Il progresso non è rivoluzione, ma un perfezionamento

 

Il progresso non è rivoluzione, ma un perfezionamento

Non sono venuto ad abolire la legge, ma a dar compimento

Mt 5,17

Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti

Gv 10,8

Conservazione e progresso

Nella nostra vita ci sono alcune verità che possediamo con certezza, altre circa le quali sbagliamo ed altre che dobbiamo ancora imparare. Quelle delle quali siamo certi sono di due specie: o le apprendiamo da soli, per cui ci appaiono evidenti o al senso o all’intelletto. Esse sono inconfutabili senza che occorra dimostrarle perché il negarle o il porle un dubbio ci metterebbe in contraddizione con noi stessi.

Oppure sono state già trovate da chi ci ha preceduto. Qui è importante informarci con una ricerca storica per vedere se il nostro problema è già stato risolto da chi ci ha preceduto.  Esse ci vengono comunicate dai nostri educatori.

Esse sono i princìpi del nostro sapere; contengono potenzialmente o in germe tutto quello che impareremo.  Degli errori ci correggiamo in base alle verità che già conosciamo. Qui abbiamo il dovere di conservare ciò che abbiamo acquisito con certezza e non rimetterlo in discussione.

Nel contempo le verità che conosciamo esigono di essere approfondite. Sentiamo il bisogno di conoscere meglio ciò che sappiamo già. Ponendoci alla loro ricerca, impariamo qualcosa di nuovo che non sapevamo prima. E questo è il progresso del sapere.

Nella storia del pensiero ogni tanto compaiono dei personaggi dall’intelligenza straordinaria, veri benefattori dell’umanità, i sapienti o filosofi, dall’occhio penetrante ed indagatore, potenti ragionatori, servi della verità, che affrontano i problemi di fondo della vita, dell’esistenza, della conoscenza e della morale.

Ovviamente essi risentono della fallibilità della nostra ragione conseguente al peccato originale, per cui accade che essi cadano nell’errore e facciano deviare dalla verità i loro discepoli. Tuttavia, quando essi sino fedeli alla verità  

 

1)  ci confermano in ciò che già conoscevamo come evidente e dimostrato, ci mostrano eventuali errori nei quali eravamo caduti laddove è possibile errare, ossia nelle conseguenze tratte dai princìpi o per il possesso di princìpi sbagliati o male applicati;

 

2)  ci richiamano alla memoria verità fondamentali che avevamo dimenticato e dalle quali ci sismo allontanati con danno morale o spirituale;

 

3) ci propongono nuovi orizzonti di pensiero, ci stimolano nella ricerca e nell’approfondimento, ci indicano come rimediare agli errori, elevano il nostro spirito alla considerazione e alla pratica di valori superiori, ci aprono nuove e più vaste prospettive, ci propongono nuove e migliori mete del nostro agire.

 

Può esistere un pensiero rivoluzionario?

 

Nell’uso delle parole tutto sta ad intenderci sul significato che vogliamo dare a quella data parola. Ora il termine «rivoluzione» è molto delicato da usare, perché è carico di significati emotivi e contradditori. Sostanzialmente si può usare in un senso positivo e in un senso negativo, ma facendo anche riserve.

 

Originariamente, all’epoca di Galileo il termine è riferito ai movimenti dei corpi celesti e quindi si riferisce semplicemente al moto fisico, senz’alcun riferimento all’ambito del pensiero o dell’agire umano. È però già del Seicento che il termine comincia ad assumere un significato nell’ambito dell’agire umano. Pensiamo alla rivoluzione inglese del sec. XVII. Da allora le rivoluzioni si succedono le une alle altre, specialmente nella storia recente ed attuale del Sudamerica. 

 

Per mio conto non ho difficoltà ad usare il termine nel campo degli avvenimenti sociali. Andrei invece più adagio a parlare di rivoluzione in senso positivo nel campo del pensiero. Infatti, se è ammissibile che in campo sociale una rivoluzione tolga di mezzo anche a buon diritto un intero regime o sistema politico corrotto o ingiusto, o se è normale che nel campo della fisica sperimentale avvengano delle rivoluzioni, nel campo della filosofia o della metafisica o della teologia o della morale non possono e non devono darsi rivoluzioni che mutino i princìpi, perché non esistono princìpi più radicali che possano infirmare i princìpi, essendo ciò una cosa contradditoria, perché in tal caso i princìpi non dovrebbero essere princìpi.

 

Alcuni d’altra parte avvertono nel termine rivoluzione un fatto negativo o qualcosa di detestabile, un’offesa ai valori assoluti, per cui sentono il bisogno di professarsi controrivoluzionari. Un marxista invece o un hegeliano vede nella rivoluzione un fattore di progresso e di liberazione.

