Vociare assassino - L’accusa lanciata dal Papa emerito ai suoi nemici tedeschi - (1/4)

Vociare assassino

L’accusa lanciata dal Papa emerito ai suoi nemici tedeschi

Prima Parte (1/4)

 

Le sue parole sono spade sguainate

Il dramma

Nel lungo e drammatico confronto fra due grandi teologi tedeschi, ormai non più tra noi, Joseph Ratzinger[1] e Karl Rahner, possiamo trovare il simbolo e la chiave di lettura della storia della Chiesa dall’evento del Concilio Vaticano II ai nostri giorni. Ciò è possibile perché entrambi, più di qualsiasi altro teologo del secolo scorso, a mio avviso, hanno saputo legare la loro vicenda personale alle vicende della Chiesa con intuizioni, proposte e concezioni che hanno influenzato masse enormi di cattolici, facendo giungere il loro messaggio in tanti casi sotto forme volgarizzare o mediante discepoli o seguaci che ne hanno curato o consentito la diffusione.

L’evento del Concilio Vaticano II è stato per la Chiesa un evento traumatico ed esaltante ad un tempo. La Madre Chiesa è la Donna apocalittica che partorisce Cristo nel dolore, mentre il Drago vuole ucciderne il Figlio. Da duemila anni sta avvenendo questo evento apocalittico, che durerà fino alla fine del mondo.

I termini dello scontro sono sempre quelli, descritti da Giovanni nell’Apocalisse, ma nel corso della storia questo scontro avviene in forma sempre nuova, secondo uno sviluppo che conduce la Chiesa nella fedeltà al suo Signore, a capire  e ad approfondire la verità evangelica, a vedere sempre meglio che cosa sta succedendo,  qual è la volontà di Dio, ad esser sempre più docile alle ispirazioni dello Spirito Santo, ad aumentare il fervore, a sapere che cosa deve pensare, dire e fare e quindi a progredire nel suo cammino di conversione e nella santità. a migliorare il suo operare, a crescere nell’amore.

La Chiesa deve rompere con le cattive abitudini, con usi ormai desueti, abbandonare mode, metodi, linguaggi o mezzi tecnici ormai inutili e superati, riconoscere i suoi falli e correggersi, avanzare sullo stesso cammino, esser fedele alla parola data, conservare immutato il deposito, non mutare nulla della Parola di Dio, crescere nella virtù, aprire nuovi orizzonti e prospettive, superare se stessa, abbandonare il vecchio, aprirsi al nuovo, evolversi in modo omogeneo, evitare di rompere laddove occorre la continuità, distinguere il mutabile dall’immutabile, l’essere dal divenire.

Nella storia dei Concili, nessuno come il Vaticano II ha coinvolto tanto profondamente e in modo così pervasivo sia la dottrina che la condotta della Chiesa. Tutto nell’accidentale e nel contingente è cambiato, e tutto nell’essenziale, nel sostanziale e nel necessario è rimasto identico. Questo è l’apparente paradosso di questo Concilio.

Qui però sta la difficoltà di capire che cosa lo Spirito Santo ha operato in esso. Interpretare gli insegnamenti del Concilio, vedere che cosa è vincolante e che cosa è discutibile, che cosa è pastorale e che cosa è dottrinale, non è cosa facile. È qui che imperversano le polemiche. Paradossalmente questo Concilio, per farsi capire, ha voluto parlare in un linguaggio moderno, effettivamente usato dall’uomo d’oggi, ma il guaio è che questo linguaggio soffre di imprecisione ed equivocabilità, sicchè alla fine il Concilio, strumentalizzato dai modernisti, che ne hanno accentuato le ambiguità anziché toglierle, ha finito col creare difficoltà e malintesi laddove intendeva proprio farsi capire.

