Circa l’identità del popolo ebraico - Seconda Parte (2/4)

 Circa l’identità del popolo ebraico

Seconda Parte (2/4)

Il dialogo ebraico-cristiano

Benchè a tutt’oggi permanga nella stragrande maggioranza del popolo ebraico il rifiuto di accogliere Gesù come Messia e Salvatore d’Israele, mentre molti ebrei sono addirittura atei, non c’è che da rallegrarsi che il Concilio abbia creato fra cristiani ed ebrei un clima di accoglienza, attenzione, interesse, rispetto e fiducia reciproci, che hanno avuto ed hanno come effetto l’intensificazione delle comunicazioni, delle convivenze comuni, degli scambi culturali, delle conversazioni, delle discussioni teologiche, dei rapporti di amicizia e collaborazione in vari campi.

 Tutto ciò ci colpisce e ci rallegra profondamente, se facciamo il confronto con i secoli passati, segnati quasi sempre da incomprensioni reciproche, odii, inimicizie, ingiustizie, persecuzioni, emarginazioni, conflitti sanguinosi,  lancio reciproco di insulti e calunnie, diffusione di notizie false, di ingiuste accuse e diffamazioni, giudizi di condanna globale ed indiscriminata. E bisogna purtroppo osservare che il peso maggiore di questi peccati grava sulle spalle dei cristiani più che su quelle degli ebrei, quasi sempre piccole minoranze rispetto alla maggioranza cristiana. Ma occorre anche osservare che spesso ebrei credenti sono stati perseguitati da ebrei non credenti. Del resto, i primi cristiani, che erano ebrei, non sono forse stati perseguitati da loro connazionali che non hanno accolto Cristo?

Viceversa oggi, in un clima generalmente tranquillo di serena convivenza e di reciproca stima e reciproco ascolto, clima nel quale troviamo con gioia e sperimentiamo grandi valori comuni teologici, religiosi, umani, morali, civili e culturali, sorge un nuovo rischio, opposto a quello precedente: quello di adagiarci nei risultati conseguiti, quello di limitarci a constatare delle diversità o di ridurre ogni opposizione a diversità, perdendo interesse per la franchezza, la verità, la confutazione, la condanna dell’errore, forse per un certo rispetto umano e per non provocare rifiuti o dispiaceri nell’altro[1].

È sorprendente come dopo 2000 anni il popolo ebraico, pur in condizioni di diaspora, sia riuscito a mantenere la sua identità ed unità etnica, organizzativa e religiosa attorno alla Scrittura e alle tradizioni esegetiche, religiose, ritualistiche, giuridiche, ascetiche e morali che Israele ha ricavato dal testo sacro, pur senza disporre di una genealogia sacerdotale dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. Indubbiamente questo compatto complesso di valori e di tradizioni incute rispetto, tanto che  certi cristiani, nel dialogo con gli ebrei, non osano mettere in discussione quella complessa realtà religiosa, dimenticando il nostro dovere di annunciare Cristo anche agli ebrei, anzi anzitutto a loro, giacchè Cristo è venuto anzitutto per il suo popolo.

In sostanza c’è il rischio per noi cristiani di rinunciare ad evangelizzare gli ebrei, quando sappiamo bene che Cristo è venuto per annunciare il Vangelo anzitutto a loro. È vero che chi fra loro in buona fede non conosce Cristo, si salva con Mosè. Ma ciò non toglie il sacro dovere di noi cristiani, sull’esempio di S.Paolo, di annunciare Cristo anche a loro, a costo di ricevere ostilità, di incontrare sordità, di suscitare scandalo.

La situazione attuale di rapporto sereno con gli ebrei non deve portarci a riposare sugli allori, non deve farci credere di avere messo in atto  tutta la nostra attività di testimoni del Vangelo. Anzi comincia adesso, che si è formato il terreno favorevole, per cui abbiamo davanti a noi ancora un’immensi lavoro da fare, che riempie di speranza e che dobbiamo affrontare con amore e spirito di sacrificio.

Non dobbiamo illudere i nostri fratelli ebrei che essi possono continuare benissimo il loro cammino di salvezza seguendo Mosè e lasciando a noi cristiani Gesù Cristo, con l’atteggiamento di coloro che, essendo italiani si compiacciono di vivere la propria italianità, mentre si compiacciono dei francesi che vogliono essere buoni francesi.

