Cristo ha sofferto. Non si possono sic
et simpliciter uguagliare i sentimenti del Padre celeste con quelli di un
qualunque padre umano. È logico che un padre umano si affligga per la morte del
figlio, anche se sarebbe fiero di lui se fosse morto da eroe in combattimento
per la patria. In ogni caso non sarebbe stato il padre a mandare il figlio al
fronte.
Per quale motivo la Chiesa respinge l’idea
che Dio possa soffrire?[1] Perché è preoccupata di salvare la differenza
delle proprietà della natura umana da quelle della natura divina. E una di queste
differenze è che mentre la natura umana è passibile, quella divina è impassibile,
come dice Sant’Anastasio di Antiochia: «Osservando la verità dell’Incarnazione,
ne deduciamo i motivi per proclamare rettamente e giustamente l’una e l’altra cosa,
cioè la passione e l’impassibilità. Il motivo per cui il Verbo di Dio,
impassibile in se stesso, sostenne la passione era che l’uomo non poteva essere
salvato in altro modo»[2], nella supposizione che il
Padre abbia voluto, come ha voluto, un sacrificio espiatorio.
Perché non possiamo paragonare il
sentimento di un padre umano per la morte del figlio al sentimento del Padre
celeste per la morte di Cristo? Perché nel caso dell’uomo la sofferenza è
possibile per il fatto che comporta una passività, una passione, una debolezza,
una fragilità, una corruttibilità, una imperfezione, tutte cose che implicano
un soggetto creato, ossia composto di parti, per cui può essere privato di
qualcosa che gli appartiene, può insomma subire il male, il che è appunto la
sofferenza.
Ma Dio è semplicissimo e perfettissimo,
per cui non può essere privato di nulla, non può essere diviso o disintegrato,
non Gli può mancar nulla. La sua volontà si compie sempre: non può essere
frustrata, ostacolata o impedita da nulla; non può provare delusioni alle sue
attese o dispiacere per qualcosa che non gradisce. Ancora. La sofferenza
implica infelicità. Ora invece Dio è beatissimo. Chi soffre, è turbato. Dio
invece è in una pace perfettissima ed eterna. Ora è chiaro che tutte le cose
che ho detto sopra, o provocano sofferenza o costituiscono sofferenza.
Possiamo però parlare di una sofferenza
di Dio non solo in senso metaforico, ma anche facendo uso di quel metodo semantico
che si chiama communicatio idiomatum, espressione scolastica, che potremmo tradurre
con «comunicazione dei predicati». In base a questo metodo è lecito, a
proposito di Cristo, usare in senso ortodosso delle espressioni, le quali, se riferite
alla natura divina, sarebbero eretiche, come per es.: «in Cristo Dio soffre,
diviene e muore». Si parla di scambio dei predicati, perché, supponendo l’unica
persona divina di Cristo e dato che in un medesimo soggetto con i predicati di
due nature è lecito scambiare i predicati, è possibile attribuire alla natura divina
quanto spetta alla natura umana. In questo senso metaforico possiamo dire con
Cantalamessa: «Dio partecipa al nostro dolore per superarlo».
La Bibbia nel parlare di Dio
unisce il linguaggio metaforico a quello metafisico
La tua parola nel
rivelarsi illumina
Sal 119,130
Indubbiamente, accanto al
linguaggio metafisico ed astratto dell’impassibilità divina, che impegna il
puro intelletto, e che implica un’educazione intellettuale e si riferisce al
puro spirito, essendo Dio purissimo Spirito, la Scrittura usa anche un
linguaggio metaforico, che coinvolge l’immaginazione, più vicino al concreto e accessibile
al nostro modo comune di conoscere, che unisce l’uso dell’intelletto a quello del
senso e dell’immaginazione. E in tal senso si può parlare di Dio che «soffre».
A volte è un linguaggio poetico, come quello
dei Salmi; ma non bisogna credere, come fa Heidegger, che esso sostituisca
quello metafisico, che invece è il linguaggio proprio, perché solo la metafisica
concettualizza, sia pur analogicamente e per partecipazione, le perfezioni
ontologiche assolute e trascendentali, che sono attribuibili all’essenza
divina.
Viceversa, il linguaggio poetico,
simbolico, immaginoso e figurativo ha sì una sua propria efficacia per
l’immaginazione, che non ha quello metafisico; tuttavia bisogna ricordare che
esso usa la parola più per creare oggetti inventati dal poeta che per
rappresentare concetti oggettivi, quali sono quelli della teologia naturale e
rivelata. Il linguaggio poetico dalla parola ricava la cosa, come del resto lo
stesso Heidegger riconosce. Invece, il linguaggio teologico o di fede, utilizza
la parola, sia pur poetica, per esprimere o significare o comprendere la cosa,
ossia la realtà divina.