È stata purtroppo una scelta fatale. Tutti i Concili precedenti hanno assunto il linguaggio chiaro e preciso di tipo giuridico, mentre questo ha preferito il linguaggio letterario, con la sua caratteristica fluidità e prolissità, che, se sono apprezzabili da un punto di vista estetico, offrono difficoltà a chi vuol sapere esattamente cosa deve pensare e che cosa deve fare, mentre è evidente il vantaggio che il linguaggio chiaro offre a chi vuol sapere con chiarezza che cosa deve e tale linguaggio non offre scuse o scappatoie a chi vuol sottrarsi all’obbedienza.

È vero che il linguaggio biblico è spesso poetico, metaforico e simbolico. A volte è un linguaggio mistico. Ma proprio per aiutarci a capire, Cristo ha voluto il sussidio del Magistero della Chiesa, il quale a sua volta non può usare il linguaggio mistico o poetico, sennò siamo daccapo. Deve usare quello giuridico, didascalico, razionale o filosofico non certo per farci cadere nella pedanteria, nel giuridismo, nel razionalismo, nel legalismo o nel farisaismo, ma per una comprensione verace, luminosa, umile, sobria, penetrante e fedele del Mistero.

Il linguaggio del Magistero della Chiesa non esclude il linguaggio metaforico o analogico, a più sensi proporzionalmente simili in rapporto ad uno, ma non lo confonde con l’equivoco. Il linguaggio della Chiesa sa essere appropriato, intellegibile, inequivocabile e preciso senza essere necessariamente univoco. Anche quando è vago, non è mai a doppio senso, ma è sempre improntato alla più schietta lealtà ed onestà.

È per questo che gli altri Concili hanno proceduto per canoni. Questo Concilio, come è noto, ha rinunciato al tradizionale linguaggio sobrio e preciso dei precedenti Concili. C’è chi riguardo al Vaticano II, ha parlato di ambiguità. Ma non è vero. È stato un pretesto per disobbedire e per rifiutarsi di cambiare e di abbandonare il vecchio. Sono i lefevriani. C’è  però anche chi, con animo doppio, per fare i propri comodi, ha pescato nel torbido, creando confusione anziché distinguere. Sono i modernisti.

Esiste dunque una vera difficoltà di distinguere che cosa, dopo le direttive del Concilio, è cambiato, che cosa si deve mutare e che cosa è rimasto identico,  che cosa non si deve cambiare. È chiaro che non ha mutato i dogmi, come i modernisti vorrebbero farci credere. Tuttavia è altrettanto chiaro che ci sono novità dottrinali, che i lefevriani scambiano per modernismo. Questo Concilio non è soltanto pastorale, come i lefevriani sostengono, per aver la possibilità di contestarne le dottrine.

Chi ci guida in questo discernito? Evidentemente il Magistero della Chiesa sotto la guida del Papa. Qui sta il punto. Chi vuol fare di propria testa, convinto di avere il filo rosso con la Spirito Santo o si crede l’interprete infallibile della «filosofia moderna», si smarrisce e fa danno a se stesso e agli altri. Non rinnova ma distrugge, non riforma ma deforma, non fa progredire ma regredire, conserva quello che va gettato e getta via ciò che è da conservare.

L’amicizia

Sia Ratzinger che Rahner, come si sa, furono periti del Concilio, amici legati da reciproca stima ed ammirazione, esponenti di quella corrente teologica che maggiormente e con maggior convinzione aveva sposato il progetto di Giovanni XXIII di presentare il dogma cattolico in un linguaggio più comprensibile all’uomo d’oggi, assumendo nella visione cattolica i valori del pensiero moderno. Insieme hanno contribuito alla stesura dei documenti conciliari, in particolare all’importante costituzione dogmatica Dei Verbum, molto apprezzati e consultati dai Padri conciliari.

