Galileo, Cartesio e Giordano Bruno - Dominio tecnico e dominio magico sulla natura - Seconda Parte (2/5)

 Galileo, Cartesio e Giordano Bruno

Dominio tecnico e dominio magico sulla natura

 

Seconda Parte (2/5 

Galileo lo sperimentatore, Bruno il mago e Cartesio il furbo

La Sacra Scrittura ci insegna che esistono tre gradi di dominio dello spirito sulla materia: c’è quello divino, quello dell’angelo e quello dell’uomo. Dio crea il mondo materiale, la molteplicità delle sostanze e degli enti contingenti, ciascuno con la sua forma o essenza specifica individuale precisa, definita e determinata, stabilisce le leggi fisiche e spirituali immutabili e necessitanti delle attività, dei moti e del loro divenire, in analogia alla sua azione causale e motrice, le rende cause efficienti e motrici delle sostanze a loro inferiori.

In base a un paradigma eterno concepito dalla sua mente, identico ad essa ed al suo essere, Dio concepisce nel suo Logos, ordina, connette e pone in atto con razionalità, sapienza e potenza infinite tutte le sostanze fisiche e spirituali fra di loro, ciascuna calcolata, misurata, definita, delimitata e determinata da una data quantità e qualità, azione e passione, inclinazioni e proprietà, attrazione e repulsione, nello spazio e nel tempo.

Dio pone in atto mediante le sostanze che crea tutte le loro energie, le forze e le potenze dell’universo in una meravigliosa bellezza ed armonia, in una reciproca affinità, relazione, opposizione, influsso, somiglianza, corrispondenza, proporzione e collaborazione di tutte con tutte: nessun conflitto, nessuna contraddizione, nessun annullamento, nessun disordine, nessuna sproporzione o disarmonia, nessuna imperfezione o incompiutezza, nessuna mancanza o privazione, nessuna imprecisione, indeterminatezza o confusione, nessuna casualità o disorganizzazione. La corruzione dell’uno è la generazione dell’altro. Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Dio ha disposto tutto secondo numero, peso e misura (Sap 11,21).

La creatura spirituale, angelo ed uomo hanno sulla natura un potere ordinatore, costruttore, architettonico, ingegneristico, produttivo – la tecnica -,  che Dio stesso ha loro assegnato, un potere simile al suo, con la differenza che mentre il suo è illimitato, perché è creatore dell’essere e costitutivo dell’essenza, della sostanza, degli accidenti, delle potenze, delle leggi e dei fini della natura, il potere delle sostanze intelligenti è limitato dalla potenza operativa propria della natura specifica ed individuale di ciascuna di esse.

Inoltre esse non possono agire sugli enti fisici, muoverli, trasformarli ed utilizzarli, promuoverne l’attività, suscitarne le forze e le energie, regolarne il funzionamento, operando direttamente sulla loro essenza o sostanza o accidenti essenziali, dando o determinando la forma sostanziale alla materia, ma, nel rispetto della loro costituzione essenziale e delle leggi del loro funzionamento, possono ottenere i suddetti fini soltanto usando strumenti o naturali o artificiali.

La fisica di Cartesio è una fisico-matematica come quella di Galileo, con la differenza che mentre Galileo accetta la gnoseologia realista che si desume dalla Bibbia ed è raccomandata dalla Chiesa nella filosofia di San Tommaso d’Aquino, Cartesio considera la sua fisica come dedotta dalla sua gnoseologia e metafisica di stampo idealista[1].

Così, sia per Cartesio che per Galileo è possibile stabilire le leggi e il funzionamento della natura fisica secondo formule matematiche, ma mentre Galileo parte dall’esperienza sensibile considerata come oggettiva, per cogliere la natura e leggi del fenomeni della natura e stabilire così la teoria fisica, pur sempre rivedibile, la cui verità è confermata dalle verifiche offerte dall’osservazione sensibile, Cartesio, che non crede all’oggettività delle qualità sensibili dei corpi, riduce la sua cosmologia a una teoria puramente meccanicistica formulata nella modalità del sapere matematico.