Questa situazione di tranquillità non deve pertanto essere occasione per cadere nell’ingenuità che ormai siamo tutti amici e fratelli, perché, se ci lasciassimo convincere da idee simili, vorrebbe dire che perdiamo di vista una parte essenziale della realtà. E cioè che, se esiste un Israele che ci rispetta e ci ama, c’è anche un Israele che ci odia. Se c’è un Israele aperto alla verità, esiste ancora un Israele della presunzione, dell’ipocrisia, dell’avarizia, dell’odio contro Cristo.

Nel dialogo con gli ebrei dobbiamo prendere esempio da tutti i cristiani che si sono dedicati a condurli a Cristo, anche a costo della loro vita. Dobbiamo prendere esempio da San Pietro e San Paolo, dagli Evangelisti, dagli Apostoli, dai Padri, dai Dottori, da tutti i Santi, dando persuasivo esempio di vita cristiana. Dobbiamo prendere esempio da Cristo stesso. È qui che troviamo i modelli del dialogo, non nelle tergiversazioni inconcludenti ed equivoche dei vari Kasper, Küng, Forte, Radcliffe e colleghi.

Costoro, invece di testimoniare Cristo e di illuminare i nostri fratelli maggiori, li adulano disonestamente, pongono Cristo alla pari di Mosè, presentano il cristianesimo come un optional e prendono pretesto dal dialogo per fare sconti sulla loro fede cristiana.

Noi cristiani dobbiamo mantenere quel sano realismo e discernimento biblico che ci rende consapevoli che esistono ebrei giusti ed ebrei impostori, ebrei onesti ed ebrei ipocriti – e Gesù ne seppe qualcosa - così come succede anche fra di noi. Come era crudele in passato considerare gli ebrei tutti cattivi, oggi è sommante sciocco considerarli tutti buoni. Ebrei sono stati sì Cristo, la Madonna, gli Evangelisti e gli apostoli. Ma ebrei sono stati anche Spinoza, Marx, Freud, Husserl e Bergson. Certo la Bibbia è stata scritta da ebrei, ma da ebrei sono state propalate anche le più odiose menzogne, calunnie e bestemmie contro Cristo e la Madonna[2].

Esiste certo da 2000 anni una ricca e rispettabile letteratura ebraica relativa alla Bibbia, come il Targum, il Midràsh e la Mishnà. Ma esiste anche una torbida e blasfema letteratura gnostica ed esoterica, come la Kabbalà[3], dove la magia e la licenza sessuale si mescolano con il panteismo, la mistica e la teologia.

Il metodo e i contenuti del dialogo

Il dialogo non può fermarsi alla constatazione delle verità di fede comuni a ebrei e cristiani che sono insegnate dall’Antico Testamento, ma è dovere di noi cristiani, ove si verifichi un clima di sufficiente fiducia reciproca, sulla base di queste verità comunemente accettate e in particolare delle profezie messianiche, mostrare agli ebrei come esse si sono attuate nella vita e nelle opere di Gesù di Nazaret[4].

Dovere speciale e compito essenziale per un dialogo con gli ebrei è prendere esempio dalla predicazione di Giovanni il Battista e svolgere nei loro confronti la missione del Battista esortandoli a preparare le vie del Signore. Tuttavia si suppone che questi ebrei siano tuttora in attesa del Messia. Il che non sempre può verificarsi. Nel qual caso occorrerà verificare nell’interlocutore quale può essere la sua istanza o di verità o di giustizia o di salvezza o a quale altro valore è possibile agganciarsi per avvicinarlo alla scoperta di Cristo.

Giovanni il Battista porta chiarezza su chi era il Messia indicandolo presente ed esortando tutti a seguirlo. Egli presenta l’essenziale della sua missione redentrice indicandolo come l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Molte infatti erano le domande e le discussioni circa l’identità del Messia. Il Messia verrà nel deserto come sembra dire Osea?[5] O sarà un condottiero che libererà Israele dal giogo dei Romani? O forse sarà un profeta? O forse sarà un figlio di Davide a procurare ad Israele pace, benessere, sicurezza e vittoria sui nemici? O forse il Messia è lo stesso Israele come luce delle genti, destinato a dominare il mondo?