Per questo, la Scrittura, che non
è fatta solo per gli intellettuali e per i filosofi, ma per tutti, anche i più
semplici, presenta spesso Dio come se avesse delle passioni simili alle nostre:
l’ira, lo sdegno, la compassione, la commozione, la gelosia, la suscettibilità,
la speranza, il timore, la delusione, la tenerezza, il dolore. Lo stesso concetto
della Redenzione, in fondo non fa altro che usare immagini o paragoni tratti da
rapporti economici o giuridici. Si tratta di espressioni metaforiche, come quella
di una transazione commerciale o del pagamento di un debito o di un riscatto o
di una soddisfazione data ad una persona offesa o del risarcimento per danni arrecati
a terzi.
Così pure anche il concetto
stesso di peccato come «offesa a Dio» è un’immagine metaforica, perché
offendere una persona vuol dire privarla di un suo bene o di un suo diritto o
del suo onore. Ma Dio non può essere privato di nulla, così che Egli possa
esigere riparazione o restituzione o espiazione per l’offesa subìta. Eppure la
Scrittura presenta Dio Padre come adirato per il torto subìto con la disobbedienza
di Adamo, per cui, anche se disposto a perdonare, vuole comunque
riparazione.
E Colui Che, per volere del Padre
stesso, si assume il doloroso ma glorioso ufficio di Riparatore, Espiatore,
Redentore e Riconciliatore è, come sappiamo bene, il suo stesso Figlio
incarnato Gesù Cristo con la sua Passione, Morte e Resurrezione. E guai allora
a respingere queste metafore, perché interpretano, col linguaggio stesso della
Scrittura e quindi del dogma della Redenzione, quanto Cristo ha patito e fatto
per la nostra salvezza, per placare l’ira divina, ottenerci il perdono del
Padre, e meritarci la sorte sublime di diventare in Lui figli di Dio.
Respingere dunque questa dottrina, vuol dire, col pretesto che si tratta di
metafore, cadere nell’eresia.
Ma qui dobbiamo stare molto
attenti a non prendere alla lettera questi attributi, perché non sono attributi
propri come lo sono le proprietà metafisiche, peraltro canonizzate nei dogmi[3], ma si tratta di analogie o paragoni presi dalla
nostra comune esperienza sensibile, che occorre invece trascendere, affinché ci
possiamo elevare al livello dello spirito, qual è quello del divino, altrimenti
resteremo fermi alla più grossolana mitologia e idolatria, adorando Cerere,
Astarte, Sciva e Pachamama. Per evitare questo guaio bisogna collegare le
metafore e le immagini ai concetti analogici ed ontologici, metafisici e
dogmatici ed illuminandole ed interpretandole con questi.
Se pretendiamo viceversa di
ricorrere solo alla ragion pura o alla pura idea come Kant, o alla pura coscienza
come Husserl, o alla dialettica o al puro concetto come Hegel, sotto pretesto
di evitare gli antropomorfismi e, come lo chiamano, il «realismo ingenuo»,
finiamo nelle peggiori astrazioni, nel pelagianesimo o nello gnosticismo
condannati da Papa Francesco, e nell’idolatria più sottile e più pericolosa, che è quella
dell’assolutizzazione delle proprie idee. Biblico invece è invece far capo al
puro Essere (ipsum Esse per Se subsistens), come insegna la Scrittura (Es
3,14), nell’interpretazione di S.Tommaso d’Aquino, raccomandata dalla Chiesa[4].
La Scrittura, comunque, come è
ben noto, al di là di queste immagini, presenta l’atto col quale Cristo ci
salva come sacrificio di Sé stesso, come sacerdote della Nuova Alleanza nel suo
sangue, offerto al Padre nello Spirito Santo, in remissione dei peccati. E chi ha compiuto questo santo e salutare
sacrificio per la salvezza di noi poveri peccatori? Nostro Signore Gesù Cristo,
mediante la sua Passione. Per volontà di chi? Del Padre.
Il Padre ha voluto la morte di
Cristo?
Io vengo per fare, o
Dio, la tua volontà
Eb 10,7
A questo punto Padre Raniero si chiede:
«Forse che Dio Padre
ha voluto lui la morte del suo Figlio sulla croce, a fine di ricavarne del
bene?». E risponde: «No, ha semplicemente permesso che la libertà umana facesse
il suo corso, facendola però servire al suo piano, non a quello degli uomini».
La risposta del Francescano
sembra voler significare che Il Padre non ha voluto il sacrificio di Cristo.
Ciò sembra avvalorato dal fatto che egli sostiene che il Padre si è addolorato
per la morte di Cristo, quasi a dire che non l’ha voluta. Ora a me pare che
Cantalamessa si scordi qui del principio morale del «volontario indiretto», per
il quale un atto oggettivamente peccaminoso, come per esempio far abortire una
donna, diventa lecito, se chi lo pratica lo fa per salvare la donna. L’aborto è
stato voluto, ma come mezzo necessario per salvare la madre. Questa liceità dell'aborto è stata ammessa da Pio XII in un suo discorso del 27 novembre 1951.
E si badi che, benché sembri averne
qualche somiglianza, questo principio non ha nulla a che vedere con quello
machiavellico del fine che giustifica i mezzi. Infatti in questo caso il
soggetto compie deliberatamente un peccato, per esempio, un furto, per
soccorrere eventualmente dei poveri, fine certamente buono. Però il
perseguimento di questo fine non coonesta il furto, perché qui esso non è stato
voluto indirettamente, senza che se ne potesse fare a meno, ma direttamente ed
intenzionalmente, potendosene fare a meno.