La scienza galileiana non ha niente a che vedere con la pretesa cartesiana di fondare il sapere e quindi la realtà sul proprio io, ma è il sapere del comune buon senso, già teorizzato da Aristotele, per il quale, partendo dall’esperienza sensibile e sulla base della verifica sperimentale, noi indaghiamo le cause e il modo di procedere dei fenomeni naturali, scopriamo le leggi fisiche e sulla base di quella conoscenza edifichiamo la tecnica e padroneggiamo le forze della natura, così come Dio le ha ideate, volute e create.

Giordano Bruno[2] s’inserisce in questa mentalità magica, che probabilmente ha assorbito dai suoi contatti con la Fraternità dei Rosa-Croce, con la quale anche Cartesio fu a contatto[3]. Resta però una grande differenza fra Bruno da una parte e Galileo e Cartesio dall’altra, e cioè che mentre questi ultimi credono fermamente nella fisico-matematica, Bruno, totalmente immerso in una visione panteistica dell’uomo e dell’universo, ne nutre il più profondo disprezzo come di falso sapere di «pedanti», nei quali coinvolge non solo Aristotele, ma addirittura il cristianesimo.

È molto interessante il quadro sintetico che Giovanni Gentile fa dell’anima di Bruno nel suo Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento[4]. Egli vede in Bruno l’iniziatore di una «nuova filosofia» nella quale Dio non è più il creatore del mondo, Essere infinito ed eterno, che trascende la finitezza e la temporalità dell’uomo e della natura, ma è la «divinizzazione della natura e dell’uomo in ciò che hanno di infinito e di eterno». Dio è il vertice del mondo e il mondo è la realizzazione di Dio.

Dice Gentile:

 

«Con tutta la sua forza nell’ora estrema ai ministri di quel Dio, che egli si era infatti lasciato a tergo: l’anima nuova» (di Bruno), «che vorremmo sempre onorare perché quando quel Dio, che ella aveva lasciato sopravvivere accanto e oltre il suo nuovo Infinito, le si rizzò contro con tutta la energia della logica e le intimò di abiurare alla sua filosofia, tenne fede incrollabile alle idee, che il pensiero umano doveva più tardi svolgere per instaurare in sé il regno del Dio nuovo» (p.116).

Di quale «pensiero umano» parla il Gentile? E qual è questo «Dio nuovo»? Non si tratta altro che del pensiero idealista e del concetto idealista di Dio, che, partendo dall’io cartesiano, si sarebbe sviluppato nei secoli seguenti appunto fino a Gentile, Husserl, Heidegger e Nietzsche. Il Dio della mia volontà e non quel Dio al quale diciamo «sia fatta la tua volontà».

Il principio di Bruno è il medesimo di quello di Cartesio: io pongo il mio essere, per cui non ho bisogno di un Dio che lo ponga lui. Solo che Cartesio, infetto dal vizio della doppiezza e della finzione, copre astutamente questo principio con una veste cattolica per evitare l’intervento dell’Inquisizione, mentre Bruno, con schiettezza, franchezza e coerenza tutte domenicane, non teme di manifestare apertamente le sue idee, senza arrestarsi perfino davanti alla morte.

Si comprende, allora, come Gentile in queste pagine esaltanti Bruno come fondatore della filosofia moderna, la quale per l’idealista Gentile, non è poi altro che quella che per gli idealisti è la filosofia cartesiana, proclamata a suon di tromba da quattro secoli «filosofia moderna».

Ora, questa cosiddetta filosofia moderna non è altro che l’anima del modernismo. Per questo, se Pio X avesse voluto fare i due nomi dei fondatori del modernismo, avrebbe potuto fare benissimo i nomi di Bruno e Cartesio, non certo dello onesto e infelice Galileo, che era perfettamente nel solco del realismo aristotelico-tomista. E del resto il pensiero di Cartesio e di Bruno si riconosce benissimo ne fenomenismo panteista e prometeico denunciato dal santo Pontefice.