Molti pensavano che fosse un semplice uomo, per quanto straordinario e prediletto di Dio, Nessuno s’immaginava che potesse essere addirittura una Persona divina, Dio in quanto Figlio di Dio, il Verbo incarnato. Forse poteva farlo lontanamente sospettare la grandiosa profezia del figlio dell’uomo di Dn 7, 13-14, dove il profeta annuncia:

«ecco apparire sulle nubi del cielo uno, simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai e il suo regno è tale, che non sarà mai distrutto».

Pochissimi invece pensavano a un Messia umiliato, castigato e sofferente, che salva il popolo espiando al suo posto i suoi peccati mediante l’offerta sacrificale di se stesso, come predice Isaia (c.53). Invece Gesù, per mandato del Padre, aveva scelto proprio quella strada, che aveva convinto pochi.

Inoltre Gesù con la sua condotta apparentemente indisciplinata e presuntuosa sembrava opporsi alla tradizione dei padri ed istigare alla disobbedienza alla Legge mosaica. Aveva proposto di nutrirsi della sua carne per avere la vita eterna, cosa che suscitò orrore. Si era arrogato il potere di rimettere i peccati, cosa che compete solo a Dio. Aveva preannunciato di risuscitare se stesso, cosa che solo un Dio incarnato poteva fare. Per questo non fu capito. Per di più osò presentarsi come Figlio di Dio, pari a Dio, attribuendo a sé quel Nome sacro «Io Sono», che Dio usa per Sé davanti a Mosè, e questo fu il colmo.

Diciamo allora che nostro dovere fondamentale nei confronti degli ebrei, stando agli esempi suddetti, è quello di dimostrar loro sulla base delle Scritture, che Gesù di Nazaret è il Messia promesso e preannunciato dai profeti, è il Figlio di Dio, mandato dal Padre per la salvezza del mondo e innanzitutto per la salvezza d’Israele.

Dobbiamo dimostrar loro che Gesù con la sua croce e resurrezione ha procurato ad Israele quella gloria davanti a tutti i popoli, che era stata preannunciata da Dio a Mosè (cf Dt 7,6). Dobbiamo dimostrar loro che Gesù ha confermato e resa più salda la speranza d’Israele circa l’adempimento delle promesse divine fatte ad Abramo. Dobbiamo ricordare ad Israele che esso è un popolo messianico e sacerdotale, chiamato a partecipare ai dolori del Messia per la redenzione dell’umanità.

Una cosa importante da spiegare agli ebrei è il vero senso delle parole pronunciate da Giovanni Evangelista e San Paolo sulla differenza fra l’obbedienza a Mosè e quella prestata a Gesù Cristo, presentata come più vantaggiosa ai fini della nostra salvezza e della nostra comunione con Dio.

Infatti sembra che per ottenere la giustificazione non occorrano le opere della legge, non occorra obbedire ai precetti mosaici, ma sia sufficiente la fede in Cristo, il quale ci salva gratuitamente. Non occorre nessuno sforzo, nessun sacrificio: basta credere che è Cristo stesso che fa tutto con la sua grazia, basta la fede che Cristo ci salva. Tali sembrerebbero gli insegnamenti dei due Apostoli (cf Gv1,17; Rm 3, 21-24; Gal 2, 16.21). Giovanni, poi, precisa che mentre la legge ci è data da Mosè, la grazia e la verità vengono da Cristo.

Ma allora un ebreo potrebbe giustamente obiettare: forse che Mosè non ci otteneva la grazia e la verità?  Forse la fede che predicava Mosè non era già fede un Dio? E forse il vostro Cristo abolisce la legge? E forse che noi non avevamo fede in Dio anche prima che arrivasse il vostro Cristo?