Il Papa emerito nella sua intervista concessa a Peter Seewald, dal titolo «Ultime conversazioni»[2], ricorda l’amicizia con Rahner durante i lavori del Concilio, ma aggiunge che a un certo punto notò in lui una tendenza che lo portava mettersi in contrasto col Magistero della Chiesa. Entrambi si consideravano progressisti. Ma Benedetto racconta che a un certo punto si accorse che Rahner non intendeva il progressismo come lo intendeva lui, ossia in continuità col Magistero tradizionale. Voleva anche lui il nuovo, il progresso, ma senza rompere col dogma, senza mutare il dogma. Conoscerlo meglio, certamente, e presentarlo in modo comprensibile ed attraente per gli uomini d’oggi, come voleva Papa Giovanni, ma lasciandolo nel medesimo significato. Non dire cose nuove o diverse da quelle che la Chiesa ha sempre creduto, ma dirle in modo nuovo, migliore e più chiaro.

Benedetto è molto garbato nel ricordare questo suo dissenso da Rahner, come se si fosse trattato di semplici divergenze d’opinioni. Ha un modo di esprimersi come se si fosse trattato di semplici dissapori personali. Ma dal contesto è chiarissimo che non si trattava di semplici opinioni o gusti personali, ma di scegliere tra il vero e il falso, tra la fedeltà e il tradimento, tra la conservazione e la distruzione.

È però un fatto che risulta chiaro dalle dichiarazioni di Ratzinger e per chi conosce le sue posizioni ai tempi del Concilio, che egli allora aveva un concetto del far teologia più come espressione della personalità del teologo che come elaborazione di un sapere scientifico oggettivo. Si sente che Ratzinger era sotto l’influsso di quella teologia personalista di tendenza modernista, per la quale si vorrebbe contrapporre la vita all’intellettualità, come se l’esercizio dell’intelletto e del pensiero astratto non sia somma manifestazione di vitalità spirituale.

A Ratzinger piaceva in teologia quel modo di esprimersi di stile vivace e poetico, aperto al sentimento, nel quale gioca la partecipazione emotiva, ricco di metafore, piuttosto che lo stile distaccato, pacato, sobrio ed asciutto, tipico della scienza, proprio di San Tommaso e degli Scolastici. Con un certo tono di ripulsa, dice infatti di San Tommaso: «in fondo scrive testi scolastici, in un certo senso impersonali»[3]. Ciò però non gl’impediva e non escludeva affatto la dovuta considerazione del Doctor communis Ecclesiae, come darà prova in seguito alla CDF e soprattutto sul trono di Pietro.

Finito il Concilio, i due amici cominciarono comunque a farsi propagandisti del messaggio conciliare, molto ascoltati a causa della fama di essere stati collaboratori di primo piano dell’opera dei Padri conciliari e quindi di aver lasciato un’impronta nel testo definitivo dei documenti del Concilio, sicchè erano diventati molto autorevoli nell’interpretazione degli insegnamenti conciliari. Ancora alla fine degli anni ’60 Ratzinger e Rahner pubblicarono assieme un libro che trattava temi teologici che avevano affrontato al Concilio: Rivelazione e Tradizione[4]

Tuttavia il loro retroterra culturale non coincideva esattamente ed anzi nascondeva un solco profondo, che fino ad allora Rahner aveva tenuto celato, probabilmente per motivi di convenienza e per poter partecipare ai lavori del Concilio. Aveva bisogno di consolidare la sua posizione e di acquistare, con l’appoggio dei Gesuiti suoi seguaci, largo prestigio. Sentì che solo allora avrebbe potuto far valere con successo le sue idee moderniste. E di fatti fu proprio così. Rahner non sbagliò i calcoli ed apparve a molti l’araldo e il portavoce del Concilio nel momento in cui lo falsificava. E questo sciagurato equivoco dura ancora purtroppo da sessant’anni perché i rahneriani, raggiunti nel frattempo posizioni di potere, soffocano od ignorano le voci critiche, nonostante l’opposizione a Rahner dei Papi del postconcilio.

Nell’intervista a Seewald Benedetto racconta che già durante i lavori del Concilio a partire dal 1962 apparve una corrente che, sotto pretesto di progressismo, in realtà spingeva per una svolta modernistica del Concilio. Egli rievoca con emozione quei fatti drammatici e in particolare l’intervistatore ricorda le parole di Ratzinger nel 1967, allorchè «durante una lezione a Tubinga, ammonisce che la fede cristiana è ormai circondata “dalla nebbia dell’incertezza come mai prima nella storia”»[5].