Resta in ogni caso in Cartesio, a differenza di Bruno e di Galileo, lo scetticismo circa la conoscibilità delle qualità sensibili, mentre ammette senza difficoltà l’oggettività delle quantità. Sul piano della sensibilità Cartesio non è quindi capace di distinguere il fenomeno (fainòmenon) dall’apparenza (doxa), ciò che appare e si manifesta, da ciò che sembra (videtur). Kant distingue invece rispettivamente l’Erscheinung dal Schein. Il primo non è che l’apparire della cosa, quindi l’oggetto di un sapere universale necessario, appunto la scienza dei fenomeni; il secondo è l’apparenza inverificabile, che quindi può ingannare.

La scienza aristotelica rende impossibile la magia

Già Aristotele, prima di Galileo e di Cartesio, aveva scoperto la possibilità di una scienza della natura non solo di semplice esperienza sensibile, ma affrontata con metodo matematico, come fa notare il Maritain, quando ci riferisce:

 

«Aristotele, nel libro II della Fisica, c.2, 194a7, parla della conoscenza matematica e parla delle parti delle matematiche che sono più fisiche delle altre, che riguardano maggiormente le cose fisiche, ciò che egli chiama ta fysikòtera ton mathemàthon e i traduttori traducono a ragione “le parti più fisiche che matematiche”. San Tommaso, invece, nella sua III lezione sul libro II della Fisica intende che non si tratta delle parti più fisiche delle matematiche, ma di scienze più fisiche che matematiche, magis naturales quam mathematicae, … “quia harum scientiarum consideratio terminatur ad materiam naturalem, licet per principia mathematica procedat”»[5].

 

Aristotele ha il merito di aver fondato la tanto la certezza del senso, che fonda le scienze empiriche, e quindi la filosofia della natura, quanto la certezza matematica, che fonda la conoscenza fisico-matematica della natura. Cartesio, invece, per fondare la certezza sensibile, ricorre addirittura ad una inesistente conoscenza o coscienza apriorica o innata di Dio, che potrà essere semmai quella degli angeli, ma non certo quella umana, che parte dall’esperienza sensibile delle cose esterne, per ea quae facta sunt, come dice S.Paolo in Rm 1,20.

Certamente, Dio sa che la neve è bianca non perché ha visto la neve ma perché l’ha creata lui. Similmente per Cartesio io so che la neve è bianca non perché l’ho sperimentata con i miei sensi, ma perchè Dio, la cui esistenza l’ho decisa io in base al mio pensare, mi assicura che la sensazione di bianchezza che ho negli occhi corrisponde alla verità.

Cioè io non arrivo a sapere che Dio esiste perché parto dall’esperienza sensibile della bianchezza della neve, ma siccome so che Dio esiste, perché voglio che esista, in base al mio pensarlo, allora, partendo da questa coscienza dell’esistenza di Dio che io ho deciso, ho la possibilità di sapere che la neve è bianca. Chiaramente Cartesio inverte l’ordine umano del sapere e lo pareggia con quello divino. Come ha detto bene il Fabro, il cogito cartesiano è un volo, perché l’evidenza cartesiana non è effetto di necessità intellettuale, ma di decisione della volontà.

Da tutto ciò che cosa risulta sul piano della prassi? Che per Cartesio la bianchezza della neve non è una qualità sensibile oggettiva presupposta al mio percepirla e indipendente dal mio percepirla, ma è effetto della mia volontà in quanto conseguenza del mio pensare come volere. Dall’ammettere questo alla fondazione gnoseologico-metafisica della magia non c’è che un passo. Basta che io, come farà Fichte, dica che sono io a porre me stesso, e il gioco è fatto: sono io a porre la realtà e non è Dio.

Anche Aristotele parla dell’apparenza (doxa), ma precisa che non sempre essa inganna. Abbiamo allora l’apparire del vero sensibile e così Aristotele riconosce la veracità del senso, pur ammettendo che i sensi non sono infallibili. Galileo, al contrario di Cartesio, ben conscio che i sensi non ingannano, non teme di guardare nel cannocchiale sapendo di conoscere la verità. E sa benissimo che se ai sensi sembra che il sole giri attorno alla terra[6], la realtà è che è la terra a girare attorno al sole[7]. La scienza non è il fermarsi alle apparenze, ma è il verificare se queste apparenze corrispondono o no alla realtà. E se, anche dopo attento esame, restano le apparenze, ci si deve provvisoriamente accontentare di quelle. Se invece in seguito a più accurate esperienze ci accorgeremo che il nostro sistema esplicativo non regge più, allora l’onestà scientifica ci imporrà di elaborare un sistema diverso che si adatti alle nuove esperienze.