Dobbiamo ammettere francamente che quei passi di Giovanni e Paolo non sono dei più felici, col loro tono drastico, a delineare con chiarezza il miglioramento del nostro rapporto con Dio introdotto da Cristo. Qui, infatti, dove i due Apostoli parlano di «legge», non si riferiscono ai dieci comandamenti, che Cristo conferma e la cui pratica resta sempre necessaria per salvarci. Ma si riferiscono alle prescrizioni transitorie rituali, cerimoniali, prefigurative della venuta di Cristo, venuto il quale doveva esser chiaro che decadevano, così come è inutile usar la foto di una persona, se incontriamo questa persona in carne ed ossa.

 Occorre chiarir loro che Cristo è venuto a completare la verità su Dio già conosciuta da Mosè (Mt 5,17); è venuto logicamente ad abolire e a sostituire ciò che avendo esaurito la sua funzione, non serve più.  Se la Lettera agli Ebrei (8,9) parla di una «nuova alleanza» citando Ger 31,31, come «alleanza migliore» (8,6), ciò non significa che Dio sostituisca un’alleanza all’altra, ma che, nella sua indefettibile fedeltà, ha migliorato quella stessa alleanza che inizialmente aveva fatto con Noè.

Questa nuova alleanza il Padre l’ha fatta in Cristo anzitutto a favore d’Israele, nella persona degli apostoli e degli ebrei che l’accettano e le sono fedeli. Perché mai gran parte del popolo fino ad oggi non l’ha accettata? Perché non accettare un contratto più vantaggioso del precedente?

Del resto c’è da ricordare che Gesù stesso, come è spiegato nel Catechismo della Chiesa cattolica[6], si è adeguato alla legge del Tempio, lo ha frequentato, ha insieme con i suoi genitori svolto le pratiche rituali e disciplinari mosaiche, rifiutandosi però di assolutizzare semplici tradizioni umane, ma nel pieno rispetto della tradizione biblica. E se per esigenze superiori di giustizia e di misericordia, ha soprasseduto a certe norme mosaiche, lo ha fatto per dimostrare che «il figlio dell’uomo è signore del sabato» (Lc 6,5).

Ciò non toglie che Israele, anche convertendosi a Cristo, al fine di mantenere e significare la sua identità etnica e religiosa in mezzo agli altri popoli, possa mantenere alcune usanze religiose sue proprie. Ogni popolo ha facoltà di praticare la carità e la legge di Cristo a modo proprio, Per questo, la sufficienza per la salvezza della fede e della grazia. della quale parlano Paolo e Giovanni non hanno nulla a che vedere con la sola fides e sola gratia di Lutero, ma è quella fede che è unita alle opere e quella grazia che muove il libero arbitrio al compimento del bene, così che l’uomo collabori con Cristo alla sua stessa redenzione.

Non si devono pertanto intendere le parole dei due Apostoli come se Mosè non ottenesse grazia per gli Israeliti e non si deve intendere la «verità» della quale Giovanni parla come se Mosè non avesse conosciuto la verità su Dio, egli che sull’Oreb lo vide faccia a faccia.  

 Dobbiamo altresì far capire ai nostri fratelli ebrei che Gesù, nuovo Mosè, ha convocato l’assemblea d’Israele, è venuto a «raccogliere le pecore disperse della casa d’Israele» (Mt 15, 24). Questa convocazione sacra (eb. qahal) non è altro che la Chiesa, dal gr. ekklesìa, da kaleo, chiamo, la quale quindi è l’assemblea di coloro che sono stati convocati da Cristo, l’assemblea del nuovo Israele nello Spirito, che raduna davanti a Dio non solo Israele, ma anche tutti gli altri popoli a partecipare del banchetto messianico al quale Dio ha convocato per primo Israele, ma al quale sono invitati anche tutti gli altri popoli.

Dobbiamo inoltre esortare i nostri fratelli maggiori a non insistere in pratiche e credenze, che furono sì a loro tempo, volute da Dio, ma che da 2000 anni Dio stesso per mezzo di Gesù ha dichiarato superate ed abolite, in quanto solo prefigurative del Messia venturo, che è Egli stesso; per cui, venuto Lui, dobbiamo tutti ascoltare Lui.