Nel principio machiavellico si
suppone che non ci sia un legame necessario fra il mezzo e il fine, perché il
fine potrebbe e dovrebbe essere ottenuto con un altro mezzo, ossia un mezzo
onesto. Invece nel caso del volontario indiretto relativo all’attuazione di un
fine buono, il mezzo, benché in sé e direttamente non voluto perché peccato,
non può essere evitato senza fallire il fine.
Così per la morte di Cristo. È chiaro
che la morte di Cristo è stata direttamente voluta dai suoi assassini, che ne hanno
tutta la colpa, mentre il Padre ne è perfettamente innocente. Resta però che nel
piano del Padre era voluta indirettamente la morte di Cristo, affinché fosse possibile
il suo sacrificio, voluto dal Padre ed accettato dallo stesso Figlio. Il Padre
ha voluto il sacrificio di Cristo, non la sua morte come tale né tanto meno come
assassinio. Eppure l’ha indirettamente voluta, perché, posta la volontà del Padre
di un sacrificio cruento, è chiaro che non è possibile un sacrificio cruento senza
la morte della vittima. Ma se si sostiene che il Padre non ha voluto, almeno indirettamente,
la morte di Cristo, si finisce per dire che non ha voluto neppure il sacrificio
di Cristo, il che è eresia.
In conclusione, la morte di Cristo è stata voluta sia dal Padre che dai suoi uccisori, ma con intenti radicalmente opposti. Non si può dire che essa non sia stata assolutamente voluta dal Padre, perchè altrimenti Cristo non sarebbe stato crocifisso. Invece è stata voluta dal Padre, non in se stessa, come l'hanno voluta i suoi uccisori, ma in quanto espiazione dei peccati e via di salvezza.
In conclusione, la morte di Cristo è stata voluta sia dal Padre che dai suoi uccisori, ma con intenti radicalmente opposti. Non si può dire che essa non sia stata assolutamente voluta dal Padre, perchè altrimenti Cristo non sarebbe stato crocifisso. Invece è stata voluta dal Padre, non in se stessa, come l'hanno voluta i suoi uccisori, ma in quanto espiazione dei peccati e via di salvezza.
Dio presiede alle leggi della
natura
Hai fondato la terra
sulle sue basi, mai potrà vacillare
Sal 104,5
Continua Padre Raniero:
«Questo vale anche
per i mali naturali, terremoti ed epidemie. Non le suscita lui. Egli ha dato
anche alla natura una sorta di libertà, qualitativamente diversa, certo, da
quella morale dell’uomo, ma pur sempre una forma di libertà. Libertà di
evolversi secondo le sue leggi di sviluppo. Non ha creato il mondo come un
orologio programmato in anticipo in ogni suo minimo movimento. È quello che
alcuni chiamano il caso, e che la Bibbia chiama invece “sapienza di Dio”».
Qui andiamo completamente fuori
strada. Non ha senso parlare di «libertà» della condotta degli agenti
infraumani, la cui azione, anche nel corso dell’evoluzione è guidata da leggi
chimiche e fisiche, oggetto delle scienze sperimentali, fisse ed immutabili,
che regolano e provocano negli agenti viventi e non viventi un agire
necessitato e deterministico. Queste leggi, assieme agli agenti fisici che esse
regolano sono ideate e create da Dio, da Dio creatore, ideatore e governatore
della natura. La libertà è solo una
facoltà dell’agente spirituale.
Numerosi sono i passi biblici
enuncianti queste verità: «Io tengo salde le colonne della terra» (Sal 75,4); «il
Signore rende saldo il mondo, non sarà mai scosso» (Sal 93,1); «hai fondato la
terra sulle sue basi, mai potrà vacillare» (Sal 104,5); «tutti i suoi comandi
sono immutabili nei secoli» (Sal 111,8); «hai fondato la terra ed essa è salda»
(Sal 119,90); «il Signore rende saldi i confini della terra» (Pr 15,25); «ho
stabilito le leggi del cielo e della terra» (Ger 33,25). La natura è un
orologio enormemente più perfetto degli orologi costruiti dall’uomo, giacché
questi stessi orologi devono essere costruiti nel rispetto delle leggi che Dio
ha posto nella natura.
Quanto alla tesi secondo la quale
la Bibbia chiamerebbe «caso» la sapienza di Dio, essa è di una falsità così
evidente, che non occorrono molte parole per confutarla. Basterà negare con la massima
energia e dire che se c’è un concetto col quale la Scrittura è in radicale e
irriducibile opposizione e proprio con i suoi altissimi e profondissimi insegnamenti
sulla sapienza, questo è proprio il concetto del caso. Il concetto di caso si
oppone contradditoriamente al concetto di sapienza, questo già in filosofia. A
maggior ragione nella Bibbia, che è Parola di Dio.