Alla domanda di Seewald se «la storia del Concilio proprio qui forse conosce una tragica frattura intraecclesiale che è presente ancor oggi», l’Emerito risponde: «Direi di sì»[6]. Che cosa è questa tragica frattura, per la quale nella Chiesa molti cattolici stanno distruggendo la Chiesa?[7] Che cosa è questa nebbia che mette in dubbio la fede e muta ciò che non deve mutare o fa crollare le certezze di fede, se non il relativismo e lo storicismo rahneriani?

Ad ogni modo, sia Ratzinger che Rahner ancora ai tempi del Concilio avevano avuto comuni interessi filosofici come per esempio per Heidegger, avevano fatto attenzione al mondo protestante, come per esempio a Barth e a Bultmann, erano stati cultori di esegesi biblica e della dottrina dei Padri, Ratzinger più quelli occidentali e Rahner più quelli orientali. Entrambi erano ammiratori di San Bonaventura.

Ratzinger si sentiva discepolo di Sant’Agostino senza naturalmente ignorare San Tommaso. Aveva conosciuto un tomismo troppo rigidamente scolastico, per cui si avvicinò a Sant’Agostino[8], prendendo a modelli di teologi Söhngen, Guardini e de Lubac, della medesima linea agostiniana. 

Rappresentante, invece, di quella scolastica che Ratzinger giudica fatta di «formulazioni un po’ stantie», è certamente il teologo di Monaco Michael Schmaus, autore di un corso di teologia dogmatica in cinque volumi[9]. Egli avversò il giovane teologo Ratzinger con un certo sussiego, e questi, a confessione dello stesso Benedetto, lo ripagò con la stessa moneta distruggendo nel fuoco la tesi di teologia, della quale egli era stato correlatore, da lui annotata con molte correzioni[10]. È possibile che Schmaus si sia risentito per non essere stato chiamato al Concilio a differenza di Ratzinger, molto più giovane di lui. 

Questo episodio, che ci crea un certo disagio, ci mostra il bollore passionale del giovane Ratzinger, del quale scorgiamo come allora non avesse raggiunto quell’equilibrio e quella saggezza, che avrebbe raggiunto in seguito, soprattutto da Papa regnante e poi emerito, forgiato dalle lunghe sofferenze ed umiliazioni inflittegliele senza tregua dai rahneriani e dalle varie prove della vita. 

D’altra parte, anche lo Schmaus non dette esempio di apertura mentale e la grave macchia che purtroppo dobbiamo notare nella sua attività di pur grande teologo tomista, fu la duplicità nella quale cadde sostenendo la compatibilità del cattolicesimo con la dottrina nazionalsocialista[11]. Possiamo dire che Ratzinger aveva quindi motivo di sdegnarsi con lui, ma allora non fu capace, come poi lo sarà alla CDF e ancor più da Papa, di saper apprezzare i lati positivi del grande teologo.

Quanto a Rahner, fin dalla fine degli anni ’30, aveva tentato, nella linea del confratello gesuita Joseph Maréchal, un accostamento di San Tommaso all’idealismo tedesco: Maréchal aveva scelto Kant, Rahner, scelse Hegel e successivamente era diventato ammiratore del pensiero di Heidegger, ammiratore del nazismo.

Anche la mossa di Rahner, col suo accostamento di San Tommaso ad Hegel negli anni 1939-1941, la si può considerare come un’astuzia per aver spazio all’interno della cultura nazista, la cui teoria dello Stato era notoriamente desunta dalla filosofia hegeliana. Quello che è penoso è che vi siano ancora oggi a 80 anni dalla fine del nazismo, dei cristologi come Rahner, Kasper, Küng e Forte[12], che hanno il coraggio di proporre una cristologia ispirata non a San Tommaso, ma ad Hegel.