Dobbiamo far capire agli ebrei che Gesù, figlio di Davide, e re d’Israele con la sua predicazione e la sua opera ha dato ad Israele la forza e la possibilità di vivere sereno, in pace e sicurezza nella propria terra, libero dall’oppressione dei nemici, nel proprio territorio, nella propria nazione con capitale Gerusalemme. Dobbiamo far capire che Gesù è il sommo sacerdote della nuova alleanza nel suo sangue, sacerdote, il cui sacrificio è pienamente gradito a Dio, sacrificio veramente efficace capace di riconciliarci con Lui, al di là del sacerdozio dell’alleanza mosaica

Dobbiamo far capire agli ebrei che il fatto che Gesù sia stato respinto dai capi dell’ebraismo è stato un loro errore, che essi si sono ingannati nel giudicarlo un falso Messia. Dobbiamo pertanto far loro capire che Gesù ha dato sufficienti prove di essere il Messia, nonostante certe apparenze contrarie. La sua condotta fu solo apparentate scandalosa, ma ad uno sguardo attento e limpido, si rivela di una divina saggezza.  

Egli sembra comandarci delle cose odiose e ripugnanti, ma a pensarci bene, ci accorgiamo a quale grande amore per noi sono improntate. Egli sembra esser stato debole davanti all’oppressione romana, ma in realtà ha dato ad Israele quella forza spirituale che nei secoli successivi, per mezzo della Chiesa, avrebbe sconfitto l’impero romano e fatto trionfare Cristo a Roma per mezzo dei Successori di Pietro, sicchè Roma da nemica di Israele sarebbe diventata protettrice di Israele e figlia d’Israele nello Spirito.

Dobbiamo far capire agli ebrei che la terra promessa ad Abramo era sì immediatamente la Palestina, ma questa patria terrena era solo la prefigurazione e la pregustazione di una patria eterna e beata al di là della morte nella resurrezione dei giusti. Dobbiamo far capire ai nostri fratelli maggiori che la beatitudine celeste non consiste nella semplice visione di Dio, ma nella visione della Santissima Trinità.

Esiste però, grazie a Dio, anche un Israele «nel quale non c’è inganno» (Gv 1,47), un Israele onesto e in buona fede, che rifiuta Cristo non perché sa chi è e per questo lo odia, ma che fraintende senza colpa la missione del Messia, perché ha preso fischi per fiaschi e pertanto non si accorge che Gesù è il vero Messia, pur attendendo il Messia; un Israele, dunque, che, se avvicinato da noi cristiani con amore, tatto, rispetto, linguaggio adatto, esibizione di prove e di segni persuasivi, opportune citazioni della Scrittura, adeguata preparazione teologica, pazienza, comprensione, capacità argomentativa, sagge esortazioni, amabili rimproveri, testimonianza di carità, è disposto ad ascoltarci e a correggersi e, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, è disposto ad accogliere Cristo.

Infine, per condurre un fruttuoso dialogo con gli ebrei, utile alla nostra e alla loro salvezza, dobbiamo studiare attentamente i casi più importanti e famosi di grandi convertiti, a cominciare da quello di San Pietro, di San Paolo, degli Apostoli e, lungo la storia del cristianesimo, i casi più significativi, soprattutto quelli avvenuti in epoca moderna, come  per esempio quello di Max Scheler, Edith Stein, Raissa Maritain, Alphonse Ratisbonne, Israele Zoller, poi Eugenio Zolli, nonchè quello di Jean-Marie Lustiger, Arcivescovo di Parigi (1981-2005).

Fondamentale è anche il riferimento al cammino spirituale della Madonna, cammino che non si può chiamare propriamente «conversione», se per conversione intendiamo mutamento del volere da cattivo a buono, perché notoriamente Maria è immacolata, e tuttavia ella ha progredito nella verità, e nella santità sicchè è passata evolutivamente dalla fede mosaica alla fede nel suo Figlio, senza rotture dottrinali e senza smentire in nulla quella verità di fede che già conosceva, ma semplicemente aumentandola.

Così è possibile che tanti ebrei ancor oggi, condividendo la verità insegnata da Mosè e ignari in buona fede del Vangelo, vittime involontarie di equivoci sul Vangelo, non abbiano difficoltà a correggere le loro vedute e a migliorare la conoscenza di Dio lasciandosi illuminare dal Vangelo, solo che noi sappiamo proporlo loro in un modo convincente e persuasivo.