Se invece si tratta delle acquisizioni della filosofia come la distinzione fra il corpo e lo spirito, l’uomo come animale ragionevole, la distinzione fra arte e natura o fra vivente e macchina, il corpo composto di materia e forma, il mondo creato da Dio o la veracità del senso, possiamo esser certi che nessuna nuova esperienza verrà ad infirmare queste assolute certezze.  Se oggi non possiamo costruire una macchina pensante non è perché la nostra tecnica non è ancora in grado di farlo, ma ciò è il segno che non ci riusciremo mai.

Così, mentre sul piano filosofico la fisica di Aristotele è patrimonio immutabile dell’umanità, e non è un semplice particolare lascito della «cultura greca», sul piano sperimentale i sistemi fisici si succedono gli uni agli altri col progredire dei nostri mezzi tecnici di indagine e metodi di sperimentazione.

La filosofia della natura, considerando l’ente sensibile e mobile, introduce alla metafisica, che considera l’ente in quanto ente e alla teologia, che considera il Creatore dell’ente. La fisico-matematica invece conduce l’uomo a quella padronanza sulla natura, che gli consente di modificarla ed utilizzarla per mezzo della tecnica e di abbellirla mediante l’arte e la poesia[8].

Per questo, dobbiamo dire che la fisico-matematica di Galileo non soppianta affatto, come gli idealisti e i materialisti vorrebbero farci credere, la fisica filosofica di Aristotele, ma ne costituisce una scienza distinta di grado epistemologico inferiore, che può essere introduttiva e preparatoria alla cosmologia filosofica, ma dotata di un suo proprio metodo matematico, al quale Aristotele fa riferimento, quando, per dimostrare l’accettabilità o la plausibilità della teoria tolemaica, afferma nel De caelo (306 a 29-30) che essa è tale da salvare l’ipotesi  (sozein ten ypothesin), cioè le apparenze fenomeniche, cosa che non esclude che, avverandosi successivamente una migliore conoscenza dei fenomeni, si renda necessaria una nuova sistemazione concettuale atta a spiegare meglio i medesimi fenomeni meglio conosciuti.

Il che vuol dire che il concetto di fenomeno (fainòmenon) esiste già in Aristotele, 2000 anni prima di Kant, col vantaggio che Aristotele non esclude affatto che la conoscenza del fenomeno possa condurre all’essenza della cosa in sé, cosa che Kant escludeva.

San Tommaso parla di questo metodo in questi termini:

 

«Vi sono due modi di dar ragione di qualcosa. C’è un modo sufficiente per provare una certa ipotesi (radix), come nella scienza naturale si ottiene una ragione sufficiente per provare che il moto del cielo è sempre di velocità uniforme[9]. In un altro modo si pone una ragione, che non prova l’ipotesi in modo sufficiente, ma, posta l’ipotesi, la quale mostra che gli effetti conseguenti sono ad essa congruenti, come in astrologia si pone la ragione degli eccentrici e degli epicicli in base al fatto che posta questa ipotesi si possono salvare le apparenze (apparentia) sensibili» - oggi diremmo i fenomeni - «circa i movimenti del cielo. Tuttavia questa ragione non è sufficientemente dimostrativa, perché forse le apparenze potrebbero essere salvate anche ponendo un’altra ipotesi (alia positione facta[10].

Mentre Cartesio continua con Platone a diffidare della scienza sperimentale e si limita alla fisico-matematica, Galileo, al seguito di Aristotele e San Tommaso fonda la scienza dei fenomeni, che suppone la fiducia nella veracità del senso. Per questo qui si ammette senz’altro che l’apparenza può ingannare; all’apparenza sembra che sia il sole a muoversi; invece ad un’osservazione sperimentale più attenta e metodica, che suppone la veracità del senso, ci si accorge che è la terra a muoversi.