Quanto a Rahner, era stato censurato da Pio XII per la sua tendenza idealista, in conformità alla condanna dell’idealismo pronunciata dal Papa nell’enciclica Humani generis del 1950. Tuttavia le opere nelle quali Rahner sosteneva il suo tomismo hegeliano non erano state condannate. Così Papa Giovanni, aperto alla teologia progressista, dietro richiesta di Konrad Adenauer, capo del governo tedesco, liberò dalla censura Rahner e lo invitò a fare da perito al Concilio.

Del resto. a parte l’incidente con Pio XII, già da molti anni Rahner si era fatto una fama di teologo dotto, saggio ed avanzato. Ratzinger, pertanto, ammirato dalle doti di Rahner e dal contributo che aveva dato al Concilio, in un primo tempo non tenne conto dei preoccupanti precedenti di Rahner e continuò ad appoggiarlo e a condividerne le idee.

Così Ratzinger insieme con Rahner, Küng, Schillebeeckx, Congar, Gutiérrez ed altri teologi fondarono la rivista Concilium, che raccoglieva i contributi dei teologi progressisti. Ma, quando Rahner cominciò a propagandare con un’intensissima e seguitissima attività le dottrine del Concilio, Ratzinger si accorse che Rahner non era fedele nell’esposizione delle dottrine del Concilio, ma le interpretava in senso modernista.

Questa delusione Ratzinger, già Prefetto della CDF, la manifestò a Vittorio Messori nella famosa intervista Rapporto sulla fede pubblicata nel 1985. Alla domanda di Messori sul perché Ratzinger aveva abbandonato la collaborazione a Concilium, il Cardinale rispose:

«Non sono cambiato io, sono cambiati loro. Sin dalle prime riunioni feci presente ai miei colleghi due esigenze. Primo: il nostro gruppo non doveva essere settario, arrogante, come se noi fossimo la nuova, vera Chiesa, un magistero alternativo con in tasca la verità sul cristianesimo. Secondo: bisognava confrontarsi con la realtà del Vaticano II, con la lettera e con lo spirito autentici del Concilio autentico, non con un immaginario Vaticano III; senza, dunque, fughe solitarie in avanti. Queste esigenze, in seguito, sono state tenute sempre meno presenti sino a una svolta – situabile attorno al 1973 – quando qualcuno cominciò a dire che i testi del Vaticano II non potevano più essere il punto di riferimento della teologia cattolica. Si diceva infatti che il Concilio apparteneva ancora al “momento tradizionale, clericale” della Chiesa e che bisognava dunque superarlo» (p.15).

È evidente il riferimento alla linea di Rahner, il quale dall’immediato postconcilio stava tirando il Concilio a un senso modernista, che non possiede affatto, intimando sfrontatamente alla Chiesa di abbracciare le sue idee, se non voleva restare nel retroterra della storia.

A questo punto per Ratzinger si impose una dolorosa scelta: o continuare a lavorare a fianco di Rahner a Concilium a costo di mettersi in contrasto col vero significato del Concilio e la dottrina della Chiesa; o scegliere decisamente per la fedeltà alla Chiesa, accettando la prevedibile reazione dei teologi di Concilium, che d’ora innanzi l’avrebbero bollato con l’infamante di titolo di «conservatore», la nota  più vergognosa che nella mente dei modernisti si possa assegnare a un teologo che non accetta le loro idee. Ratzinger scelse per la fedeltà alla Chiesa del vero Concilio e si associò a Von Balthasar nel fondare la rivista Communio.

Ratzinger rimase profondamente scosso e turbato dall’emergere, già durante i lavori del Concilio, della corrente, la quale, inizialmente propostasi come progressista, rivelò poi il suo volto modernista. Ratzinger, avvertendo profondamente il suo impegno di fedeltà alla Chiesa e profondamente radicato nelle sue convinzioni, disse a se stesso: progressista, sì, modernista[13], no. Certo egli non usa questo termine, ma esso traspare chiarissimo, dietro i suoi tre principali idoli polemici, contro i quali combatterà sempre, anche da Papa: il relativismo, il soggettivismo, il positivismo, il marxismo, l’idealismo.