 

Indubbiamente, se per rivoluzione intendiamo un cambiamento o rivolgimento profondo e radicale delle cose, che però lascia intatti i princìpi, traendo da essi nuova linfa, il termine può essere accettabile e diventare sinonimo di evoluzione o riforma o progresso. Se invece intendiamo rivoluzione nel senso di sconvolgimento o mutamento dei princìpi, nel senso visto sopra, allora la parola diventa sinonimo di corruzione o addirittura di assurdità ed assume un significato negativo.

 

È interessante come la Bibbia della CEI traduca il greco di Luca 21,9 apokatàstasis, che di per sé significherebbe «ricostituzione», quindi col quel significato positivo che fu usato da Origene, con «rivoluzione», con significato evidentemente negativo di «catastrofe» o «sovvertimento»[1], come appare dal contesto, dove Cristo annuncia calamità gravissime che avverranno all’approssimarsi della fine del mondo. Dunque nel Vangelo il termine rivoluzione non suggerisce qualcosa di positivo.

 

Tuttavia, come ho detto, se non conviene usare il termine per riferirsi al progresso del sapere o se nel campo del sapere la rivoluzione è sovvertimento, come ha fatto Cartesio, il termine rivoluzione nel campo dell’azione umana collettiva può avere un senso positivo, intesa come operazione collettiva liberante, che con l’uso della forza rovescia una tirannide o dittatura o ingiusto regime per stabilirne o fondarne uno giusto, libero e democratico.

 

Il progresso dottrinale non è rottura col passato o mutamento di contenuti,

ma esplicitazione dell’implicito o rivelazione del nascosto

 

Ad ogni modo in questo articolo vorrei fermami a prendere in considerazione un solo aspetto del compito del sapiente; quello di far progredire il sapere, distinguendo il vero far progredire, che consiste in un’opera educativa, migliorativa, formatrice, liberante, ordinata, metodica, elevante, purificante e santificante, un far crescere, un aumentare, un perfezionare, un salire, un «ascendere», pensando all’ascensione di Cristo al cielo.

Su questo punto infatti con Cartesio si è affermata nella storia della filosofia sino ad oggi la convinzione che il filosofo debba essere un rivoluzionario, debba, cioè, capovolgere tutto quello che finora si è creduto e pensato, rifare tutto daccapo, non debba ripartire dal principio, ma cambiare lo stesso principio in uno nuovo e sicuro, smentire quindi tutto ciò che prima di lui si è pensato come vero, per mostrare che ci si era sbagliati, mentre lui, per la prima volta nella storia, fonda il sapere razionale con certezza, offre il vero metodo del sapere, mostra finalmente quella verità assoluta che invano i suoi predecessori cercavano o hanno creduto di trovare vagando fra le ombre, le apparenze sensibili e le vane e mutevoli opinioni.

Ora il filosofo deve sì essere un rinnovatore, un riformatore, un progressista, una luce che caccia l’errore, uno che torna alle radici per correggere il pensiero a quel livello, ma non può essere un sovvertitore, non può smentire i princìpi perché l’errore si manifesta e si dimostra proprio perchè si accetta la verità dei princìpi. Per giudicarli falsi occorrerebbe farlo in base a princìpi precedenti. Ma non esistono princìpi precedenti ai primi princìpi.

Il filosofo non deve rivoluzionare l’esistente o creare disordine, ma deve far luce su ciò che è nascosto, deve esplicitare l’implicito, deve illuminare, chiarire e spiegare ciò che è oscuro, dimostrare ciò che non è evidente, deve far evolvere e progredire il pensiero in base al dato e all’ordine di ciò che già esiste, ordine posto da Dio nelle cose e nella mente dell’uomo, senza la pretesa di giudicarlo o rifarlo o sostituirlo a suo genio, perché l’ordine delle cose non dipende dal suo beneplacito, ma è creato da Dio.

L’uomo ha certo tutto un suo campo dove può cambiare, plasmare, creare, inventare, rivoluzionare, e questo è l’ambito della tecnica, ma anche qui egli deve sempre rispettare le leggi della natura, ricordando che non è lui ma Dio che ha dato alla nostra ragione e alla natura leggi e princìpi ed è assurdo volerli smentire o cambiare con la nostra stessa ragione.

Cartesio si presenta come luminare dell’umanità futura e come colui che la fa uscire dalle tenebre alla luce, dal dubbio alla certezza, dalle apparenze alla verità. Egli par voler dire come Cristo e meglio di Cristo: «Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti». Non è venuto a completare una verità precedente alla sua, come ha fatto Cristo, ma semplicemente a fondare la verità fino ad allora ignorata: dunque un’opera superiore a quella stessa di Cristo!