Infatti, il caso dice un fatto
senza causa, cosa assurda. La sapienza biblica è conoscenza delle cause. Caso
dice irrazionalità. La sapienza biblica è maestra di ragionevolezza. Caso dice
negazione della finalità. La sapienza biblica mostra i fini più alti del mondo
e dell’uomo. Caso dice procedere alla cieca. La sapienza biblica è guida
luminosa. Caso dice insensatezza. La sapienza biblica svela il senso dei
discorsi e delle cose. Il caso suppone mancanza di senno. La sapienza biblica
insegna ad essere assennati. Il caso è la negazione della Provvidenza. La sapienza
biblica è regola della Provvidenza. Il caso dice che qualcosa può avvenire per
caso. La sapienza biblica ci dice che tutto è regolato dalla divina sapienza.
Dio stesso per la Bibbia è la Sapienza e Dio non ha nulla a che vedere col
caso.
Con tutto ciò, non è proibito
parlare di caso[5]. Posso per esempio dire: «ho incontrato per caso mio
fratello». Ma ciò vuol dire semplicemente che non conoscevo il perché, il quale
è sicuro, perché certamente ci sarà stato un motivo per il quale io ero lì e
lui era lì quando ci siamo incontrati.
Così similmente, se noi diciamo di gettare i dadi "a caso", in realtà il susseguente movimento dei dadi non avviene affatto "a caso", ma in perfetta obbedienza a precisissime leggi della dinamica fisica dei corpi inanimati.
E così pure la tesi di certi fisici, i quali vorrebbero raccontarci che certi movimenti di certe particelle subatomiche avvengono "a caso", è una tesi assolutamente fasulla, con la quale vorrebbero coprire con la balla del "caso" la loro ignoranza di ciò che effettivamente avviene, disonorando il loro titolo e la loro missione di scienziati, dato che fin dai tempi di Aristotele sappiamo che la scienza è scienza del perchè e non del racconto fantastico di ciò che avviene "a caso".
Così similmente, se noi diciamo di gettare i dadi "a caso", in realtà il susseguente movimento dei dadi non avviene affatto "a caso", ma in perfetta obbedienza a precisissime leggi della dinamica fisica dei corpi inanimati.
E così pure la tesi di certi fisici, i quali vorrebbero raccontarci che certi movimenti di certe particelle subatomiche avvengono "a caso", è una tesi assolutamente fasulla, con la quale vorrebbero coprire con la balla del "caso" la loro ignoranza di ciò che effettivamente avviene, disonorando il loro titolo e la loro missione di scienziati, dato che fin dai tempi di Aristotele sappiamo che la scienza è scienza del perchè e non del racconto fantastico di ciò che avviene "a caso".
Volendo essere benevoli sul concetto
del caso, possiamo dire che il caso può essere un effetto del razionale, ma il
razionale non può essere effetto del caso. Io, essere razionale, posso agire a
caso. Ma non posso essere effetto del caso, come ci ammonisce la stessa
Scrittura, citando il pensiero degli empi: "Dicono fra loro sragionando:
siamo nati per caso" (Sap 2,1.3).
Estraendo a caso lettere
dell'alfabeto da un contenitore non è impossibile che venga fuori un versetto
della Scrittura. Dunque un razionale viene fuori per caso? E' causato dal caso?
Quel dato assembramento di lettere dell'alfabeto a che cosa è dovuto? Diciamo
pure al caso. Ma che cosa dobbiamo intendere qui per "caso"? In
realtà perché e com'è che quelle lettere sono venute fuori in quel dato
assembramento? Perché le mie mosse intenzionali e il movimento dei caratteri
alfabetici da me avviato sono avvenuti obbedendo a ben precise leggi fisiche
della mia mano e delle lettere. Quell'assembramento di lettere che di per sè è
stato concepito o ideato dall'intelletto ed eseguito dalla volontà
dell'agiografo, quindi dal razionale sotto assistenza divina, quello stesso
assembramento, come fatto materiale e fisico, è effetto di una serie di moti
fisici a me sconosciuti, che io chiamo "caso" non perché essi non
abbiano avuto una causa, ma semplicemente perché non la conosco.
Come pregare
Signore, non castigarmi
nel tuo furore
Sal 6,2
Dice Cantalamessa:
«La parola di Dio ci
dice qual è la prima cosa che dobbiamo fare in momenti come questi: gridare a
Dio. È lui stesso che mette sulle labbra degli uomini le parole da gridare a
lui, a volte parole dure, di lamento, quasi di accusa. “Àlzati, Signore, vieni
in nostro aiuto! Salvaci per la tua misericordia! […] Déstati, non ci
respingere per sempre!” (Sal 44, 24.27). “Signore, non ti importa che noi
periamo?” (Mc 4,38).
Qui la Scrittura accondiscende alla
debolezza e al panico dell’uomo travolto dalla sventura. Ma non dobbiamo
isolare questi testi dai contesti ben più significativi ed istruttivi sul modo
col quale dobbiamo a pregare. Se vogliamo infatti esempi biblici di preghiera autentica,
matura ed efficace presso Dio, a Lui gradita, non dobbiamo partire in quarta accattoni
con le suppliche o peggio ancora con rimproveri fatti a Dio, ma dobbiamo cercar
altrove, per esempio nella preghiera della regina Ester. Lì vedremo che la prima
cosa da fare quando ci presentiamo al Signore è il riconoscerlo giusto nell’aver
punito i nostri peccati.