Per illustrare questa possibilità, leggiamo, a titolo d’esempio, la narrazione fatta nel 1842 da Alphonse Ratisbonne all’età di 26 anni. Egli, entrando casualmente con un amico nella chiesa romana di Sant’Andrea delle Fratte nel 1840, ebbe la visione della Madonna e così descrive questa esperienza mistica folgorante e beatificante:

«La Vergine non pronunciava alcuna parola, ma compresi perfettamente … provavo un cambiamento così totale che credevo di essere un altro, la gioia più ardente scoppiò nel profondo dell'anima; non potei parlare … non saprei render conto delle verità di cui avevo acquisito la fede e la conoscenza. Tutto quello che posso dire è che il velo cadde dai miei occhi; non un solo velo, ma tutta la moltitudine di veli che mi aveva circondato, scomparve... uscivo da un abisso di tenebre, vedevo nel fondo dell'abisso le estreme miserie da cui ero stato tratto a opera di una misericordia infinita … tanti uomini scendono tranquillamente in questo abisso con gli occhi chiusi dall'orgoglio e dall'indifferenza … Mi si chiede come ho appreso queste verità, poiché è certo che non ho mai aperto un libro di religione, non ho mai letto una sola pagina della Bibbia: tutto quello che so è che, entrando in chiesa, ignoravo tutto, e uscendone, vedevo tutto chiaro … non avevo alcuna conoscenza letterale ma interpretavo il senso e lo spirito dei dogmi, tutto avveniva dentro di me, e queste impressioni, mille volte più rapide del pensiero, non avevano solamente commosso l'animo, ma l'avevano diretto verso una nuova vita … i pregiudizi contro il Cristianesimo non esistevano più, l'amore del mio Dio aveva preso il posto di qualsiasi altro amore »[7].

Israele, popolo delle Alleanze: Noè, Abramo, Mosè, Davide

Israele concepisce il rapporto di sudditanza di sé con Dio sul modello di un’alleanza tra il suddito e il suo signore. Il suddito chiede sicurezza, protezione e benessere. Il signore gliel’assicura e gliela promette a patto che il suddito compia un buon lavoro per il signore: ecco l’osservanza dei comandamenti.

Noè il giusto viene incaricato da Dio di proteggere sé, i suoi e i viventi della terra in un’arca, che li ripara dal castigo del diluvio che colpisce il mondo malvagio: Dio salva Noè e chiede obbedienza; in cambio promette che il diluvio non verrà più.

Abramo viene messo alla prova con un’obbedienza dolorosa, alla quale Abramo è disposto, ma ne è sollevato perché Dio si accontenta della sua disponibilità, ed in premio gli promette una discendenza numerosa come la sabbia del mare ed una terra dove scorre latte e miele.

Mosè riceve la rivelazione del nome[8] divino, Colui Che È, le tavole della legge divina, istituisce il sacerdozio e i sacrifici, e guida il popolo, liberato dalla schiavitù d’Egitto, nelle guerre contro i nemici d’Israele ed alla terra promessa ad Abramo, la Palestina.

Davide fonda il regno d’Israele e la dinastia davidica, con sede a Gerusalemme, e riceve la profezia di una durata eterna del suo regno ad opera di un figlio che sarà il suo signore, il messia del Signore.

Un aspetto importante dell’insegnamento dei profeti è quello di richiamare il popolo alla fedeltà all’alleanza, denunciando peccati ed ingiustizie, anche nei capi e nei sacerdoti. Tutto Israele è chiamato alla salvezza, ma non tutto corrisponde. Ecco allora il tema del «resto di Israele», presente soprattutto in Isaia, Geremia, Baruch, Amos e Zaccaria, ossia coloro che rimangono fedeli all’alleanza, che possono essere anche una piccola minoranza. Leggiamo per esempio Isaia:

«in quel giorno il resto di Israele e i superstiti della casa di Giacobbe non si appoggeranno più su chi li ha percossi, ma si appoggeranno sul Signore, sul Santo d’Israele, fosse come la sabbia sul mare, solo un resto ritornerà» (10, 20-22).