Una cosa che sorprende per quanto riguarda la scelta pontificia dei periti del Concilio, è come mai Giovanni XXIII non abbia scelto Maritain, il quale si era fatto la meritata fama di filosofo e teologo tomista, promotore di quel progresso umano, spirituale ed ecclesiale, che poi sarebbe stato prescritto dal Concilio. Secondo me il Papa fu convinto ad evitare questa mossa dai rahneriani, timorosi che al Concilio potesse affermarsi il vero progressismo e già segretamente intenzionati a promuovere il loro falso progressismo di tipo modernista. Di fatto, come era da aspettarsi, nonostante le loro trame, vinse al Concilio il progetto maritainiano, molto simile a quello di Congar e Daniélou.

E meraviglia anche il fatto che neppure Paolo VI, ammiratore e discepolo di Maritain, riuscì a mettere Maritain tra i periti del Concilio. Il motivo di ciò lo attribuisco sempre alle pressioni dei rahneriani, ormai aumentate durante i lavori del Concilio. Anche Paolo VI, come Giovanni XXIII, si illuse su Rahner. Questa svista ovviamente non impedì loro, come Pastori della Chiesa, di impartirci saggi insegnamenti che nulla hanno a che vedere con l’idealismo rahneriano.

Paolo VI, come è noto, ebbe almeno la soddisfazione di consegnare a Maritain, alla fine del Concilio, il Messaggio agli Intellettuali. Certo è strano che Ratzinger non nomini mai Maritain, il cui progetto riformista era identico al suo. Maritain infatti era tomista, ma di quel tomismo aperto, simile a quello di Congar, che auspicava lo stesso Ratzinger, perché anche Maritain come Ratzinger intendeva superare il tomismo preconciliare troppo polemico verso la modernità.

Temo che qui giochi una certa ancestrale incomprensione tra Francesi e Tedeschi, perché anche Maritain curiosamente, nonostante il suo finissimo spirito critico, non si è mai accorto di Rahner. È vero comunque che i rahneriani sanno mascherarsi molto bene e sono abilissimi nel celare i loro errori sotto apparenze di verità, per cui un critico non abbastanza avveduto è portato ad interpretare in bene ciò che in realtà nasconde l’errore[14].

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 marzo 2023

Nella storia dei Concili, nessuno come il Vaticano II ha coinvolto tanto profondamente e in modo così pervasivo sia la dottrina che la condotta della Chiesa. 

Tutto nell’accidentale e nel contingente è cambiato, e tutto nell’essenziale, nel sostanziale e nel necessario è rimasto identico. Questo è l’apparente paradosso di questo Concilio.

 

Interpretare gli insegnamenti del Concilio, vedere che cosa è vincolante e che cosa è discutibile, che cosa è pastorale e che cosa è dottrinale, non è cosa facile. È qui che imperversano le polemiche.

Chi ci guida in questo discernito? Evidentemente il Magistero della Chiesa sotto la guida del Papa. 


Nell’intervista a Seewald, Benedetto racconta che già durante i lavori del Concilio a partire dal 1962 apparve una corrente che, sotto pretesto di progressismo, in realtà spingeva per una svolta modernistica del Concilio. Egli rievoca con emozione quei fatti drammatici e in particolare l’intervistatore ricorda le parole di Ratzinger nel 1967, allorchè «durante una lezione a Tubinga, ammonisce che la fede cristiana è ormai circondata “dalla nebbia dell’incertezza come mai prima nella storia”». 