In tal modo viene chiaramente a distinguersi una scienza sperimentale della natura da una scienza filosofica della medesima natura. La prima considera il fenomeno della cosa, così come essa appare ai sensi; la seconda considera la cosa stessa così come è intuita dall’intelletto.

Kant, riprendendo Aristotele, ha fondato la scienza dei fenomeni; ma purtroppo, bloccato dal suo cartesianismo, ha perso di vista la conoscibilità della cosa in sé, ossia della sostanza materiale fisica rendendo l’intelletto incapace di cogliere la quidditas rei materialis e introducendo al suo posto un’attività intellettuale formatrice della realtà, che non risponde ad altro che alla pretesa della magia.

Dal che vediamo come il razionalismo, che sembrerebbe l’antidoto alla magia, ne è in realtà il sottile complice e il segreto insospettabile giustificatore. Il galileiano si muove sul piano della scienza e respinge la magia. Il bruniano, del quale Schelling è l’erede, pone la magia al di sopra della scienza. Il cartesiano si destreggia fra realismo e idealismo, fra scienza e magia, fra politica e religione, fra il cielo e la terra a seconda delle convenienze e delle circostanze.

Così, se io non posso avere una conoscenza ontologica[11] del leone o della tigre o delle onde elettromagnetiche o dei raggi luminosi o della struttura dell’atomo, ciò non vuol dire che Dio non li abbia creati con una loro precisa essenza, della quale conosco solo il fenomeno sensibile-misurabile, essenza che si attua nella loro esistenza.

Se io a livello della microfisica o del software o della fisica quantistica – cosa che Galileo aveva capito per la macrofisica astronomica - non posso usare le categorie aristoteliche dell’essenza, della forma, della materia prima, della sostanza e degli accidenti, ciò non significa assolutamente che la nascita del metodo scientifico galileiano-cartesiano abbia fatto divenire obsolete quelle categorie: semplicemente ha voluto significare che esse, proprie della cosmologia filosofica, non potevano essere usate come categorie esplicative per la scienza sperimentale.

Non c’è dubbio che le onde elettromagnetiche o l’elettrone sono composti di materia e forma, altrimenti non sarebbero entità materiali create da Dio, ma significa semplicemente che noi, invece di conoscere questa materia e questa forma in modo preciso e determinato, ne conosciamo e misuriamo indirettamente con leggi probabilistiche, per mezzo di opportuni calcoli matematici elaborati in base ai nostri strumenti tecnici di osservazione, il fenomeno, fenomeno, che può apparirci indeterminato, come ci avverte Heisenberg[12], perché, per il momento e in certi casi, a causa dei limiti della capacità calcolatrice e misuratrice dei nostri mezzi, noi non riusciamo che a far calcoli di probabilità, quasi che giocassimo a dadi, ma possiamo stare certi che ciò che avviene è ben determinato dalla sapienza e potenza di Dio che lo ha creato.

Fine Seconda Parte (2/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 maggio 2023

Sia per Cartesio che per Galileo è possibile stabilire le leggi e il funzionamento della natura fisica secondo formule matematiche, ma mentre Galileo parte dall’esperienza sensibile considerata come oggettiva, per cogliere la natura e leggi del fenomeni della natura e stabilire così la teoria fisica, pur sempre rivedibile, la cui verità è confermata dalle verifiche offerte dall’osservazione sensibile, Cartesio, che non crede all’oggettività delle qualità sensibili dei corpi, riduce la sua cosmologia a una teoria puramente meccanicistica formulata nella modalità del sapere matematico.

Resta una grande differenza fra Bruno da una parte e Galileo e Cartesio dall’altra, e cioè che mentre questi ultimi credono fermamente nella fisico-matematica, Bruno, totalmente immerso in una visione panteistica dell’uomo e dell’universo, ne nutre il più profondo disprezzo come di falso sapere di «pedanti», nei quali coinvolge non solo Aristotele, ma addirittura il cristianesimo.  