Una cosa importante, alla quale occorre che i nostri fratelli ebrei facciano attenzione, è il fatto che i profeti, ricordando le precedenti infedeltà di Israele, annunciano una nuova e definitiva alleanza con Dio, dalla quale Israele non si allontanerà più[9]. Questa nuova ed eterna alleanza sarà quella stabilita da Cristo nel suo sangue, alleanza per la quale Cristo fonda il nuovo popolo di Dio, il nuovo Israele secondo lo Spirito, ossia la Chiesa.

Dice per esempio Geremia:

«Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, un’alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (31, 31-34).

È evidente in queste parole del profeta una caratteristica della nuova alleanza: una presenza di Dio al suo popolo e nelle singole anime più intima di quella dell’alleanza mosaica, per la quale il fedele è posto davanti alla legge come imposta dal di fuori e dal di sopra di lui da un Dio che sovrasta con tono severamente imperativo e con minaccia di castighi nei confronti di una volontà umana tendenzialmente ribelle. Da qui una visione della legge come dovere faticoso e quasi ripugnante.

Invece nella nuova legge, iscritta nel cuore, il dovere appare un piacere, la molla non è più il dovere ma il volere, l’amare; l’obbligo si trasforma in bisogno ed esigenza interiore. Sarà quella che Gesù chiamerà presenza dello Spirito Santo, principio di quella che la teologia cristiana scoprirà come inabitazione della Santissima Trinità nell’anima, sorgente di un’ineffabile e beatificante esperienza mistica, nata dall’amore e principio di quell’«infocato amore», del quale parlerà Santa Caterina da Siena.

In base a quanto detto circa l’Israele secondo lo Spirito, si deve dire che è nella Chiesa e solo nella Chiesa che Israele troverà un tale intimo legame con Dio, che Israele stesso, forte della forza soprannaturale, che viene da questa alleanza, non tradirà più il suo Signore. È impensabile infatti che la Chiesa possa essere vinta dal potere dell’inferno. Viceversa, vediamo quanto agitata e tormentata sia la storia d’Israele fuori della Chiesa.

Certo, Israele continua a mantenere la sua identità e la manterrà, per grazia di Dio, fino alla fine del mondo. Ma come negare il fatto tangibile nella storia che quegli ebrei che si convertono a Cristo producono frutti di santità, che non si riscontrano nei loro fratelli che restano fuori di quella Chiesa nella quale ad essi spetta il primo posto? D’altra parte è ben chiaro che se la Chiesa è santa, ciò non è garanzia automatica di santità per tutti coloro che vi appartengono. Né il fatto che la Chiesa sia una impedisce al Divisore di provocare scismi che formano Chiese e scismatiche o false Chiese.

Fine Seconda Parte (2/4)

Padre Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 marzo 2023

Solennità di San Giuseppe

Dovere speciale e compito essenziale per un dialogo con gli ebrei è prendere esempio dalla predicazione di Giovanni il Battista e svolgere nei loro confronti la missione del Battista esortandoli a preparare le vie del Signore.

Giovanni il Battista porta chiarezza su chi era il Messia indicandolo presente ed esortando tutti a seguirlo. Egli presenta l’essenziale della sua missione redentrice indicandolo come l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Molte infatti erano le domande e le discussioni circa l’identità del Messia. 

Molti pensavano che fosse un semplice uomo, per quanto straordinario e prediletto di Dio, Nessuno s’immaginava che potesse essere addirittura una Persona divina, Dio in quanto Figlio di Dio, il Verbo incarnato.

Forse poteva farlo lontanamente sospettare la grandiosa profezia del figlio dell’uomo di Dn 7, 13-14, dove il profeta annuncia:

«ecco apparire sulle nubi del cielo uno, simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai e il suo regno è tale, che non sarà mai distrutto».

 

Pochissimi invece pensavano a un Messia umiliato, castigato e sofferente, che salva il popolo espiando al suo posto i suoi peccati mediante l’offerta sacrificale di se stesso, come predice Isaia (c.53). Invece Gesù, per mandato del Padre, aveva scelto proprio quella strada, che aveva convinto pochi.