Cartesio garantisce di assicurare per sempre all’umanità quella certezza e fondatezza del sapere che invano avevano cercato i suoi predecessori, Aristotele e Cristo compresi e così donare per sempre all’umanità quella capacità critica e quella luce che mai più si estinguerà e per assicurare all’umanità un progresso scientifico infinito nei secoli dei secoli.

Ora dobbiamo dire che il compito nobilissimo del filosofo non è quello di rifondare, ma di fondare il sapere. Non deve porre un nuovo fondamento, come se il primo fosse sbagliato, perché dovrebbe presupporre un fondamento precedente al fondamento, il che è assurdo.

Ora San Paolo, in anticipo a Cartesio di sedici secoli, sembra avvertire Cartesio: «Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova» (I Cor 3,11), cioè Cristo. Lo stesso avvertimento lo dà in anticipo di quattro secoli San Tommaso a Cartesio: stante l’armonia fra il pensiero di Cristo e la metafisica di Aristotele, nessuno può porre un fondamento alla metafisica diverso da quello che vi pose Aristotele.  

Cartesio non si è accorto che Aristotele aveva già fondato la metafisica una volta per sempre. Dopo Aristotele chi si pone la questione del fondamento del sapere razionale non ha che da ricorrere ad Aristotele. Quindi l’intento di Cartesio di voler rifondare la metafisica è stata un’idea insensata, anche se purtroppo ha fatto scuola fino ai nostri giorni. 

È evidente come Cartesio, in quanto fondatore del sapere, intende prendere il posto di Cristo e correggere Cristo dove ha sbagliato: tipico atteggiamento dello gnostico. Per Cartesio Cristo s’illudeva nel credere alla veracità dei sensi alla maniera di Aristotele.

Per Cartesio Aristotele ha fondato una metafisica sbagliata, che suppone la veracità del senso. Secondo Cartesio infatti i sensi ingannano. Occorre allora correggere Aristotele fondando la certezza non sui sensi ma sul suo cogito. Sarebbe questa, come è noto, per Cartesio la vera metafisica fondante. Ma Gesù Cristo applicava la gnoseologia di Aristotele[2]. E dunque per Cartesio si è illuso anche lui.

Infatti in verità il senso è il principio del sapere sperimentale. Dubitare della veracità del senso come fa Cartesio vuol dire presupporre un principio del sentire precedente al sentire, capace di notare di errore il sentire, dunque un sentire prima del sentire, tale da poter svelare l’errore del senso e correggerlo, il che è assurdo.

Si possono correggere gli errori accidentali del sentire in base al principio del sentire, ma non si può sbugiardare il principio del sentire come tale, quel principio che ci consente appunto di svelare e correggere gli errori del sentire. E neppure ha senso, come crede Cartesio, correggere il senso in base all’intelletto, perché il senso ha già da sé e non dall’intelletto il criterio della sua veracità.

Il vero progresso

Il termine progressus da pro-gradior implica l’idea del camminare (gradior) e quindi dell’avanzare. Comporta sì mutamento, ma non necessariamente sostanziale: una persona che cammina è sempre lei, solo che si sposta nello spazio e cambia luogo. A noi qui interessa il progresso nel sapere.

Il camminare diventa allora la metafora di un mutamente più delicato da comprendere, che può essere travisato o frainteso. È il cammino della ragione, del pensiero, dello spirito. È il divenire dello spirito. Qui si pone il problema di come conciliare ciò che muta con ciò che non muta. La nostra mente davanti al divenire si trova a disagio e confusa, perchè essa ha bisogno di identità e quindi di immutabilità, mentre il senso non ha alcuna difficoltà nel contatto col mutevole, anzi il diveniente è il suo oggetto naturale.

La ben nota difficoltà, così avvertita e sofferta da Platone, è data dal fatto che il divenire sembra urtare contro il principio di identità e di non-contraddizione. Il progresso dottrinale sembra implicare una rottura col passato. Il mutamento riguarda la realtà e il pensiero. Il rischio del platonismo è il conservatorismo, che nasce dall’incapacità di seguire il progresso del reale e di attuare il progresso del sapere teologico.

C’è una diffidenza preconcetta verso il nuovo nel sospetto che sia deviazione dalla tradizione. Si fatica a vedere la continuità nelle dottrine proposte dal Concilio e le si vede in rottura con la tradizione. I lefevriani hanno questa ripulsa nei confronti delle stesse novità dottrinali del Concilio.

Esse che risultano da contatti proficui col pensiero moderno o con le idee dei fratelli separati paiono ai lefevriani contaminazioni modernistiche. D’altra parte c’è nei loro teologi la ritrosia a praticare la ricerca teologica e ad avanzare nuove teorie nel timore di sbagliare e si preferisce ripetere sempre le stesse formule della tradizione. Dobbiamo notare in questi teologi una ripugnanza per la pratica della deduzione teologica, che è quella che fa avanzare il sapere teologico e prepara la formulazione di nuovi dogmi da parte della Chiesa[3].