Non dobbiamo infatti solo chiedere
a Dio salute e benessere, come se fossimo tutti buoni e innocenti e non
meritassimo rimproveri e castighi per i nostri peccati e non avessimo bisogno di
scontarli con la penitenza. La prima cosa da chiedere a Dio, allora, è il chiedere
perdono dei nostri peccati, il riconoscerLo giusto nel punirci; è chiederGli di
farci conoscere quali peccati abbiamo commesso, quali colpe abbiamo, per poterci
emendare. Solo allora Dio ci ascolterà e ci libererà dalla sofferenza e dalla morte.
Dobbiamo cioè cominciare col batterci
il petto, con coscienza umile e cuore contrito e confidente, come il pubblicano
del racconto evangelico (Lc 18, 10s), come all’inizio della Messa col Confiteor
e il Kyrie eleison. È puerile lanciarsi e gridare verso Dio senza prima assolvere
ai nostri doveri di giustizia verso di Lui e verso il prossimo, riconoscere di essere
giustamente castigati, senza pentirci dei nostri peccati e fare seri propositi di
ravvedimento. Se non siamo in queste condizioni interiori, con quale faccia siamo
a chiedere a Dio soccorso, misericordia, tenerezza e favori?
Le condizioni per essere esauditi,
ovvero
i peccati dai quali ci dobbiamo liberare
Per compiere la vendetta
fra i popoli
e punire le genti,
per stringere in catene
i loro capi
e i loro nobili in ceppi
di ferro
Sal 149, 7-8
Questa pandemia è una lezione di umiltà
per la superbia umana, per l’uomo prometeico, autoreferenziale, gradasso e
spavaldo, che si ritiene onnipotente signore della natura, libero plasmatore di
sé stesso ed esente da qualunque dovere verso Dio, perché egli stesso è Dio o si
è messo al posto di Dio ed è legge a sé stesso.
In questi ultimi secoli, a
partire da Cartesio, l’uomo, inebriatosi per la potenza del suo spirito, del
suo pensiero e del suo agire, per i successi della scienza, della tecnica e dell’organizzazione
sociale, e per giustificare la sua arroganza, ha elaborato numerose, raffinate,
autointerpretazioni di se stesso, con le quali ha osato gradatamente strappare a
Dio i suoi attributi, per assegnarli a se stesso, mentre il concetto di Dio si
è gradualmente illanguidito, immiserito e sbiadito, per essere alla fine
sommerso dalle miserie umane.
Ecco allora da una parte l’uomo
onnipotente e tracotante e dall’altra un Dio umiliato, debole, miserabile, impotente,
frustrato, sofferente, risibile ed alla fine gettato nella spazzatura. L’uomo,
invece, gonfiatosi nella sua stolta superbia, ingannato dal diavolo, si è
convinto di poter fare da sé ciò che il vecchio Dio non è riuscito a fare.
Per questo, gli errori e i
peccati più gravi e nocivi, dei quali dobbiamo liberarci per essere graditi a
Dio ed essere esauditi nella nostra preghiera, si concentrano oggi attorno al
nostro rapporto con Dio. Dobbiamo smetterla con la nostra presunzione e la
nostra superbia, che dà frutti amarissimi e suscita l’ira di Dio. Bisogna che rivediamo
la nostra stessa concezione di Dio intendendoLo non come essenzialmente rivolto
e relativo all’uomo e per conseguenza non dobbiamo seguire Heidegger nel
credere che «l’essere stesso dell’uomo con-costituisce l’Essere»[6] , sentenza che Rahner riprende affermando che
«l’essenza dell’uomo è assoluta apertura all’essere in generale»[7].
No. L’uomo ha la semplice facoltà
di conoscere l’essere, che nella sua pienezza infinita è Dio. Ma l’uomo non
costituisce nessun presupposto all’Essere divino, come se Dio avesse bisogno
dell’uomo per esistere. L’uomo, certamente, è orientato da Dio verso Dio, ma
sta a ciascun uomo col suo libero arbitrio, scegliere o non scegliere Dio come
fine ultimo della sua vita. L’uomo si
rapporta a Dio non per essenza, come se Dio avesse bisogno dell’uomo per
esistere, come se l’essenza divina fosse condizionata dall’essere umano, ma per
libera scelta, sicché Dio esiste ugualmente, anche se l’uomo non Lo sceglie.
È vero che Rahner parla della
grazia, ma invece di intenderla come dono creato da Dio, che si aggiunge alla
natura umana elevandola al di sopra della natura («soprannaturale») alla
condizione della figliolanza divina, dono che possiamo perdere col peccato, la
intende come costitutiva e vertice della natura («esistenziale
soprannaturale»), «autocomunicazione» di Dio all’uomo della propria essenza e
quindi in possesso di tutti nonostante il peccato.
Questa concezione pretenziosa
dell’uomo deriva dalla concezione cartesiana dell’uomo come res cogitans Deum.