Immagini da Internet


[1] Il libro di Mons. Georg Gänswein Nient’altro che la verità (Mondadori, Milano 2023), dal titolo altisonante come se si trattasse della drammatica testimonianza ad un processo e circa il quale si è

fatto tanto rumore, in realtà non offre alcun interesse ai fini di chiarire il nostro tema, perché l’Autore mostra di ignorare o finge di ignorare i termini della nostra enorme questione e si ferma a narrare fatti della sua vita quotidiana con Papa Benedetto. Alcuni si attendevano critiche a Papa Francesco e si potrebbe comprendere, dato che Francesco è stato fatto diventare Papa dalla mafia di San Gallo al posto di Benedetto. Ma Gänswein non dice nulla circa i  nostri temi al di là del reboante titolo del libro che fa pensare a chissà quali drammatiche rivelazioni. I commercianti sanno vendere bene la loro merce.

[2] Edizioni Garzanti, Milano 2016.

[3] Ultime conversazioni, op.cit., p.84.

[4] Edizioni Morcelliana, Brescia 1970.

[5] Ibid., p.135.

[6] Ibid.

[7] Nel 1975 S.Paolo VI avrebbe parlato di «autodemolizione». Forse si sarebbe espresso meglio parlando di figli che vogliono uccidere la madre.

[8] Ibid., pp.86-87.

[9] Pubblicati in italiano dall’Editrice Marietti nel 1963.

[10] Ultime conversazioni, op.cit., pp.96-97.

[11] È noto del resto che Hitler si dichiarava cattolico. Del resto, i modernisti non si dichiarano cattolici? Giovanni Gentile, il teorico del fascismo, non dichiarava cattolico? Oggi si parlerebbe di Chiesa «inclusiva».

[12] Vedi la loro cristologia esaminata nel mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004, c.VI.

[13] Chi già dal 1966 si accorse che la divisione all’interno della Chiesa, emergente già nel corso del Concilio, era una forma particolarmente virulenta di modernismo, fu il Maritain.

[14] Al riguardo è paradigmatico il convegno internazionale organizzato nel 2004 dall’Università Lateranense su Rahner, dove appare evidente l’ingenuità (speriamo non finta) di alcuni relatori) di alcuni relatori, che sembrano presentare Rahner come il S.Tommaso del nostro tempo: vedi L’eredità teologica di Karl Rahner, a cura di Ignazio Sanna, Edizioni della Pontificia Università Lateranense, Roma 2005.

4 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    hai scritto:
    "C’è chi riguardo al Vaticano II, ha parlato di ambiguità. Ma non è vero. È stato un pretesto per disobbedire e per rifiutarsi di cambiare e di abbandonare il vecchio. Sono i lefevriani."
    Forse intendevi scrivere "equivocità" invece di "ambiguità".
    Non sono un lefebvriano, ovviamente. Mi preoccupo di capire il Magistero e di essergli fedele. Ma non mi stupisce trovare qualche testo del magistero di natura ambigua. L'unica difficoltà che mi provoca è che mi costringe a trovare il significato corretto tra i due, poiché è il significato corretto, e non quello scorretto, che il Magistero ha voluto esprimere.
    Credo che sia la stessa cosa che lei ci ha insegnato, parlando dell'ambiguità nel magistero di papa Francesco, una difficoltà che costringe i buoni cattolici a interpretare sempre il Papa nel senso giusto.
    Ripeto, non mi crea difficoltà che qualche espressione del Concilio sia ambigua, nel suo stile letterario. Ecco perché ci sono difficoltà nell'interpretarlo correttamente.

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    1. Caro Pierino,
      quello che io ho notato nei lefevriani è la tendenza a considerare certe dottrine del Concilio tali da far cadere in errore.
      In particolar modo ho notato che essi interpretano in senso negativo delle dottrine che possono e devono essere interpretate in senso buono. Per esempio, secondo loro il decreto sulla libertà religiosa e quello sull’ecumenismo favoriscono l’indifferentismo. Questo è l’atteggiamento dei lefevriani.
      Quanto all’uso dei termini “equivoco” o “ambiguo”, questo uso non mi sembra fisso, ma tende a mutare a seconda delle persone che li usano.
      Se vogliamo essere precisi, l’equivoco è un termine della logica, cioè è una parola che può avere significati opposti o completamente diversi.
      L’ambiguo invece sottende un certo vizio morale ossia una certa mancanza di sincerità o di onestà nel linguaggio. Il termine ambiguo può ricevere una interpretazione positiva o una interpretazione negativa. Nel caso di Papa Francesco, per quanto è possibile, è bene interpretare in senso buono, tenendo presente il contesto.
      Tornando ai lefevriani e considerando queste precisazioni che ho fatto, da come interpreto il loro giudizio sul Concilio, ribadirei la mia netta impressione che essi giudichino certe dottrine del Concilio come ambigue e comunque essi cadono certamente nell’errore quando considerano certe dottrine conciliari come contrarie alla Tradizione.