 

Aristotele, prima di Galileo e di Cartesio, aveva scoperto la possibilità di una scienza della natura non solo di semplice esperienza sensibile, ma affrontata con metodo matematico

Anche Aristotele parla dell’apparenza (doxa), ma precisa che non sempre essa inganna.

Abbiamo allora l’apparire del vero sensibile e così Aristotele riconosce la veracità del senso, pur ammettendo che i sensi non sono infallibili. Galileo, al contrario di Cartesio, ben conscio che i sensi non ingannano, non teme di guardare nel cannocchiale sapendo di conoscere la verità. E sa benissimo che se ai sensi sembra che il sole giri attorno alla terra, la realtà è che è la terra a girare attorno al sole. La scienza non è il fermarsi alle apparenze, ma è il verificare se queste apparenze corrispondono o no alla realtà. E se, anche dopo attento esame, restano le apparenze, ci si deve provvisoriamente accontentare di quelle. Se invece in seguito a più accurate esperienze ci accorgeremo che il nostro sistema esplicativo non regge più, allora l’onestà scientifica ci imporrà di elaborare un sistema diverso che si adatti alle nuove esperienze.

Immagini da Internet:
- Galileo Galilei presenta il cannocchiale al doge Leonardo Donati, Giuseppe Bertini
- Lezione a Oxford (bassorilievo per il Monumento a Giordano Bruno),  Ettore Ferrari


[1] Etienne Gilson, Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Vrin, Paris 1975, pp.143-184.

[2] Vedi Frances Yates, Giordano Bruno e la Tradizione ermetica, Edizioni Laterza, Bari pp.486-488.

[3] J.Maritain, Le songe de Descartes, Buchet&Chastel, Paris 1932,p.294-295.

[4] Le Lettere, Firenze 1991, pp.110-120.

[5] Filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974, pp.35-36.

[6] Sulla questione galileiana, cf J.Maritain, De l’Eglise du Christ. La personne de l’Eglise et son personnel, Desclée de Brouwer, Bruges 1970, pp.345-361; C.Journet, L’Eglise du Verbe Incarné. Desclée de Brouwer, Bruges 1962, vol.I,pp.457-467.

[7] Oggi l’esegesi biblica conosce meglio i modi antichi di esprimersi. Quando la Bibbia dice che Giosuè fermò il sole (Gs 10,12) non intendeva affatto affermare un miracolo di per sé assurdo, ma era semplicemente un modo di dire per dire che la battaglia si protrasse fino a tarda notte, come a dire che Giosuè ottenne da Dio che il giorno si prolungasse fino ad ottenere la vittoria sul nemico. L’errore dei giudici di Galileo fu quello di scambiare per rivelazione divina un antico modo di esprimersi oggi abbandonato. Del resto non si può pretendere dagli uomini di allora quel metodo esegetico che solo a partire dal sec.XIX abbiamo acquisito, distinguendo accuratamente ciò che dipende dall’agiografo da ciò che è vera Parola di Dio. L’inerranza della Scrittura non è l’inerranza dell’agiografo. Naturalmente la Chiesa in quell’occasione non formulò alcuna dottrina dogmatica. Si sbagliarono gli esegeti; non si sbagliò la Chiesa. Non si può quindi trarre da questo doloroso episodio argomento per negare l’infallibilità del Magistero della Chiesa.

[8] Cf J.Maritain, L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, Morcelliana, Brescia 1957; Art et Scolastique, Desclée de Brouwer, Bruges 1965.

[9] Oggi parleremmo della velocità di rotazione della terra attorno al proprio asse ed attorno al sole. Allora era il cielo che sembrava ruotare attorno alla terra. Ma la prova data da Galileo di tale rotazione era certa e sufficiente.

[10] Sum.Theol.,I, q.32,a.1, ad2m.

[11] Cf J.Maritain, Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Bruges 1959, pp. 286-302; La filosofia della natura,Morcelliana, Brescia 1974.

[12] Cf il commento che Maritain fa alla posizione di Heisenberg in Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Bruges, 1959, pp.295,296, 373, 376.

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