Ma ciò non corrisponde affatto a verità. L’uomo è atto a pensare a Dio, ma non
è affatto vero che egli pensi a Dio per essenza. L’ateo non pensa affatto a Dio
e non per questo l’ateo non è un uomo. E poi l’uomo è un ente capace di pensare;
ma non è affatto un ente pensante in atto, perché questo è solo Dio, il cui
essere s’identifica col suo pensare[8].
In base a queste considerazioni, mi
pare che possiamo riassumere tutto il dramma dei nostri giorni attorno ad
alcuni nomi: Lutero, Cartesio, Kant, Hegel, Marx, Darwin, Nietzsche, Freud,
Heidegger e Rahner.
Perché Lutero? Non è un credente
nell’onnipotenza divina, che umilia la superbia dell’uomo? Sì, ma il suo Dio,
che è misericordioso ma non punisce, suppone un io umano, quello di Lutero,
convinto che un Dio assai liberale sia al suo servizio e che non gl’imponga
obblighi assoluti, la cui messa in pratica sia condizione per salvarsi, ma
l’unica condizione, la «sola fides», che è la fede che si salverà.
Ora, invece dobbiamo abbandonare
come illusione pericolosa il Dio di Lutero, misericordioso, che non castiga, un
Dio che Lutero si è costruito sulla base del suo soggettivismo e della sua vana
confidenza in un Dio che ci lascia fare tutto quello che vogliamo e che non c’impone
doveri assoluti, ma ci chiede, per salvarci, come unica condizione, di credere
come verità di fede che Egli ci salverà, vada come vada.
Bisogna invece che abbracciamo il vero Dio
biblico, Che «castiga e usa misericordia» (Tb 13,2), ci previene certo con la sua
grazia, ma Che nel contempo esige la nostra collaborazione e messa in opera dei
suoi comandamenti, facendo penitenza dei nostri peccati, acquistando meriti per
il paradiso, così da non presentarci davanti a Lui «a mani vuote» (Es 23,15),
ma mostrandoGli di aver trafficato i talenti ricevuti (Mt 25,15).
Infatti il Dio di Lutero è sì un
Dio dal quale l’uomo dipende, ma nel contempo è un Dio essenzialmente relazionato
all’uomo, perché Lutero non concepisce Dio se non incarnato. Ciò viene a dare all’uomo
– sia pure l’umanità di Cristo - un’importanza eccessiva, come se, se non ci fosse
l’uomo, Dio non esisterebbe. Il che ovviamente è assolutamente falso, perché Dio
in realtà, se volesse, potrebbe benissimo esistere anche senza l’uomo e senza
lo stesso universo.
Un secolo dopo apparirà Cartesio,
che ammetterà certo Dio creatore e quindi la dipendenza dell’uomo da Dio, ma
nel contempo Dio è considerato esistente in quanto pensato dall’uomo, e quindi
di nuovo, anziché avere una dipendenza assoluta dell’uomo da Dio, abbiamo una
reciprocità, per cui l’uomo e Dio sembrano ormai essere alla pari e bisognosi
l’uno dell’altro.
L’uomo tende ad aumentare
d’importanza e Dio tende a diminuire d’importanza. Con Kant la trascendenza di
Dio è sparita e Dio è una semplice Idea della ragion pratica. Queste teologie non
sono più teocentriche, ma possono essere chiamate «antropoteologie», perché associano
indissolubilmente l’essenza dell’uomo all’essenza di Dio. Non c’è uomo senza
Dio, e qui va bene. Ma non c’è neanche Dio senza l’uomo. E qui non ci siamo. Ma
la voracità umana non è ancora soddisfatta.
Il salto definitivo sarà compiuto
da Hegel col suo idealismo assoluto, per il quale l’essere coincide col
pensiero, per cui l’essere è divino, giacché nella realtà delle cose, come
dimostra S.Tommaso[9], solo in Dio l’essere s’identifica col pensiero. E
allora, ecco nascere la conseguenza: l’essere come tale è Dio e in special modo
la natura umana è identica alla natura divina.
L’uomo si è fatto Dio. Hegel dirà
che l’uomo è giunto a sapere di essere Dio, come gli aveva promesso il serpente
del Genesi, che così per Hegel non ha indotto l’uomo al peccato, ma al
contrario gli ha insegnato la via della sua divinizzazione. Ovvero è
disobbedendo che l’uomo, per Hegel, raggiunge la sua libertà e il suo essere
divino. Il che sfocia nel panteismo.
Ma la tracotanza umana ha altri
passi da compiere. In Hegel l’ateismo è implicito. Hegel afferma ancora Dio,
benché lo identifichi con l’uomo. Arriverà Marx a notare che, se l’uomo è Dio, allora
il Dio trascendente e celeste della religione non esiste. Semmai, come dirà Marx
ancora hegelianamente, è l’uomo ad essere Dio per l’uomo.
L’altro uomo è Dio. L’amore del
prossimo al posto dell’amore di Dio. Ma la soppressione di Dio non è ancora
finita: manca l’ultimo passo, che conduce alla follia. Si chiede Nietzsche[10]: perché dovrei solidarizzare con
gli altri? Con gli oppressi? Ma neanche per sogno! E contro i padroni? Marx non
è un ateo completo. Il vero ateo è il padrone che spadroneggia sugli altri!