I modernisti dal canto loro accolgono l’idea del progresso dottrinale, ma la intendono in modo sbagliato, così da negare l’elemento di continuità e permanenza del dogma. Mentre i lefevriani  puntano solo sulla continuità ed escludono il progresso, i modernisti hanno un’idea del progresso che comporta la rottura con la tradizione e col dogma e quindi una falsa idea di progresso, perché il vero progresso avviene nella continuità[4], come sviluppo della tradizione ed esplicitazione del dogma, il che è precisamente ciò che avviene nelle dottrine del Concilio senza paraocchi modernisti o lefevriani, ma con l’occhio limpido illuminato dalla luce del Magistero della Chiesa postconciliare.

Le resistenze dei lefevriani alle dottrine nuove del Concilio nascono dalla suddetta concezione platonica della realtà e del sapere, per cui essi rifuggono dalla considerazione del divenire del reale e dell’uso dei metodi induttivo-deduttivi, dell’ermeneutica biblica storico-critica e dalla pratica del dialogo e della discussione, tutti metodi e princìpi che generano l’aumento del sapere teologico.

Responsabilità e compito più che mai urgente per la concordia, l’unità e la pace della Chiesa è l’opera di conciliazione da promuovere da parte dei cattolici normali tra i due partiti avversi dei lefevriani e dei modernisti, che da troppo tempo sono in aspra competizione per raggiungere ed esercitare il ruolo di fari della Chiesa e modello di cattolici, a danno dei cattolici normali strattonati dalle due parti, ognuna delle quali li vorrebbe per sé.

Il Papa sta in mezzo con i cattolici normali perché loro sono veramente per il Papa, senza adularlo e strumentalizzarlo, come i modernisti, e senza disprezzarlo e senza il quotidiano bombardamento a tappeto come fanno i filolefevriani, ma in sincera comunione, collaborazione, comprensione ed obbedienza, con cateriniana franchezza, tomistica sapienza, ignaziana prudenza e francescana semplicità.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato 27novembre 2023

 

Originariamente, all’epoca di Galileo il termine è riferito ai movimenti dei corpi celesti e quindi si riferisce semplicemente al moto fisico, senz’alcun riferimento all’ambito del pensiero o dell’agire umano. È però già del Seicento che il termine comincia ad assumere un significato nell’ambito dell’agire umano.

Il termine progressus da pro-gradior implica l’idea del camminare (gradior) e quindi dell’avanzare. Comporta sì mutamento, ma non necessariamente sostanziale: una persona che cammina è sempre lei, solo che si sposta nello spazio e cambia luogo.

C’è una diffidenza preconcetta verso il nuovo nel sospetto che sia deviazione dalla tradizione. Si fatica a vedere la continuità nelle dottrine proposte dal Concilio e le si vede in rottura con la tradizione.

Responsabilità e compito più che mai urgente per la concordia, l’unità e la pace della Chiesa è l’opera di conciliazione da promuovere da parte dei cattolici normali tra i due partiti avversi dei lefevriani e dei modernisti.

Immagini da Internet


[1] La Vulgataseditiones, che è evidentemente un’interpretazione o adattamento, perché di per sé è una traduzione inesatta. Tuttavia S.Girolamo ha capito che cosa Luca intendeva dire al di là del senso letterale della parola.

[2] S.Tommaso d’Aquino si è accorto della piena concordanza del pensiero di Cristo con la metafisica di Aristotele ed io ho illustrato come effettivamente gli insegnamenti di Cristo concordino col realismo aristotelico e contengano nozioni metafisiche. Vedi i mio libro Gesù Cristo fondamento del mondo: inizio, centro e fine ultimo del nostro umanesimo integrale, Edizioni L’Isola di Patmos, Roma 2019.

[3] Vedi la dotta esposizione di come avviene il progresso dogmatico nell’opera magistrale del Padre Francisco Marin-Sola La evolución homogenea del dogma católico,BAC, Valencia 1963.

[4] Vedi il mio libro Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio, Edizioni Fede&Cultura,Verona 2011.

2 commenti:

  1. Caro Padre, un piccolo dubbio che mi è venuto mentre finivo di leggere il suo fantastico articolo:
    Qualche paragrafo prima di finire, scrivi: "...si preferisce ripetere sempre le stesse formule della traduzione".
    Forse si è verificato un errore diti.
    Intendeva tradizione invece che traduzione?

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    1. Caro Anonimo,
      la ringrazio per la sua segnalazione.
      Ho provveduto a correggere.

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