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    2. Caro Padre Cavalcoli,
      mi dispiace che lei non abbia risposto alla mia domanda, o forse non l'ho posta correttamente.
      L'argomento non è il lefebvrismo (so perfettamente che si tratta di un movimento scismatico ed eretico).

      La mia domanda si concentra su due passaggi del suo articolo.
      1. In un passaggio lei sembra accettare che il linguaggio del Concilio soffra di ambiguità: "Paradossalmente questo Concilio, per farsi capire, ha voluto parlare in un linguaggio moderno, effettivamente usato dall’uomo d’oggi, ma il guaio è che questo linguaggio soffre di imprecisione ed equivocabilità, sicchè alla fine il Concilio, strumentalizzato dai modernisti, che ne hanno accentuato le ambiguità anziché toglierle, ha finito col creare difficoltà e malintesi laddove intendeva proprio farsi capire".
      2. In un altro passaggio sembra negare che il Concilio abbia testi ambigui: "Questo Concilio, come è noto, ha rinunciato al tradizionale linguaggio sobrio e preciso dei precedenti Concili. C’è chi riguardo al Vaticano II, ha parlato di ambiguità. Ma non è vero. È stato un pretesto per disobbedire e per rifiutarsi di cambiare e di abbandonare il vecchio".

      Ho semplicemente chiesto chiarimenti. Capisco che il Magistero della Chiesa, a volte (come è il caso, a volte, del Concilio Vaticano II o come è il caso, a volte, del Magistero di Papa Francesco, o di qualsiasi Papa) a volte è ambiguo, e quindi, deve essere spiegato, o interpretato da ogni fedele cattolico, sempre nel senso corretto quando si tratta di portata dogmatica o dottrinale, poiché crediamo nell'infallibilità del Magistero della Chiesa in queste materie.
      È così? Grazie.

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    3. Caro Pierino,
      ha fatto bene a richiamarmi su questo punto, perché io stesso non sono stato molto chiaro. Adesso le preciso il mio pensiero e tenga conto di quello che le dico adesso.
      Il termine “ambiguo” esprime un certo giudizio morale negativo, per cui desidero ritirarlo e lo sostituisco con “equivoco”, nel senso che certe espressioni del Concilio sono equivocabili.
      Per esempio, nella GS n. 22, è detto: “Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Ora, questa espressione si può intendere in due sensi: o nel senso che Cristo di fatto è unito ad ogni uomo, e questa è la tesi buonista che tutti si salvano; oppure che Cristo offre a tutti gli uomini la possibilità di unirsi a Lui, e questa è la tesi cattolica.
      Dunque, qui di che cosa si tratta? Evidentemente di un equivoco da sciogliere, per cui è possibile interpretare in un senso ortodosso.
      Un altro esempio famoso è quello della seguente dichiarazione, nella LG n.8, è il seguente: “La Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica”. Anche qui c’è la possibilità di una duplice interpretazione, per cui si può intendere: o la Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica, e questa è l’interpretazione giusta; oppure si può intendere nel senso che la Chiesa Cattolica si trova all’interno della Chiesa di Cristo, in modo tale che all’interno di questa Chiesa ci sono anche i Fratelli separati, e questa invece è l’interpretazione sbagliata, perché mette alla pari la Chiesa Cattolica con le Comunità non cattoliche.

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