Immagini da Internet:
- San Giovanni Battista, Antonio Campi
- Cristo abbraccia la croce, Luis de Morales,


[1] È quello che si nota nel libro Ebrei e cristiani, a cura di Elio Guerrero, che porta come autore Benedetto XVI in dialogo col rabbino Arie Folger, Edizioni San Paolo 2019.

[2] Cf Iustinus Bonaventura Pranaitis, prete cattolico, Il Talmud smascherato. Gli insegnamenti segreti dei rabbini sui cristiani, trad. dall’originale in Russo, pubblicato a San Pietroburgo nel 1892, Edizioni Segno, Fano 2017.

[3] Interessante è quanto ci dice sulla nascita e dello sviluppo della Kabbalà, un importante studioso ebreo, Gershom Scholem: «L'evoluzione della Cabala ha le sue fonti nelle correnti esoteriche e teosofiche esistenti tra gli ebrei in Palestina e in Egitto nell'era che vide la nascita del Cristianesimo. Queste correnti sono legate alla storia della religione ellenistica e sincretista, alla conclusione dell'evo antico. Gli studiosi sono concordi circa la misura dell'influenza esercitata da queste tendenze, e inoltre dalla religione persiana, sulle forme iniziali del misticismo ebraico. Alcuni sottolineano l'influenza iraniana sullo sviluppo generale del Giudaismo durante il periodo del Secondo Tempio, in particolare su certi movimenti come quello apocalittico ebraico: un'opinione, questa, suffragata da molti esperti delle diverse forme di gnosticismo, come R. Reitzenstein e G. Widegren.

L'esistenza di una notevole influenza greca su quelle correnti viene affermata da un buon numero di studiosi, e per spiegarla sono state avanzate varie teorie. Molti specialisti dello Gnosticismo dei primi tre secoli dell'era comune lo considerano fondamentalmente un fenomeno greco o ellenistico, certi aspetti del quale apparvero in ambienti ebraici, in particolare nelle sette periferiche del Giudaismo rabbinico, ha-minim. La posizione di Filone d'Alessandria e la sua relazione con il Giudaismo palestinese ha uno speciale peso in queste controversie. Contrariamente ad alcuni studiosi come Harry Wolfson, che vedono Filone come un filosofo greco in vesti ebraiche, altri, come Hans Lewy ed Erwin Goodenough, lo interpretano come un teosofo o addirittura un mistico. L’opera dl Filone, secondo il loro giudizio, deve essere veduta come un tentativo di spiegare la fede d'Israele nei termini del misticismo ellenistico, il cui coronamento era l'estasi», La Cabala, Edizioni Mediterranee, Roma, Introduzione.

[4] Una traccia di lavoro in questo senso ci è data da Pier Carlo Landucci nel suo libro Esiste Dio? Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi 1960, ai cc. XVI-XVII.

[5] Era la tesi della comunità monastica di Qumran. Non sappiamo come a questo gruppo di ebrei sia venuto in mente di fondare una comunità monastica, ideale di vita esistente da millenni nel Tibet e nell’India, ideale del tutto estraneo alla mentalità ebraica ed alle proposte di perfezione spirituale esplicitamente insegnate sia dall’Antico che dal Nuovo Testamento. Probabilmente Giovanni venne a contatto con questo gruppo e fu colpito dalla sua vita austera. Tuttavia egli era coscientissimo dell’aspetto sociale della vita cristiana, come appare evidente dalla sua predicazione. Su Qumran, vedi I manoscritti di Qumran a cura di Luigi Moraldi, Edizioni UTET, Torino 1994.

umran, a cura di Luigi Moraldi,

 

 

[6]Nn.577-586.

[7] Da Wikipedia alla voce Ratisbonne.

[8] Da notare che nella terminologia ebraica il «nome» (scem) non è solo la designazione anagrafica dell’identità di una persona, ma esprime anche l’identità stessa o l’essenza di questa persona e corrisponde al concetto filosofico aristotelico di essenza, usia. Il nome di una persona dice chi è questa persona. Quando pertanto Mosè chiede a Dio qual è il suo nome, intende esprimere il desiderio di vedere la sua essenza. Cf Jean Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Bologna 1980, pp.253-273.

[9] Vedi Ez 34,25;36, 25-27;37,26; Is 42, 6; 42,8; 54,10; 55,3; 61,8.

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