Nietzsche sostituisce il conformista
ateismo di massa di Marx, che con l’ateismo d’élite, la «razza dei Signori». Nietzsche,
al contrario di Marx, al quale non manca un certo senso di misericordia per gli
oppressi, benché intrisa di odio per i padroni, è un animo gretto e crudele,
che ha in abominio la misericordia, che egli considera una debolezza indegna
dell’uomo forte e dominatore. L’ideale per lui è quello del padrone, del
superuomo. I deboli e malaticci vanno o dominati o eliminati.
L’ateismo di Nietzsche è ad un
tempo bestiale e diabolico. Esso è ben rappresentato dalle bestie dell’Apocalisse.
Egli infatti da una parte sposa in pieno la concezione darwiniana e positivista
ottocentesca dell’uomo, tutto immerso nei più bassi istinti animali e dall’altra
lancia spavaldamente il suo allucinante programma, il quale sembra essere assai
simile a quello descritto da San Paolo per l’anticristo:
«l’uomo iniquo, il figlio
della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene
detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando sé
stesso come Dio» (II Ts 2, 3-4).
Ora, comprendiamo che quando un
uomo giunge a questo punto, offende talmente i princìpi dell’esistenza umana, che
distrugge sé stesso, per cui si comprende che il Concilio Vaticano II abbia detto
che se Dio manca, l’uomo svanisce. E per questo nessuno ha mai pensato di
seguire fino in fondo l’esempio d Nietzsche, sapendo a quale baratro conduce, ma
siccome però un po’ di ateismo non dispiace, ci si ferma prima, limitandosi a
provare qualche brivido alla lettura di Nietzsche e delle sue bestemmie, oppure
ci si ferma al livello di Marx o si retrocede all’hegelismo, o ancor più si torna
all’umanesimo antropoteologico di Lutero, Cartesio ed Heidegger e Rahner. Ma
anche questi sono tutti falsi maestri da lasciare, senza per questo disprezzare
il positivo.
Nell’orizzonte, poi,
dell’umanesimo materialista, ateo ed antropolatrico marxista, nel quale l’uomo
si sostituisce a Dio, possiamo peraltro collocare anche altri maestri: Darwin e
Freud. Darwin, che abbassa l’umanità
alla vita egoistica delle bestie; Freud, che fa l’apoteosi dell’istinto sessuale
assoggettando ad esso la vita morale.
Ma se vogliamo ritrovare la giusta
strada per il vero progresso, dobbiamo tornare al punto dove abbiamo perso il cammino
e questo punto si trova nella sapienza medioevale e in special modo in quella
di San Tommaso d’Aquino, da otto secoli raccomandato dai Papi, compreso il Concilio
Vaticano II.
Non basta, quindi, tornare a Lutero o a Cartesio,
perché qui siamo su quella strada già deviata, al termine della quale, come
abbiamo visto, ci aspetta Nietzsche. Se ci fermiamo qui, si ripropone la prospettiva
di finire con Nietzsche. Se vogliamo evitare questa conclusione, bisogna
tornare a San Tommaso, vero erede della Tradizione ecclesiale, e ripartire da
lì, sia pur accogliendo tutti i valori della modernità, come hanno fatto i grandi
maestri del ‘900, che hanno preparato il Concilio, i Sertillanges, i Toniolo, i Maritain,
i Fabro, i Pavan, i Garrigou-Lagrange, i Gilson, i Congar, i Parente, i Daniélou, i Journet, gli
Spiazzi, i Von Balthasar.
Stringiamoci tutti attorno a
Francesco
Voi siete il sale della terra.
Voi
siete la luce del mondo
Mt
5,13.15
Ricordare l’importanza, il significato
e i fini del Concilio Vaticano II nella presente congiuntura è di grande
attualità ed utilità. Infatti, possiamo considerare l’attuale pandemia come un rimprovero
fatto da Dio a una larga parte di noi cattolici di aver commesso gravi errori
nell’interpretazione e nell’attuazione della riforma conciliare.
Dobbiamo infatti ricordare che
l’ultimo Concilio, il primo in tutta storia dei Concili, ancor più che
pastorale, secondo un luogo comune vero ma trito e ritrito, è stato un Concilio
missionario, che, senza negare l’esistenza di talune novità dottrinali, ha convocato ed invitato tutta l’umanità a partecipare
al «banchetto» escatologico, ossia nella Chiesa cattolica, in possesso, al di sopra
di tutte le altre religioni e delle
stesse confessioni cristiane non-cattoliche
, della pienezza della verità salvifica
rivelata, sottola guida del Papa.
A differenza dei precedenti
Concili, il Vaticano II non espone le sue dottrine e direttive pastorali in
forma di decreti od ordinanze legislative - i canoni con i famosi «anathema
sit» -, ma in forma espositiva, parenetica e propositiva, con pochi divieti o
proibizioni o condanne. Ma questo perché, come ebbe a precisare S.Giovanni
XXIII nel discorso di apertura del Concilio, le condanne dei grandi errori
della modernità si davano per scontati, per cui, contrariamente a quanto
sostennero successivamente i modernisti, quelle condanne non erano affatto state
abolite, ma erano presupposte e sottintese, come per esempio il Sillabo del Beato
Pio IX, le dottrine del Concilio Vaticano I, l’enciclica Humanum Genus di Leone
XIII contro la massoneria del 1884, la Pascendi di S.Pio X, l’enciclica Divini Redemptoris
di Pio XI del 1937 contro il comunismo, l’enciclica Humani Generis di Pio XII
del 1950 contro il neomodernismo.
Il Concilio, inoltre, come si sa,
è rimasto famoso per la promozione del dialogo come metodo dell’evangelizzazione
e della pacifica convivenza tra cattolici e non-cattolici. Ed è chiaro che,
come risulta dagli insegnamenti conciliari, questo dialogo non è solo uno
scambio di idee per una migliore conoscenza reciproca, un correggersi dei
propri errori del passato, un mutuo perdonarsi ed una collaborazione reciproca su
punti di comune interesse, ma anche un colmare le lacune, un correggere gli
errori dei fratelli, un ammonire ed avvertire i peccatori, un convocare o avvicinare
i lontani, un esortare con validi argomenti e con la propria testimonianza alla
conversione, un conciliare gli animi, un togliere divisioni, vecchi pregiudizi,
equivoci e malintesi, un saper difendere la dottrina della fede dagli attacchi degli
empi e degli increduli, fornire prove di credibilità, un saper rispondere a
coloro che ci chiedono ragione della speranza che è in noi (I Pt 3,15).
Papa Francesco è l’unico uomo in tutta
l’umanità di oggi che ha da Dio, nella potenza dello Spirito Santo, il diritto e
il dovere di chiamare alla conversione, di invitare, di convocare e radunare tutti
gli uomini di tutte le religioni e di tutte le culture, credenti e non credenti,
avvertiti dal presente flagello divino, alla salvezza eterna nel nome di Cristo,
unico Salvatore del mondo, sotto il regno di Cristo, del quale è il Vicario,
come Successore di Pietro, «Pastore universale della Chiesa», come ama chiamarsi
secondo il titolo da lui fatto inserire nel nuovo Annuario Pontificio o come
Maestro della Fede, come a me piace chiamarlo.
Vorrei esortare i modernisti a
smetterla di esaltare il Papa con titoli reboanti, esagerati, spropositati o
sconvenienti, ignorando o falsando il suo Magistero ed approfittando delle sue debolezze
umane per avere un avallo delle loro eresie e dei loro peccati.
E così pure vorrei esortare i
moderni rancorosi e saccenti farisei a smetterla di apostrofare continuamente
il Papa con calunnie, insulti e falsità, che sconfinano nel sacrilegio e nella bestemmia.
Mi permetto invece di segnalare gli articoli che da sette anni sto pubblicando per
esporre come dobbiamo comporci con Papa Francesco, da figli franchi, liberi,
rispettosi, equilibrati ed obbedienti, senza alterigia e senza fanatismi.
È urgente una conciliazione sotto
la guida del Papa fra le due estreme del modernismo e dell’ultraconservatorismo.
Gli uni e gli altri posseggono qualità, i primi sono sensibili al progresso; i secondi
alla conservazione. Ebbene, conservazione e progresso sono fatti per integrarsi
e collaborare a vicenda. Occorre tanto «il progresso e la gioia della fede»
(Fil 1,25), quanto «conservare il deposito» (II Tm 1,14).
Non si può dare conservazione senza
progresso; si avrebbe un morto immobilismo. A nulla serve conservare, se non
progredisce ciò che dev’essere conservato. E d’altra parte, non si può dare progresso
senza conservare ciò che deve progredire, altrimenti si ha sovversione. Il
progresso, per essere autentico, e non essere rottura, dev’essere in continuità
col passato[11]. E il conservare, per non conservare roba vecchia e
in disuso, dev’essere il conservare ciò che può progredire.
P.Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
16 aprile 202
[2] Dai Discorsi,
Disc. 4, 1-2, PG 89, 1348.
[3] Vedi soprattutto la teologia del Concilio
Lateranense IV del 1215, del Concilio di Firenze del 1441 e del Vaticano I del
1870.
[4] Sum.Theol.,
I, q.13, a.11.
[5] FATALISTI
ALLO SBARAGLIO. COME ORIENTARSI CON LA PROPRIA E L’ALTRUI SORTE, a cura di Francesco Baccilieri, Ed. Le
Comete/FrancoAngeli, Milano, 2012, pp.69-82.
[6] B.Rioux, L’être
et la vérité chez Heidegger et Saint Thomas d’Aquin, Montréal-Paris 1963, p.117.
[8] Sum.Theol.,I,
q.14, a.4.
[11] Cf il mio libro PROGRESSO NELLA CONTINUITA’. LA QUESTIONE DEL
CONCILIO VATICANO II E DEL POSTCONCILIO, Fede&Cultura, Verona 2011.
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